L’eretico Ad Alecs Alessandro
è irrequieto. Ishaq è uscito in mattinata e non è ancora rientrato. Di per sé
non ci sarebbe nulla di strano, ma sono alcuni giorni che Ishaq appare
preoccupato. Alessandro gli ha chiesto più volte di che cosa si trattava, ma
ha ottenuto solo risposte vaghe. Sono
ormai dieci anni che Ishaq ha acquistato Alessandro al mercato degli schiavi
e il loro rapporto non è quello che esiste di solito tra il padrone e un suo
schiavo, ma quello che c’è tra due amanti, due amici, due compagni di vita. Alessandro
si siede nel cortile interno, dove le fronde degli alberi forniscono un po’
di fresco. Immerge la mano nell’acqua della fontana. Scuote la testa, come a
scacciare i pensieri molesti. Oggi deve parlare a Ishaq, deve costringerlo a
dirgli che cosa lo preoccupa. Mentre
lo pensa, Ishaq entra nel giardino. È pallidissimo. Cerca di sorridere, ma
quello che appare sul suo viso è solo una smorfia. Ishaq
si siede davanti ad Alessandro, che non osa chiedere. È Ishaq a parlare: - È
finita, Iskandar. Ishaq
ha sempre chiamato Alessandro con il nome arabo, Iskandar. Alessandro
guarda Ishaq. -
Perché dici questo? Ishaq
distoglie lo sguardo. Per un momento sembra fissare un angolo del cortile,
poi gli occhi si posano nuovamente su Alessandro. -
Verranno domani ad arrestarmi. Alessandro
ha la sensazione che gli manchi il fiato. Ishaq arrestato! -
Arrestarti? Perché? -
Perché mi considerano un eretico. Nur al-Din era più indulgente, ma suo
figlio al-Malik al-Salih Ismail è solo un ragazzino, sono altri a decidere. E
molti intorno a lui gli chiedono di essere inflessibile con chi si allontana
dall’insegnamento degli imam. L’Atabeg è dalla parte degli imam, che mi
odiano: ciò che ho detto e scritto per loro è inaccettabile e va punito con
la morte. Ma io non intendo ritrattare. Alessandro
apre la bocca, ma le parole escono a fatica. -
Non è possibile, non… Ishaq
fa un cenno con la mano, per impedire ad Alessandro di continuare. -
Non c’è nulla da fare, Iskandar. Io verrò arrestato, i miei beni sequestrati,
i miei schiavi messi all’asta. Poi verrò giudicato e… sarà quel che Dio
vorrà. Alessandro
china la testa: non riesce ad accettare quello che Ishaq gli sta dicendo. Il
suo padrone prosegue: - Ma
tu non devi temere nulla. Mi sono già messo d’accordo con Ruwayd. Ti
acquisterà oggi stesso e poi ti libererà. -
Oggi stesso… no, non è possibile. Alessandro
scuote il capo: tutto gli sembra irreale. Separarsi da Ishaq. Oggi stesso.
Alessandro è angosciato. Non è la propria sorte a preoccuparlo, ma quella del
suo padrone. -
Che ne sarà di te, Ishaq? Che cosa ti faranno? - La
morte mi attende, Iskandar. Sarò un esempio per chi osa sostenere che ogni
forma di amore è bella, perché è stato Dio a darci l’amore, per chi non crede
nell’odio, ma nella misericordia infinita di Dio. Alessandro
si alza di scatto. Si rende conto di avere i brividi. -
Fuggi, Ishaq. Se vengono domani, hai il tempo di uscire dalla città oggi, di
allontanarti, di raggiungere i territori franchi. Non puoi lasciarti uccidere
così. Devi fuggire. Ishaq
sorride, un sorriso dolce. -
No, Iskandar. La mia morte sarà un ammonimento per chi condivide le mie idee,
ma anche una testimonianza della loro forza: morirò per ciò in cui ho sempre creduto. - Tu
credi nella vita, nel piacere, morire è… Alessandro
non riesce a proseguire. Ha le lacrime agli occhi. Ishaq si alza, si avvicina
a lui e lo abbraccia. Lo tiene un buon momento stretto. Gli accarezza il
capo. Quando
Alessandro si è calmato, Ishaq si stacca. -
Adesso va’ a preparare le tue cose. Ruwayd sarà qui prima del tramonto. Alessandro
guarda Ishaq, poi si avvicina a lui e lo bacia sulle labbra. Lo stringe tra
le braccia. Gli sussurra: -
Un’ultima volta, Ishaq. Ishaq
lo guarda, poi annuisce. Si
dirigono nella camera di Ishaq. Alessandro solleva la tunica di Ishaq, poi
gli cala i pantaloni. Lo contempla, in silenzio Ishaq
si avvicina ad Alessandro per spogliarlo, ma il giovane scuote la testa. -
Lasciati contemplare. Sei bellissimo, Ishaq. Ishaq
ride. Ha sessant’anni e, anche se è ancora un uomo forte, gli anni e l’amore
per la buona tavola hanno appesantito il suo corpo. Ha perso quasi
completamente i capelli e una fitta peluria grigia ricopre il torace e il
ventre, le braccia e le gambe. Ishaq
sa che pochi lo giudicherebbero attraente, ma agli occhi di Alessandro lui è
davvero bellissimo. Alessandro
si toglie gli indumenti. Poi si inginocchia davanti a Ishaq e gli guarda il
cazzo, ancora vigoroso. Gli accarezza con delicatezza i coglioni, poi le sue
mani salgono lungo il corpo, scivolando tra la peluria, fino ai capezzoli,
che Alessandro stringe con forza. Ishaq chiude gli occhi. Alessandro apre la
bocca, la sua lingua percorre il cazzo di Ishaq dalla base alla cappella, per
poi ritornare indietro e ripetere il movimento. Ishaq gli accarezza la testa
e gli sorride, guardandolo. Poi Alessandro avvolge con le labbra la cappella
e incomincia a succhiare, prima con dolcezza, poi con forza. Ishaq chiude di
nuovo gli occhi, mentre il cazzo acquista volume e consistenza. Ad Alessandro
piace sentirlo diventare sempre più grande e rigido nella bocca. Lecca,
succhia e ogni tanto mordicchia, con molta delicatezza, mentre le sue mani
stringono il culo, scivolano fino al solco, le dita stuzzicano l’apertura,
poi scendono ad accarezzare i coglioni. Alessandro
si stacca e guarda Ishaq. -
Prendimi, Ishaq. Ishaq
annuisce. Alessandro
si mette a quattro zampe sul pavimento. Ishaq si inginocchia. Lascia colare
un po’ di saliva sul buco del culo, la sparge con un dito. Poi si sputa nel
palmo della mano e sparge la saliva sulla cappella. Si solleva, avvicina il
cazzo all’apertura e, con delicatezza, ma senza fermarsi, lo spinge dentro,
fino a che affonda completamente. Alessandro geme, incapace, come sempre, di
tacere il piacere che lo investe. Abdul-Qaadir, il primo padrone che lo ha
preso, quando aveva quattordici anni, amava sentirlo gemere di piacere.
Alessandro non aveva bisogno di fingere, perché da quando il suo corpo si era
abituato a essere posseduto, provava sempre un piacere violento. Ishaq
si appoggia completamente su Alessandro e muove il culo avanti e indietro,
con un movimento lento e continuo, che strappa ad Alessandro altri gemiti.
Ishaq cavalca a lungo e le sue mani scendono sotto il ventre di Alessandro,
per accarezzargli cazzo, ormai teso, e i coglioni. Ishaq sa che questa è
l’ultima volta che godrà, perché lo aspetta la morte. È grato a Dio di poter
cogliere ancora una volta il frutto del piacere. Alessandro non pensa più a
nulla: la coscienza di ciò che li attende, la morte per Ishaq e un futuro
incerto per lui, è annullata dalle sensazioni violente che prova. Ishaq
continua a muoversi e Alessandro sente il piacere crescere fino a diventare
troppo forte per poter ancora essere contenuto. Per l’ultima volta vengono
insieme. Il seme di Ishaq si rovescia nelle viscere di Alessandro, che versa
il proprio sul pavimento. Ishaq
abbraccia stretto Alessandro, poi, dopo una lunga carezza, si stacca e si
alza. - Va
a prepararti, Iskandar. Alessandro
si alza, ancora intontito dal piacere. Guarda Ishaq, lo abbraccia e lo bacia
sulla bocca. Fa
per dire qualche cosa, ma Ishaq scuote la testa. -
Va, Iskandar. Alessandro
va a lavarsi e a preparare le sue cose. Nascosti nel doppio fondo della cassa
dove tiene le sue proprietà ci sono due manoscritti sottili: le poesie che
Ishaq non ha mai pubblicato e un breve trattato, Sul desiderio e sulla
carne. Alessandro li avvolge in una striscia di tessuto. Sa di correre un
grosso rischio: se venisse sorpreso con quelle poesie e soprattutto con quel
trattato, potrebbe venire condannato a morte anche lui. Ma vuole portarli con
sé. Riflette un attimo e infila i fogli nel mantello, in una tasca interna,
poi ripiega il mantello in modo che non si vedano. Quando
ha preparato tutte le sue cose, raggiunge Ishaq. -
Iskandar, devo distruggere i manoscritti. Per favore, portameli. Alessandro
scuote la testa. -
No, li prendo con me. -
Sei pazzo, Iskandar? Se te li trovano, finirai come me. - Li
ho messi nel mantello, poi li nasconderò bene. -
Non dire sciocchezze. Ci metterebbero due minuti a trovarli nelle tue borse.
Si accorgerebbero subito che nel mantello ci sono dei fogli. -
Non mi fermeranno adesso e a casa di Ruwayd vedrò di nasconderli dove nessuno
possa trovarli. Ishaq
è perplesso. -
Sarebbe meglio distruggerli. Se cadono nelle loro mani… -
No, Ishaq. Li terrò. Alessandro
si avvicina e bacia Ishaq sulla bocca. Poi spinge la lingua tra i denti.
Rimangono stretti l’uno all’altro, in un abbraccio che lenisce il dolore
della separazione. Poi Ishaq si stacca: -
Iskandar, sai che ho avuto molti uomini, anche in questi anni. Ma nessuno di
loro era davvero importante per me. Ho sempre dato al mio corpo ciò che
cercava, ma la mia anima rimaneva accanto a te. Alessandro
annuisce. Sa che Ishaq ha spesso cercato il piacere altrove, spinto da
un’urgenza di vivere a cui non si sottraeva. Anche Alessandro ha conosciuto
altri uomini: la sua bellezza attira i maschi e Ishaq gli ha sempre lasciato
una grande libertà. Ma il legame che li ha uniti è stato saldo, più
importante di tutti gli altri Ruwayd
arriva poco dopo. Viene steso un contratto di vendita con tutte le formalità
necessarie. Ruwayd diventa padrone di Alessandro, ma l’accordo scritto
prevede che lo schiavo possa riscattarsi pagando una certa somma: ad
Alessandro Ishaq ha fornito il necessario per il riscatto e altro denaro che
gli servirà per vivere quando lascerà la casa di Ruwayd. Alessandro dovrà
però aspettare un po’ di tempo: nessuno deve sospettare che Ishaq abbia liberato
Alessandro, perché potrebbero accusarlo di essere suo complice. Ruwayd
è un mercante, che viaggia spesso tra i territori franchi e quelli arabi.
Alessandro gli farà da segretario per qualche settimana, grazie alla sua
perfetta conoscenza delle due lingue, ma Ruwayd chiarisce subito che intende
lasciargli piena libertà di movimento. Nella
casa del mercante, Alessandro ha una camera per sé. La sera si stende sul
giaciglio e prende i manoscritti. Sono solo una ventina di fogli: una
trentina di poesie, alcune brevissime, altre più lunghe, e un breve saggio. Alessandro
legge la prima, in cima alla quale Ishaq ha aggiunto di suo pugno la dedica: A Iskandar. E lo
vidi il bel corpo, che pareva modellato
da Amore con la sua perizia: plasmate
con gioia le perfette membra, elevata
e scolpita la statura, effigiato
con commozione il viso e,
lasciato dal tocco delle mani, un
non so che sulla fronte, negli occhi, sulle labbra.1 Alessandro si accorge di avere le lacrime agli occhi.
Spegne la lampada e cerca rifugio in un sonno che tarda a venire. Il giorno seguente Alessandro è inquieto: il
pensiero va continuamente a Ishaq. Alessandro si illude che possa non essere
arrestato, che le voci di un’incriminazione si rivelino prive di fondamento.
Ruwayd gli detta alcune lettere, poi esce per informarsi. Ad Alessandro pare
che nella grande casa del mercante il tempo non passi mai. È sempre stato
curioso e ama esplorare nuovi ambienti, ma adesso le stanze, il magazzino, la
bottega, l’ampio cortile interno, il piccolo giardino fiorito, tutto gli
appare insignificante. Trascorre le ore disteso sui cuscini, immobile, lo
sguardo perso nel vuoto. Ruwayd torna a metà giornata, con la notizia
temuta: Ishaq è stato arrestato e la sua casa perquisita. Si parla di sodomia
ed eresia. È stato rinchiuso nel carcere della fortezza. Il mercante non dice
che tutti prevedono la condanna a morte del prigioniero: coglie l’angoscia di
Alessandro e non vuole peggiorare la situazione. In ogni caso il giovane avrà
modo di scoprirlo da solo. I giorni passano. Alessandro non esce di casa.
Nelle lunghe ore di libertà che il suo incarico gli lascia, preferisce
rimanere nella sua stanza o nel giardino. Ruwayd gli riferisce le voci che
circolano, per prepararlo a una conclusione che ormai appare inevitabile:
tutti sembrano essere sicuri che Ishaq sarà condannato a morte. Le poesie che
ha scritto, per quanto meno esplicite di quelle in mano ad Alessandro,
costituiscono un atto d’accusa; ancora più gravi sono alcuni passaggi di due
trattati, anche se meno dirompenti di quello in mano ad Alessandro, Sul
desiderio e sulla carne. Ishaq è considerato eretico: per lui non sembra
esserci speranza. Alessandro sprofonda nelle sabbie mobili del
dolore. Esegue meccanicamente i compiti che Ruwayd gli assegna, poi vive
nell’attesa delle notizie che il suo nuovo padrone gli porta quando rientra
dai suoi giri per la città, ma non esce. Ha sempre amato camminare per le strette strade
della città, osservare la gente che passa, trascorrere qualche ora
all’hammam. Ha sempre amato il gioco degli sguardi per la via o al bagno, il
sorriso furtivo, il rapido cenno d’intesa, l’appartarsi in un angolo
tranquillo per abbandonarsi ai giochi del piacere, ora delicati, ora brutali.
Ma ormai il mondo di Alessandro si è ristretto a questa casa in cui trascina
le sue giornate. Sono passate due settimane dall’arresto. La
condanna è ormai considerata inevitabile. Ishaq ha sfidato le autorità,
rifiutandosi di avvolgere nell’ombra i suoi desideri e i suoi comportamenti:
una punizione esemplare è necessaria. Pare che interrogato abbia avuto
l’impudenza di rispondere: - Quando mai il Profeta proibì la passione? La sua sorte è segnata, ormai è chiaro a tutti. La sera nella sua camera Alessandro rilegge le
poesie di Ishaq. Al dolore si somma il desiderio. Torna sovente e prendimi, torna e prendimi amata sensazione - quando il ricordo del corpo si ridesta e trascorre nel sangue il desiderio
antico; quando labbra e pelle rammentano, e alle mani pare di nuovo di toccare. Torna sovente e prendimi, la notte, quando labbra e pelle rammentano...2 E
allora Alessandro cerca altre poesie, quelle in cui il desiderio non si
nasconde tra i veli, ma grida: Preda facile dei sensi fosti come in
sonno, t'abbandonasti lento, incominciasti piano, nel sogno, a scendere la china, io colsi il fiore dei tuoi fianchi, divorai il frutto e tu giungesti alle soglie d'un piacere senza freni. Non ti fermasti. Proseguisti ancora Accogliendo la mia virilità trionfante,
ebbro di desiderio e di piacere (vuota la mente, prosciugato il corpo) sprigionasti al vento le ultime fiamme,
le ultime scintille, toccasti il fondo,
poi, placati i sensi, giacesti vinto
alfine.3 Il
desiderio preme. Alessandro spegne la lucerna. La destra scende al cazzo, che
già si tende. Lo accarezza piano, con delicatezza, come a volte faceva Ishaq.
Poi lo stringe con forza, in una morsa che quasi fa male. La sinistra scivola
dietro il culo. Un dito cerca l’apertura e la stuzzica, poi si infila dentro.
Alessandro geme, piano, per evitare che gli altri lo sentano. Nella mente
rivede il corpo robusto di Ishaq, il suo cazzo vigoroso. Gli sembra di
sentirlo in bocca. Affonda di più il dito in culo e ora è Ishaq che lo sta
fottendo, come ha fatto tante volte in questi anni. La destra chiusa a pugno
si muove lungo il cazzo, dalla base alla cappella, per poi ridiscendere, in
un movimento continuo. Ishaq sembra sorridergli, mentre lo prende, come
quando Alessandro si sdraiava sulla schiena e Ishaq si metteva le gambe dello
schiavo sulle spalle e poi lo trafiggeva con il suo spiedo vigoroso.
Alessandro mormora: -
Fottimi, Ishaq, fottimi. Spaccami il culo. Così! Sì! Sì! Alessandro
ansima, mentre la sua mano accelera il ritmo e infine il piacere esplode e il
seme sgorga. Alessandro
rimane immobile, gli occhi chiusi, la destra ancora intorno al cazzo, un dito
in culo, lo sborro appiccicoso sulla mano e tra i peli del ventre. Mormora: -
Ishaq! Il
giorno seguente Ruwayd arriva, scuro in volto. Alessandro intuisce, prima
ancora che il mercante apra bocca. - È
stato condannato a morte. Lo crocifiggeranno domani. Alessandro
barcolla, come se lo avessero colpito. Non riesce a dire nulla. Crocifisso,
come un malfattore. Il corpo esposto al ludibrio della folla. Domani. Ishaq.
La morte. Domani. La croce. Alessandro raggiunge la sua camera, senza dire
una parola, e si siede a terra, in un angolo. Chiude gli occhi. Il
pensiero gli martella in testa per tutto il giorno. Ruwayd cerca di
distrarlo: lo chiama; gli assegna qualche compito; cerca di parlargli. Si
rende conto che il giovane non lo ascolta, sembra non capire quello che gli
viene detto, non reagisce. Ruwayd vorrebbe in qualche modo alleviare la sua
sofferenza, ma non sa come fare. La
sera Alessandro si corica, ma per tutta la notte non riesce a prendere sonno.
A tratti prova l’impulso di alzarsi, correre al carcere e denunciarsi, per
morire con Ishaq. Si alza, deciso a uscire, ma si ferma sulla soglia e poi
ritorna a stendersi: l’idea della morte lo angoscia. Non se la sente di
denunciarsi, di affrontare il supplizio. L’indomani,
poco prima dell’alba, Alessandro esce di casa da solo, per la prima volta da
quando ha cambiato padrone: vuole assistere all’esecuzione. Raggiunge la
piazza, dove si sono già radunate alcune persone, nonostante l’ora
antelucana. Alessandro si sistema vicino al palco dell’esecuzione, a due
passi dai soldati che stanno tutt’intorno per evitare che la folla si
avvicini troppo. Man mano che le ore passano, la piazza si riempie. Intorno a
lui la gente, sempre più numerosa, commenta, scherza, litiga, maledice
l’eretico. Ogni parola è una pugnalata, ma Alessandro non tradisce ciò che
prova. In realtà gli sembra di non provare niente: dentro di lui c’è solo un immenso
vuoto. Infine
il rumoreggiare della folla lo scuote dal suo torpore. Alcuni uomini salgono
sul palco, portando la croce a T. Alessandro rabbrividisce. Pensa che non può
assistere, che deve andarsene: non può vedere lo scempio che faranno del
corpo di Ishaq. Ma le gambe rifiutano di muoversi. La
croce viene sistemata su un cavalletto, in modo che sia possibile legare il
prigioniero e poi issarlo. Alessandro ha la nausea. Vorrebbe vomitare, anche
se l’angoscia gli ha impedito di mangiare ieri sera e questa mattina. Dalla
parte della strada che arriva dalla fortezza si sente un boato: stanno
portando Ishaq nella piazza. Alessandro si chiede se Ishaq verrà ucciso prima
di essere crocifisso, come spesso accade, o subito dopo. Non vuole vederlo
morire, ma si rende conto che è un pensiero assurdo. Perché è qui, in questa
piazza ormai gremita di folla, se non per vedere Ishaq? E Ishaq è qui solo
per morire. Ishaq
sale sul palco, accompagnato dal boia. Non c’è traccia di paura sul suo
volto. Il
carnefice gli afferra la tunica e la lacera completamente. Alessandro
sussulta, come se avessero stracciato i suoi abiti. Ishaq è rimasto a torso
nudo. Le guardie lo fanno stendere sulla croce. Ishaq le lascia fare, senza
cercare di ribellarsi. Ora Alessandro non vede bene, ma capisce che gli fanno
mettere le braccia dietro l’asse orizzontale, poi gliele legano. Infine
passano la corda attorno alle caviglie. La croce viene issata. Ora
Alessandro può guardarlo, in alto, sopra le teste della folla che ha
accompagnato il sollevamento della croce con un grido di esultanza. Il
boia incrocia le braccia e guarda il condannato appeso. Alessandro ha un
brivido. Non uccideranno subito Ishaq? Lo lasceranno agonizzare fino a che
non riuscirà più a respirare? Non è possibile, è una morte atroce, di solito
riservata a briganti colpevoli di molti omicidi. Normalmente il condannato
viene ucciso subito, spesso ancora prima di essere legato alla croce, ed è
solo il suo cadavere a essere esposto. Ma i
commenti della gente gli fanno capire che la sorte di Ishaq è un’altra:
agonizzerà sulla croce fino a che non morirà; le autorità hanno deciso di
infliggergli la condanna più severa, per dare un esempio. Alessandro guarda
il corpo di Ishaq appeso alla croce. Il sostegno posto tra le gambe lo
aiuterà a reggere a lungo e ritarderà la sua morte, che sarà comunque atroce. Il
sole illumina in pieno il condannato, che incomincia a sudare. Il sudore
scorre abbondante sul viso, deformato dalla smorfia di dolore, e sul petto,
dove i rivoli si perdono tra la fitta peluria. Presto anche i pantaloni sono
intrisi di sudore. Alcuni spettatori se ne vanno: l’agonia sarà lunga e non
possono perdere tutto il giorno, magari ripasseranno più tardi. Altri
arrivano. Alessandro rimane immobile al suo posto. Gli insetti ronzano
intorno al viso di Ishaq, che agita la testa per scacciarli. Altri si posano
numerosi sul suo petto. Il
tempo passa, il sole sembra schiacciare la folla dei curiosi, che ora
incomincia a diradarsi: il calore è intollerabile. Alessandro si accorge che
Ishaq ha incominciato a pisciare. I pantaloni, già bagnati di sudore, ora si
inzuppano di piscio e attraverso la stoffa bagnata si intravede il cazzo di
Ishaq. Molti ridono e dileggiano il condannato. Alessandro
si rende conto che non riesce più a reggere: la testa gli gira e la vista si
sta annebbiando. Cerca di allontanarsi, ma cade a terra, semincosciente. Lo
aiutano ad alzarsi e lo sostengono fino a un caffè vicino, dove lo fanno
sedere. Qualcuno gli versa acqua sulla testa, due volte. Poi gli danno da
bere e lo accompagnano a stendersi su un tappeto in un cortiletto interno,
ombreggiato da un grande albero. Gli mettono una pezza di stoffa bagnata
sulla fronte. Il
cortile è ombroso e fresco. Lentamente Alessandro si riprende. Ogni tanto gli
chiedono se ha bisogno di qualche cosa. Rimane a lungo disteso. Quando infine
si sente di camminare, si alza e si dirige verso la casa di Ruwayd, senza più
passare per la piazza dove Ishaq agonizza. Il
giorno seguente Alessandro raggiunge nuovamente la piazza. Vorrebbe non
andarci, ma qualche cosa lo attira verso il luogo dell’esecuzione. C’è
parecchia gente che assiste. Alessandro guarda Ishaq appeso sulla croce. Con
orrore si accorge che è ancora vivo. Si avvicina. Fissa il condannato che
respira a fatica: il petto si solleva e si abbassa con un ritmo rapido. Una
miriade di insetti banchetta sul viso e sul corpo del suppliziato. Molti
uomini assistono allo spettacolo e ridono, scambiandosi battute e lazzi
osceni. Alessandro è pentito di essere venuto. Una
voce alle sue spalle lo fa sussultare: -
Sei venuto a vedere la fine del tuo vecchio padrone, Iskandar? Alessandro
si volta. Conosce bene l’uomo che si è rivolto a lui: è Abdul-Qaadir, uno dei
più importanti ufficiali di Damasco. Alessandro è stato suo schiavo per
quattro anni, dai quattordici ai diciotto. Abdul-Qaadir lo ha acquistato dal
suo padrone precedente perché ormai Alessandro aveva raggiunto l’età per
diventare schiavo di piacere. Molto giovane, molto bello, vergine, un
bocconcino da re per un guerriero valoroso e potente. Alessandro
annuisce lentamente. Quest’uomo gli fa paura, anche se non è più il suo
padrone. - So
che questo fottuto eretico ti ha venduto, così non finirai all’asta, come gli
altri suoi schiavi. Peccato, magari ti avrei ricomprato io. Abdul-Qaadir
ride, una risata aspra. Alessandro non dice nulla. L’ufficiale lo sta
prendendo in giro: quando Alessandro ha raggiunto i diciott’anni, lo ha
venduto, perché aveva trovato un nuovo schiavo, ancora vergine. Abdul-Qaadir
non tiene mai molto a lungo i suoi schiavi di piacere: Alessandro è durato
più di altri, ma alla fine l’ufficiale si è sbarazzato anche di lui. L’ufficiale
abbassa la voce. -
Avrei potuto gustare ancora il tuo culo. Ti sarebbe piaciuto, vero? Ti è
sempre piaciuto. Alessandro
sa bene che Abdul-Qaadir ha ragione. Solo le prime volte il dolore fu più
intenso del piacere, ma poi il desiderio divenne più forte di tutto. Alessandro
annuisce lentamente, non alle parole di Abdul-Qaadir, ma a qualche cosa che è
sottinteso nel suo discorso. Abdul-Qaadir
sorride e dice: -
Vieni con me, Iskandar. Abdul-Qaadir
si volta e si allontana. Alessandro lo
segue. Sa che non gli converrebbe cercare di sottrarsi e in ogni caso non lo
desidera. Il suo corpo lo chiede con forza e Alessandro è sempre stato debole
di fronte ai suoi desideri. Abdul-Qaadir
si infila nei vicoli della città, fino a che arriva a una porta, a cui bussa
tre volte. Una donna anziana gli apre. Abdul-Qaadir non dice niente e la
donna non si mostra stupita: non è certo la prima volta che l’ufficiale si
presenta con un uomo. Entrano e passano nel piccolo cortile. Abdul-Qaadir
sale per una scala e raggiunge una cameretta al primo piano. Alessandro lo
segue, in silenzio. -
Spogliami, Iskandar. Alessandro
annuisce e scioglie la cintura, poi prende la tunica e la solleva,
sfilandola. Infine fa scivolare a terra i pantaloni. Ha un bel corpo
Abdul-Qaadir, robusto, molto virile. Il pelame, diffuso attorno ai capezzoli
e nella parte mediana del torace, diventa abbondante sul ventre. Alessandro
guarda il cazzo di Abdul-Qaadir: grosso, già gonfio di sangue, anche se non
ancora teso. Il desiderio è una mano che lo prende alla gola e lo forza a
inginocchiarsi. -
Prendilo in bocca, che voglio pisciare. Alessandro
annuisce. Apre la bocca e accoglie la cappella. Il getto scende in gola.
Alessandro inghiotte, finche non riesce più. Il piscio gli cola dal mento
sulla tunica. Abdul-Qaadir scuote la testa, ma non smette. Quando ha svuotato
la vescica, gli dice: -
Spogliati. Ma
Alessandro ha incominciato a succhiare avidamente il cazzo che ora gli riempie la bocca. L’ufficiale
lo lascia fare un buon momento. Scuote la testa, guardando l’uomo ai suoi
piedi: Alessandro ci sa fare, è davvero bravo, ma Abdul-Qaadir lo disprezza. Il
piacere cresce e il desiderio rischia di diventare incontenibile. -
Adesso basta. Spogliati e mettiti contro la parete. A
malincuore Alessandro lascia la sua preda. Si spoglia rapidamente. Si
avvicina alla parete, divarica un po’ le gambe e appoggia le mani sul muro,
in alto. Abdul-Qaadir si mette dietro di lui. Si sputa sulle dita, sparge un
po’ di saliva sul solco, intorno al buco, e senza indugiare oltre, si abbassa
un poco, avvicina la cappella al culo che gli si offre e lo infilza. Gli
piace vedere Alessandro sussultare, sentire il suo gemito di piacere e di
dolore. Abdul-Qaadir
inizia a spingere, lentamente: sentire intorno al proprio cazzo questo culo
caldo è splendido, il corpo che gli si offre è snello e forte e accende in
lui un desiderio violento. Di solito preferisce i ragazzi, ma Alessandro è
bellissimo e fotterlo gli trasmette una sensazione di potere. Alessandro
geme forte, incapace di controllarsi. Abdul-Qaadir sorride: il suo schiavo di
un tempo non è cambiato, si abbandona al piacere senza remore. Abdul-Qaadir
sente che non può prolungare ancora il piacere. Le spinte diventano più forti
e rapide e il seme si sparge. Alessandro lancia un grido e il suo seme
schizza sulla parete. Abdul-Qaadir
esce da Alessandro. È stata una grande scopata. Alessandro è una troia, ma
scoparlo è sempre bello! L’ufficiale
si lava il cazzo con l’acqua che c’è nella bacinella. Poi guarda lo schizzo
di seme contro la parete, raccoglie la tunica di Alessandro e lo pulisce.
Ride. Si
rivestono entrambi. Alessandro non sembra badare alle macchie di piscio e di
sborro sulla sua tunica. Troppo forte è il suo turbamento. China la testa. Si
sente sporco. Mentre l’uomo che ama agonizza sulla piazza, si è offerto al
suo assassino. Abdul-Qaadir è solo un ufficiale, non è lui il responsabile
della morte di Ishaq, ma fa parte di coloro che controllano la città e
impongono il volere del signore. Abdul–Qaadir
gli dice: -
Ora di andare. Muoviti. Alessandro
annuisce. Scendono dalla scala e raggiungono la porta. Escono in strada.
L’ufficiale si allontana senza voltarsi. Alessandro lo guarda percorrere il
vicolo e scomparire dietro un angolo. Rimane a lungo fermo vicino alla porta,
poi si dirige a passi lenti verso la piazza. C’è
ancora gente, ma meno della mattina: pochi possono stare tutta la giornata a
guardare crepare un eretico e poi lo spettacolo dopo un po’ diventa noioso.
Alessandro può avvicinarsi al palco su cui è issata la croce. Ishaq è ancora
vivo, il suo corpo a tratti è scosso da un tremito e la testa oscilla. Alessandro
spera che non sia più cosciente. Nei
movimenti convulsi con cui Ishaq si solleva dal piolo che lo sostiene
all’altezza del cavallo, i pantaloni si sono abbassati, scoprendo il culo.
Ishaq ha perso il controllo degli sfinteri e l’odore di merda arriva fino ad
Alessandro. Nugoli di insetti coprono il corpo del condannato. Qualcuno
vicino a lui osserva: - Ha
quello che si è meritato. -
Già. Si preoccupava solo dei piaceri del corpo. E questa è la sua giusta
punizione. Un
uomo dalla voce profonda osserva: -
Queste esecuzioni dovrebbero farle nel cortile della fortezza. Ci sono anche
donne che passano di qui. Gli si vede tutto. Nella
piazza ci sono soltanto uomini, ma in effetti qualche donna l’attraversa
rapidamente, volgendo il viso dall’altra parte. Alessandro
si sente stanchissimo. Vorrebbe che l’agonia di Ishaq avesse termine, che non
fosse più esposto al ludibrio della folla. Vorrebbe essere lontano, in
un’altra città, tra altra gente. Alessandro
si volta e lentamente, quasi barcollando, si dirige verso la casa del suo
nuovo padrone. Il
mattino dopo Ruwayd gli comunica che Ishaq è morto in serata. Il suo corpo
rimarrà appeso alla croce a lungo, dicono per alcuni giorni, finché il lezzo
del cadavere non sarà intollerabile. Alessandro
non vuole vederlo, ma nel tardo pomeriggio esce di casa e si dirige verso la
piazza. Il corpo è interamente coperto di insetti. Già si sente il fetore
della morte, perché il sole cocente accelera la decomposizione. Alessandro
pensa a una poesia che Ishaq ha scritto e gli ha dedicato: Bevi
ora, e ama, Iskandar. Non sempre
berrai e non sempre andrai con gli uomini. Ci
saranno sempre coppe di vino, ma
non saranno più le tue labbra a berle. Ci
saranno sempre membri vigorosi, ma
non saranno più i tuoi fianchi ad accoglierli. Mettiamoci
ghirlande e unguenti, prima che
li portino sulle nostre tombe. Finché
vivo, goda il corpo del vino e
dei fianchi di giovani maschi; morto,
che lo inondi anche il diluvio e
sia pure cibo per i vermi.4 Ora
il corpo di Ishaq è davvero cibo per i vermi e per gli insetti. Il desiderio
di vita che ardeva in lui si è spento per sempre. Alessandro
torna a casa. Pensa che non vorrebbe più uscire, non vorrebbe più svegliarsi. Passano
alcuni giorni. Ruwayd cerca di scuoterlo, gli detta alcune lettere, gli
affida qualche piccolo incarico, forse più consono a un fattorino che a un
segretario, ma l’importante è riuscire a farlo uscire dall’apatia in cui
sprofonda. Alessandro esegue i compiti che gli vengono assegnati, ma tutto
sembra essergli indifferente. Ci sono giorni in cui Ruwayd deve mandare un
servitore a chiamarlo perché si alzi dal letto. Ruwayd
moltiplica gli incarichi, spesso forza Alessandro a uscire di casa per
portare una lettera o acquistare qualche cosa. A volte l’inerzia di Alessandro
lo irrita, ma sa che Ishaq lo amava e per affetto nei confronti dell’amico
morto cerca di aiutare il giovane in tutti i modi. Molto
lentamente Alessandro si riprende. Rimane ancora lunghe ore inattivo, seduto
su una panca in giardino o su un tappeto in casa, a guardare nel vuoto, ma
questi momenti diventano progressivamente meno lunghi e meno frequenti. Anche
il suo corpo si risveglia e come sempre Alessandro non riesce a sottrarsi al
desiderio. E allora, nella solitudine della sua camera, il pensiero ritorna a
Ishaq, ma anche all’ufficiale. Si immagina chinato in avanti di fronte a
Ishaq, le mani sul suo culo, la bocca intorno al suo cazzo. Dietro di lui
Abdul-Qaadir lo sta inculando con forza, spingendo il grosso cazzo fino in
fondo, fino a che i coglioni sbattono contro il culo di Alessandro. Il
desiderio cresce e si moltiplica, le mani scorrono sul corpo, in carezze, poi
scendono a stringere il cazzo e i coglioni, in una morsa che è dolorosa, ma
moltiplica il desiderio invece di spegnerlo. Poi la destra stringe il cazzo e
si muove fino a che il piacere deborda. Man
mano che Alessandro si riprende, il desiderio riafferma il suo potere.
Alessandro non è abituato all’astinenza. Il suo corpo brucia. Non gli bastano
le seghe. Ha bisogno di stringere un altro corpo. Alessandro
riprende ad uscire di casa. Guarda famelico gli uomini che incrocia, ma il
pensiero del supplizio di Ishaq lo rende più prudente. Un
giorno, due settimane dopo l’esecuzione, Alessandro beve il suo tè nel
cortiletto di un piccolo locale appartato. Un uomo alla destra di Alessandro
dice: -
Boran e i suoi figli. Alessandro
guarda i quattro uomini che stanno entrando. Uno è nettamente più anziano
degli altri: è quello che hanno chiamato Boran. Gli altri devono essere sui
trent’anni, forse meno. In effetti c’è un’aria di famiglia, perché i quattro
si assomigliano tutti: sono alti, più della media, massicci e forti; hanno
visi larghi, incorniciati da una fitta barba, nera per i figli e grigia per
Boran. Gli occhi sono scuri e i lineamenti marcati: non sono belli, ma
trasudano forza. Vengono
a sedersi proprio vicino ad Alessandro, che distoglie lo sguardo, perché non
si accorgano che li sta osservando, ma poi riprende a guardarli, incapace di
trattenersi. I
quattro parlano tra di loro. Non sono arabi. Parlano curdo, una lingua che
Alessandro non capisce, ma sa riconoscere. Alessandro
distoglie lo sguardo quando qualcuno dei quattro guarda nella sua direzione.
Ben presto si rende conto che l’uomo che siede alla destra del padre lo sta
fissando: si è accorto dell’interesse di Alessandro. L’uomo si china verso il
padre e gli dice sottovoce qualche cosa. Boran si volta verso Alessandro, poi
sorride e si gira verso il figlio, rispondendogli. Alessandro
ha abbassato gli occhi. Rimane a fissare il bicchiere ormai vuoto. Gli sembra
di sentire su di sé lo sguardo dei quattro, che ora parlottano sotto voce.
Non solleva lo sguardo, ma dopo un po’ non riesce a resistere. Alza
nuovamente gli occhi. L’uomo che si è accorto di lui lo sta fissando.
Sorride, si alza e si avvicina ad Alessandro. - Io
sono Ishan. Vuoi venire con me e con i miei fratelli in una stanza qui sopra? La
proposta è molto diretta. Alessandro sa che non è prudente, ma non è in grado
di comandare al suo corpo. Annuisce. Ishan sorride e chiede al proprietario
una stanzetta. Su ordine del padrone, un inserviente guida il curdo al primo
piano. Poco dopo Ishan si affaccia dalla scala e fa un cenno con la testa ai
fratelli. Questi si alzano e sorridono ad Alessandro. Gli si rivolgono in
arabo. -
Vieni. Alessandro
obbedisce. Forse è una follia, ma il desiderio già si tende in lui, troppo
violento per essere soffocato. La
cameretta al primo piano è spoglia. C’è un ampio tappeto a terra e parecchi
cuscini. Uno dei fratelli chiude la porta. Poi tutti e tre si spogliano con
pochi gesti. Alessandro li contempla. Si assomigliano non solo nel viso, ma
anche nella corporatura: tre giganti muscolosi e ben nutriti, il corpo
coperto da una peluria più rada sul petto, rigogliosa sul ventre; tutti e tre
dotati di cazzi vigorosi che già si drizzano e di coglioni voluminosi. Alessandro
si spoglia rapidamente. Ishan nota che non è circonciso e gli chiede: -
Sei cristiano? -
Sì. Non
dicono altro: in questo momento conta solo il desiderio che li guida. Non
conoscono la tenerezza, Ishan e i suoi fratelli. Non sono violenti, ma nei
loro gesti c’è una brutalità che ad Alessandro non dispiace. Non gli chiedono
che cosa desidera. Lo guidano a mettersi a quattro zampe. Ishan si mette dietro
di lui, gli sputa sul buco del culo, sparge la saliva e poi avvicina la
cappella. Spinge, forzando l’apertura. Alessandro geme di piacere. Ishan si
ferma un attimo, per lasciare ad Alessandro il tempo di abituarsi, e poi
riprende a spingere, affondandogli il cazzo in culo. Alessandro geme di
nuovo. Uno degli altri due si inginocchia davanti a lui su due cuscini. Ora
spinge il suo cazzo svettante contro le labbra di Alessandro, che apre la
bocca e prima passa la lingua lungo l’asta, scendendo dalla cappella ai
coglioni e risalendo, poi lo accoglie e incomincia a succhiare. Il terzo, il
più giovane, è impaziente, e struscia il cazzo contro i fianchi di
Alessandro. Ishan gli dice qualche cosa. Il giovane ride. Alessandro
è preda di sensazioni violentissime. La prolungata astinenza attizza il suo
desiderio e questi corpi robusti sono esattamente ciò di cui ha bisogno.
Lavora con la bocca avidamente, leccando e succhiando il cazzo di quest’uomo
che ha davanti. Ne assapora il gusto e l’odore, di maschio pulito. E intanto
il cazzo di Ishan gli riempie il culo e gli trasmette un piacere
intensissimo, ben più forte delle fitte che a tratti prova. Alessandro
sente il fiotto riempirgli la bocca. Beve avidamente lo sborro dell’uomo, poi
pulisce con cura la cappella. Il
più giovane dice al fratello qualche cosa, di certo di spostarsi, lo chiama
Yilmaz. L’uomo ride e risponde in arabo, mentre si toglie: - A
te, Sarajil. Sarajil
è impaziente. Infila il cazzo già teso in bocca ad Alessandro e incomincia a
muovere il culo, spingendo il cazzo fino in fondo e poi ritraendolo. Nella
sua irruenza non si rende conto che a tratti blocca il respiro ad Alessandro,
che quando Sarajil si ritrae respira rumorosamente. Sarajil viene in fretta,
riempiendo la bocca di Alessandro di altro sperma. Ishan
sta ancora fottendo il culo di Alessandro: è davvero un ottimo stallone e
Alessandro geme più volte, preda di un piacere crescente. Va avanti a lungo,
mentre i fratelli lo incoraggiano. Infine le spinte diventano più rapide e
Ishan viene. Poi afferra con forza il cazzo di Alessandro e con pochi
movimenti lo guida al piacere. Ishan
si stacca. Ad Alessandro spiace sentire il suo cazzo uscirgli dal culo. Ishan
e i fratelli si lavano, poi scendono. Alessandro si distende. Scivola nel
sonno. Quando
si desta è già sera. Accanto a lui un vassoio con il tè e alcuni pasticcini
al miele. Alessandro beve e morde un dolce. Sorride. Gli sembra di aver
sognato. È stato bello, molto. Tornando
a casa, Alessandro si dice che è ora di lasciare Damasco: nulla più lo
trattiene in questa città. Conta di dirigersi a Rougegarde. Ishaq gli ha dato
abbastanza denaro da vivere per diversi mesi. Nel Regno di Gerusalemme
Alessandro conta di cercare lavoro, magari come segretario: la perfetta
conoscenza dell’arabo potrebbe aiutarlo a trovare un impiego. Altrimenti
cercherà di farsi assumere in qualche locanda. Se è necessario, può benissimo
svolgere lavori umili, come ha fatto quando era schiavo di Abdul-Qaadir. Alessandro
informa Ruwayd della sua decisione, poi raccoglie informazioni sulle carovane
dirette verso i domini dei franchi: preferisce non viaggiare da solo, per
motivi di sicurezza, perché ci sono banditi che talvolta assalgono i
viaggiatori. Anche le carovane sono bersaglio di attacchi da parte di bande, ma
chi viaggia da solo corre più rischi: alcuni briganti uccidono le loro
vittime, mentre le bande se non incontrano resistenza si limitano a
depredare. Alessandro
prepara il suo bagaglio. Nasconde i manoscritti di Ishaq nella fodera del suo
mantello. Si unisce
a una carovana che da Damasco viaggia verso San Giacomo d’Afrin, una tappa
obbligata sulla strada di Rougegarde. I viaggiatori sono per lo più mercanti
che viaggiano con le loro merci, ma ve ne sono alcuni che si muovono per
altri motivi: c’è chi torna da un matrimonio a cui ha assistito, chi va a
visitare parenti, chi viaggia per il suo piacere. Si tratta in maggioranza di
musulmani, ma vi sono anche due mercanti e altri tre viaggiatori cristiani. La
carovana si muove lentamente, al passo degli appiedati. Alessandro fa
amicizia con alcuni dei viaggiatori, ma non sembra cogliere in nessuno una
disponibilità ad andare oltre e preferisce essere prudente. Attraversano la
Ghuta, il paradiso di orti e giardini intorno a Damasco, una terra benedetta
da Dio. Ma dopo averla lasciata il paesaggio cambia rapidamente: l’area
fertile e densamente abitata che hanno attraversato lascia il posto a un
territorio collinoso e brullo, dove le tracce di presenza umana diventano
sempre più rare. Il terzo giorno nel pomeriggio la carovana si inerpica sul
fianco di una montagna, in un territorio arido e desolato. Alessandro nota
che tra i mercanti c’è un certo nervosismo. Mentre passa, sente un uomo dire: -
Speriamo di non incontrarli. Alessandro
chiede: -
Chi non dovremmo incontrare? -
Non lo sai? Ci sono dei briganti in quest’area. Pare che… L’uomo
abbassa la voce e prosegue: -
... dicono che li guidi il fratello del barone di Afrin, quel cane. Spesso
assalgono le carovane e le depredano. Non uccidono chi non oppone resistenza,
ma prendono denaro, oro, gioielli, talvolta anche le merci. La
notizia preoccupa Alessandro. Non ha merci con sé, ma una certa quantità di
denaro: se gli venisse sottratto, rimarrebbe senza nulla. Non possiede niente
nel Regno di Gerusalemme (né nei territori saraceni), non ha un lavoro, non
ha parenti o amici: come potrebbe sopravvivere? Alessandro divide le monete
d’oro, mettendole in due sacchetti. Ne tiene uno alla cintura e nasconde
l’altro nel suo bagaglio. Come
altri, Alessandro si trova spesso a scrutare i crinali delle montagne tra cui
stanno passando, temendo di veder spuntare uomini armati. Ma la giornata
passa senza che ci siano stati incontri spiacevoli. La sera, intorno ai
fuochi, gli uomini discutono, ma non c’è l’animazione delle sere precedenti:
sembrano quasi aver paura che qualcuno li possa sentire. Sanno di non essere
ancora al sicuro. Alessandro
dorme ancora quando si sentono voci concitate. Si alza, preoccupato. Non gli
ci vuole molto a comprendere il motivo dell’agitazione: nella notte il campo
è stato circondato dai briganti. Sono parecchi e sono ben armati. I
nuovi arrivati comunicano che tutti i membri della carovana dovranno mostrare
i loro beni e che non devono cercare di nascondere alcunché. Il controllo
avviene lungo la pista, dove i viaggiatori devono passare uno per volta, con
tutte le loro proprietà. Uno
dopo l’altro i viaggiatori si avviano e si presentano al controllo. I banditi
cercano soprattutto denaro e oro: non sembrano interessati alle merci. Però
quando le somme che trovano sembrano loro insufficienti, frugano con molta
attenzione nei bagagli. Ogni tanto prendono una tunica, un paio di pantaloni,
una pezza di stoffa che attirano la loro attenzione. Le perquisizioni non
risparmiano le poche donne che viaggiano con la carovana e suscitano il
malumore di molti, ma nessuno osa protestare. Un
mercante ha nascosto una borsa di monete tra le stoffe. I briganti la
trovano. L’uomo che dirige i controlli colpisce il mercante con uno schiaffo
di tale forza che questi cade a terra. Non soddisfatto, il brigante lo
colpisce ancora più volte con i piedi. Poi lo forza ad alzarsi, due uomini
gli strappano gli abiti fino a lasciarlo nudo, tremante di paura. Lo fanno
mettere da un lato, con tutte le sue merci. Gli altri guardano intimoriti.
Nessuno sa quale sarà la sorte del temerario, che ora li guarda sgomento:
sarà ucciso? Alessandro
non ha merci. Nel suo scarso bagaglio la seconda borsa sarebbe trovata
subito. L’idea di rinunciare a tutto ciò che ha è terribile. Alessandro fa
scivolare la borsa nei pantaloni, dietro la schiena, legandola alla vita in
modo che non cada. Quando
arriva il suo turno, il controllo sembra svolgersi senza problemi: la prima
borsa, che Alessandro porta alla cintura, viene presa. Poi il piccolo
bagaglio viene setacciato e non emerge nulla. Una rapida perquisizione non
permette ai banditi di scoprire la seconda borsa. L’uomo che lo sta
controllando si stacca e gli fa cenno di andare, ma qualche cosa alle spalle
di Alessandro attira la sua attenzione. Alessandro volta la testa e fa in
tempo a vedere uno dei mercanti che con un cenno della mano si indica dietro
la schiena, per far capire al brigante dove Alessandro ha nascosto le monete. Il
ceffone arriva mentre Alessandro sta guardando indietro. È tanto forte da intontirlo
e da farlo barcollare, ma non lo manda a terra. -
Volevi fregarci, stronzo!? Il
bandito afferra i pantaloni di Alessandro e li strappa. Con il coltello
recide la corda che regge la borsa, poi gli appoggia il coltello sotto i
coglioni, sollevandoli. -
Meriteresti che te li tagliassimo, stronzo! Lo
afferra e lo spinge a fianco dell’altro. Un altro dei banditi gli strappa la
tunica, lasciandolo nudo. Alessandro
guarda gli altri passare. Fissa l’uomo che lo ha tradito e che ora guarda da
un’altra parte. Perché lo ha fatto? Per odio religioso, perché lui è
cristiano? Perché sperava di ingraziarsi i briganti? Perché non voleva che
qualcun altro riuscisse a conservare un po’ di denaro? Non saprebbe dire. Gli
sembra un atto meschino e assurdo. Intanto
due briganti hanno preso la sacca di Alessandro e guardano tra le sue cose.
Nulla di ciò che Alessandro ha con sé ha qualche valore, per cui non prendono
niente, ma con il coltello tagliano tutto, rendendolo inservibile. Anche il
mantello viene lacerato. I fogli del manoscritto appaiono, ma i briganti non
se ne occupano: probabilmente non sanno nemmeno leggere. Quando
anche l’ultimo dei mercanti è stato controllato, i briganti ordinano di
ripartire. Uno dei viaggiatori si rivolge al capo, chiedendo pietà per il
mercante che hanno trattenuto. Non dice nulla di Alessandro, di cui non gli
importa. Il
bandito risponde duramente: -
Vattene o farai la stessa fine. E non è una fine piacevole. L’uomo
ride e il mercante china il capo e si allontana. I
briganti si dispongono intorno ai due prigionieri. Ridono, beffardi. Il
mercante trema. Alessandro tiene la testa alta. Non ha senso umiliarsi: se
hanno deciso di ucciderlo non lo risparmieranno. Il
capo dei briganti si rivolge ad Alessandro, nella lingua dei franchi. - Da
dove vieni? - Da
Damasco. - Tu
non sei un saraceno. -
No, ma sono stato loro schiavo. Ho ottenuto la libertà dopo quasi trent’anni. -
Trent’anni? Ma non li hai, trent’anni! - Ne
ho ventotto. Ero appena nato quando i saraceni conquistarono Edessa e fummo
tutti catturati. L’uomo
annuisce. Poi si volge ai suoi uomini, indicando il mercante arabo. -
Sistemate questo. Due
briganti prendono una corda, legano i piedi del mercante e poi fissano la
corda alla sella di un cavallo. -
No, no, vi prego! Mi posso riscattare. I miei parenti pagheranno per me.
Possono pagare parecchio. No, no! Il
capo fa un gesto. Il mercante grida ancora: -
No, no! Vi prego! Uno
dei briganti salta sul cavallo e lo sprona. Quando l’animale scatta, il
mercante cade a terra e viene trascinato sul suolo sassoso. Urla disperato,
ma le sue grida si spengono presto. Alessandro
si chiede se questa è la fine che lo attende. Rabbrividisce. Il
capo dei briganti dà ordine ai suoi uomini di prepararsi. Tutti salgono a
cavallo. L’uomo li congeda, poi, quando si sono allontanati, si rivolge ad
Alessandro. - Ti
lascio libero perché non sei un infedele. E perché sei un bel ragazzo. Ma c’è
un prezzo da pagare. In ginocchio. Alessandro
obbedisce. Mentre i briganti scompaiono oltre una curva della strada, l’uomo
si cala i pantaloni. -
Datti da fare. Alessandro
avvicina il viso al cazzo dell’uomo. Ne sente l’odore, molto intenso, di
piscio e sborro. Non si stupisce: ha già avuto modo di notare che i franchi
si lavano molto di meno degli arabi. Questo odore non gli dispiace. Apre la
bocca e avvolge la cappella. È la prima volta che gusta un cazzo non
circonciso: gli è capitato alcune volte in un hammam o in qualche taverna di
avere rapporti con cristiani, ma di solito preferivano metterglielo in culo o
farsi fare una sega. Incomincia a succhiare e leccare. Man mano che il cazzo
si gonfia e la pelle si ritira, lasciando scoperta la cappella, il gusto
diventa sempre più forte: il brigante di certo si lava ben di rado.
Alessandro non cerca di sottrarsi: non potrebbe e forse non lo vorrebbe
neanche. L’uomo
dice, con una risata in cui traspare la tensione: - Ci
sai fare! Alessandro
appoggia le mani sui fianchi dell’uomo e lavora a lungo, finché la scarica
non gli riempie la bocca. Quando
ha bevuto, l’uomo gli mette una mano sulla fronte e spinge, allontanandolo.
Si tira su i pantaloni e sale a cavallo. -
Questa volta te la cavi con poco, ma ti sconsiglio di riprovarci. Potresti
non essere altrettanto fortunato. Alessandro
rimane solo nella valle. Del passaggio della carovana e dell’attacco
rimangono poche tracce: i suoi abiti e quelli del mercante strappati, qualche
oggetto caduto a terra o dimenticato. Tutt’intorno, vuoto e silenzio. Alessandro
è nudo, non ha più nulla, neanche di che vestirsi. Si chiede che cosa fare.
Ha ancora senso proseguire per San Giacomo d’Afrin? A Damasco almeno c’è
Ruwayd che gli darebbe una mano. Ma Alessandro non ha voglia di tornare a
vivere tra i saraceni. E ormai non deve mancare molto a San Giacomo d’Afrin:
tre giorni di marcia, dicevano. Da solo potrebbe procedere anche più in
fretta, se conoscesse la strada. Raccoglie
le vesti lacerate, le sue e quelle del mercante. Ne ricava qualche striscia
di panno che lega insieme e si mette intorno alla vita, in modo da coprire
almeno i genitali e il culo. Sopra si mette anche la tunica strappata, poi
raccoglie i fogli del manoscritto e intesse una specie di borsa con qualche
striscia di tessuto. Quando ha concluso, si avvia. Segue
le tracce del passaggio della carovana. C’è anche una striscia di sangue e
qua e là brandelli di pelle e di carne. Alessandro rabbrividisce. Poco oltre
vede, accanto al sentiero, il cadavere del mercante: un ammasso informe e
sanguinolento. Vorrebbe seppellirlo, ma non ha nulla con cui scavare. Sul
terreno roccioso diventa sempre più difficile scorgere le tracce. Alessandro
percorre un sentiero, ma non sa se è quello che conduce a San Giacomo.
Cammina tutto il giorno, sempre più incerto e scoraggiato. Intorno a lui i
fianchi brulli delle montagne, senza traccia di presenza umana, di rado
qualche animale: sono terre inospitali, queste. In tarda mattinata beve a un
torrente, ma non ha nulla da mangiare. Si sente molto debole. Si chiede se
arriverà mai a San Giacomo d’Afrin. No, senza cibo e senza acqua non può
farcela. Oltre tutto non conosce la strada e in queste montagne non c’è
nessuno a cui chiedere. Si sta muovendo nella direzione in cui procedeva la
carovana, ma non sa se segue il sentiero giusto. Forse
è destinato a morire tra questi monti. Quando
arriva la sera, Alessandro si ferma per riposare. Non ha nulla per accendere
un fuoco. Le notti non sono fredde, ma su questi monti si muovono branchi di
lupi. E Alessandro non ha armi, nulla. La marcia e la mancanza di cibo lo
hanno indebolito. Come potrà difendersi, se verrà assalito? Si guarda
intorno, mentre la notte scende rapidamente. Si alza per raccogliere qualche
sasso, da poter lanciare o usare come arma, ma sa che è una precauzione
inutile. In
quel momento vede il cavaliere, ormai vicino. Non si è accorto del suo
arrivo. La salvezza o la morte? L’uomo
gli si accosta e scende da cavallo. Deve avere più o meno la sua stessa età,
è robusto e ha un bel viso largo, con una fitta barba scura. Un tipo d’uomo
che ad Alessandro piace. - Tu
sei il cristiano che viaggiava con la carovana. Ti hanno risparmiato. Non
sono domande. L’uomo deve aver incontrato gli altri, che gli hanno raccontato
quello che è successo. -
Sì. Hanno ucciso il mercante maomettano. Gli hanno legato i piedi e lo hanno
fatto trascinare da un cavallo. L’uomo
annuisce. Non appare stupito: sospettava che il mercante sarebbe stato
ucciso. -
Hai mangiato? Hai bevuto? -
No, non mi hanno lasciato niente. - Ho
io qualche cosa, ma prima dobbiamo trovare un posto per la notte. Qui è
meglio non accendere fuochi che rivelino la presenza di viandanti. Solomon
individua un angolo riparato tra alcune grandi rocce. C’è posto per il
cavallo e per loro due. - Se
arrivano i lupi, il mio cavallo li sentirà e ci avviserà. L’uomo
fruga nella sacca appesa al fianco del cavallo. Ne tira fuori una tunica. -
Mettiti questa. Ah, non ti ho nemmeno detto il mio nome: io sono Chlomo, ma
di solito mi chiamano Solomon. -
Sei ebreo? -
Sì. - Io
mi chiamo Alessandro, sono cristiano, anche se... Alessandro
si interrompe: che senso ha raccontare a questo sconosciuto che di fatto non
è credente? -
Sediamoci e mangiamo qualche cosa. Solomon
tira fuori dalla sacca una borraccia e una piccola bisaccia con del cibo:
pane, carne secca, formaggio. Lo divide con Alessandro. -
Grazie. Dopo
che hanno mangiato, Solomon dice: -
Direi che è meglio metterci a dormire. Domani abbiamo tutti e due una lunga
strada, in direzioni diverse. Alessandro
pensa che dovrà chiedere a Solomon come arrivare. Ora che ha mangiato e
bevuto, la situazione gli appare meno drammatica e la lunghezza del cammino
non lo spaventa più. Il
mattino seguente, quando Alessandro si sveglia, Solomon non è accanto a lui.
Alessandro si mette a sedere. Solomon sta arrivando. -
Buon mattino, dormiglione! Alessandro
guarda il cielo. Il sole è ancora basso all’orizzonte. - Ma
non è tardi. Solomon
ride. Ha una bella risata e il suo viso diventa ancora più bello quando
sorride. Alessandro si è svegliato con il cazzo duro e i quattro stracci con
cui si è coperto non sono sufficienti a nasconderlo. Si vergogna, ma non gli
spiacerebbe se Solomon cogliesse l’occasione per farsi avanti. È un gran
bell’uomo, forte, maschio. Ma
Solomon non sembra essersi accorto dell’erezione di Alessandro. Risponde: -
Dipende dai punti di vista. Per me è tardissimo, ma tanto il mio programma di
viaggio è già andato a farsi fottere ieri. Non ha importanza. Alessandro
ha un sospetto. Chiede: -
Sei venuto qui per cercare me, ieri, vero? -
Sì, non percorro questa strada, di solito, è troppo pericolosa. Conosco altri
passaggi, più sicuri e adatti a un uomo solo. Ma la carovana mi ha parlato
dell’attacco e dei due uomini rimasti prigionieri e ho deciso di venire e
vedere. -
Rischiando di incontrare i banditi. -
Qualche rischio c’è sempre. Intanto
Solomon ha tirato fuori dalla sacca un po’ di cibo e la fiasca dell’acqua.
Quando hanno finito la loro colazione, gli porge la piccola sacca. -
Tienila tu. Ti servirà per arrivare ad Afrin, San Giacomo d’Afrin, dovrei
dire. - E
tu? -
Non ti preoccupare. Io sono a cavallo, conosco la zona, so dove trovare
l’acqua o qualche villaggio dove rifornirmi. E comunque questa sera sarò
vicino a Damasco, magari già in città. Tu conosci la strada per San Giacomo
d’Afrin? -
No. - Non
vivi lì, vero? Non ti ho mai visto. -
No, ero schiavo dei saraceni a Damasco. Sono stato liberato e adesso vado a
San Giacomo. -
Conosci qualcuno? -
No. -
Non è un bel posto, ma… va bene, sono scelte tue. -
Non è una scelta. Non potevo più vivere a Damasco. Tu ci vivi, vero? A San
Giacomo d’Afrin, intendo. -
Sì. Ma ci sono nato. Comunque, se avessi bisogno di qualche cosa, puoi venire
a cercarmi nel quartiere ebraico. Se chiedi di Solomon, ti sapranno indicare
dove abito. Tra qualche giorno sarò di ritorno. Solomon
spiega ad Alessandro come arrivare e dove può trovare acqua lungo la strada.
In ogni caso, seguendo la via che gli ha indicato, già nel pomeriggio
Alessandro si troverà in una zona abitata, dove potrà trovare aiuto. Infine
Solomon gli dona due monete. -
Buona fortuna, Alessandro. È
molto tempo che nessuno lo chiama Alessandro. Da quando è stato separato da
sua madre: i suoi padroni lo hanno sempre chiamato Iskandar. Alessandro
guarda Solomon scomparire. Strana apparizione. Se la sua fede fosse più
forte, penserebbe a un angelo inviato in suo soccorso. Sua madre gli
raccontava le parabole dei Vangeli, tra cui la storia del buon samaritano.
Solomon è di quella razza. Ora
Alessandro procede spedito. Sa in che direzione deve muoversi, ha alcuni punti
di riferimento e può nutrirsi. Ha perso tutto quello che aveva, ma ha salvato
la vita. Non è poco. Come
gli ha annunciato Solomon, nel pomeriggio vede i primi segni di presenza
umana: qualche capanno per gli attrezzi, capre o pecore che brucano, un terreno
recintato, un piccolo appezzamento coltivato. Più tardi scorge i primi
villaggi. La notte ottiene ospitalità presso una famiglia di contadini e la
sera del giorno successivo raggiunge San Giacomo d’Afrin. Alessandro
si ferma a guardarne le mura. Sa che non è certo il posto migliore per uno
come lui: già Ishaq gli aveva raccontato che il vescovo Bohémond aveva fatto
bruciare vivi due sodomiti. È bene che rimanga a San Giacomo d’Afrin il meno
possibile e che eviti di avere rapporti. Cercherà di dirigersi al più presto
verso Rougegarde, dove il duca limita il potere del vescovo, o a Cesarea, ma
prima ha bisogno di guadagnare un po’ di denaro: gli è rimasta solo una delle
monete che gli ha dato Solomon. Alessandro cerca qualcuno che gli affitti una camera:
preferisce evitare le locande, più costose. Chiede in giro e gli danno
l’indirizzo di Berthe, una vedova che ospita i pellegrini diretti a
Gerusalemme. La casa di Berthe è in un vicolo non lontano dalla chiesa di
San Lazzaro. È un piccolo edificio a due piani, dalle pareti bianche. Ad aprirgli la porta è una serva, che lo fa entrare e chiama
la padrona. Berthe conserva ancora nel viso e nel corpo le tracce di una
grande bellezza che sta svanendo. Alessandro non è insensibile al fascino
femminile, anche se il suo desiderio lo guida verso gli uomini: ha avuto
rapporti con donne in alcune occasioni. Berthe guarda il bel giovane che chiede una camera.
Alessandro si premura di spiegare che non ha quasi nulla, perché la carovana
con cui viaggiava è stata assalita dai briganti, ma che intende cercare un
lavoro. Berthe ha sentito parlare dell’attacco e del fatto che i briganti
hanno trattenuto due uomini: quando i mercanti sono arrivati a San Giacomo
hanno diffuso la voce. Forse, se Alessandro non fosse attraente, Berthe
esiterebbe prima di affittare la camera a uno che confessa di non avere di
che pagarla: non si mangiano le promesse di pagamento. Ma la bellezza
dell’uomo che ha di fronte le suggerisce una proposta: in attesa di trovare
un lavoro, Alessandro può fare da uomo di fatica per lei. Ci sono parecchie
cose da fare e la presenza di un uomo è utile. Non riceverà un salario, ma
avrà vitto e alloggio. La proposta è allettante e l’accordo è concluso. Alessandro svolge con cura i lavori che gli vengono richiesti:
la fatica non lo spaventa. Il mattino, quando si alza, e la sera, dopo aver
concluso la giornata, Alessandro si lava al pozzo del piccolo cortile: negli
anni trascorsi presso gli arabi e soprattutto negli ultimi, vissuti con
Ishaq, ha preso l’abitudine alla pulizia giornaliera. Dalla finestra Berthe
osserva il giovane. Un corpo snello ed elegante, un bel viso. Berthe è
soddisfatta del suo uomo di fatica. È proprio un bel maschio. Berthe si dice
che a fare solo i lavori pesanti, Alessandro è davvero sprecato. Così, poco tempo dopo il suo arrivo, il giovane incomincia a
trascorrere le notti nel letto della padrona. Di giorno ritorna ad essere
l’uomo di fatica. Scopare con Berthe gli piace, ma il suo corpo ha bisogno anche
d’altro, per cui un giorno Alessandro chiede: - Vorrei lavarmi un po’ meglio. Qui a San Giacomo c’è un
hammam? Alessandro ha avuto spesso rapporti negli hammam. Sa che a
San Giacomo deve fare attenzione, ma vorrebbe almeno esplorare le
possibilità. Berthe ride: - Un bagno? No, li hanno chiusi tutti. Il vescovo dice che
sono luoghi di perdizione, che vi succedono cose abominevoli. Secondo lui è
meglio che i franchi puzzino. Berthe sorride. Apprezza la pulizia di Alessandro, il buon
odore che emana dal suo corpo quando la stringe. Alessandro annuisce. - Va bene, continuerò a lavarmi al pozzo. Dieci giorni dopo il suo arrivo, Alessandro decide di andare
a trovare Solomon. Vuole restituirgli la borsa e soprattutto vuole
ringraziarlo per averlo salvato. Non è solo questo, Alessandro lo sa bene. I
rapporti con Berthe soddisfano il bisogno di un corpo abituato a godere
spesso, ma non possono saziarlo. Alessandro vorrebbe stringere tra le braccia
un corpo maschile, cedere alla forza di un maschio che lo prenda. Dietro la
sua visita di cortesia a Solomon c’è anche questo. Alessandro sa dove si trova il quartiere ebraico. Vi si reca
e chiede di Solomon. - Solomon, il gioielliere? Alessandro allarga le braccia. - Non so che lavoro faccia. Mi ha detto che se chiedevo qui
di Solomon mi avrebbero mandato da lui. - Allora è il gioielliere. L’uomo si mette sulla porta della bottega e indica ad
Alessandro la strada da seguire. Alessandro raggiunge la casa che gli ha indicato il
mercante. Non è una bottega, è un’abitazione. Alessandro bussa e gli apre un
giovane servitore. - Buongiorno, vorrei parlare con il signor Solomon, se c’è. - Sì. Chi lo desidera? - Digli che lo cerca Alessandro, l’uomo che ha salvato. Il servitore scompare, ma torna poco dopo e fa salire
Alessandro. Solomon è vestito con una tunica da lavoro, che gli lascia
scoperte le braccia muscolose, coperte da una peluria leggera. - Alessandro, sono contento di vederti e di sapere che sei
riuscito ad arrivare ad Afrin sano e salvo. - Grazie a te, Solomon. - Passiamo di là. La stanza in cui Solomon conduce Alessandro è un piccolo
salotto, con un tappeto, diversi cuscini, un tavolo e tre sgabelli: uno
spazio adatto per far accomodare i clienti e mostrare loro i gioielli. C’è
una finestra, schermata da un tenda bianca su cui la luce del sole proietta
le ombre dei rami di un albero. La stanza affaccia su un cortile interno ed è
molto silenziosa. - Non voglio farti perdere tempo, se sei occupato. Volevo
restituirti la borsa e ringraziarti. Mentre lo dice, Alessandro porge la borsa a Solomon. - Ho tutto il tempo che vuoi. Nessun problema. Solomon si siede a terra e Alessandro lo imita: trova
tappeti e cuscini più comodi degli sgabelli. Solomon gli chiede: - Ti sei fermato qui ad Afrin. Conti di rimanerci? - No, ma per il momento non posseggo nulla. Non ho trovato
un vero lavoro. Faccio un po’ di tutto per la donna che mi ospita, ma mi paga
dandomi un tetto e da mangiare, nient’altro. - Che cosa sai fare? - Per il mio padrone facevo da segretario, scrivendo in
arabo e nella lingua dei franchi, ma qui non so chi potrebbe aver bisogno di
un segretario che conosca anche l’arabo. Solomon scuote la testa. - Temo nessuno. I musulmani sono stati in gran parte
scacciati o costretti a convertirsi e prima o poi succederà lo stesso anche a
noi ebrei. Tenere contatti con i saraceni è pericoloso. Uno che conosce bene
l’arabo e la lingua dei franchi potrebbe servire al vescovo o al barone, ma
bisognerebbe ottenere la loro fiducia. E di qualcuno che viene da Damasco
diffiderebbero. Alessandro annuisce. Si rende conto che Solomon ha ragione. Ora che ha restituito la borsa, potrebbe andarsene, ma sta
bene in questa stanza fresca, immersa nella penombra. Sta bene accanto a
quest’uomo forte, dalla voce profonda. Gli piace poterlo guardare. - Sì, posso capirlo. Sono stato schiavo dei saraceni e in
ogni caso nessuno può garantire della mia onestà e competenza. Potrei essere
una spia. Il mio ultimo padrone è morto, ma in ogni caso le referenze fornite
da un saraceno non avrebbero nessun valore qui, anzi... Alessandro non sa perché sta raccontando queste cose. Di
Solomon si fida e gli fa piacere stare accanto a lui, proseguire il dialogo. - Dici che il tuo ultimo padrone è morto. Nelle sue volontà
ha deciso anche la tua liberazione? Alessandro esita un momento, poi dice: - No, in realtà… mi ha venduto prima di essere arrestato
perché sapeva che lo avrebbero condannato a morte. Ma mi ha dato il denaro
per potermi riscattare dall’amico a cui mi ha venduto. - È stato giustiziato? Ma… come si chiamava.? Non era mica
Ishaq ibn Shafi? Alessandro è sorpreso. - Sì, è lui. Come… Lo conoscevi? Solomon annuisce. - Sì, lo conoscevo, abbiamo avuto modo di vederci due volte.
Apprezzavo molto le sue idee. E le sue poesie, anche alcune che non… Solomon si interrompe di colpo. -
Alessandro? Iskandar! È a te che erano dedicati certi suoi componimenti. E
lo vidi il bel corpo, che pareva/ modellato da Amore con la sua perizia… Alessandro è sbalordito. - Non credevo che lo conoscessi. Quelle poesie, poi… non le
faceva leggere a nessuno. - A nessuno no, diciamo a pochi, di cui sapeva di potersi
fidare. Poesie come… Solomon sorride e recita: - Bevi ora, e ama,
Iskandar. Non sempre berrai… È meglio che mi fermi qui. Non è una poesia
che puoi far leggere a tutti, ma solo a qualcuno di cui davvero ti fidi. Alessandro annuisce. - Le ho con me. Solomon corruga la fronte. - Qui? - Nella casa dove vivo. - Fa’ attenzione, Alessandro. Imparale a memoria e poi
distruggile. È pericolosissimo avere quelle poesie. Basta il possesso di quei
testi e la dedica a te per finire sul rogo, qui a San Giacomo d’Afrin. Alessandro si rende conto di aver sottovalutato il rischio.
Pensava che una volta in territorio franco possedere quei testi in arabo non
costituisse più un problema. Ma se qualcuno per un qualsiasi motivo frugasse
tra le sue cose e trovasse quei fogli scritti in arabo, di certo si
insospettirebbe e se le autorità ne venissero in possesso… sì, a questo non
aveva pensato. Deve pensare al da farsi, quando torna da Berthe. Adesso però
vorrebbe rimanere ancora un po’ con Solomon. Riprende il discorso: - Non ricordo di averti mai visto a Damasco. - No, ogni tanto ci vado, per il mio lavoro. Con Ishaq ci
siamo visti solo due volte, nella casa che possedeva nella Ghuta. Mi ha
portato da lui un amico comune, per cui ci siamo parlati molto apertamente.
Mi ha raccontato anche di te. Ti amava, profondamente. Eri la luce della sua
vita. Era felice di averti incontrato. Alessandro china il capo. - Ha fatto una morte orrenda. - Lo so. Alessandro alza il capo. - Non voglio distruggere le cose che ha scritto. - Non puoi tenerle qui. In ogni caso ti conviene lasciare la
città. A Rougegarde non correresti rischi, ma qui… - Sì, cercherò di andarmene. Alessandro rimane un momento in silenzio, poi dice: - Posso chiederti una cosa, Solomon? È molto personale, ma
vorrei… - Dimmi. Puoi chiedermi quello che vuoi. Solomon sorride e aggiunge: - Al massimo non ti risponderò. - Hai fatto all’amore con lui, con Ishaq? Solomon non appare irritato dalla domanda. Nuovamente
sorride. - No. C’era una profonda comunione tra i nostri spiriti, ma
non abbiamo unito i nostri corpi. Ishaq per me era come un fratello, anche se
lo avevo visto solo due volte in tutta la mia vita. Alessandro annuisce. Guarda le braccia nude di Solomon. Il
desiderio brucia. - Perdona la mia domanda, ma pensavo… Per Ishaq il gioco dei
corpi era anche un modo per sentirsi più vicini. - Sì, certo. Ma davvero io l’ho conosciuto troppo poco. - Se te lo avesse chiesto, gli avresti detto di no? Solomon scuote la testa. - Non me lo ha chiesto, Alessandro. E allora, che senso ha? Alessandro tace. Dalla finestra entra un soffio d’aria che
muove la tenda. Per un attimo Alessandro vede i rami di un limone carico di
frutti. Questa stanza gli sembra un’oasi di pace e frescura. Vorrebbe
fermarsi qui per sempre. Dopo un momento di silenzio, Solomon parla: - Alessandro, scusa se insisto. Fai scomparire quei testi.
Se qualcuno li scoprisse… un cristiano che ha con sé testi scritti in arabo…
sarebbe di certo sospettato di essere un traditore, una spia. Li
consegnerebbero alle autorità. E sarebbe la morte. - Non voglio distruggerli. Vorrei salvare almeno questo di
Ishaq. - Allora devi trovare un posto assolutamente sicuro dove
nasconderli. Non nella stanza dove dormi. Alessandro annuisce. Sa che ora dovrebbe alzarsi e
andarsene, ma desidera rimanere ancora nella pace di questa stanza. - Ti sto facendo perdere tempo. - Non ti preoccupare, Alessandro. Non ho nulla di urgente da
fare. Possiamo rimanercene qui tranquillamente. Alessandro guarda Solomon. Le parole gli salgono alle labbra
senza che ci sia una decisione cosciente. Mormora: - Vorrei che tu mi prendessi, Solomon. Solomon non appare stupito. Annuisce. Si alza e passa
nell’altra stanza. Alessandro lo sente chiudere la porta, facendo scorrere il
chiavistello. Poi Solomon torna. Rimane in piedi. Alessandro si alza.
Solomon gli prende il viso tra le mani
e lo bacia sulla bocca, poi spinge la sua lingua tra le labbra. Alessandro
l’accoglie. Le mani di Solomon scendono, scorrendo sugli abiti e attraverso
la stoffa Alessandro sente le carezze, che smuovono qualche cosa di profondo
dentro di lui. Solomon non ha fretta. Le sue mani scorrono lievi, non
stringono: sfiorano appena. E questo tocco lieve trasmette ad Alessandro
sensazioni fortissime. Vorrebbe che Solomon lo stringesse con forza, lo
spogliasse, lo prendesse. È impaziente. Ma allo stesso tempo vorrebbe
rimanere per sempre così com’è ora, le bocche unite in un bacio ardente, i
corpi che appena si sfiorano. Alessandro alza le mani e le appoggia sul corpo di Solomon.
Vorrebbe accarezzarlo con delicatezza, ma il desiderio lo tradisce: le sue mani
stringono la carne forte di Solomon, scorrono avide e impazienti, si infilano
sotto la tunica, fanno scivolare a terra i pantaloni, afferrano il culo
robusto e poi cercano la preda più ambita. Il cazzo di Solomon è già teso, caldo, vigoroso e Alessandro
ha l’impressione che la terra gli manchi sotto i piedi: come sempre il
desiderio è troppo forte e gli strappa un gemito, forte, poi un altro.
Solomon lo stringe con forza, ora, e tra queste braccia Alessandro è in
paradiso. Le mani di Solomon lo spogliano e Alessandro è costretto a lasciare
la presa, per permettere a Solomon di togliergli tutti i vestiti. Alessandro
gli sfila la tunica, poi fa un passo indietro e lo contempla. Un corpo forte,
maschio, come quelli che destano il suo desiderio. Alessandro scivola in ginocchio, mette le mani sulle cosce
di Solomon e avvicina il viso al cazzo del gioielliere. Ne aspira l’odore.
Solomon è pulito e gli aromi maschili si sentono appena. Alessandro apre la
bocca e accoglie la cappella. Incomincia a lavorare con la lingua e con le
labbra. Solomon gli accarezza i capelli, poi si china su di lui, le sue mani
scivolano lungo la schiena di Alessandro, fino al culo. Alessandro sente il cazzo di Solomon crescere ancora di
grandezza, diventare più rigido. Chiude gli occhi. Nelle carezze di Solomon
c’è una tenerezza che lo fa sentire amato, accudito, protetto, come quando
era con Ishaq. Non c’è stata certo tenerezza nel rapporto con Abdul-Qaadir,
non poteva essercene in quello con i tre fratelli curdi, né certo in quello
con il brigante. E Alessandro ha bisogno di questa tenerezza, che ora sembra
avvolgerlo in una rete protettiva. Alessandro si stacca, solleva il capo e guarda Solomon. È
bello Solomon, bello il viso maschio, bello il corpo robusto, bello il cazzo
testo verso l’alto, belli i coglioni coperti da una fitta peluria castana. - Stenditi sulla schiena, Solomon. Solomon sorride e si stende sui cuscini. Alessandro si china
su di lui e le sue mani accarezzano il torace e poi il ventre, stringono il
cazzo, scivolano sulle gambe, risalgono ripercorrendo la stessa strada, fino
al viso. Poi Alessandro, rimanendo in ginocchio, si mette a cavalcioni sul
corpo di Solomon. Si sputa sulla mano due volte e lubrifica il buco del culo.
Si sposta in modo che l’apertura sia sopra il cazzo e lentamente si abbassa.
Sorride a Solomon, mentre lentamente l’arma affonda nella sua carne,
regalandogli un piacere che ha in sé anche un po’ di dolore. È bello
impalarsi su questo cazzo ardente, guardare il sorriso di Solomon, passare le
mani sul suo petto. Alessandro si abbassa fino a che il cazzo di Solomon è
completamente dentro di lui. Chiude gli occhi. Sente su di sé le mani di
Solomon, che lo accarezzano, percorrono il suo corpo, stuzzicano il cazzo.
Alessandro solleva un po’ il culo e lo riabbassa. Geme, percorso da un
brivido di piacere. La sensazione è splendida, intensissima. Le mani di
Solomon sono tizzoni ardenti e alimentano il fuoco che lo divora. Il movimento di Alessandro prosegue a lungo e Solomon lo
asseconda con spinte che strappano nuovi gemiti al giovane. Solomon gli afferra il cazzo e la sua mano lo stringe con
forza, muovendosi verso l’alto e verso il basso. Alessandro emette un grido e
il suo sborro schizza verso l’alto, ripiombando sul petto di Solomon, il cui
seme si riversa nelle sue viscere. Dopo un momento Solomon lo guida a stendersi su di lui. Si
baciano e si abbracciano, poi Alessandro scivola di fianco, appagato. Solomon
gli stringe la mano. Ora sono distesi uno accanto all’altro sul tappeto. Rimangono a lungo così. Poi Solomon parla: - Alessandro, scusa se insisto: sbarazzati dei testi di
Ishaq. Non tenerli con te. Alessandro sa che Solomon ha ragione, ma ciò che l’amico gli
chiede gli pesa. Cerca una soluzione, senza trovarla. D’improvviso ha
un’idea. - Tu sapresti come nasconderli? Solomon lo guarda un momento senza dire niente, poi
annuisce. - Sì, potrei farlo. - Lasciami riflettere qualche giorno. Poi tornerò. - Va bene. Io sono spesso via, ma di solito solo per pochi
giorni. Se non mi trovassi, il servitore sa dirti quando torno. - D’accordo. Alessandro si solleva e bacia Solomon sulle labbra. Un bacio
leggero. Poi si rivestono. Solomon lo accompagna alla porta e Alessandro se
ne va. È appagato, come non gli capitava da quando stava con Ishaq. Tornerà
da Solomon. Alessandro va a cercare Solomon la settimana seguente,
portando con sé le poesie e il trattato di Ishaq, ma il gioielliere non c’è.
Alessandro torna a casa deluso. Voleva rivedere Solomon. E ha bisogno di un
uomo, di un corpo maschile che lo stringa, lo prenda. La sera, mentre sono entrambi stesi sul letto, dopo che
hanno scopato, Berthe gli dice: - Domani impiccano l’assassino del tintore Charles. Alessandro non ne sa nulla. Berthe gli spiega che si tratta di
un uomo che ha ucciso un artigiano per derubarlo. Alessandro decide che andrà ad assistere. Non è tanto lo
spettacolo ad attirarlo, quanto la possibilità di incontri: là dove si
riunisce una grande folla, più facilmente si presenta l’occasione di trovare
qualcuno che cerca. L’indomani c’è un grande affollamento per le vie di San
Giacomo d’Afrin: l’impiccagione di un uomo attira molta gente. La piazza è
già piena, anche se manca ancora parecchio all’esecuzione. Alessandro si
mette verso il fondo, vicino al muro di una casa: una posizione che per il
momento gli lascia un minimo di libertà di movimento; più tardi, se arriverà
molta altra gente, diventerà impossibile spostarsi. Si guarda intorno, ma gli uomini che attirano il suo sguardo
sembrano concentrati solo sul palco dove avverrà lo spettacolo. Uno si sta
spostando per mettersi dietro a una donna. Alessandro sorride: ha capito
benissimo che cosa interessa al tipo. Altra gente arriva e la folla si
compatta, ma dove si trova Alessandro non c’è nessuno che sembri cercare
altro. A un certo punto però di fianco a lui si mette un uomo alto,
più di Alessandro, che di certo non è basso. Ha spalle larghe, un torace
possente e grandi mani forti: un tipo d’uomo che ad Alessandro piace molto.
Lo sconosciuto si accorge che Alessandro lo sta fissando e volta la testa
verso di lui. Per un momento i loro sguardi si incrociano, poi tutti e due
volgono il capo verso lo spiazzo dove stanno trascinando il condannato. L’uomo si sposta, provocando proteste da parte di alcuni,
perché la folla è ormai molto compressa, ma l’uomo non se ne preoccupa.
Scivola dietro Alessandro, nel ristretto spazio che lo separa dal muro. Ora i
loro due corpi aderiscono. Alessandro si appoggia completamente contro l’uomo
e ne sente il calore. Premendo con il culo, può sentire la consistenza del
cazzo dell’uomo, teso e rigido. L’uomo gli solleva un po’ la tunica. Alessandro si chiede se
vuole davvero incularlo lì, nella piazza, tra la gente: sarebbe una follia.
Tutti stanno guardando il condannato che il boia costringe a salire sulla
scala, ma se qualcuno distogliesse lo sguardo un momento, per entrambi
sarebbe la morte. Eppure Alessandro non si sottrae: come sempre il suo corpo
reagisce con un’intensità che cancella ogni volontà. L’uomo però non intende prenderlo nella piazza. Si limita a
far scivolare una mano sotto le brache di Alessandro e a far scorrere un dito
lungo il solco, fino al buco del culo. Il dito si infila dentro, senza tante
cerimonie. Alessandro chiude gli occhi, scosso dalla violenza del piacere:
come sempre la sua reazione è fortissima. L’uomo gli dice in un sussurro: - Dopo andiamo alla locanda al fiume, quella di Norbert? Alessandro annuisce. - Adesso godiamoci lo spettacolo. Alessandro torna a guardare il condannato, che è in alto
sulla scala, la corda al collo. Il boia gli assesta un calcio e l’uomo cade.
Il salto deve avergli spezzato l’osso del collo, perché c’è un rapidissimo
movimento convulso e poi il corpo rimane inerte, dondolando. Dalla folla si è
levato un urlo. Anche Alessandro non riesce a trattenere un gemito, perché
l’uomo lavora con il dito, muovendolo nel suo culo. Alessandro si accorge di
sudare, il cazzo gli si è teso e gli sembra di non riuscire a stare in piedi. L’uomo gli dice, piano: - Sei proprio una troia. Poi toglie il dito. Alessandro geme di nuovo. Una donna si
volta a guardare Alessandro. La gente incomincia lentamente a defluire.
L’uomo dice: - Andiamo. Si fa largo tra la folla e infila un vicolo. Alessandro lo
segue. Guarda le spalla larghe dell’uomo, alquanto massiccio. Nessuno dei due
nota un contadino che era vicino a loro e che ora sta parlando con uno dei
soldati. Raggiungono la locanda di Norbert e chiedono una camera,
come se fossero due forestieri di passaggio. Norbert si fa pagare e gli dà la chiave. In realtà conosce
l’uomo, che ogni tanto viene alla locanda, ogni volta accompagnato da un
maschio diverso, di solito più giovane di lui. Ha capito benissimo che si
tratta di un sodomita, ma non gli importa. Il tizio paga regolarmente e non
tocca a Norbert indagare su cosa fanno quelli che frequentano la sua locanda. Nella stanza l’uomo si spoglia in fretta. Anche Alessandro
incomincia a spogliarsi, ma quando l’uomo rimane a torso nudo, Alessandro si
ferma. Guarda in silenzio la fitta foresta di peli sul petto dell’uomo, le
braccia robuste, il ventre sporgente. Non è bello, ma c’è in lui una forza
che lo soggioga: Alessandro si è sempre sentito fortemente attratto da maschi
più vecchi di lui, forti e virili. Quando l’uomo si cala i pantaloni, mettendo in mostra un
cazzo vigoroso, già teso, che gli batte contro il ventre, Alessandro si sente
la gola secca. Scivola in ginocchio. L’uomo ride e si avvicina. Ora il suo
cazzo è davanti alla faccia di Alessandro, che ne sente l’odore intenso, di
piscio, sudore e sborro. Alessandro apre la bocca e lo accoglie. Incomincia a
succhiarlo avidamente, mentre le sue mani stringono il culo dell’uomo, gli
accarezzano i coglioni, salgono sul ventre a perdersi nel pelame rigoglioso. L’uomo però lo ferma: - Ora basta. Voglio mettertelo in culo. Alessandro lascia a malincuore il boccone di carne che stava
gustando. Annuisce. Si spoglia in fretta. L’uomo lo spinge contro una parete.
Dice, con la voce resa roca dal desiderio: - Mi piace fottere in piedi. Alessandro si appoggia alle pareti con le mani. L’uomo
sparge un po’ di saliva e poi infilza Alessandro con un movimento deciso che
lo fa sussultare e gli strappa un gemito. L’uomo spinge con forza, avanti e indietro. È un ottimo
stallone, ha forza e resistenza. Alessandro geme più volte. Il culo gli fa
male, ma il cazzo che si fa strada dentro di lui gli procura un piacere
intensissimo. Alessandro geme più forte, incapace di controllarsi. E infine
sente la scarica dentro il culo. I soldati irrompono nella stanza proprio in quel momento. L’uomo si stacca con un movimento fulmineo e raggiunge la
finestra. Prima che i soldati riescano a fermarlo, scavalca il davanzale,
lanciandosi nell’acqua del fiume che scorre sotto la locanda. I soldati si precipitano anche loro alla finestra, ma è
troppo tardi. - Quello non lo raggiungiamo. Merda! - Ma questo non ci scappa. Ci dirà chi è l’altro. Alessandro non ha fatto in tempo a muoversi: due soldati lo
minacciano con le loro spade. Gli ordinano di rivestirsi e Alessandro
obbedisce. Sa che è finita. Mentre scende le scale, dal culo gli cola un po’ di seme. Alessandro viene portato in una cella della prigione. Vi
rimane due ore, in solitudine, poi gli legano le mani dietro la schiena e lo
accompagnano nei sotterranei del corpo di guardia del palazzo vescovile, per
l’interrogatorio. Alessandro viene condotto in una grande stanza. Le guardie
che lo accompagnano si fermano davanti a un tavolo, a cui siedono due monaci
e un prete. Uno dei monaci ha una penna in mano e alcuni fogli davanti a sé:
ha evidentemente il compito di registrare l’interrogatorio. A porre le
domande è il sacerdote. - Chi sei? Da dove vieni? Alessandro non mente: non ha motivo per farlo. - Mi chiamo Alessandro e sono nato da Salvatore di Messina.
Vivevamo a Edessa, io ero appena nato quando la città venne conquistata dai
saraceni e tutti noi fummo ridotti in schiavitù. Sono stato schiavo a Damasco
fino a pochi mesi fa. - Come hai potuto liberarti? - Il mio padrone, sapendo che sarebbe stato arrestato e i suoi
beni confiscati, ha deciso di vendermi a un altro, con l’impegno che mi
liberasse dopo alcune settimane. - Perché il tuo padrone è stato arrestato? - Lo consideravano eretico. Cose della loro religione. Io
non me ne sono mai occupato. - Se sei vissuto fino a ora tra i maomettani, com’è che non
ti sei convertito? - Mia madre mi educò nella vera fede. Alessandro usa l’espressione “vera fede” solo per dare
un’impressione positiva all’uomo che lo sta interrogando. Poco gli importa
della religione. Ma cerca di non peggiorare una situazione che sa essere
disperata. - Perché il tuo padrone ha deciso di liberarti? - Era un uomo generoso e si era affezionato a me. Ero
rimasto con lui dieci anni. Alessandro fa molta attenzione nella scelta dei termini. Non
devono sospettare che aveva rapporti anche con il suo padrone. Ma mentre lo
pensa, si dice che tutto è inutile: lo hanno sorpreso durante il rapporto, la
sua sorte è segnata. Non sa nulla che possa interessare coloro che lo
interrogano: non può collaborare per cercare di sfuggire al rogo. - Dici che foste ridotti in schiavitù. Diventaste tutti
schiavi del padrone che ti ha liberato? - No. Fummo venduti a un ricco mercante di Aleppo, ma mio
padre cercò di fuggire. - E allora? - Fu venduto. Mia madre dice che venne inviato nelle miniere
di sale e lei non ne seppe più nulla, ma era sicura che fosse morto. Io non
ne ho nessun ricordo. - E tua madre? - Fui separato da lei quando avevo quattordici anni. Venni
venduto al guerriero Abdul-Qaadir. Quando avevo vent’anni, Abdul-Qaadir mi
vendette a Ishaq ibn Shafi e rimasi con lui fino a poco prima del suo
arresto, quando mi cedette a un amico, con l’impegno che mi liberasse. - Partisti subito? - No, rimasi con il mio nuovo padrone un mese, poi decisi di
raggiungere il Regno di Gerusalemme. - Perché hai deciso di venire a San Giacomo d’Afrin? - Perché volevo tornare tra la mia gente, dopo trent’anni di
schiavitù. - Quando sei giunto a San Giacomo d’Afrin? - Due mesi fa. - Dove alloggi? - Ho preso una camera da Berthe Fantin, presso la chiesa di
San Benedetto. E mentre lo dice Alessandro pensa alle poesie e al trattato
di Ishaq. Se li scoprono, è perduto. Ma è un pensiero assurdo: non ha
comunque nessuna speranza. Ci sono ancora alcune domande generiche, poi l’interrogatorio
si concentra su quanto è avvenuto nella locanda di Norbert. - Sei stato sorpreso in un rapporto contro natura. Alessandro annuisce. Non può certo negare. - Sì, è vero. Fu il mio padrone Abdul-Qaadir a prendermi a
forza quando avevo quattordici anni. Mi tenne come schiavo di piacere fino a
che si sbarazzò di me. Da allora non ebbi più rapporti. Sul viso dell’uomo appare un’espressione di dubbio, ma per
il momento non si occupa di approfondire l’argomento: ciò che Alessandro può
aver fatto a Damasco ha ben poco interesse, perché non sarà possibile
verificare, né tanto meno arrestare coloro con cui ha peccato. - E com’è che oggi invece hai ceduto alla tentazione? Alessandro percepisce una sfumatura ironica nel tono con cui
l’uomo pone la domanda: evidentemente non crede che Alessandro si sia
mantenuto casto per anni. - Eravamo pigiati nella folla. Quell’uomo si è messo dietro
di me. Io… non volevo, ma quando lui mi ha invitato a seguirlo alla locanda…
mi è mancata la forza di dirgli di no. Il sacerdote scuote la testa. Poi prosegue con le domande: - Chi era l’uomo con cui avevi un rapporto? Alessandro non è in grado di rispondere: non sa neppure il
nome. - Non lo so. - Come si chiama? - Non lo so, non me lo disse. Mi ordinò di seguirlo. Io lo feci.
Pensai più volte di tornare indietro, gli dissi che non dovevamo farlo, ma
lui mi rispose che alla locanda avremmo parlato. Il sacerdote ha un risolino beffardo: le bugie di Alessandro
non lo convincono. - E tu ci hai creduto? - Sì, pensavo di convincerlo, di dirgli che era peccato… - Ma alla locanda siete saliti subito in camera. E non avete
perso tempo. - Non mi permise di dire nulla. Mi ordinò si spogliarmi e
poi mi prese. Cercai di rifiutarmi, ma era più forte di me. Il prete scuote la testa. Pone ancora molte domande
sull’uomo, ma Alessandro non è in grado di dare risposte soddisfacenti: non
sa nulla di lui. Il sacerdote non nasconde la sua irritazione. - Bada, se non collabori aggravi la tua situazione. - Non posso dire ciò che non so. Al termine dell’interrogatorio, Alessandro viene condotto
nella fortezza, in una cella sotterranea, completamente priva di aperture.
L’aria è fetida e Alessandro si ferma sulla soglia, disgustato dal lezzo. Ma
il carceriere, dopo avergli slegato le mani, lo spinge bruscamente dentro e
chiude la porta. Il buio diventa quasi completo: solo dalla finestrella della
porta filtra un po’ di luce. Alessandro si siede a terra e si prende la testa tra le
mani. Sa che la sua vita è finita. Trascorrerà qualche giorno, forse qualche
settimana, in questa cella lurida e poi sarà bruciato sul rogo. Più tardi il carceriere gli porta un po’ di pane e acqua. Li
posa per terra e se ne va senza dire niente. Alessandro non ha fame, ma si
sforza di mangiare. Passano
tre giorni. Alessandro si chiede se lo lasceranno morire in questa cella
immonda, da cui non gli permettono di uscire neanche per i propri bisogni.
Non può lavarsi, non può pulirsi. Infine
il mattino del quarto giorno la porta si apre e due guardie conducono
nuovamente Alessandro nei sotterranei del corpo di guardia del palazzo
vescovile. L’interrogatorio riprende e fin dalla prima domanda Alessandro
capisce che tutto è perduto. Lo sapeva già, ma ora ha l’ultima conferma: -
Tra le tue cose abbiamo ritrovato testi arabi. Di che cosa si tratta? Alessandro
deglutisce -
Sono testi che scrisse il mio padrone. Poesie, credo. Mi chiese di salvarle.
Forse c’è anche altro. È
inutile fingere di non sapere, Alessandro se ne rende conto. L’uomo
che lo interroga ha un sorriso ironico. -
Vuoi farci credere che non sai di che cosa trattano queste poesie? Iskandar è
il tuo nome nella lingua degli infedeli. E a Iskandar sono dedicate le poesie
in cui l’autore, questa incarnazione del demonio, esalta i piaceri dei
rapporti contro natura. Alessandro
sa che non serve a nulla negare. - Il
mio padrone mi diede queste poesie. Era il mio padrone. Io ero il suo
schiavo. Non potevo rifiutarmi. Mentre
cerca ancora giustificazioni che sa essere del tutto inutili, Alessandro prova un profondo senso di vergogna: se
Alessandro non avesse voluto, Ishaq avrebbe rispettato il suo rifiuto, non lo
avrebbe preso con la forza. Sta insultando la memoria di un uomo che è morto
sulla croce per difendere le sue idee.
- Il
tuo padrone ha scritto un trattato in cui considera i piaceri del corpo un
dono divino. Sostiene che chi rifiuta il piacere respinge i doni che il
Signore gli ha fatto. Scrive che ogni forma di amore è grata a Dio e altre
terribili empietà. Tu non lo sapevi? Alessandro
è stanco. Sa benissimo che la sua sorte è segnata. Umiliarsi ancora non ha
nessun senso. È ora di concludere. Alza gli occhi sull’uomo che lo interroga.
Sorride e dice, con una voce che diviene più ferma man mano che procede: -
Sì, conosco ciò che ha scritto il mio padrone. Credo che avesse ragione.
Credo che Iddio ci abbia dato un corpo perché ne godessimo secondo i nostri
desideri e non per mortificarlo. Condivido le sue idee. Credo di essere
libero di fare del mio corpo ciò che desidero e credo che nessuno abbia il
diritto di scegliere per me. Il
prete lo fissa, allibito, muto, la bocca socchiusa in una smorfia di
sbalordimento. Alessandro
ride. Sa di essere un uomo morto, ma lo sgomento dell’uomo gli strappa una
risata. Baldovino
sta per essere incoronato re. Suo padre, Amalrico I di Gerusalemme, è morto
da poco, lasciando come unico erede questo ragazzo che ha solo tredici anni
ed è lebbroso. Per il momento il giovane principe non potrà governare
direttamente il regno, per cui è stato nominato un consiglio di reggenza. In
occasione dell’incoronazione a Gerusalemme sono convenuti quasi tutti i
nobili del regno: molti contano di approfittare della situazione per ottenere
una maggiore influenza a corte; altri sanno che devono agire per difendere la
loro posizione dagli attacchi di chi vuole farsi strada. Anche il patriarca
Amalrico ha convocato una riunione di tutte le principali cariche religiose:
per i vescovi e i rappresentanti dei diversi ordini è importante conquistarsi
il favore del nuovo re. Non
sono solo gli equilibri all’interno del regno a essere messi in discussione,
ma l’intero quadro politico della regione: la morte di Amalrico è avvenuta
due mesi dopo quella del principale nemico dei cristiani d’Oltremare, Nur
ad-Din, che i franchi chiamavano Norandino. Che cosa succederà ora, è
difficile prevedere. Gerusalemme,
che la calura di luglio stringe in una morsa feroce, è animatissima. I nobili
sono venuti con molti uomini al seguito, facendo grande sfoggio di ricchezza,
e la folla osserva i gruppi di cavalieri che si muovono orgogliosi per le
strade della città: un’esibizione di forza che rassicura la popolazione. Solo
il duca di Rougegarde, Denis d’Aguilard, è giunto come sempre con pochi
soldati fidati, ma è il più acclamato: il popolo vede in lui il baluardo del
regno, in un momento in cui la situazione appare quanto mai precaria. Il
giorno prima dell’incoronazione si intrecciano visite pubbliche e colloqui
privati, in cui gli scambi di cortesie sono la premessa di richieste,
offerte, minacce, a volte intrighi. Tra
coloro che si trovano a Gerusalemme per l’incoronazione vi è naturalmente
anche Bohémond, vescovo di San Giacomo d’Afrin e di Rougegarde. Il suo
obiettivo è quello di trovare appoggi per agire contro il duca Denis di
Rougegarde: un’impresa alquanto difficile, poiché Denis, come Bohémond
temeva, è nel consiglio di reggenza. Come ridurre l’influenza che il duca ha
a corte e imporsi a Rougegarde? Fino a ora Bohémond ha sempre avuto le mani
legate: re Amalrico nutriva una cieca fiducia in Denis di Rougegarde. Per
scalzarlo, sarebbe necessario screditarlo agli occhi del nuovo re, ma come
riuscirci? Bisognerebbe accusarlo di qualche grave mancanza e inchiodarlo con
prove schiaccianti. E quali prove si possono trovare, di quali colpe, a
carico di quest’uomo che tutti considerano il più forte e il più leale dei
signori franchi? Molti sono invidiosi del suo potere, tanto più che Denis de
Rougegarde è anche reggente di Cesarea, ma nessuno è intenzionato a mettersi
contro di lui: i rischi sono troppo forti. Bohémond
si chiede come fare. Gli uomini al servizio del duca gli sono fedeli: due
tentativi di corruzione sono falliti miseramente. A Rougegarde Bohémond non
si reca spesso, perché coglie l’ostilità che lo circonda in città. Preferisce
soggiornare a San Giacomo d’Afrin, dove ha ottimi rapporti con il barone
Renaud. Prima
della riunione dei dignitari del regno, Bohémond si apparta con Godefroi, il
templare che è comandante civile a Santa Maria in Aqsa. Con lui Bohémond ha sempre
mostrato di trovarsi in sintonia, come se davvero avesse a cuore
l’affermazione della vera fede e la cacciata degli infedeli. In realtà
l’inflessibilità di Bohémond è solo uno strumento per raggiungere i suoi
obiettivi di potere, mentre Godefroi non ha secondi fini. Bohémond
enuncia il problema direttamente: sa che Godefroi condivide le sue
preoccupazioni. - A
Rougegarde la situazione non è più sostenibile. Una città strappata agli
infedeli con il sangue cristiano, in cui i credenti vivono a fianco di
maomettani, ebrei, eretici. E i costumi… Non c’è vizio che non alberghi in
quella città. Godefroi
fissa Bohémond. -
Sì, ho sentito anch’io parlare della depravazione che regna nella perla della
Terrasanta. Ma è il duca a tollerare questa vergogna, come se non fosse
responsabile davanti all’Onnipotente di questa città, che il Signore gli ha
permesso di conquistare. -
Finché il duca sarà signore di Rougegarde, non ci sarà modo di estirpare il
male che vi ha messo le radici. Godefroi
annuisce. - Da
San Giacomo d’Afrin e da Santa Maria in Aqsa i maomettani sono stati
scacciati e non vi sono più moschee. Lode al barone Renaud, che vi ascolta.
Il duca… Dio lo illumini. Bohémond
scuote la testa. -
Non ho molte speranze. La sua fede è debole e poi… basti pensare che il duca
è molto amico del conte Ferdinando. Un uomo… Godefroi
guarda Bohémond. Freme, mentre dice: -
Sono dunque vere le voci che mi sono giunte? -
Sui suoi rapporti contro natura? Purtroppo lo sono. Non abbiamo prove, certo,
ma quell’uomo… è un bestemmiatore, dedito al peccato di Sodoma, sfrenato
nella ricerca dei piaceri. Una vera sentina di vizi. Come il conte Tancrède
d’Espinel, un altro peccatore che ebbe il meritato castigo per il suo
tradimento e per i suoi vizi immondi. Godefroi
tace un attimo, poi dice, con una voce in cui trema l’indignazione: - A
Santa Maria in Aqsa abbiamo bruciato due uomini che si erano macchiati del
peccato di Sodoma, la più vergognosa delle colpe. Il vizio è stato estirpato.
Bohémond
sorride. -
Anche a San Giacomo, come sapete, abbiamo avuto due roghi, uno in occasione
della nascita dell’erede e uno più tardi. E un terzo ci sarà presto: abbiamo
arrestato un eretico sodomita sorpreso in flagrante, una vera incarnazione
del demonio, che non ha mostrato nessun segno di pentimento. Presto avrà la
pena che merita. Dovendoci recare a Gerusalemme, il barone ed io abbiamo
deciso di rinviare l’esecuzione, a cui bisogna dare il massimo risalto. Godefroi
annuisce. - Il
barone Renaud è un uomo pio, che si impegna per estirpare il male, non come
il duca Denis e il conte Ferdinando. Bohémond
sorride, mentre Godefroi prosegue: - Il
conte Ferdinando meriterebbe davvero di essere arso vivo: sarebbe un monito
per tutti quei nobili che si credono superiori alle leggi divine. Bohémond
concorda: -
Certo. Ma ha la protezione del duca. E in ogni caso, come trovare qualcuno
che lo accusi? Finché il duca di Rougegarde governerà, credo che si potrà
fare ben poco. Godefroi
annuisce. È pienamente d’accordo con Bohémond ed è ben cosciente di quanto
sia difficile indebolire la posizione del duca. -
No. Tutto sembra congiurare a suo favore. Fu Denis d’Aguilard a conquistare
la città: Dio gliela diede in mano senza che dovesse neppure combattere. E
Dio gli permise di sconfiggere il Circasso. Ma invece di riscattare
Rougegarde, il duca contribuisce alla sua perdizione. Il duca e il conte
Ferdinando dovrebbero essere privati dei loro territori. -
Certo. Un uomo come il barone Renaud di San Giacomo d’Afrin sarebbe ben più
adatto a governare Rougegarde. Ma come perdere il duca e riuscire così a
salvare le anime dei cittadini di Rougegarde dalla dannazione eterna? Ho
cercato di smascherare un eretico che gode della protezione del duca, ma
questi mi ha impedito di dimostrare le colpe di quell’uomo. -
Dovete fare arrestare questo eretico. Sotto tortura certamente confesserà le
sue colpe. Sarebbe un buon esempio per tutti i credenti e un ammonimento per
il duca. -
Purtroppo a Rougegarde non ho il potere di far arrestare nessuno. Questa fu
una decisione di re Amalrico e anche quando si tratta di eresia devo chiedere
l’autorizzazione al duca. Un’autorizzazione che non posso ottenere senza
prove schiaccianti. Ma come procurarmele, se non posso interrogare coloro che
so essere eretici? Bohémond
allarga le braccia in un gesto di sconforto. Godefroi freme di rabbia. -
Pensare che un uomo del genere è nel consiglio di reggenza! -
Vorrei rivolgermi al giovane re, ma dubito di riuscire a portarlo dalla mia
parte. -
No, temo anch’io che sia molto difficile. Il rispetto che porta al padre
morto lo spingerà senz’altro a confermare le decisioni di re Amalrico. E
d’altronde il duca di Rougegarde gode di grande popolarità. Lo stesso
patriarca lo appoggia apertamente. La
conversazione è arrivata a un punto morto. Bohémond vede Denis di Rougegarde
che passa, parlando con Guillaume di Hautlieu, che è il comandante militare a
Santa Maria in Aqsa. Allora osserva: - Mi
hanno riferito che a Santa Maria sta per arrivare un nuovo comandante
militare. -
Sì, Guillaume di Hautlieu è passato al castello San Michele. Speravo che
Jorge da Toledo prendesse il suo posto. Guillaume è un ottimo soldato, ma non
ha lo zelo necessario per mondare una città dai miscredenti e dai viziosi, è
troppo indulgente. Come dice il popolo, il medico pietoso fa la piaga
verminosa. E quando la piaga è nell’anima... non dico di più. Jorge da Toledo
sa essere più severo nell’eseguire la giustizia divina. Su di lui si può
davvero contare. Ma l’Ordine ha deciso altrimenti, non so perché. Bohémond
ha sentito parlare di Jorge da Toledo. Dubita che il templare sia animato da
una forte fede, ma di certo è un uomo che conviene avere dalla propria parte. Bohémond
osserva alcuni prelati dirigersi verso la sala dove si terrà l’incontro. - È
meglio che ci avviamo. -
Sì. Dio forse ci ispirerà, suggerendoci un modo per sconfiggere i Suoi
nemici. Godefroi
e Bohémond entrano separati e si siedono a distanza: non è mai saggio
mostrare quali sono i propri alleati, a meno che essi non siano tanto potenti
da intimorire gli avversari. Bohémond
è ambizioso. È diventato vescovo di Gerusalemme e San Giacomo d’Afrin molto
giovane. Per lui la nomina è stata un passo importante in una strada
destinata a portarlo molto in alto: Bohémond sperava di diventare patriarca,
prendendo il posto di Amalrico alla sua morte. La sua carriera però non ha
più fatto progressi significativi e il suo sogno appare sempre più difficile
da realizzare. Bohémond
non ascolta il discorso del patriarca: parole vuote, che poco interesse hanno
per lui. La mente ritorna alle parole di Godefroi. Bohémond si è spesso
chiesto se non colpire il duca Denis attraverso il conte Ferdinando. Ma
sarebbe molto difficile riuscire a far processare e condannare il conte
Ferdinando. E se al conte venisse tolta la vallata dell’Arram, sarebbe con
ogni probabilità proprio il duca a ottenerla. Le
parole di Godefroi portano Bohémond a riflettere ancora. Se il conte venisse
condannato per il reato di Sodoma, se venisse mandato in esilio o meglio
ancora giustiziato, il suo sangue sporcherebbe anche Denis: si sa che i due
sono grandi amici. Non cambierebbe molto, ma sarebbe comunque una macchia…
Non subito, ma con il tempo si potrebbe ricordare al giovane re che questo
guerriero valoroso aveva rapporti stretti con un sodomita. Sì, sarebbe una
buona cosa. Ma
far condannare Ferdinando non è facile. Bohémond guarda Jorge da Toledo,
seduto non lontano. Un uomo senza scrupoli, in cui solo un fanatico come
Godefroi può vedere un grande zelo religioso. Ma un uomo capace, su cui si
può contare finché gli interessi sono comuni. Dopo
la riunione Bohémond si avvicina a Godefroi e Jorge di Toledo, che stanno
parlando insieme. Dopo aver scambiato due parole, dice: - Se
riuscissimo a smascherare il conte, rivelando l’infamia dei suoi vizi, ci
sarebbe un grande scandalo. Possiamo contare sul sostegno dell’Ordine dei
Cavalieri del Tempio? -
Certamente, fratello. Il peccato è il nostro nemico. -
Allora, ho un’idea che potrebbe portare a questo risultato. -
Ditemi. - Vi
ho parlato di quell’eretico sodomita, che sarà giustiziato al nostro ritorno. -
Sì, certo. Un monito per tutti i peccatori di questa Terra Santa. -
Forse possiamo servirci di lui per arrivare molto più in alto, per un monito ben
più potente. Il Signore può servirsi anche di un eretico sodomita per
sconfiggere le forze infernali e mondare la terra dal peccato. Godefroi
chiede: -
Pensate al conte? Qual è la vostra idea? - Se
quest’uomo evadesse dal carcere e cercasse rifugio nel territorio del conte
Ferdinando… il conte lo accoglierebbe, non è prudente come il duca Denis.
Essendo un sodomita, non dovrebbe essergli difficile entrare nelle grazie del
conte. Ciò
che dice Bohémond è vero, ma Godefroi è dubbioso. Il vescovo prosegue: - Se
è coraggioso e deciso, può farsi strada e diventare uno degli uomini di
fiducia di quell’empio. - E
allora? Non possiamo certo pensare che denunci il conte Ferdinando:
accuserebbe anche se stesso e finirebbe anche lui sul rogo. -
No, la mia idea è un’altra. Si potrebbe indurre il conte a mandare qualcuno
dei suoi uomini a Santa Maria in Aqsa e l’eretico potrebbe segnalarvi quando
sorprenderli. Voi potreste farli arrestare con l’accusa di sodomia e sotto
tortura di certo confesserebbero di avere avuto rapporti contro natura anche
con il conte stesso. Jorge
interviene: - Un
signore del Regno può essere processato solo dai suoi pari, a Gerusalemme. -
Sì, certo, ma in presenza di prove schiaccianti… Ho pensato che se il barone
fosse indotto a recarsi a Santa Maria per liberare i suoi uomini, sapendo
solo che sono stati arrestati, ma ignorando l’accusa… probabilmente con
l’aiuto dell’eretico si potrebbe sorprendere anche lui… A questo punto il re
dovrebbe cedere. Godefroi
annuisce, il sorriso sulle labbra. - Un
rogo che cancellasse il lezzo immondo che sale al cielo da questa terra. Bohémond
sa benissimo che il re non accetterà un rogo. Ma se tutto si svolgerà come
previsto, Ferdinando sarà sicuramente condannato e privato dei suoi
possedimenti. Organizzando bene l’operazione, si potrebbe fare pressione sul
re per una condanna a morte. Decapitazione e non rogo, ma comunque la fine
del conte e una macchia sul duca di Rougegarde, che di certo si spenderà per
salvare l’amico. Jorge
non ha detto nulla. Solo ora interviene: -
Perché un’operazione di questo genere riesca, non bisogna lasciare nulla al
caso ed è opportuno coinvolgere il minor numero possibile di persone: nessuno
deve saperne nulla, all’infuori di noi. Bohémond
annuisce. -
Sì, occorre mantenere il massimo riserbo su tutta l’operazione. Dobbiamo
cercare di gestirla tutta noi. Vengono
definiti alcuni dettagli. Bohémond si impegna a parlare con il barone Renaud,
signore di San Giacomo d’Afrin: il prigioniero è nelle carceri della città. Quando
il vescovo gli riferisce il progetto, il barone ascolta con attenzione. - Mi
sembra un’ottima idea, tanto più che noi appariremmo del tutto estranei
all’arresto e all’indagine. -
Esatto. Questo mi sembra importante. Renaud
riflette un momento, poi aggiunge: -
Sarà un passo avanti, piccolo, ma in futuro potrà rivelarsi importante. -
Così voglia Iddio. Renaud
guarda il vescovo allontanarsi. Sì, l’idea è buona e Renaud intende
approfittarne per sbarazzarsi di Mathieu, il carceriere. Quel coglione si
lascia corrompere per quattro soldi. Renaud pensava di licenziarlo, ma il
piano messo a punto da Godefroi e Bohémond gli ha fatto balenare un’altra
possibilità. Avrà la punizione che si merita e la fuga dell’eretico apparirà
ancora più credibile. Spera che la manovra ottenga qualche risultato. Vedere
Ferdinando bruciare sul rogo o anche solo la sua testa mozzata dall’ascia…
sarebbe fantastico! Renaud non sopporta quel siciliano rozzo e ignorante che
è diventato barone. Una testa di cazzo, che ha fatto strada per puro culo. A
San Giacomo d’Afrin Alessandro è nella sua cella. La condanna pronunciata dal
tribunale è stata rinvita per la partenza del vescovo e del barone, che hanno
lasciato la città per recarsi a Gerusalemme. Alessandro trascorre gran parte delle
sue giornate nello spazio buio e maleodorante in cui è rinchiuso. Dopo aver
sfidato il sacerdote che lo interrogava, Alessandro ha alternato momenti di
euforia ad altri di scoraggiamento. Si è ormai rassegnato a morire, ma ci
sono momenti in cui l’angoscia lo divora. Oggi
il carceriere gli ha comunicato che il barone e il vescovo sono tornati ieri
da Gerusalemme. Alessandro sa che la sua vita è giunta al termine: verrà
bruciato sul rogo presto, potrebbe essere oggi stesso o, più probabilmente
domani, per dare il tempo di preparare lo spettacolo. Alessandro
rabbrividisce al pensiero. Non ha assistito ai roghi che ci sono stati in
passato a San Giacomo d’Afrin e a Santa Maria d’Aqsa, ma gliene hanno
parlato: l’atroce agonia del condannato lo spaventa. Molto meglio la rapida
morte dell’impiccato, come quella che ha avuto modo di vedere nel suo ultimo
giorno di uomo libero. Chissà se l’uomo con cui ha scopato andrà ad
assistere? Probabilmente no, sarebbe un’imprudenza. È
stata una follia venire in questa fottuta città dove il vescovo ha tanto
potere ed è così inflessibile. È stata una follia accettare il rapporto con
quello sconosciuto. Sapeva che avrebbe dovuto essere più attento. Ma ormai è
troppo tardi. Alessandro
sente il rumore della chiave che gira nella serratura, del chiavistello che
viene aperto. Sussulta, in preda all’angoscia. Gli hanno già portato da
mangiare. Perché qualcuno viene a quest’ora? Sarà giunto il momento? Sarà il
prete che gli chiederà di confessarsi prima dell’esecuzione? L’uomo
che entra è alto e massiccio. La luce della torcia illumina il viso, dai
tratti duri. È privo di capelli, ma dev’essere ancora giovane. Il colorito
scuro lo potrebbe far credere arabo: ce ne sono diversi schiavi a San
Giacomo. Ma il portamento non è quello di uno schiavo: è un uomo abituato a
comandare, questo. E a essere obbedito. Alessandro
si alza in piedi. Cerca di nascondere l’angoscia che lo invade. Non vuole
mostrarsi vile. L’uomo
infila la torcia in un anello al muro, poi fissa il prigioniero. C’è qualche
cosa di inquietante nel suo viso, illuminato da una parte dalla luce della
torcia, in ombra dall’altra. L’uomo
dice, con durezza: -
Domani sarai giustiziato. Alessandro
apre la bocca, ma non dice nulla. Che cosa potrebbe dire? Implorare pietà sarebbe
del tutto inutile. L’uomo
sorride, un sorriso quasi feroce, e aggiunge: - Ma
hai una possibilità di guadagnarti la libertà. Alessandro
corruga la fronte. C’è davvero una speranza? O vogliono illuderlo, per
crudeltà, per spezzarlo? L’uomo
prosegue: - Potresti
fuggire, questa notte. Qualcuno potrebbe tagliare in parte le corde che ti
legano le mani e fornirti un pugnale. Quando il carceriere passerà, dopo che
il padre confessore avrà cercato di indurti a chiedere perdono per i tuoi
peccati, potresti uccidere il carceriere e fuggire. Uscire dalla prigione nel
cuore della notte non è difficile, perché rimane solo il carceriere e una
volta che lui è morto… L’uomo
prosegue. Spiega come uscire dalla città, dove trovare un cavallo, dove
dirigersi: tutto è molto chiaro, preciso e dettagliato; le informazioni
essenziali vengono ripetute. Alessandro ascolta, senza dire nulla. L’uomo sta
parlando sul serio? Gli sta davvero offrendo un’ancora di salvezza? Perché? -
Che ne dici? Alessandro
ha deciso di stare al gioco. Non vuole illudersi, ma non vuole nemmeno
rinunciare all’ancora di salvezza che forse gli viene offerta. Risponde: - Mi
piacerebbe ritrovarmi fuori di qui. -
Certo. Nessuno ha voglia di finire arrosto. Ma ti stai chiedendo perché mai
qualcuno, di cui non saprai mai il nome, potrebbe aiutarti a scappare. -
Sì, è così. -
Naturalmente c’è un prezzo da pagare. Un altro rogo al posto del tuo. Un
grande rogo, che attirerà molta più gente di quella che già questa sera
affluirà in piazza per assistere alla tua fine domani. Alessandro
non capisce. Non conosce nessuno nel Regno di Gerusalemme. Chi potrebbe
perdere? Che cosa ha in mente quest’uomo? -
Ditemi. L’uomo
illustra dettagliatamente il piano. Poi conclude dicendo, con un tono
minaccioso: - Bada,
se accetti, non hai più nessuna possibilità di tirarti indietro. In un modo o
nell’altro ti raggiungeremmo, non ci sfuggiresti neppure se scappassi a
Bagdad: abbiamo i nostri uomini anche là. Che cosa decidi di fare? Alessandro
ha sentito parlare del conte Ferdinando. Di lui si dice che è un guerriero
coraggioso e leale, ma anche un grande peccatore. Pare che sia un Ercole e
che abbia il cazzo più grosso della Terrasanta. La vita del conte per la
propria. Perché no? Una partita mortale, che potrà concludersi con la
salvezza per Alessandro o con la sua morte. In ogni caso, rifiutare non
avrebbe senso. Meglio uscire da questa fetida cella, per morire c’è sempre
tempo. -
Accetto. L’uomo
annuisce. - È
tutto chiaro quello che ti ho spiegato? Non c’è spazio per errori. -
Sì, è tutto chiaro. L’uomo
ghigna e dice. -
Tra poco ti taglierò le corde e ti darò il pugnale. Ma prima… con il conte
dovrai saperti dare da fare. Voglio vedere come te la cavi. Il
senso delle parole viene chiarito dal gesto con cui l’uomo si toglie la
tunica e si cala i pantaloni, mettendo in mostra un cazzo formidabile. -
Mettiti al lavoro. Alessandro
non si aspettava la richiesta. Scopare non gli dispiace: pensava che non
avrebbe mai più avuto occasione di farlo. Si inginocchia e guarda l’arma tesa
a una spanna davanti alla sua bocca. L’effetto di questo magnifico arnese è
dirompente: Alessandro sente il sangue affluire al cazzo. Avvicina la bocca e
prende tra le labbra il boccone che gli si offre. Alessandro
succhia e lecca, mentre il suo cazzo si tende. L’arma è davvero eccezionale
per lunghezza e soprattutto per volume. Dopo
pochi minuti, l’uomo dice: -
Bene, adesso il culo. Alessandro
guarda il cazzo, teso verso l’alto, duro come una pietra. Non sarà facile
accoglierlo. Ishaq era ben dotato, ma quest’uomo lo batte. Alessandro
si alza. L’uomo gli abbassa i pantaloni e lo forza a piegarsi in avanti.
Sputa sul buco del culo, sparge la saliva e poi infilza Alessandro. Il
dolore è violento. Ad Alessandro sfugge un: -
Merda! -
Non ti lamentare. Dicono che il conte abbia il cazzo più grosso della
Terrasanta. E il tuo culo lo gusterà un po’ di volte, se tutto va come deve. L’uomo
ride. Cavalca con foga e Alessandro sente fitte acute, ma il piacere diventa
più intenso. Quando l’uomo accelera il ritmo e le spinte diventano più
intense, Alessandro geme, forte, mentre il piacere deborda e il seme
dell’uomo gli si sparge nelle viscere. L’uomo
si ritrae. Gli tira su i pantaloni, poi estrae un coltello, con cui incide le
corde, senza tagliarle completamente. -
Basta tirare con forza e cederanno. Il coltello lo metto qui, sotto la
paglia. L’uomo
prende la torcia e se ne va. La cella ripiomba nel buio. Alessandro cerca con
le mani il pugnale. Ne sente la lama, fredda, dura. Vorrebbe liberare le mani
ora, ma se lo facesse, qualcuno se ne accorgerebbe. Jorge
da Toledo è soddisfatto. L’eretico è la persona giusta per realizzare il
piano. A Jorge poco interessano i giochi di potere del barone e del vescovo e
non gli importa nulla di Ferdinando di Siracusa, ma sa che è utile farsi
degli alleati. Potrebbe avvertire Ferdinando e guadagnarsi la sua
riconoscenza, ma il conte non è un alleato utile: è troppo grezzo, poco
capace di muoversi tra gli intrighi di palazzo. Il duca di Rougegarde è molto
più abile, ma Jorge sa che con lui non ha molte possibilità di intesa: sono
troppo diversi. E allora è meglio perdere il conte e cercare di compromettere
la posizione del duca. Più
tardi Alessandro riceve la visita del confessore. Mantiene lo stesso atteggiamento
che ha avuto nelle settimane precedenti, rifiutando di accondiscendere alle
sue richieste. C’è una certa baldanza nel suo atteggiamento, ora. Questa
notte fuggirà. Forse il piano non funzionerà e troverà la morte, ma meglio
morire ucciso da un colpo di spada mentre cerca di fuggire che bruciato vivo
sul rogo. Il confessore se ne va, scuro in volto. Non ha ottenuto
nulla. Questo eretico sodomita non si è pentito. Il carceriere Mathieu
accompagna alla porta della prigione il sacerdote, si inchina umilmente e poi
lo guarda allontanarsi e scomparire. Finalmente si è tolto dai coglioni! Mathieu disprezza il
confessore e tutta la genia di sacerdoti e cavalieri della fede, siano essi
templari o ospedalieri. Ma deve mostrarsi ossequioso, perché sono loro a
comandare in città. Sono culo e camicia con il barone Renaud. Mathieu deve fare attenzione: in questo periodo il barone ce
l’ha con lui e ha minacciato di licenziarlo, perché di recente un prigioniero
è riuscito a evadere dalla prigione. Mathieu ha affermato la sua totale
estraneità alla fuga, sostenendo che il prigioniero deve essere stato aiutato
da qualche complice all’esterno. In realtà Mathieu si è lasciato corrompere per farlo
scappare e il barone lo sospetta. E poi ci sono vecchie storie. Mathieu sa
benissimo di non essere sempre stato scrupoloso nel suo lavoro, ma qualche
soldo in più non guasta e quando serve Mathieu è disposto a chiudere un
occhio o anche due. Ma il barone non è uomo da accettare che un suo servitore
si faccia i propri interessi. Mathieu non può mettersi contro anche gli
uomini di Chiesa e quel fottuto vescovo, che Iddio gli mandi tutte le
malattie di questo mondo e anche qualcuna dell’altro, visto che può. Mathieu è impaziente, da giorni aspetta questo momento. Ora
il prigioniero è nelle sue mani. Domani mattina il boia lo prenderà
direttamente in consegna e lo brucerà in piazza. Da adesso al momento in cui
salirà al rogo, l’eretico non vedrà più nessuno. Mathieu chiude la porta che dà sulla strada, prende una
lanterna e scende lungo le scale che portano nei sotterranei, poi percorre il
corridoio in cui si trovano le celle. Apre la seconda, quella in cui quel
sodomita impenitente ha trascorso l’ultimo mese della sua vita, tra
interrogatori ed umiliazioni. Ha confessato, ma non si è pentito: si direbbe
quasi che sia orgoglioso delle sue colpe. La cella è buia e il tanfo di sudore, piscio e merda prende
alla gola, ma Mathieu ci è abituato: le celle nei sotterranei sono così, non
hanno finestre, non hanno ventilazione. Mathieu guarda Alessandro, seduto sulla paglia lercia della
cella. Guarda il cranio che gli inquisitori hanno rasato alla ricerca del
segno del demonio, guarda il torace, forte e muscoloso, le braccia robuste. E
la tensione sale dai suoi coglioni, il cazzo gli diventa una lama d’acciaio.
È oltre un mese che lo desidera, da quando lo hanno portato nella prigione.
Ma prima non era possibile fotterlo, questo figlio di puttana avrebbe potuto
denunciarlo e trascinarlo con lui sul rogo. Ora non ci sono più rischi. Alessandro lo guarda e la luce della lanterna si riflette
nei suoi occhi. È davvero un seguace del diavolo, questo bastardo, ma neppure
Satana in persona riuscirà a salvarlo. Il carceriere si avvicina. Posa la
lanterna sul tavolo. - Alzati. Alessandro obbedisce. Non ha mai opposto resistenza, sembra
che non gli importi di nulla. - Voltati. Alessandro si volta e il carceriere guarda il dorso
dell’eretico. Il desiderio arde dentro di lui, feroce ed implacabile. Il
prigioniero è docile. Forse sarà un po’ meno docile quando glielo metterà in
culo, ma non potrà farci niente. Mathieu afferra i pantaloni dell’uomo, l’unico suo
indumento, e li abbassa. Guarda il culo, muscoloso e stretto, che gli si
offre. Gli sembra di essere sul punto di venire. Spinge violentemente Alessandro
sulla paglia, gli allarga le gambe. Con le forti mani gli stringe il culo, lo
apre. Fissa l’apertura che tra poco forzerà e di nuovo il desiderio preme,
gli toglie il fiato. Si alza, si sfila la tunica ed i pantaloni. Sorride. Si
guarda il grande cazzo teso, perfettamente verticale, che batte contro il
ventre nero di peli. Con un dito sfiora appena la cappella rosso fuoco, su
cui brilla una goccia di sborro. Si accarezza i coglioni, voluminosi e
coperti da una peluria scura. Ride della propria forza. Tra poco questo
sodomita sentirà che cos’è il cazzo di un vero maschio. Mathieu ha poche occasioni di scopare: il suo viso deturpato
ispira orrore. Tempo fa un giovane che si prostituiva ha rifiutato quello che
Mathieu gli offriva, assai più di quanto abitualmente richiedeva. Ma i
prigionieri condannati a morte non hanno scelta. Mathieu si inginocchia tra le gambe divaricate di
Alessandro, nuovamente le sue mani afferrano il culo e lo stringono con
forza. Poi Mathieu fa cadere un po’ di saliva sul buco del culo, accosta la
cappella e, con un movimento ininterrotto, entra e spinge fino in fondo, fino
a che i suoi coglioni battono contro il culo del prigioniero. Sente la
tensione del corpo sotto il suo, il guizzo con cui l’uomo vorrebbe sfuggire e
nuovamente ride della propria forza. Aspetta un momento, perché vuole gustare il piacere intenso
che sta provando, il calore di questo culo caldo che avvolge il suo cazzo
come una guaina, il corpo forte steso sotto il suo, un corpo che lui sta
violando e possedendo. Ma il desiderio preme ed il carceriere arretra il
culo, fino a che il suo cazzo non esce completamente, poi lo infilza
nuovamente, perché vuole sentire vibrare di dolore la carne che trapassa.
Prende a spingere, con violenza, avanti e indietro, più volte. Il ritmo delle
spinte accelera, ondate di piacere crescono, fino a riempire tutto il corpo,
poi s’infrangono, una dopo l’altra, con un fragore immenso, che lo stordisce.
Lo sborro riempie il culo del prigioniero e le mani di Mathieu stringono il
culo di Alessandro con tanta forza da lasciare lividi bluastri. Mathieu si abbandona sul corpo che ha posseduto, ansimante.
Il piacere lo ha stordito. Gli sembra di non aver mai goduto tanto. Aspetta
che il respiro diventi meno affannoso. Ha soddisfatto il suo bisogno, ma non è sazio. Dentro il
culo del prigioniero il suo cazzo riprende volume e consistenza. Mathieu si
ritrae, si alza. - Voltati, finocchio. Alessandro si gira sulla schiena e lo fissa. Ha il cazzo
duro, ma il suo viso è impassibile. - Ti è piaciuto, eh, finocchio? Alessandro tace, ma Mathieu non aspetta una risposta. Vuole
fottere di nuovo, vuole fottere questo bel culo e vuole vedere la faccia del
prigioniero mentre gli viene dentro. Si mette in ginocchio, prende le gambe di Alessandro. Sono
gambe muscolose, coperte da una peluria leggera. Mathieu se le mette sulle
spalle, costringendo Alessandro a sollevare il culo. - Adesso ti gusti di nuovo questo grosso cazzo che ti piace
tanto. Alessandro ha ancora il cazzo duro e Mathieu lo guarda,
ghignando. Anche il suo cazzo è di nuovo rigido e il desiderio incalza. Avvicina la cappella al buco, da cui cola un po’ di sborro.
Di nuovo entra con un colpo secco e legge la tensione sulla faccia del
prigioniero. Abbassa la testa e fissa con attenzione gli occhi impassibili,
che ricambiano lo sguardo, senza mostrare paura. Poi incomincia a spingere. Questa volta il piacere è una brezza, che soffia leggera, e
solo lentamente diventa un vento forte, uno scirocco che investe tutto il suo
corpo, lo tende allo spasimo e poi lo trascina via, in un vortice tanto
violento da fargli dimenticare dove si trova. La vista gli si annebbia e dai
coglioni di nuovo il piacere sale, spietato. Mathieu chiude gli occhi, il
cuore corre veloce, il fiato gli manca. Il dolore violento alla schiena lo riscuote. Spalanca gli
occhi e gli ci vuole un attimo prima di capire. Alessandro ha le braccia
libere. Questo bastardo è riuscito a slegarsi. Lo ha colpito alla schiena. Un
pugnale, sicuramente. Mathieu sente che le forze gli mancano. Ora Alessandro gli stringe il collo con forza. Le mani di
Mathieu si poggiano sulle braccia del suo assassino, cercano di allontanarle,
di spezzare la morsa che gli chiude la gola e gli toglie il respiro, gli
incendia il petto e gli offusca la vista. Tira disperatamente, ma ormai non ha più forze, vede ancora
balenare il sorriso di Alessandro, sì, ora questo figlio di puttana sorride.
Il viso del prigioniero scompare, il fuoco che divampa nei polmoni gli arde
in gola. Mathieu perde il controllo degli sfinteri, il suo corpo si affloscia
e solo le mani di Alessandro ancora lo sostengono. Alessandro stringe ancora con le dita. Sa che ormai regge un
cadavere, ma non può mollare la presa, perché ora è il suo corpo ad essere
percorso da un’onda di piacere intensissimo, che sale dal culo e dai coglioni
e poi sgorga dal suo cazzo, violenta ed indomabile. Di colpo esausto, Alessandro lascia cadere le braccia e il
corpo pesante del carceriere si affloscia sul suo. Chiude gli occhi. È stato
un piacere nuovo, sconvolgente. Uccidere l’uomo che lo stava fottendo e
godere. Alessandro rimane a lungo immobile, poi si riscuote. Fa
scivolare di lato il cadavere. Si alza. Fissa il corpo del carceriere. Poi si
infila i pantaloni, prende la tunica del morto e la indossa. È troppo larga,
ma non può girare per la città a torso nudo, anche se ormai è buio. Recupera
il coltello che ha piantato nella schiena di Mathieu. Nella camera del carceriere prende una bisaccia con un po’
di cibo e di acqua. È tutto quello che gli può servire. Poi apre con cautela
la porta e scivola in strada. È notte. Sa come uscire dalla città senza farsi
sorprendere, anche se le porte sono chiuse: gli hanno spiegato come fare. Raggiunge le mura, in un tratto vicino al palazzo del
barone. Ci sono due sentinelle alla base della scala che porta sugli spalti,
ma un ufficiale scende e si mette a parlare con loro mentre si dirige verso
una delle porte della città. I due uomini sono costretti a seguirlo,
allontanandosi un po’. Tutto si sta svolgendo come previsto. Alessandro sale
fino al cammino di ronda. Qui trova la corda che l’ufficiale ha messo. La
lega e si cala lungo le mura. È quasi alla fine della corda quando infine i
suoi piedi toccano terra. Alessandro si volta e, alla luce fioca delle
stelle, si muove verso la borgata dove, al luogo convenuto, lo aspetta un
cavallo. Alessandro slega la briglia e sale. Domani mattina, quando verranno
a prenderlo per bruciarlo vivo, sarà già lontano. Ora che la fuga è riuscita, ora che è davvero libero,
Alessandro si ferma a riflettere un momento. Potrebbe dirigersi verso i territori saraceni: nonostante le
minacce ricevute, non correrebbe molti rischi. I franchi hanno una rete di
spie, ma spingendosi più verso oriente Alessandro potrebbe sfuggire loro.
Oppure potrebbe cercare di nascondersi in qualche città del regno e poi
imbarcarsi e tornare in Italia. Ma il compito che gli è stato affidato non
gli dispiace e riuscire a eseguirlo gli darebbe i mezzi per vivere per
parecchio tempo, invece di ricominciare a vagare sperando di trovare un
lavoro e di sfuggire a chi lo cerca. Come convenuto, si dirige verso la valle dell’Arram, che è
territorio del conte Ferdinando. Percorrerà gran parte della strada a
cavallo, poi lascerà l’animale e proseguirà a piedi, in modo da non dover
giustificare il possesso di un cavallo. L’indomani mattina i soldati che sono venuti a prendere il
prigioniero per accompagnarlo al rogo trovano la porta del carcere accostata,
ma non chiusa a chiave. Entrano, ma nessuno risponde quando chiamano il carceriere.
Scendono nei sotterranei. La porta della cella dell’eretico è aperta. Il
locale è immerso nell’oscurità, ma sul pavimento si scorge un corpo immobile.
Un soldato va a prendere una lanterna e l’accende: il cadavere è quello del
carceriere Mathieu, nudo, il cazzo ancora gonfio di sangue e sporco di merda
e sborro. - Lo ha ammazzato mentre scopavano. L’ufficiale si china sul morto e osserva il collo. - Lo ha strangolato, ma c’è parecchio sangue. Volta il corpo. Sulla schiena appare la ferita. - Si dev’essere procurato un’arma. Lo ha pugnalato. Il
barone sarà furibondo. E il vescovo pure. Siamo nella merda. - Non è mica colpa nostra, se questo coglione ha deciso di
fotterlo ed è stato fottuto. Il soldato che ha fatto la battuta ride. L’ufficiale gli
lancia un’occhiataccia, ma poi sorride anche lui: tutto sommato il soldato ha
ragione; non era compito loro sorvegliare il prigioniero. - Speriamo solo che non fottano anche noi. Il barone viene avvisato subito. Appare furibondo. Minaccia
punizioni per tutti. Scende a vedere il cadavere. Guarda il corpo di Mathieu
e per un attimo sembra quasi che un vago sorriso compaia sul suo volto. Il
carceriere ha avuto quello che si meritava. Dà ordini perché gli uomini si
mettano alla ricerca dell’assassino, che non può aver lasciato la città nella
notte. Se è uscito quando hanno aperto le porte, non ha di certo fatto molta
strada. Bisogna trovarlo. La folla che attende l’esecuzione è delusa quando scopre che
il condannato è scappato: niente spettacolo, oggi. Quelli che per avere un
buon posto sono andati in piazza quando era ancora buio sono furenti.
Mugugnando, tutti tornano alle loro occupazioni. È l’alba ed il conte Ferdinando cavalca con due servitori. I
cani seguono le tracce di un cervo e la caccia si preannuncia fruttuosa. Ora latrano furiosi, ma quando il conte arriva alla radura
dove la muta si è fermata, non c’è traccia della preda. Ai piedi di un albero
è seduto un uomo, immobile. Il conte guarda i capelli rasati del giovane e
immediatamente capisce di chi si tratta: da alcuni giorni gli hanno segnalato
che nella sua contea si aggira un eretico, fuggito dal carcere il giorno
prima dell’esecuzione. Alcuni lo hanno avvistato, da lontano; pare che si sia
avvicinato ad una casa isolata per comprare un po’ di cibo. Probabilmente si
è rifugiato nella contea perché sa che nelle terre di Ferdinando gli sbirri
del vescovo non sono i benvenuti. Ma questo non significa nulla: il conte può
riconsegnarlo alle autorità religiose, se vuole; non ha motivi per
proteggerlo. Ferdinando ferma il cavallo e guarda il giovane. È un
bell’uomo, ha un corpo elegante e vigoroso. Il conte lo fissa, senza dire nulla, poi si rivolge ai suoi
due servitori: - Portate via i cani e proseguite, io vi raggiungo dopo. I due ubbidiscono e la muta si allontana, riprendendo a
cercare le tracce del cervo. Alessandro si alza, senza dire nulla. Guarda Ferdinando. Il
conte è un uomo robusto e massiccio, possente, con barba e capelli neri con
pochi fili bianchi. Ora lo fissa con gli occhi scuri. Alessandro è turbato.
Non è paura, no, non è questo che prova, anche se sa che è entrato in un
gioco fatale, che può concludersi solo con la morte, sua o del conte o forse
di entrambi. È un’altra sensazione, molto forte, che sale dal ventre. Ferdinando scende da cavallo e lo fissa negli occhi. - Tu sei quello che cercano, l’assassino del carceriere di
San Giacomo d’Afrin. Alessandro non dice nulla. I capelli rasati renderebbero
inutile cercare di negare e in ogni caso non ha motivo per mentire: è
opportuno che Ferdinando sappia chi è, in modo che non diffidi di lui. - Assassino, eretico, sodomita e pure un gran bel maschio.
Porcoddio! Che cosa pretendere di più? Il conte scoppia a ridere. Alessandro non ha distolto gli
occhi da lui. - Fammi vedere le tue mani. Alessandro tende le braccia. Il conte le prende tra le
proprie mani. Ha mani forti, grandi, il dorso coperto da un pelame scuro. - Sì, c’è forza in queste mani. Hai fatto bene a
strangolarlo, ragazzo. È quello che bisognerebbe fare a tutti quei bastardi,
dal vescovo all’ultimo dei suoi servi. Ferdinando ride di nuovo, ma non gli lascia le braccia. Lo
fissa negli occhi. Alessandro è turbato, ma non abbassa lo sguardo, non ne è
capace, quel viso che lo scruta lo attira a sé. - È vero che l’hai strozzato mentre scopavate? Alessandro ritrova la voce. - Sì. Ferdinando ride ancora, poi ritorna serio. Annuisce: è
soddisfatto della risposta. Gli piace pensare che quest’uomo ha ucciso il
carceriere con le proprie mani. - Ti è piaciuto farlo? Alessandro guarda il conte. Ripensa alla notte in cui ha
ucciso il carceriere, alle sensazioni violente che ha provato. - Sì. Ferdinando sorride. - Anche a me piace uccidere. È bello. Mi piace uccidere con il
coltello, sentire il suono della lama che entra nella carne. Porcoddio! Me lo
fa venire duro. Ma anche uccidere con le mani è bello. Ferdinando ride. Alessandro è sempre più turbato. Gli sembra
di non essere in grado di ragionare, di rispondere. I pensieri e le parole
gli si aggrovigliano. Le due mani del conte si uniscono per avvolgere la destra di
Alessandro, la accarezzano. Poi Ferdinando tende un braccio e di colpo con la
sinistra stringe la gola di Alessandro. Non gli blocca il respiro, lo rende
solo un po’ più difficile. - Si può fare anche con una mano sola. Alessandro rimane immobile. Si lascerebbe strangolare senza
difendersi. Non riesce a reagire. Forse vorrebbe che il conte stringesse,
fino alla fine. Che cosa gli sta succedendo? Deve scuotersi. Ferdinando toglie la mano, gli si avvicina, prende
Alessandro e lo fa girare su se stesso, preme il suo corpo contro quello di
Alessandro, lo avvolge tra le sue braccia. Finalmente Alessandro non ha più davanti a sé quel viso, ma
la tensione che avvertiva non è diminuita: è invece cresciuta. Ora è
prigioniero di due braccia vigorose, che lo stringono. Non pensa nulla, solo
che è bello stare così, stretto contro quel corpo possente. Ne sente l’odore
di sudore. Ne avverte la forza erculea. - Hai voglia di scopare, ragazzo? Alessandro ha la gola secca, non riesce a parlare. Si limita
ad annuire. E gli sembra che le gambe cedano, che solo quelle braccia potenti
gli impediscano di cadere. Il conte gli sfila la tunica, gli cala i pantaloni. Guarda
la sua preda. Il cervo può andare a farsi fottere. Lui ha solo voglia di
fottere e questo bel culo che le sue mani pizzicano è esattamente quello che
vuole. Alessandro si sente perduto. Non è il timore per ciò che sta
per accadere: lo desidera, non meno del conte. Non è il dubbio su ciò che
accadrà dopo, quando l’uomo che gli stringe il culo si sarà preso il suo
piacere: il gioco mortale che inizierà non lo spaventa. È una sensazione
inattesa e molto più forte, più violenta perfino del desiderio che monta
feroce, che gli tende il cazzo e lo fa vacillare. È la certezza di essere
perduto, perché nelle mani del conte Alessandro non ha più una volontà
propria. Il conte si è inginocchiato dietro di lui. Alessandro non
capisce, poi sente una carezza umida che scorre lungo la fenditura ed indugia
sull’apertura. Alessandro ha la gola secca, gli sembra che sulla radura sia
calata una fitta nebbia, non sa più che cosa c’è intorno a lui, non vede più
nulla, non sente i rumori della foresta, non avverte la frescura dell’aria
del mattino. Esiste solo quella lingua che accarezza e che ora il conte
spinge a fondo, violando l’apertura. Ferdinando sente che il corpo di Alessandro vibra, teso allo
spasimo. E allora le sue mani lo guidano a stendersi a terra, le gambe
aperte, per offrire al signore la sua preda. Alessandro scivola al suolo,
sorretto dalle braccia forti del conte, ma la sua sensazione è quella di
precipitare in un baratro, una caduta senza fine in un pozzo oscuro come
l’interno del suo corpo, come quella cavità che la lingua nuovamente sta
invadendo. Ferdinando si stende sul giovane. Il desiderio scalpita,
come un puledro impaziente, ma il momento è troppo intenso per lasciare che a
condurre sia un cavaliere inesperto. Questo corpo sotto il suo gli trasmette
mille sensazioni di piacere e ogni lembo di pelle cerca questo contatto
inebriante. Ferdinando stringe il culo, accarezza i fianchi, afferra
Alessandro sotto le ascelle, gli passa la mano ruvida sulla testa rasata, gli
morde il collo, una spalla. Il desiderio cresce, è una montagna che incombe su di lui e
lo schiaccia, costringendolo a cercare rifugio all’interno di quel corpo che
ora lo accoglie con un sussulto ed un gemito strozzato. Ferdinando è entrato da trionfatore, senza pietà per l’uomo
abbattuto, che non è in grado di opporre resistenza, che null’altro desidera
che questa presenza massiccia e implacabile, che avverte sempre più a fondo. Il conte si ritrae e poi avanza di nuovo, in un movimento
lento, ma inesorabile, che strappa ad Alessandro gemiti di piacere. Dalle sue
viscere sale un dolore violento, la sofferenza della carne forzata, che
fatica ad adattarsi ad un padrone tanto forte e possente. Ma il tormento
accresce il piacere che sale impetuoso e si diffonde in tutto il corpo,
riempiendo il cazzo teso e il culo dilaniato. A lungo il conte avanza ed arretra e a ogni incursione il
nemico si sbanda, incapace di difendersi, e ogni volta la strage è più grande
e terribile. Ferdinando sente di aver raramente goduto come ora ed Alessandro
dice la stessa cosa con i suoi gemiti, sempre più forti. La violenza del piacere sale ancora, come l’acqua che cresce
e preme contro la diga, crea una falla e infine sfonda la muraglia. Una
cascata si rovescia impetuosa oltre le macerie, travolgendo tutto ciò che
incontra. E allora Alessandro urla, un grido che prorompe dalle sue
viscere, gli riempie i polmoni e la gola e si proietta fuori, incontenibile,
come incontenibile è il seme che sgorga dal suo cazzo e si sparge al suolo.
Un urlo selvaggio, di piacere, che avvolge il dolore, di trionfo e di
sottomissione totale. E al grido di Alessandro fa eco un suono sordo, quasi
un grugnito, del conte, che gli riempie il culo del suo seme. Ferdinando si abbandona sul corpo di Alessandro, ancora
preda della vertigine di piacere che lo trascina verso il fondo. Null’altro
vuole al mondo Alessandro che questo corpo che preme sul suo, questo cazzo
ancora turgido dentro il suo culo, queste mani che lo stringono con tanta
forza da fargli male. Null’altro avrà, nelle ore che seguono, perché entrambi
non sono sazi. Solo quando il sole è ormai alto in cielo, il conte e
Alessandro sciolgono il loro abbraccio. Ferdinando fa salire il giovane sul
suo cavallo davanti a sé ed insieme si dirigono al castello. Alessandro è turbato, confuso. Aveva sentito parlare del
conte, del suo vigore, dei suoi desideri sfrenati, della sua virilità. Ma non
si aspettava l’intensità della propria reazione. Il dolore al culo è
violento, cavalcare gli provoca fitte, ma Alessandro si sente appagato. Mentre cavalcano verso il palazzo del conte, Alessandro si
pone domande. Potrebbe raccontare a Ferdinando il vero motivo per cui si è
diretto nelle sue terre, il patto con il diavolo che ha stretto: il conte lo
aiuterebbe ad allontanarsi dalla Terrasanta e raggiungere l’Italia. Ma l’uomo che gli ha dato il pugnale ha parlato di una
grossa ricompensa, che gli garantirebbe una sicurezza per il futuro. E
Alessandro sa bene che non può rimanere presso Ferdinando senza rispettare
l’impegno preso: gliela farebbero pagare. Alessandro è stato condannato a
morte per sodomia ed eresia e per di più ha commesso un omicidio per evadere
dal carcere. Il re costringerebbe il conte a consegnarlo ai suoi carnefici. C’è tempo per pensarci: un mese, prima che la trappola
scatti. Alessandro sente il corpo di Ferdinando dietro il suo. Un
braccio del conte gli passa intorno alla vita, lo attira a sé. Contro il culo
Alessandro sente il formidabile cazzo di Ferdinando, nuovamente rigido.
Attraverso la stoffa la mano del conte afferra brutale il cazzo e i coglioni
di Alessandro. Ferdinando ride, la sua risata aspra, e dice: - A portare due persone, il cavallo si stanca. Ci fermiamo
un momento. Non chiede: Ferdinando non è abituato a chiedere. Ride di
nuovo. Ferma il cavallo. Scendono. Ferdinando lascia il cavallo libero di
brucare. Spinge Alessandro contro un albero, gli solleva la tunica e gli
abbassa i pantaloni. L’ingresso è brutale, il dolore è violento, anche se
l’apertura è stata ampiamente lubrificata nel corso della mattinata ed è
ancora dilatata. Alessandro chiude gli occhi e geme. Ferdinando lo fotte
nuovamente con energia: è la quarta volta. Ferdinando ci dà dentro e quando infine viene, si abbandona
contro il corpo di Alessandro. - Porcoddio, ragazzo! Il tuo culo è una meraviglia. Ferdinando ride di nuovo. Risalgono a cavallo. Alessandro ha
male al culo, parecchio. Il palazzo di Ferdinando era la residenza estiva dello
sceicco di al-Hamra, che Denis ha conquistato, dandole il nome di Rougegarde.
Alessandro guarda ammirato la lussuosa abitazione: non ha mai avuto modo di
entrare in un palazzo signorile. Per quanto Ishaq fosse benestante e avesse
una bella casa a Damasco e un’altra nella Ghuta, non c’è confronto con il
sontuoso palazzo del conte. La ricchezza dei materiali usati nella
costruzione, le decorazioni eleganti, l’arredamento sontuoso, il tripudio di
piccoli giardini interni con fontane e giochi d’acqua: tutto crea un ambiente
raffinato, che contrasta con la rozza brutalità del suo attuale proprietario. Ferdinando lo conduce al bagno. Alessandro è contento di
potersi lavare, dopo giorni in cui si è potuto bagnare solo nei torrenti e ha
portato sempre gli stessi indumenti. Mentre si lava, contempla il conte che
si sta immergendo nell’acqua. Alto, massiccio, un vero Ercole, un cazzo come
Alessandro non ha mai visto, due coglioni che sono piccole mele, una peluria
abbondante che copre buona parte del corpo, le numerose cicatrici lasciate
dalle battaglie e dalle partire di caccia. Non è bello, tutt’altro, ma è il
maschio più virile che Alessandro abbia mai visto. Ferdinando si siede nell’acqua calda. - Porcoddio, che bello! Ci passerei la giornata. Alessandro annuisce. Anche lui si immerge nella vasca. La
sensazione di tepore è piacevolissima. Ferdinando prende alcuni dolci di miele e mandorle che un
servitore ha posato accanto alla vasca. Li mangia, poi si lecca le dita.
Svuota d’un fiato una coppa di vino. Rutta e si abbandona soddisfatto al
piacere del bagno. Anche Alessandro prende dal piatto due dolci e poi beve un
sorso di vino. Guarda il conte e il pensiero va al suo padrone. C’è un abisso
tra Ishaq e Ferdinando. Ishaq era un uomo istruito, un filosofo e un poeta,
che amava i piaceri della carne e non si negava nulla, ma aveva anche nei
giochi dell’amore una naturale eleganza. Ferdinando è un animale, dotato di
grande forza e di un’energia inesauribile, ma rozzo. Uno di quegli uomini che
si lasciano guidare completamente dal desiderio. Alessandro si rende conto
che in qualche modo disprezza il conte, ma l’attrazione che prova per lui a
livello fisico è fortissima. Amava Ishaq, ma come maschio Ferdinando lo
attrae più di tutti gli altri uomini che ha incontrato. Dopo il bagno, Ferdinando e Alessandro passano nella camera
vicina, dove si trovano due tavolacci. Un servitore è seduto a terra e si
alza all’ingresso del conte. - Questo è Ghassan, che fa i mass. Sai che cos’è un mass? Alessandro sorride. - Certo. Sono stato a lungo schiavo dei saraceni e il mio
padrone si faceva fare i mass. Ferdinando sorride. - Me li ha fatti scoprire un amico. Porcoddio, che
meraviglia! Ferdinando si stende a pancia in giù su uno dei due tavoli.
Ghassan si versa sulle mani un po’ di olio e incomincia a massaggiarlo. Alessandro guarda il corpo del conte. Di nuovo ritorna il
pensiero di un animale, ma di un magnifico animale. Ghassan procede a lungo.
Alessandro nota che insiste molto sul culo di Ferdinando, passando le dita
anche lungo il solco e stuzzicando l’apertura. Il conte se lo farà mettere in
culo? Da una parte ad Alessandro appare troppo maschio per farlo, dall’altra
gli sembra che un uomo così non arretri davanti a nulla. Quando Ghassan fa voltare Ferdinando, Alessandro vede che ha
il cazzo duro. Non è possibile! Il conte è venuto quattro volte ed è nuovamente
eccitato. Ghassan prosegue con il massaggio: prima le braccia, poi il
collo, il torace, il ventre. Le mani accarezzano il cazzo e i coglioni, poi
scendono lungo le gambe e quando risalgono nuovamente toccano il sesso teso.
Ora Ghassan lavora sul torace e sul ventre, indugiando ogni volta più a lungo
sul cazzo, finché Ferdinando spalanca la bocca e dal cazzo un po’ di sborro
scende sul ventre. Ferdinando chiude gli occhi, soddisfatto. Ghassan pulisce con uno straccio umido il conte, poi fa
cenno ad Alessandro di stendersi. Risentire le mani di un massaggiatore
esperto è bellissimo. Ad Alessandro non viene duro: in mattinata è venuto tre
volte e ora è sazio, ma le carezze sono piacevoli. La sera, all’ora di coricarsi, Ferdinando invita Alessandro
nel suo letto. Il giovane può così ammirare la camera: sulle pareti ci sono
diversi affreschi, che ritraggono il conte nudo, insieme ad altri maschi.
Ferdinando appare in tutta la sua forza. Se qualcuno entrasse nella camera
senza conoscere il conte, penserebbe certo che il pittore abbia esagerato per
adulare il committente, ma in questo caso la virilità esibita nel ritratto è
solo una fedele riproduzione della realtà. Ferdinando si stende e si addormenta immediatamente.
Alessandro può sentire il suo respiro pesante, che diventa un russare. Alessandro è stanco, ma non si addormenta subito. Pensa alla
giornata trascorsa, a quello che lo aspetta. La prima parte del piano ha
funzionato benissimo. Ha conosciuto Ferdinando ed è entrato nel suo letto.
Adesso, dopo aver destato il suo desiderio, dovrà conquistare la sua fiducia.
Ma le sensazioni che ha provato sono state fortissime. Quest’uomo che dorme
accanto a lui, il cui russare pesante riempie la stanza, lo attrae moltissimo
e a questo non era preparato. Il mattino Ferdinando si sveglia accanto ad Alessandro, che
dorme ancora. Lo scuote. - Hai sete? Alessandro è ancora intontito dal sonno e non capisce. - Sete? Ma… che cosa vuoi dire? Ferdinando ride. - Devo pisciare. Vuoi bere? - Perché no? Ferdinando si mette a sedere sul letto. Alessandro passa
dalla sua parte e si inginocchia davanti a lui. Il cazzo del conte non è del
tutto a riposo. Alessandro lo prende in bocca e Ferdinando incomincia a
pisciare. Il liquido caldo gli scende in gola. Alessandro beve. A un certo
punto un po’ di piscio gli va di traverso e lo fa tossire. Ferdinando si
ferma un momento, poi riprende. Quando il conte ha finito, Alessandro incomincia a succhiare
la cappella. A Ferdinando viene duro in fretta. Alessandro lavora a lungo con
la bocca, finché non sente in gola la scarica: il conte non la ha avvisato
che stava per venire. Alessandro inghiotte, poi lavora ancora un po’, finché
Ferdinando non lo forza ad allontanare la testa. Mentre fanno colazione, Ferdinando pone un po’ di domande ad
Alessandro, che racconta la sua vita. Non mente e non nasconde nulla, se non
per quanto riguarda l’ultimo giorno in prigione. Dice di essere riuscito a
rompere le corde e a prendere il coltello al carceriere. Così ha potuto
pugnalarlo e poi lo ha finito strangolandolo. Ferdinando non gli chiede
dettagli su come ha fatto a uscire dalla città nella notte. - Ti va di rimanere qui al palazzo, Alessandro? - Certo. - Se manderanno qualcuno a cercarti, dirò che non sei qui.
Ti nasconderò o ti aiuterò a scappare. Ora. Ora Alessandro potrebbe raccontare la verità e chiedere
davvero un aiuto per allontanarsi. Ma gli sembra che ormai sia tardi: avrebbe
dovuto farlo prima, quando Ferdinando gli ha chiesto come ha fatto a
scappare. Si limita a dire: - Grazie. - Tu sai l’arabo. Lo scrivi anche? - Sì, certo. - Perfetto. Io so qualche parola, ma solo il necessario per
farmi capire. Il mio segretario lo parla bene, ma non sa scriverlo. Direi che
qualcuno in grado di leggere e scrivere nella lingua dei saraceni può essere
utile. Ferdinando ride e aggiunge: - Porcoddio! Sei appena arrivato e ti ho già trovato un
lavoro. Poi ghigna e aggiunge: - Per il giorno. Per la notte ti chiedo altro. Ma mica solo
per la notte. Ferdinando ride di nuovo. Alessandro annuisce. Nel palazzo Alessandro ha piena libertà. Nei primi giorni
rimane molto con Ferdinando, che si serve di lui per fargli scrivere qualche
lettera in arabo e come traduttore. Il secondo giorno, un sabato, Alessandro assiste quando il
conte si occupa dell’amministrazione della giustizia, come avviene una volta
la settimana: a lui si rivolgono gli abitanti della contea per controversie
di diverso tipo, legate soprattutto alla terra. In quanto signore dell’Arram
tocca a Ferdinando decidere, ma in realtà il conte si limita ad assistere
alle udienze e di solito avvalla le proposte di Francesco, il suo segretario,
che conosce meglio le norme e le usanze locali. Il giorno seguente, la domenica, Ferdinando torna a caccia:
è il suo passatempo preferito, quando non è impegnato in guerra. Alessandro
non è mai andato a caccia, ma vede volentieri il conte all’opera. Inseguono
un cinghiale, che viene infine raggiunto dai cani. Ferdinando scende da cavallo, la lancia e il coltello in
mano. Ad Alessandro sembra un gesto temerario: i cinghiali sono pericolosi e
non è raro che uccidano chi li caccia. L’animale, accerchiato dai cani, si
fionda sul conte. Ferdinando lo attende senza arretrare e quando l’animale lo
ha quasi raggiunto lo colpisce con la lancia, che penetra a fondo nel corpo.
Il cinghiale lancia un grugnito di dolore e si abbatte al suolo, ma è ancora
vivo e si dimena, cercando di rialzarsi. Ferdinando gli si avvicina con il
coltello. Alessandro si dice nuovamente che il conte è pazzo: le zanne del
cinghiale possono uccidere. Ma Ferdinando non sembra aver paura. Si getta sul
cinghiale, stringendolo in un abbraccio mortale, e gli immerge il coltello in
pancia, più volte. Il cinghiale emette un suono acuto, muove ancora la testa
e poi si affloscia inerte. Ferdinando si alza. La tunica è tutta sporca di
sangue, il sudore gli scorre sul viso. Il rigonfio dei pantaloni rivela una
formidabile erezione. Uccidere lo ha eccitato. Quest’uomo è un animale, come
il cinghiale. Ma che animale! Ferdinando fischia e al suo segnale i cani si lanciano sulla
preda, azzannandola. Il conte guarda Alessandro. - Vieni con me. Alessandro scende da cavallo. I servitori prendono le due
cavalcature. Ferdinando mette una mano sulla spalla di Alessandro e lo porta
un po’ più in là. Lo spinge contro un albero dal tronco inclinato. Gli
abbassa i pantaloni e gli solleva un po’ la tunica. Sparge un po’ di saliva e
con lentezza gli spinge il cazzo in culo. Il dolore si rinnova e il piacere
lo avvolge. L’uno e l’altro crescono man mano che Ferdinando procede,
imprimendo al movimento un ritmo più rapido e spingendo più a fondo il suo
cazzo formidabile. Ferdinando passa una mano davanti, tra la corteccia e il
corpo di Alessandro, gli afferra il cazzo e muovendo la mano lo porta a
godere subito prima di venirgli in culo. Ferdinando si ritrae. Alessandro si volta, stordito come
sempre dal piacere che ha provato. Il cazzo di Ferdinando è un po’ sporco, ma
il conte non se ne preoccupa: si limita a pulirsi sommariamente. Poi piscia
contro un albero e si rassetta. La sera c’è un banchetto con alcuni degli uomini della sua
guardia personale e due guardacaccia. Si beve e si mangia in abbondanza, poi
Ferdinando invita tutti al bagno. Sul bordo della vasca gli uomini si
spogliano. Alessandro guarda affascinato questi corpi forti, che spesso hanno
le cicatrici di ferite. Non sono belli, questi maschi guerrieri, e come il
loro padrone sono spesso rozzi. Ma i loro gesti brutali, il loro linguaggio
sboccato, la loro virilità esibita senza pudore destano in Alessandro un’eco
profonda, più forte del disgusto che a volte prova di fronte a certi loro
comportamenti. Diversi degli uomini hanno già il cazzo mezzo duro. Lo
sguardo di Alessandro è attratto da Berto, un guardacaccia con un corpo
erculeo ed un cazzo taurino, già perfettamente teso. Una fitta peluria nera
gli ricopre tutto il corpo. È anche lui un animale, più ancora di Ferdinando.
Ferdinando ha notato l’interesse di Alessandro. Ride e dice: - Ti piace Berto, eh?! Alessandro sorride, incerto su come rispondere. Ferdinando
non sembra geloso all’idea che lui sia attratto da Berto. Ferdinando si rivolge a Berto: - Prendilo, se ti va. Ma fa’ attenzione a non spaccargli il
culo: me lo voglio gustare ancora parecchie volte. - Se ha retto la vostra mazza, signor conte, reggerà anche
la mia. Berto si volta verso Alessandro e gli fa un cenno con il
capo. Sembra una domanda. Alessandro annuisce. Berto gli mette le mani sulle spalle e lo fa inginocchiare. - Inumidiscilo bene, così entra più facilmente. Ride. L’odore è intenso e la pulizia è dubbia: di certo Berto non
si lava spesso. Ma Alessandro ama i gusti forti. Apre la bocca e avvolge la
cappella, incominciando a succhiare. Berto beve del vino, poi dice: - Staccati un momento. Alessandro esegue. Berto si riempie di nuovo la coppa, la
abbassa e vi immerge il cazzo e i coglioni. Alessandro ride e lecca il vino
che gocciola dalla cappella, poi passa la lingua sui coglioni e infine
riprende in bocca il cazzo, che sta ancora crescendo di volume. Berto si
versa ancora un po’ di vino sul ventre. Alessandro lecca. Intorno a loro anche gli altri uomini si danno da fare. Due soldati scherzano in acqua, lottando e stringendosi:
sono due maschi forti, completamente diversi l’uno dall’altro. Uno è alto,
capelli di un biondo rossiccio, occhi azzurri, spalle larghe e mani robuste;
l’altro è nettamente più basso, capelli e barba neri come la pece, occhi
scuri. La lotta diventa via via più serrata: ora davvero ognuno dei due vuole
avere il sopravvento. Gli altri li incoraggiano. I due si insultano e si
minacciano, ma senza acrimonia: - Ti spacco il culo, pezzo di merda! - Te lo faccio ingoiare tutto, Bastiano! Infine Sebastiano, il biondo, riesce a bloccare l’altro e
gli tiene la testa sott’acqua per un buon momento, finché questi non rinuncia
a resistere. Allora lo lascia riemergere. Antonio tossisce e sputa, poi dice: - Merda! Volevi farmi affogare? Sebastiano ride e risponde: - Appoggiati al bordo della vasca e non farmi perdere tempo,
Antonio. Antonio obbedisce, sputando ancora acqua. Sebastiano si mette dietro di lui e lo infilza senza tanti
complimenti. - Merda, Bastiano! Sebastiano fotte con gusto e vederlo al lavoro è un bello
spettacolo. Antonio sembra apprezzare e geme più volte. Sebastiano accelera
in movimento ed emette una specie di grugnito. La sua mano passa davanti e
afferra il cazzo di Antonio. La stretta dev’essere alquanto decisa, perché
Antonio ha una smorfia di dolore, ma poco dopo è il piacere a fargli aprire
la bocca ed emettere un gemito. Intanto Ferdinando sta pisciando in un calice e lo porge a
Rinaldo, che ride, lo porta alle labbra e beve. Poi si inginocchia davanti al
conte e incomincia a succhiargli il cazzo. Rinaldo si mette anche lui in
ginocchio e incomincia a mordere e leccare il culo di Ferdinando, facendo
scorrere la lingua lungo il solco. Alessandro prosegue con il suo lavoro, finché Berto non gli
dice di interrompere e lo fa stendere sui cuscini. Alessandro allarga bene le
gambe e Berto lo infilza lentamente. È un po’ doloroso, ma piacevole. Berto
fotte a lungo, mentre beve e scherza con gli altri. Il divertimento va avanti a lungo, finché non sono tutti
sazi. Alessandro è stanco: ormai è molto tardi. Ma guarda volentieri questi
corpi stesi sul bordo della vasca, le tracce di seme sulla barba o sul
ventre, i cazzi ancora gonfi di sangue, anche se non più rigidi. Ascolta le
loro parole, i rumori che producono i loro corpi, affascinato e disgustato
nello stesso tempo. Non appartiene a questo mondo, troppo grezzo e brutale,
ma ne apprezza la libertà assoluta. Alessandro sa che deve andarsene o diventare carnefice.
Cercare di fuggire presenta troppi rischi. Ma non è contento di dover
tradire. I giorni passano. Alessandro scopa ogni giorno con
Ferdinando, di solito più volte, e lo accompagna nelle partite di caccia. La
notte dorme sempre con lui ed è l’unico tra i suoi uomini a dargli del tu: il
conte non nasconde la predilezione che ha per il giovane. Ogni tanto c’è qualche banchetto che poi si trasforma in un’orgia.
Alessandro studia la situazione e cerca di fare amicizia con
gli uomini al servizio del conte. Molti non sembrano avere rapporti con lui:
quelli con cui Ferdinando scopa regolarmente costituiscono un piccolo gruppo,
che partecipa ai banchetti. Tra questi solo Sebastiano e Antonio formano una
coppia: anche se prendono parte alle orge serali, scopando con gli altri, tra
di loro esiste un rapporto molto stretto. Si provocano in continuazione e, se
le circostanze lo permettono, si affrontano in una lotta che si conclude
inevitabilmente con una scopata, in cui il vincitore fotte lo sconfitto. È di
solito Sebastiano ad avere la meglio e Alessandro si chiede se lo scontro
verbale e la lotta che segue non siano solo una specie di rituale. Alessandro pensa che se Sebastiano e Antonio andassero
insieme a Santa Maria, di sicuro avrebbero rapporti anche là: scopano ogni
giorno. Sarebbero le persone giuste. Alessandro decide di stringere amicizia con i due. - Da dove venite? Siete anche voi siciliani? - Sì, io sono di un paese vicino a Catania, Antonio invece è
di Siracusa, come il conte. E tu, da dove vieni? - Mio padre era siciliano anche lui, di Messina. Viveva a
Edessa, ma la città fu riconquistata dai saraceni e i miei genitori divennero
schiavi. Io ero appena nato. Alessandro racconta brevemente la propria vita, accennando
anche ai suoi padroni a Damasco. Poi, dopo aver soddisfatto la loro
curiosità, pone a sua volta domande, per conoscerli meglio. - Io facevo il contadino nel mio paese, quando ho saputo che
Ferdinando era diventato conte oltremare e cercava uomini. Me l’hanno detto i
suoi parenti. Non ci credevano neanche loro. Era partito per Gerusalemme con
le pezze al culo. Ed era diventato conte, signore di una terra fertile. Mi
sono detto: Antonio, è la tua occasione. - Io invece l’ho saputo da un conoscente. L’Etna aveva
distrutto i campi della mia famiglia e non sapevo come sbarcare il lunario.
Sapevo che qui rischiavo la pelle, ma là c’era solo miseria. - Così siamo entrati al servizio del conte. Pensavamo di
fare i contadini, ma servivano soldati, le condizioni erano buone, ci siamo
parlati e abbiamo deciso di provare. Alessandro chiede: - Vi conoscevate già, in Sicilia? Siete arrivati insieme? - Non ci conoscevamo. Ci siamo incontrati a Siracusa, quando
questo fetente è salito a bordo. Abbiamo fatto amicizia in fretta. Antonio ride di nuovo: - Di’ pure che mi hai inculato già la prima sera. - E anche la seconda e la terza, poi è incominciato
l’inferno: un viaggio di merda, il mare in tempesta, tutto il tempo a vomitare.
Non credevo di uscirne vivo. Ero sicuro di crepare. - E siete diventati soldati. - Sì. Meglio che fare il contadino. Rischi la pelle in
guerra, è vero, ma non è male come vita. - Soprattutto qui a palazzo. - Puoi dirlo. Ci si diverte. Ma questo lo sai, no? Di certo
il tuo culo se lo ricorda benissimo. Alessandro ride. - Difficile dimenticare il cazzo del conte. Antonio ride: - Perché lui sì che ha un cazzo, non un moncherino come Bastiano! Sebastiano non sembra gradire la battuta, perché dice subito: - Brutto stronzo! Adesso ti faccio vedere. - Vediamo, dai. Antonio si spoglia e Sebastiano lo imita. Tutti e due hanno
il cazzo già mezzo in tiro. La lotta è breve. Sebastiano riesce a bloccare Antonio, che
è costretto ad arrendersi. - Adesso ti faccio assaggiare il moncherino, stronzo! Il cazzo di Sebastiano è ormai pronto. Il catanese allenta
un po’ la presa per mettersi nella posizione giusta e forza Antonio a
sistemarsi a quattro zampe, poi lo infilza senza tante cerimonie. - Merda! Sei un figlio di puttana, Bastiano. Sebastiano ride e si ritrae. Lascia ad Antonio il tempo di
riprendere fiato, poi lo infilza nuovamente, con un po’ più di riguardo. Antonio guarda Alessandro e ghigna: - Non vuoi partecipare? Ho la bocca libera. Sebastiano osserva: - Sì, riempigli la bocca, così almeno la smette di sparare
cazzate. Alessandro si spoglia e si mette davanti ad Antonio, che gli
prende il bocca il cazzo e incomincia a succhiare. Quando Alessandro sente che sta per venire, avvisa Antonio,
che però non molla la presa e beve con gusto. Poco dopo viene anche
Sebastiano con una serie di spinte violente che quasi fanno cadere Antonio.
Allora afferra il cazzo di Antonio e fa venire anche lui. Rimangono distesi a terra, soddisfatti. Alessandro osserva: - Non ho mai visto un maschio come il conte. - Non ce ne sono. Ha un cazzo da cavallo e un’energia…,
cazzo!, quando ti scopa ti sembra di avere un palo in culo. Ma non devo
raccontarlo a te: hai modo di provarlo tutti i giorni. Alessandro annuisce: - Lo hai provato anche tu? - Sì, parecchie volte. E anche Sebastiano, vero? - Sì, l’ho provato anch’io. - È sempre lui a metterlo in culo, vero? - Qualche volta se l’è preso in culo anche lui. Da parte di
Berto. Ma è raro che capiti. Alessandro scopa più volte con Antonio e Sebastiano, ma la
notte dorme sempre con il conte. Ormai Alessandro sa quello che deve fare e ne conosce le
conseguenze: la morte di Antonio, di Sebastiano e del conte. I due soldati
sono uomini rozzi, per cui la vita è solo mangiare, bere, scopare e combattere.
Il conte non è diverso da loro. Sono tre animali, nient’altro. Ma ad
Alessandro pesa l’idea di provocarne la morte, anche se è il prezzo per la
propria vita. Dopo tre settimane Alessandro manda una lettera a Santa
Maria in Aqsa, servendosi di un mercante di passaggio. È indirizzata a un
tintore, ma il messaggio è destinato ad altri. Passano dieci giorni e arriva una lettera per Sebastiano. Il
soldato non sa leggere e Alessandro si offre di farlo per lui: ormai sono
amici. Il messaggio proviene da Santa Maria in Aqsa. Un banchiere informa
Sebastiano che un mercante di Catania ha depositato presso di lui una somma
di denaro, che gli verrà versata quando si presenterà a Santa Maria. Il mercante
siciliano ha anche lasciato al banchiere due lettere: una destinata a
Sebastiano e un’altra, in arabo, che Sebastiano dovrà consegnare a un
mercante saraceno di Rougegarde. Sebastiano è stupito. - Denaro, per me? Da un mercante di Catania? Alessandro finge di condividere lo stupore dell’amico. Dice: - Qualche parente ricco di Catania sarà morto e quella sarà
l’eredità. - E ti sembra che se avevo parenti ricchi a Catania venivo
qua? Stavo in Sicilia e me li tenevo cari. Non so proprio chi può essere. E
questo mercante saraceno? Non conosco nessun mercante saraceno. - I mercanti girano per tutto il Mediterraneo. Quello di Catania
farà affari con qualcuno qui in Terrasanta. Sebastiano non sembra convinto: - Non ci capisco una beata minchia. Io che c’entro? Alessandro ride: - L’unico modo per scoprirlo è andare a Santa Maria. - Se c’è da guadagnare qualche cosa, perché no? - In effetti, qualche moneta non guasta. Sebastiano chiede di parlare al conte. Alessandro lo
accompagna. Ferdinando non ha nessun motivo per impedire a Sebastiano di
partire e ad Antonio di accompagnarlo. Alessandro gli chiede: - Posso andare anch’io? Se c’è una lettera in arabo posso
leggerla. E non mi spiacerebbe vedere un po’ del regno. Ferdinando appare perplesso. - Sei sicuro, Alessandro? Sei stato condannato a morte.
Potrebbero riconoscerti. Alessandro ride: - E chi mai? Mi hanno visto solo le guardie che mi hanno
arrestato e quelli che mi hanno interrogato, a San Giacomo. Pochi altri là si
ricorderanno di me. E non credo proprio che qualcuno mi possa riconoscere a
Santa Maria. Il ragionamento è sensato. A Ferdinando spiace separarsi da
Alessandro, ma non gli sembra il caso di opporsi alla richiesta. Alessandro
gli piace molto, ma ci sono altri maschi e per una settimana Ferdinando può
fare a meno di lui. Il giorno dopo Alessandro, Sebastiano e Antonio partono per
Santa Maria in Aqsa. La cittadina non è lontana: a cavallo ci si arriva in
tre giorni, seguendo la strada più diretta, che passa per Cesarea. Di lì in
due giorni si può raggiungere il mare: Santa Maria in Aqsa è il porto più
vicino. La sera si fermano in una locanda oltre Cesarea. In camera
si dedicano a lungo alla loro attività preferita. Quando infine si stendono a dormire, Alessandro non riesce a
prendere sonno. Pensa che tra due giorni dovrà tradire Sebastiano e Antonio. L’idea
gli pesa, ma ormai non c’è modo di tornare indietro. Se non facesse quando
deve, sarebbe lui a essere arrestato e a finire sul rogo. La strada per Santa Maria raggiunge un passo della catena
costiera: è il primo punto da cui si può scorgere il Mediterraneo. Alessandro
non ha mai avuto occasione di vedere il mare e lo spettacolo lo affascina: la
giornata è serena e la grande distesa di acqua è di un azzurro a tratti
intenso, quasi blu, a tratti più chiaro. Santa Maria in Aqsa è visibile in
lontananza, una macchia bianca sulla costa. Scendendo Alessandro non riesce a distogliere gli occhi
dalla superficie del mare, increspata dalla schiuma biancastra delle onde. - Che meraviglia! Sebastiano scuote la testa. - Per te che ci arrivi a cavallo, forse. Per noi che
l’abbiamo attraversato per arrivare qui… Merda! Abbiamo avuto tempesta per
tre giorni e credevo di crepare e finire in gola ai pesci. Ho vomitato anche
l’anima. Vomitavamo tutti, non potevamo neanche cagare, perché i cessi erano
allagati. Cagavamo dove capitava. Altro che meraviglia! Antonio ride. - Mi hai pure vomitato addosso. - Non ero mica in grado di alzarmi. E di salire sul ponte,
non se ne parlava proprio. Chiacchierano ancora del viaggio. Alessandro sa che dovrà
affrontare anche lui il mare, per andarsene dal Regno di Gerusalemme. Ma
questo sarà possibile soltanto dopo che avrà svolto il suo compito. L’ultimo tratto della strada passa lungo la costa, scendendo
progressivamente verso il mare. Il sole è alto in cielo e il caldo
soffocante, ma là dove la vegetazione è più fitta e soffia un leggero vento,
si sta meglio. Si fermano a mangiare all’ombra di un cedro, poi raggiungono
la città nel primo pomeriggio. Alessandro fa notare una locanda poco oltre la porta da cui
sono entrati: è quella che gli è stata indicata nell’ultimo messaggio che ha
ricevuto. Antonio e Sebastiano non hanno motivo per non accettare il
suggerimento di Alessandro, per cui decidono di fermarsi lì. Lasciano i
cavalli e vanno subito in cerca del mercante: Sebastiano è impaziente di
intascare il denaro e capire come mai gli è stato lasciato. La bottega però è
chiusa. Informandosi da un vicino, risulta che il mercante è assente e
tornerà solo in tarda serata. Alessandro osserva: - Lo cercheremo domani mattina. Sebastiano annuisce. - Mi terrò la curiosità fino a domani. Torniamo alla
locanda. Sappiamo come passare il tempo, vero? Sebastiano e Antonio ridono. Alessandro sorride e annuisce. - Passiamo dal porto, così diamo un’occhiata alla città. E
io voglio vedere il mare da vicino. - Guardarlo sarà anche bello, ma te l’ho detto: starci sopra
su una nave per settimane… merda! Non te lo consiglio! Fanno un giro al porto, prima di tornare alla locanda. Santa
Maria in Aqsa è una bella cittadina, una cascata di case bianche che scendono
verso il mare, in cui si specchiano. Quando rientrano c’è un ufficiale fuori dalla porta che
sembra immerso nei suoi pensieri e dentro, a un tavolo, alcuni soldati che
bevono e non degnano di un’occhiata i tre forestieri. Anche Alessandro,
Sebastiano e Antonio prendono un bicchiere di vino prima di salire nella loro
camera. Una volta che sono dentro Sebastiano si spoglia in fretta e
si stringe il cazzo con la destra, mentre sorride ai due compagni. Antonio si
toglie gli abiti e li getta sulla sbarra alla parete. Vedendo che Alessandro
rimane vestito, gli chiede: - Non vuoi divertirti un po’, Alessandro? Alessandro sorride. - Certo! Però incominciate voi, io vado a farmi dare un altro
po’ di vino: ho ancora tutta la sete del viaggio. Ne porto su anche per voi.
Non bloccate la porta. Alessandro esce. Aspetta un momento fuori, poi socchiude
l’uscio. Sebastiano e Antonio non hanno perso tempo. Salvatore è in piedi e
Antonio gli ha preso in bocca il cazzo. Non pensano che qualcuno possa
spiarli. Alessandro scende ed esce dalla locanda. Vicino alla porta
c’è l’ufficiale. Alessandro fa appena un cenno d’intesa, poi recupera il
cavallo dalla scuderia e si allontana. L’ufficiale entra nella taverna. Non
dice nulla, non fa nessun gesto, ma i sei soldati che bevono seduti a un
tavolo si alzano e lo seguono sulle scale. L’oste li guarda, stupito, ma non
chiede loro dove vanno: in città c’è un clima di paura e nessuno ha voglia di
cercare guai. Quando i soldati entrano nella camera, Antonio è contro il
muro e Sebastiano lo sta inculando. Voltano entrambi la testa. Antonio dice: - Alessandro… Non prosegue: ha visto che non è entrato Alessandro, ma la
morte. Sebastiano mormora: - Merda! L’ufficiale dà ordine di rivestirsi, poi gli fa legare i
polsi dietro la schiena e i soldati li accompagnano alla fortezza. Intanto Alessandro ha raggiunto un’altra locanda, dove prende
una camera per la notte. Sa che nessuno verrà a cercarlo. Il giorno seguente lascia Santa Maria in Aqsa molto presto e
si dirige verso la valle dell’Arram. Jorge da Toledo guarda i due prigionieri, cercando di
valutare la loro capacità di resistenza. Sono entrambi uomini forti, ma quello
che si chiama Sebastiano appare più deciso e probabilmente sarà difficile
farlo confessare. Antonio non dev’essere altrettanto coriaceo. Jorge decide la linea da seguire: con Sebastiano è opportuno
essere fin dal principio molto brutali, in modo che Antonio veda ciò che lo
aspetta se non collabora. È invece meglio che Antonio non presenti segni di
tortura troppo evidenti, perché non si possa dire che la confessione è stata
estorta: se il conte Ferdinando sarà processato, ci sarà chi lo difenderà e
non bisogna prestare il fianco a critiche. Può darsi che Sebastiano alla fine
ceda, altrimenti ci sarà solo la testimonianza di Antonio. Il conte è un
sodomita, ma è un signore del regno. Come ha deciso Jorge, il primo a essere interrogato, la sera
stessa dell’arresto, è Sebastiano. Viene spogliato e gli lasciano addosso
solo i pantaloni. Il carceriere gli lega saldamente i polsi dietro la schiena,
poi lo conduce in una cella, con un tavolo e due sedie. Rimangono entrambi in
piedi in silenzio, fino a che un uomo, con il corpo coperto da un mantello e
un cappuccio che gli copre parte del viso, entra e si siede al tavolo. Un
altro uomo, un monaco, si siede accanto a lui. Ha l’occorrente per scrivere. L’uomo con il viso coperto parla. L’altro registra le
domande e le risposte. - Il tuo nome. - Sebastiano di Gaetano. - Il tuo stato. - Non ho famiglia. - Il tuo lavoro. - Sono soldato, al servizio del conte Ferdinando d’Arram. C’è un momento di silenzio. - Sei stato sorpreso dai soldati mentre avevi un rapporto
contro natura. Per questo è prevista la pena di morte mediante il rogo. Sebastiano si morde il labbro, senza dire nulla. - Puoi sperare nella nostra indulgenza, se risponderai senza
mentire alle nostre domande. Sebastiano tace ancora. - Con chi altri hai avuto rapporti contro natura? - Con nessuno, sono appena arrivato. - Questo lo sappiamo. Non parlo di qui. Prima di arrivare a
Santa Maria in Aqsa. Sebastiano alza le spalle. - No, no, era la prima volta. La voce dell’uomo che interroga è dura - Non mentire. Sebastiano insiste: - No, non l’avevo mai fatto. Scuote la testa. - Vedo che è necessario aiutarti a ricordare. L’uomo fa un cenno al carceriere, che strattona Sebastiano e
lo spinge fuori dalla stanza. - Andiamo. Il carceriere guida Sebastiano fino a un ampio locale dove
vi è una carrucola. Sebastiano capisce immediatamente quello che lo aspetta e
rabbrividisce. Dalla carrucola pende una corda, che il carceriere lega a
quella che stringe i polsi di Sebastiano. Dietro di loro, Sebastiano sente la voce dell’inquisitore. - Sei disponibile a parlare o preferisci provare la corda? Sebastiano alza le spalle, nascondendo il suo sgomento. Il carceriere si sposta alla carrucola e la mette in azione,
issando il corpo di Sebastiano, con le braccia legate dietro la schiena che
sostengono tutto il peso. Il dolore alle spalle cresce fino a diventare
intollerabile. - Per la salvezza della tua anima, rispondi sinceramente.
Con chi altri hai avuto rapporti contro natura prima di venire qui? Sebastiano digrigna i denti. Ha uno scatto d’ira: - Vaffanculo… prete… fottuto. L’inquisitore non dice nulla. Si limita a fare un cenno al
carceriere, che allenta la corda di colpo, facendo cadere Sebastiano, e poi,
con un movimento altrettanto rapido, la blocca. Il dolore è un lampo
abbagliante. Sebastiano lancia un urlo. - Sei disposto a rispondere alle mie domande? Sebastiano parla a fatica: - Spero… che il diavolo… ti fotta… bastardo… Il prete fa di nuovo un cenno. Il carceriere muove la
carrucola, sollevando nuovamente il corpo. Poi lo lascia cadere e blocca la
caduta. Il dolore è una mazzata che stordisce Sebastiano. Per un momento il
prigioniero perde i sensi, poi lentamente riemerge. - Allora, ti è tornata la memoria? Con uno sforzo Sebastiano riesce a mettere a fuoco l’uomo
davanti a lui. Non risponde più: non riesce a parlare. Dagli occhi gli colano
le lacrime. Scuote la testa. Il prete si rivolge al carceriere. - Riportalo in cella. Proseguiremo domani. Sebastiano viene trascinato in cella, dove Antonio dorme: è
ormai molto tardi. Il rumore della porta che si apre desta Antonio, che alla
luce delle torce vede subito la posizione innaturale delle braccia e legge
sul viso stravolto di Sebastiano la sofferenza. Quando le guardie sono
uscite, chiede, angosciato: - Bastiano! Che ti hanno fatto? Sebastiano chiude gli occhi. - La corda, quei bastardi… ma non ho confessato. Antonio rabbrividisce. Non si aspettava che incominciassero
subito a torturarli. Poco dopo lo vengono a chiamare. L’interrogatorio segue la
stessa procedura: l’uomo con il viso coperto pone le domande, che uno
scrivano registra, aggiungendo le risposte. - Il tuo nome. - Antonio. - Chi fu tuo padre? - Non lo so. Mia madre non era sposata. - Figlio del peccato, dunque. Qual è il tuo stato? - Non sono sposato. - Il tuo lavoro? - Sono al servizio del conte Ferdinando. L’inquisitore annuisce. - Sei stato sorpreso dai soldati mentre avevi un rapporto
contro natura con il tuo compagno. Sai che per questo crimine orrendo è
prevista la morte sul rogo. - Fu un momento di smarrimento. - Puoi sperare nella nostra indulgenza, se risponderai senza
mentire alle nostre domande. - Lo farò. - Con chi altri hai avuto rapporti contro natura prima di
arrivare a Santa Maria in Aqsa? Antonio esita. - Con Sebastiano. Qualche volta mi è capitato con altri,
durante le spedizioni, ma… ci limitavamo a toccarci. Gente di cui non ricordo
neppure il nome. - Devi dire la verità. - È così. L’inquisitore annuisce. - Vedo che anche tu hai bisogno di un aiuto a ricordare. L’uomo fa un cenno al carceriere, che afferra Antonio per un
braccio. - Andiamo. Antonio cerca di resistere, anche se sa che è perfettamente
inutile e che rischia solo di peggiorare la sua situazione. Antonio non viene portato nella sala della corda, ma in
un’altra. Gli tolgono la camicia, poi viene legato a un tavolo. Il carnefice
prende un frusta. A un cenno dell’inquisitore il carnefice alza la frusta e
colpisce Antonio sulla schiena. Non è un colpo particolarmente violento:
Jorge da Toledo ha dato istruzioni precise. Antonio sussulta e stringe i denti. - Ho detto quello che sapevo. Un nuovo cenno dell’inquisitore provoca una seconda
frustata, che prende Antonio sul culo. La voce risuona alta: - Con chi hai avuto rapporti carnali contro natura? Antonio dice alcuni nomi. Soldati con cui ha davvero avuto
rapporti, anni fa, ma che non saprebbe nemmeno rintracciare. L’inquisitore
chiede dettagli, ma Antonio non sa fornirne. Teme di essere nuovamente
frustato, ma l’inquisitore si limita a porre un’altra domanda. - Con chi hai abitualmente rapporti tra gli altri soldati
del conte? - Con nessuno. Solo con Sebastiano, qualche volta. La frustata arriva decisa, sulla schiena. Dopo aver ricevuto dieci frustate, le corde di Antonio
vengono sciolte e il prigioniero ricondotto in cella. Jorge si toglie il cappuccio e raggiunge Godefroi, che lo
attende, impaziente. - Allora? - Sono ostinati, ma cederanno. Uno dei due, quello che si
chiama Antonio, cederà senz’altro. L’altro non so. Ma ci serviremo di lui per
indurre l’altro a confessare. E probabilmente, dopo che questo Antonio avrà
ceduto, anche Sebastiano si renderà conto che non ha senso resistere. Il mattino seguente i due prigionieri sono seduti nella
cella, silenziosi. È Sebastiano a parlare: - Che ne sarà di Alessandro? - Speriamo che non lo abbiano arrestato. Se riesce ad
allontanarsi e a raggiungere il conte, forse abbiamo qualche speranza. - Non ne abbiamo nessuna, Antonio. Ci hanno preso mentre
scopavamo. Ma mi chiedo… - Che cosa? - Come hanno fatto a venire a colpo sicuro? Alessandro era
appena uscito… - Non capisco. Che cosa vuoi dire? Pensi che… Antonio non completa la frase. È Sebastiano a riprendere: - È uscito, ha detto di non chiudere la porta. Ha fatto
appena in tempo a scendere e sono arrivati i soldati. Come facevano a sapere
che stavamo scopando? Eravamo arrivati da poche ore, nessuno poteva
sospettare che scopassimo tra di noi. - Forse… sul conte circolano voci, lo sanno tutti. Sebastiano scuote il capo. - Non credo che sia questo. Come potevano sapere i soldati che
eravamo al servizio del conte? E poi… sono venuti a colpo sicuro. Rimangono entrambi in silenzio, poi Antonio formula la
domanda che gli preme in gola: - Pensi davvero che Alessandro ci abbia tradito? - Tutto lo fa pensare. - Se è così… spero che paghi. Ma perché? - Questo non te lo so dire. Mi chiedo dove vogliano
arrivare… Poco più tardi Sebastiano viene nuovamente ricondotto nella
sala delle torture. Continua a negare di aver avuto rapporti con altri uomini
e a sostenere che la scopata con Antonio è stata un evento occasionale, un
momento di smarrimento. Viene allora legato su un tavolo e gli stringono la caviglia
destra tra due assi di legno, bloccate da una morsa. Poi la morsa viene
stretta. Il dolore diviene presto lancinante. Sebastiano urla. - Rispondi: con chi altri hai avuto rapporti contro natura? - Con nessuno! Con nessuno! La morsa viene ulteriormente stretta. Sebastiano vede il
mondo oscillare intorno a lui. Chiude gli occhi. Gira la testa di lato e
vomita. Anche la caviglia sinistra viene stretta tra due assi e la
morsa azionata in modo da stringerla. Sebastiano urla nuovamente, poi vomita ancora. Quando infine
lo liberano, Sebastiano non riesce più a stare in piedi. Jorge ha assistito, con il capo coperto da un cappuccio.
Dice al carceriere: - Mettilo di nuovo nella cella con l’altro, in modo che lo veda. Sebastiano non può più camminare. Viene trascinato da due
guardie, ma lo strusciare per terra dei piedi gli strappa urla di dolore. Lo lasciano cadere sul pavimento della cella. Antonio lo guarda, sconvolto. Non ha il tempo di porre domande,
perché viene subito prelevato per essere interrogato. Non viene portato nella
stanza con il tavolo, ma direttamente nella sala delle torture. L’uomo che pone le domande gli chiede: - Sei disposto a rispondere? - Sì. - Confessi di aver avuto rapporti contro natura con
Sebastiano di Gaetano, soldato al servizio del conte di Arram? È una domanda assurda: li hanno sorpresi mentre scopavano, i
soldati e l’ufficiale lo possono testimoniare. Ma Antonio sa che è solo il
primo gradino di una scala che scende e che percorrerà per intero. La sua
capacità di resistere si è esaurita. - Sì. - Hai avuto rapporti contro natura con altri uomini qui a
Santa Maria in Aqsa? - No. - Hai avuto rapporti contro natura altrove? - Qualche volta, l’ho già detto. - Con chi? Antonio esita. Il sacerdote fa un segno al carceriere, che
si avvicina, ma quando afferra i polsi di Antonio per legarli alla corda
della carrucola, questi cede: - Sì, sì. - Con chi? - Con alcuni soldati. - Soldati del conte? - Sì, altri soldati. - Dicci i nomi. Antonio inventa alcuni nomi. L’inquisitore chiede: - Hai avuto rapporti con il conte Ferdinando? Antonio tace. Ora ha capito dove vuole arrivare quest’uomo L’inquisitore fa di nuovo un cenno. Antonio trema, ma non
apre bocca. Quando però il carceriere, dopo avergli passato una corda ai
polsi, manovra la carrucola e Antonio sente le braccia sollevarsi dietro la
schiena, grida: - No, no, dirò tutto. L’inquisitore fa un cenno al carceriere, che abbassa la
corda, ma non completamente. La tensione ora è tollerabile, ma ancora
dolorosa. - Hai avuto rapporti con il conte Ferdinando? - Sì. - Quante volte? - Molte volte. - Il conte ha spesso rapporti contro natura? Antonio esita un attimo, ma non appena l’inquisitore fa un
cenno al carceriere, grida: - Sì. L’inquisitore fa ancora molte domande. Antonio racconta. Al termine dell’interrogatorio, Antonio viene spostato in
una cella individuale: è meglio che non parli con l’altro prigioniero fino a
che non avrà reso una confessione piena e dettagliata. Dopo due giorni di interrogatori, Antonio viene condotto
davanti a sei monaci templari. Tra questi vi sono i comandanti, civile e
militare. Antonio ha il sospetto che uno degli altri, quello che chiamano fratello
Jorge, sia l’uomo che ha condotto i primi interrogatori, ma non può esserne
sicuro. Il templare che pone le domande non è lo stesso che ha
interrogato Antonio nei giorni scorsi e lo ha preparato a questo momento. - Antonio da Messina, tu sei stato sorpreso in un atto
contro natura con il tuo compagno Sebastiano di Giacomo. Sei stato
interrogato e hai confessato gravi colpe. Ora sei libero di confermare la tua
confessione, senza essere sottoposto a tortura. Antonio annuisce. - So di aver peccato contro Dio e per sgravare la mia
coscienza, confesso di aver più volte peccato di sodomia. Fu il conte
Ferdinando dell’Arram a indurmi a peccare per la prima volta. Nel suo palazzo
egli organizza spesso immondi
banchetti, in cui gli uomini si accoppiano senza rispetto per le leggi di
Dio. Antonio si ferma, ma sa che deve continuare. Riprende: - La prima volta egli mi prese con la forza, come ha fatto
con molti. Io cercai di sottrarmi, ma il conte è un uomo molto forte e non
ascoltò le mie suppliche. Dopo quella prima volta mi prese molte altre.
Spesso ciò avveniva alla presenza di altri soldati, che si accoppiavano
contro natura. Il conte porta alla dannazione molti uomini. Così formulata, la confessione appare spontanea e completa,
dettata solo dalla coscienza del peccato commesso e dal desiderio di espiare. Antonio prosegue, racconta dettagli che non deve nemmeno
inventare. Sa che ormai tutto è perduto. Quando la confessione è conclusa, Jorge ordina: - Mettete il prigioniero insieme all’altro. Poi, mentre portano via Antonio, si rivolge a Godefroi: - Quando saprà che Antonio ha confessato, anche l’altro
sodomita cederà. Godefroi annuisce. Assapora il trionfo, il momento in cui
Ferdinando verrà a Santa Maria per liberare i suoi uomini e verrà sorpreso
mentre scopa. Il conte arrestato, portato per le vie della città come un
malfattore. E poi il grande rogo a Gerusalemme, dopo un processo esemplare.
Che monito per tutti i peccatori! Antonio viene portato nella cella di Sebastiano. Entra a
testa bassa. Non ha il coraggio di guardare in faccia l’amico. A Sebastiano basta un’occhiata per capire: Antonio cammina
sulle sue gambe, muove le braccia senza problemi. Non è stato torturato,
perché ha ceduto. Il capo chino è una conferma non necessaria. Dalla sua voce
trasuda disprezzo, mentre dice: - Hai confessato, vero? Per Antonio è uno schiaffo. - Sì. Ho accusato il conte di… di tutto quello che volevano.
È perduto. - Lo sei anche tu, stronzo. Credi che ti risparmieranno il
rogo? Sarai bruciato vivo. Lo saremo tutti e due. Antonio china il capo. Lo sa. Non è riuscito a reggere al
dolore, non se l’è sentita di finire come Sebastiano, storpio, incapace di
usare le braccia e di camminare. Sebastiano digrigna i denti e dice: - Ti strozzerei, se potessi ancora usare le braccia. Almeno
non potresti confermare la tua testimonianza. Antonio guarda Sebastiano. Annuisce. - Vorrei che tu potessi farlo. Desidero soltanto morire. Sebastiano lo fissa. - È vero? - Sì, lo è. - È la cosa migliore. Una volta morto, la tua testimonianza
non varrà più molto. Antonio fissa Sebastiano. Si sente la gola secca. Non sa
come l’amico intenda farlo, nelle condizioni in cui si trova, ma è davvero la
soluzione migliore. - Per me va bene, Bastiano. Fallo. Sebastiano si avvicina a fatica, strusciando il culo a terra.
Antonio lo guarda. Poi si avvicina a lui, gli cala i pantaloni e guarda il
cazzo dell’amico. - Un’ultima volta, Bastiano. Sebastiano guarda Antonio e scuote la testa. - Troia! Ma quando Antonio si china e la sua bocca gli avvolge il
cazzo, Sebastiano sussulta e annuisce. Antonio succhia avidamente. Non c’è la gioia che
accompagnava i loro rapporti, non c’è la complicità. C’è un muro tra di loro
e nessuna scopata può abbatterlo. - Voglio sentirlo ancora una volta in culo, Bastiano. Sebastiano non dice nulla. Si limita nuovamente ad annuire.
La loro ultima scopata. Sebastiano si stende a terra, mordendosi le labbra per non
urlare. Antonio si siede sul suo ventre, poi solleva il culo e afferra il
cazzo di Bastiano con la mano. Lentamente si abbassa e sente il cazzo di
Bastiano entrargli in culo. Geme. Antonio si muove lentamente, alzandosi e abbassandosi. Tieni
chiusi gli occhi. Non vuole guardare Bastiano in faccia. La sua mano stringe
il cazzo e lo accarezza, salendo fino alla cappella e poi scendendo fino ai
coglioni. Infine Antonio sente in culo la scarica. Allora accelera il
movimento della mano, finché il seme schizza in alto e gli si riversa sul
petto. Antonio chiude gli occhi. Per un momento il piacere è stato più forte
di tutto e ha cancellato la realtà. Ma ora è il tempo di morire. Antonio non
sa come voglia farlo Bastiano. Spera che non lo faccia soffrire troppo. In
ogni caso sarà meglio del rogo. Antonio si solleva. Il cazzo di Sebastiano gli esce dal
culo. Antonio si volta e guarda l’amico. - Come devo mettermi, Bastiano? - Aiutami a sollevarmi sulle ginocchia. Quando Antonio gli mette le mani sotto le ascelle e lo aiuta
a sollevarsi, Sebastiano reprime a fatica un urlo. Ora è in ginocchio. Guarda Antonio. - Stenditi e metti il collo sulla mia gamba, subito sotto il
ginocchio. Antonio capisce. Ha un brivido. Esita un attimo, poi si
stende a terra e appoggia il collo sul polpaccio di Sebastiano, subito sotto
il ginocchio. La sua testa rimane tra le due gambe del compagno. Antonio guarda
il culo di Sebastiano. L’ultima cosa che vedrà. Va bene. Sebastiano abbassa il culo e il collo di Antonio rimane
stretto nella morsa tra la gamba e la coscia. La pressione è forte e blocca
rapidamente il respiro. Antonio non riesce più a respirare. Per un momento mantiene
il controllo e le sue mani rimangono quasi ferme, agitate appena da un
tremito. Poi muove le braccia cercando di liberarsi dalla stretta, ma non è
possibile. Il mondo scompare rapidamente. Sebastiano rimane a lungo nella posizione: vuole essere
sicuro che Antonio sia morto. Quando infine è certo di aver ottenuto ciò che voleva si
solleva e si sposta. Ogni movimento gli provoca uno spasimo. Guarda il corpo
senza vita di Antonio. Scuote la testa. - Era meglio se lo facevo prima. Con grande fatica Sebastiano ritorna a sedersi contro il
muro. Mormora ancora: - Potessi ammazzarmi anch’io… Guarda ancora il corpo senza vita di Antonio. Soffoca un
singhiozzo. Godefroi guarda il verbale. Un uomo del conte, sorpreso in
flagranza di reato di sodomia, confessa di avere avuto con lui rapporti
contro natura e lo accusa di aver indotto molti altri uomini a macchiarsi del
peccato di sodomia. Di per sé non è molto, Godefroi lo sa benissimo: diranno
che la confessione è stata estorta con la tortura. Ma Antonio testimonierà
ancora e anche Sebastiano cederà. E quando Ferdinando verrà a Santa Maria in
Aqsa e verrà a sua volta sorpreso… Godefroi sorride. La guardia che entra è agitata. - Il carceriere… ha trovato uno dei prigionieri morto. - Cosa? - Deve averlo ammazzato l’altro. Per un momento Godefroi spera che sia stato Antonio ad
uccidere Sebastiano, che di certo non può più usare le braccia. Manda subito
a chiamare Jorge. - Uno dei prigionieri ha ucciso l’altro. Jorge soffoca il “Merda!” che gli è venuto alle labbra. Sa
benissimo che cosa è successo, non si fa illusioni. E sa che questo
fallimento rischia di compromettere tutto. Dice subito: - Che nessuno lo sappia. Non bisogna parlarne a nessuno. Poi aggiunge, rivolto alla guardia: - Accompagnami dal carceriere. Nel corridoio sotterraneo il carceriere sta parlando con
altre tre guardie. Questa volta Jorge non si trattiene: Godefroi è rimasto di
sopra e non può sentirlo. - Merda! Che fate qui, invece di essere ai vostri posti?
Così svolgete i vostri compiti? Il carceriere cerca di giustificarsi. - Uno dei prigionieri è morto. Ho mandato a chiamare il
comandante. - Lo so. Lui ha mandato me. Ma devi metterti a raccontarlo a
tutti? Poi si rivolge alle tre guardie: - Ascoltatemi bene: che nessuno sappia quello che è
successo. Questa morte deve essere tenuta segreta. Guai a voi se vi lasciate
sfuggire una parola, anche solo una parola! Chiaro? Le guardie annuiscono, assicurano che taceranno e si allontanano
per sottrarsi alla furia del templare. Ma Jorge sa benissimo che qualcuno
prima o poi parlerà. Basta poco a sciogliere una lingua: un bicchiere di vino
di troppo; la voglia di chiacchierare e di raccontare la novità, magari a
qualche puttana che frequentano di nascosto. Merda! Il carceriere, la guardia
che ha dato l’annuncio, questi altri tre… troppi coglioni per mantenere a
lungo un segreto. Jorge si fa accompagnare nella cella. Come aveva intuito, il
morto è Antonio da Messina. Sebastiano fissa Jorge e pare avere un sorriso
beffardo. - La pagherai, bastardo. La pagherai. Ma Jorge sa bene che anche queste sono parole vane. Non
possono fare a Sebastiano più di quello che in ogni caso gli avrebbero fatto.
Ora Sebastiano sorride davvero. Jorge fa due passi verso di lui, furente. Gli molla un
calcio in faccia. Il sangue cola dal labbro spaccato, dal naso. Negli occhi
di Sebastiano c’è un lampo di odio. Jorge dà le istruzioni. Fa ancora chiamare le guardie che sono
al corrente della morte del prigioniero, le ammonisce, ingiunge loro di
tacere. Ma magari hanno già parlato. Il carceriere stesso può aver parlato. * Alessandro arriva nell’Arram a sera. Si dirige subito al
palazzo e raggiunge Ferdinando. Il conte è contento di vederlo. Non si
aspettava che tornasse così presto. - Alessandro! Siete già di ritorno? Alessandro scuote la testa. - Solo io, Ferdinando. Sebastiano e Antonio sono stati
arrestati il giorno stesso del nostro arrivo. - Arrestati?! Porcoddio! Perché mai? Che cazzo è successo? - Non lo so, Ferdinando. Io sono rimasto alla locanda,
mentre loro andavano a cercare il mercante. Ero stanco e preferivo non farmi
vedere troppo in giro per la città. Non si sa mai. Quando, non vedendoli
arrivare, sono sceso, l’oste mi ha detto che era appena passato un soldato,
perché avevano arrestato due uomini che soggiornavano nella locanda e voleva
sapere se con loro c’era qualcun altro. Dalla descrizione fornita dal
soldato, lui era sicuro che si trattasse di Antonio e Sebastiano. - Merda! Ma com’è possibile?! - Non sono riuscito a scoprirlo. Ho cercato un’altra
locanda, per sicurezza, poi ho provato a chiedere in giro. Si sapeva
dell’arresto, ma nessuno ne conosceva i motivi. Non potevo certo andare dalle
guardie e anche fare troppe domande era pericoloso, nella mia situazione. Ferdinando annuisce. Chiaramente un uomo condannato a morte
e che nella fuga dalla prigione ha anche ucciso il carceriere deve fare
attenzione. Alessandro prosegue: - Il mattino dopo ho ancora provato a chiedere, poi ho
deciso che era più saggio andarmene. - Hai fatto bene. Adesso però bisogna capire che cazzo è
successo. - Scrivi al comandante civile di Santa Maria in Aqsa. Ferdinando scuote la testa. - Quel figlio di puttana di Godefroi! Un fanatico di merda!
E dire che fino a pochi giorni fa il comandante militare era Guillaume. Mi
sarei potuto rivolgere a lui. Ma adesso è stato trasferito. Porcoddio! Devo
proprio scrivere a Godefroi. Chiamami Francesco. Alessandro potrebbe proporsi di scrivere lui la lettera, ma
non ha motivi per farlo. Ferdinando riferisce a Francesco l’accaduto e il segretario
prepara una lettera in cui chiede i motivi dell’arresto. La legge a
Ferdinando, la firma per lui e vi appone il sigillo. Quando Francesco se ne va, Ferdinando dice ad Alessandro: - Sei arrivato in tempo per la caccia di domani. Alessandro nota che parlando della caccia Ferdinando appare
particolarmente allegro: ci dev’essere un motivo. - I guardacaccia hanno avvistato qualche bell’animale? O è
una caccia ordinaria? - In effetti è un bell’animale, davvero. Un maschio forte.
Uno dei soldati, forse lo conosci, Mazzeo. A San Giacomo d’Afrin Alessandro ha sentito parlare di
queste cacce all’uomo: una o due volte l’anno, quando un uomo vigoroso viene
condannato a morte, il conte gli fa dare un coltello e lo lascia libero, con
qualche ora di vantaggio, poi parte per una battuta di caccia che si conclude
con la morte della preda. Quando se ne parlava, qualcuno insinuava che il
conte fottesse la vittima, ma queste cose venivano sempre dette sottovoce. L’idea di cacciare un uomo turba Alessandro. Si chiede che
cosa si prova a essere inseguito come un animale selvatico. Sa che cosa si
prova a essere condannato a morte. Ma qui è diverso. Esiste una speranza di
salvezza, un coltello per difendersi. Alessandro sa chi è Mazzeo, ma non ha
mai avuto a che fare con lui. Chiede: - Che cosa ha fatto Mazzeo? - Quel bastardo ha sgozzato la famiglia di Bartolomeo, l’orefice,
nel sonno, per impossessarsi di alcuni gioielli e monete. Ha anche stuprato
la ragazza, la figlia di Bartolomeo, prima di ucciderla. Mazzeo merita la morte, non c’è dubbio. Ma braccarlo come un
animale… - Io adesso ho da fare. Quando vuoi, vai a coricarti e non
mi aspettare: io non so quando arrivo. Alessandro vorrebbe scopare, ma se il conte è occupato, ne
farà a meno: non intende mettersi adesso alla ricerca di qualcuno degli
uomini che partecipano alle orge serali. È stanco e si corica volentieri.
Magari, quando Ferdinando verrà a stendersi, ci sarà l’occasione di divertirsi
un po’. Alessandro va a letto presto. Ferdinando invece rientra
molto tardi e quando si corica si addormenta subito. Alessandro è un po’
stupito che il conte non abbia voglia di scopare. Sicuramente deve aver
fottuto qualcun altro, più volte. La faccenda gli dà un po’ fastidio: non è
certo geloso, ma sono alcuni giorni che non ha rapporti e non è più abituato
all’astinenza. Il mattino dopo si alzano molto presto, per la grande caccia.
Mazzeo, il condannato, è un uomo sui quaranta, robusto, braccia lunghe, ventre
prominente. Quando lo spogliano completamente, Alessandro nota che è molto
villoso ed è colpito dalle dimensioni del cazzo, alquanto voluminoso.
Ferdinando guarda la preda e ride. Gli piace cacciare un vero maschio. Gli
piace uccidere, ma gli piace anche il rischio. La preda ha già ucciso: sa
maneggiare un coltello. Ferdinando sa che quella lama potrebbe affondare
nella sua carne, farne strazio. Fa parte del gioco. A volte Ferdinando pensa
che non gli spiacerebbe morire così, in una di queste cacce selvagge,
sbudellato da un maschio che prima di finirlo lo fotte. Ma ha appena
trentaquattro anni e non ha nessuna intenzione di morire. Alessandro coglie la tensione del conte. Di nuovo prova
emozioni contraddittorie. Attrazione e repulsione. Il condannato viene liberato e armato. L’uomo non ha paura.
Mostra il coltello al conte e gli dice: - Ti castrerò, bastardo. Poi si allontana rapidamente. Ferdinando ride di nuovo. - E dire che credevo che gli fosse piaciuto, ieri sera. - Lo hai stuprato? - Lo faccio sempre con i condannati. Se ne vale la pena.
Mazzeo era vergine. Almeno: il suo culo lo era. Adesso non lo è più, te lo
garantisco: l’ho gustato tre volte. Ferdinando ride di nuovo. Prosegue: - Gli ho fatto un favore e vuole tagliarmi il cazzo. Ma
dimmi tu! Alessandro annuisce. Il rigonfio dei pantaloni di Ferdinando
tradisce la sua eccitazione. Quando infine è ora di partire, si avviano. I cani seguono
le tracce senza difficoltà. Alessandro pensa che Mazzeo ha ben poche
possibilità di salvarsi. Lo raggiungono nel bosco. Lo vedono correre in lontananza,
poi fermarsi, ormai circondato dai cani, che gli impediscono di allontanarsi.
Brandisce il coltello e se ne serve per impedire che i cani gli si avvicinino
troppo. Ferdinando ferma il cavallo e smonta. Alessandro pensa che
ora il conte scaglierà la lancia oppure si avvicinerà per colpire Mazzeo
senza rischiare, ma Ferdinando lascia cadere a terra la lancia e avanza con
il coltello in mano. Sul viso di Mazzeo appare un ghigno. Ferdinando si toglie la
tunica, poi avanza ancora. Ora è di fronte a Mazzeo. Alessandro può vedere il
grosso cazzo del conte premere contro i pantaloni e una macchia scura
allargarsi sulla cappella. Pensa che il cazzo è un magnifico bersaglio. Si
rende conto che assistere al duello mortale di questi due uomini forti lo
eccita. Mazzeo aspetta che Ferdinando si avvicini per scattare,
mirando al ventre, ma il conte si scansa e a sua volta cerca di colpire
l’avversario, senza riuscirci. Mazzeo risponde rapidamente e Alessandro vede
dalla spalla del conte il sangue schizzare. Non è una ferita grave. Il conte
reagisce scattando in avanti. Mazzeo è costretto ad arretrare, ma inciampa in
una radice e perde l’equilibrio. Riesce a non cadere, ma non a evitare la
coltellata che gli squarcia il ventre. Emette un grido di animale ferito a morte.
Ferdinando gli blocca la mano armata con la sinistra e con la destra lo
colpisce ancora, poco sotto. Mazzeo geme e barcolla. Il pugnale gli scivola
dalle mani. Ferdinando lo attira a sé, lo volta, si cala i pantaloni, si abbassa
leggermente e lo incula con un movimento brusco. Mazzeo mormora: - Bastardo! Il conte ride, felice di aver vinto, di poter gustare di
nuovo questo culo accogliente. Fotte con energia, indifferente agli insulti
di Mazzeo. Alessandro guarda il conte. Ha la gola secca e il cazzo duro.
Vorrebbe essere al posto di Ferdinando. O forse a quello di Mazzeo. La cavalcata dura a lungo: Ferdinando è un grande stallone.
Infine il conte emette un gemito e viene. La sinistra afferra il cazzo e i
coglioni di Mazzeo e la destra recide con un movimento deciso. L’urlo di
Mazzeo è quello di una bestia macellata. Poi Ferdinando taglia la gola
all’uomo e lascia cadere a terra il corpo, gettandogli in faccia il suo
trofeo. - Volevi farmi il servizio, ma te l’ho fatto io. Ferdinando ride. Fischia e i cani si avventano sul cadavere,
sbranandolo. Alessandro guarda Ferdinando, il corpo possente, il cazzo ancora
gonfio di sangue, la piccola ferita alla spalla, il sudore che scorre. Poi
osserva i cani che dilaniano il morto. Ha voglia di vomitare, ma il cazzo è
duro come una pietra. Ferdinando se ne accorge e ride. - Lo spettacolo ti è piaciuto, eh, Alessandro? Il conte si avvicina e gli tende un braccio. Alessandro
guarda la mano coperta di sangue e gli sembra di non riuscire a stare sulla
sella. Lascia che Ferdinando gli prenda il braccio e lo faccia scendere, lo
spogli con le mani lorde e lo prenda come un animale, mentre vicino a loro i
cani sbranano il corpo di Mazzeo. Quando tornano al palazzo, Ferdinando si dirige in bagno. Si
toglie i pantaloni e la tunica inzuppati di sudore e sangue e li porge a un
servitore, piscia sorridendo mentre guarda Alessandro, poi entra nell’acqua
tiepida, che si arrossa. Anche Alessandro entra in acqua. Si sente sporco. Ferdinando
si lava energicamente, mangia i dolci che il servitore come al solito ha
posato accanto alla vasca, ride soddisfatto, incurante della ferita da cui
cola un po’ di sangue, beve una coppa di vino, rutta rumorosamente e si
avvicina ad Alessandro. È nuovamente eccitato. Alessandro lascia che il conte
lo prenda nell’acqua tiepida. Vorrebbe essere lontano, vorrebbe aver
raccontato la verità ed essere fuggito, vorrebbe… man mano che il conte lo
fotte, i pensieri svaniscono e gli sembra di galleggiare nel vuoto. Ferdinando è appena venuto e sta stringendo il cazzo di
Alessandro, quando un servitore bussa e una volta entrato comunica che è
arrivata una lettera da Santa Maria in Aqsa. Il conte non esce dal bagno, ma
si limita a far chiamare il suo segretario, che legge la missiva, mentre
Ferdinando si gratta tranquillamente i grossi coglioni. Nel messaggio il comandante civile di Santa Maria non fa
riferimento alla lettera di Ferdinando, che ovviamente non può avere ancora
ricevuto, ma fornisce comunque una risposta alla domanda posta dal conte: comunica
infatti che ha arrestato due suoi soldati, accusati di aver ucciso un uomo in
una rissa. Godefroi chiede al conte se può recarsi a Santa Maria in Aqsa
perché, per rispetto nei suoi confronti, vorrebbe discutere con lui le misure
da prendere. Preferirebbe parlare della faccenda, alquanto delicata, con il
conte in persona e non con un suo inviato. Ferdinando si rivolge ad Alessandro, che è all’altra
estremità della vasca, voltato in modo da nascondere la propria erezione. - Una rissa con un morto! Com’è che non ne sapevi niente,
Alessandro? Alessandro volta la testa verso Ferdinando. - È stato tenuto nascosto, non so perché. Forse perché erano
due forestieri. Ho chiesto in giro, ma, come ti ho detto, nessuno sapeva
perché erano stati arrestati. Ferdinando non è diffidente per natura e non ha motivo per
dubitare delle parole di Alessandro. Il servitore esce. Ferdinando nuota fino
ad Alessandro, lo stringe di nuovo tra le braccia, gli afferra il cazzo e lo
fa venire con pochi movimenti energici. Dopo essere rimasto un buon momento ad assaporare il piacere
del bagno, Ferdinando chiama il servitore, che lo lava accuratamente. Poi il
conte si stende sul tavolato e fa chiamare Ghassan. Ferdinando chiude gli occhi e si abbandona al massaggio di
Ghassan, le cui mani unte di olio scorrono sulle spalle, sulla schiena,
scendono al culo e infine alle gambe, per poi passare alle braccia. Le dita
ora accarezzano la pelle, ora premono. Ghassan lavora a lungo, su tutto il
corpo del conte, dal collo ai piedi. Quando Ferdinando si volta, ha il cazzo
duro. Ghassan massaggia le braccia, poi il petto e il ventre, sfiorando
appena il cazzo teso. Poi le sue mani scendono lungo le gambe e ritornando
indietro, accarezzano i coglioni. Ghassan è abile. Ferdinando chiude gli
occhi e pensa a Mazzeo, al momento in cui lo ha inculato e poi castrato. Ghassan coglie che il conte è sul punto di venire. Allora la
sua mano indugia sul cazzo, scivolando dalla cappella ai coglioni, finché il
seme sgorga. In quel momento il servitore bussa nuovamente e poi entra. - C’è un messaggero del duca di Rougegarde. Ferdinando fa una smorfia. - Giornata di comunicazioni. Digli che arrivo subito. No,
anzi, fallo passare. Lasciami solo due minuti. Ghassan pulisce con cura Ferdinando, che si infila un paio
di pantaloni e una tunica puliti. Il messaggero è Pierre, uno degli uomini di fiducia del
duca. Pierre fa un mezzo inchino e dice: - Il duca mi ha incaricato di consegnarvi un messaggio, ma
ha richiesto che non fosse presente nessuno. Ferdinando corruga la fronte. Deve trattarsi di qualche cosa
di molto importante se Denis ha mandato Pierre e ha preso tutte queste
precauzioni. Ferdinando congeda Ghassan. Si siede sul tavolato. - Dimmi, Pierre. - Il messaggio è questo: Conte,
se intendete recarvi a Santa Maria in Aqsa, passate prima da Rougegarde. In
ogni caso avrei piacere di parlarvi. Non fate conoscere a nessuno questo
messaggio. So con certezza che vi è un traditore presso di voi. Pierre aggiunge: - Il duca ha insistito sul fatto che non ne parliate a
nessuno. Ferdinando annuisce. C’è un traditore, su questo Ferdinando
non ha dubbi. Se Denis glielo ha mandato a dire, è vero. Chi è? E qual è il
tradimento di cui si parla? Ha a che fare con quanto successo a Santa Maria
in Aqsa? Chissà come fa Denis a sapere che intende andarci: Ferdinando non ha
avuto modo di parlargliene, la lettera del comandante civile è appena
arrivata. Ma Denis ha i suoi informatori, di questo Ferdinando ha avuto modo
di accorgersi. Se il problema riguarda il suo viaggio a Santa Maria… Il
pensiero va ad Alessandro. Che sia lui il traditore a cui fa riferimento
Denis? Era lui a Santa Maria con Sebastiano e Antonio, arrestati per una
misteriosa rissa. Il pensiero è doloroso. Ciò che prova per Alessandro va
oltre la pura attrazione fisica. Non è amore, ma non è neppure solo
desiderio. - Va bene, Pierre. Riferisci al duca che verrò da lui,
probabilmente già domani. Sicuramente domani. - Benissimo. Pierre fa ancora un piccolo inchino e scompare. Ferdinando annuncia ad Alessandro e a un gruppo di soldati: - Partiamo domani per Santa Maria in Aqsa. Ma ci fermiamo a
Rougegarde un giorno. Voglio vedere il duca. Rougegarde non è sulla strada più breve che dall’Arram
conduce a Santa Maria, ma la deviazione comporta solo una giornata di viaggio
in più. Ferdinando fa preparare i bagagli per il viaggio. È di
cattivo umore e non lo nasconde. Alessandro pensa che il conte non sia
contento di partire e che sia preoccupato per Antonio e Sebastiano. Non gli
passa per la testa che possa subodorare qualche cosa e men che mai che
sospetti di lui. Gli sembra troppo grezzo per avere dubbi. Il percorso dal palazzo di Ferdinando a Rougegarde è breve:
a cavallo richiede meno di mezza giornata. Mentre cavalcano, Ferdinando è
assorto nei suoi pensieri. Ha con sé dieci uomini, tutti fidati: solo su
Alessandro ora ha dubbi. Ha deciso di raggiungere Santa Maria in Aqsa con un
gruppo di soldati forti e decisi. In qualche modo intende liberare i suoi
uomini, anche ricorrendo alla forza. Sa che attaccare la prigione dei
templari sarebbe pura follia e che verrebbe messo sotto processo a
Gerusalemme, ma spera di riuscire a trovare un espediente per ottenere ciò
che vuole. In tarda mattinata arrivano in vista di Rougegarde.
Ferdinando sorride: per quanto non sia un esteta, la bellezza della città lo
affascina sempre. Il conte sprona il cavallo. Raggiungono una porta delle
porte. I soldati di guardia riconoscono Ferdinando e lo salutano. Il
drappello si dirige al palazzo ducale. Ferdinando e i suoi uomini sono introdotti immediatamente
alla presenza di Denis, che li accoglie calorosamente. - Ferdinando! Sono contento di vederti. Sei venuto a trovarmi
o sei solo di passaggio? Denis finge di non sapere dove sia diretto Ferdinando. Il
conte sta al gioco. - Vado a Santa Maria in Aqsa. Due miei uomini sono stati
arrestati per una rissa e quel rompicoglioni di Godefroi mi chiama.
Porcoddio, sai se lo rivedo volentieri, quel… Ferdinando non prosegue: ha già dato del rompicoglioni a
Godefroi e non è il caso di aggiungere altro, anche se da aggiungere
Ferdinando ne avrebbe, non poco. - Allora oggi ti fermerai qui. Sei mio ospite e non puoi
rifiutare. - E perché mai dovrei rifiutare? Mi fermo ben volentieri. Al banchetto partecipano diverse altre persone e si parla di
tanti argomenti, senza mai sfiorare quello che sta cuore a Ferdinando. Ma dopo
pranzo Ferdinando e Denis si appartano in una stanza dove nessuno può
sentirli. Come sempre, Denis è estremamente prudente: i suoi uomini, per
quanto gli siano fedeli, conoscono solo quello che il duca decide di far
sapere loro. Ferdinando non perde tempo. La faccenda lo disturba e sente
l’esigenza di fare chiarezza. - Denis, dimmi perché mi hai fatto venire. Denis risponde con una domanda: - Ferdinando, che cosa sai dell’arresto dei tuoi due uomini
a Santa Maria in Aqsa? - Nella lettera quel figlio di puttana di Godefroi parla di
una rissa in cui avrebbero ucciso un uomo, ma io non so nulla di preciso,
Alessandro non mi ha saputo dire niente. Non era presente quando li hanno
catturati. - Non mi stupisce che Godefroi non ti abbia detto la verità.
No, non è stata una rissa. Sono stati arrestati perché sorpresi mentre scopavano.
Sono stati interrogati a lungo. Uno ha confessato di aver avuto rapporti
anche con te, che sei stato tu il primo a indurlo a peccare. Ferdinando è furibondo - Porcoddio! - Adesso ti aspettano a Santa Maria in Aqsa per sorprenderti
mentre scopi con qualcuno dei tuoi uomini e arrestarti. Ferdinando è allibito. - Cosa?! - Contano di farti processare a Gerusalemme, come esempio
per tutti i peccatori. Sorpreso in flagrante, niente potrebbe salvarti dalla
condanna. - Porcoddio! Questa poi! Dovrò fare attenzione a non scopare
a Santa Maria. E anche i miei uomini dovranno fare lo stesso. Porcoddio! Denis scuote energicamente la testa. - No, Ferdinando. A Santa Maria non devi andare. Tu non
corri rischi subito, perché non ti arresterebbero solo sulla base di
un’accusa, sei uno dei signori del regno. Ma di sicuro il tuo uomo che ha
confessato ha fatto i nomi di alcuni degli altri. Loro sì che verrebbero
arrestati, torturati, forzati a confessare. E a quel punto, di fronte a
numerose testimonianze, potrebbero arrestare anche te o almeno chiedere il
tuo arresto al re. - Merda! Devo lasciare che ammazzino i miei due uomini? - Uno dei due, Antonio, è già morto. Ucciso dall’altro dopo
aver confessato. L’altro è stato torturato e storpiato. Non ne uscirà vivo,
in nessun caso. - Porcoddio! - È meglio che tu torni indietro. O che ti fermi qui per un
po’, come preferisci. Ferdinando annuisce. È rimasto senza parole. Antonio morto,
Sebastiano destinato a morire. E non poter fare niente! Denis aggiunge: - Non parlarne a nessuno di quello che ti ho detto, soprattutto
non a questo Alessandro. Le parole di Denis sono un conferma dei sospetti di
Ferdinando, ma il conte si stupisce di quanto male gli facciano. Chiede: - Pensi che possa essere lui il traditore? - Senza dubbio. Era in carcere a San Giacomo d’Afrin ed è
misteriosamente riuscito a fuggire, pugnalando il carceriere. Come si è
procurato quel pugnale? Si è diretto verso i tuoi possedimenti e questo non è
strano, visto che sanno tutti che hai pessimi rapporti con vescovi e preti.
Come è nata l’idea di mandare tre uomini a Santa Maria? - Arrivò una lettera, una faccenda di eredità o che cazzo ne
so… del denaro da ritirare da un mercante e una lettera scritta in arabo…
insomma, Sebastiano doveva recarsi a Santa Maria in Aqsa e dato che c’era
questa lettera scritta in arabo, Alessandro ha chiesto di andare anche lui. Denis annuisce. - Sì. Tutto torna. Una storia costruita per mandare Alessandro
e gli altri due a Santa Maria. Ferdinando, i soldati sono entrati nella
camera dove i tuoi due uomini stavano scopando: sono andati a colpo sicuro, sapendo
di sorprenderli. E Alessandro non era in camera, anche se era andato a Santa
Maria in Aqsa con loro due. Ferdinando ha l’impressione di avere un peso sulle spalle,
qualche cosa che lo schiaccia. - Come fai a sapere tutte queste cose, Denis? So che hai
spie tra i saraceni, ma anche nel regno…? Denis ha un sorriso amaro. - Certe volte penso che i saraceni non siano i miei nemici
peggiori. Ce ne sono altri più subdoli e più temibili. Ferdinando annuisce. Alessandro colpevole. Un traditore. Uno
che ha deliberatamente mandato a morte Antonio e Sebastiano. Merda! - Ma perché? Perché l’avrebbe fatto? - Per salvarsi la pelle, probabilmente. La sua vita in cambio
della tua. Ricordati che era stato condannato al rogo. Ferdinando annuisce. Non riesce a nascondere il suo
turbamento. - Tu sei sicuro della colpevolezza di Alessandro, Denis. Io
vorrei ancora una conferma. - Quando scoprirà che non intendi andare a Santa Maria,
informerà coloro che lo hanno mandato. Fallo sorvegliare e intercetta la
lettera che manderà. Ferdinando china il capo. In effetti, è un buon mezzo per
sincerarsi del tradimento di Alessandro. O della sua innocenza. Ferdinando
preferirebbe scoprire che Alessandro non è colpevole, ma sa che difficilmente
Denis si sbaglia. Denis coglie lo smarrimento del suo amico. Ormai gli ha
detto quanto doveva, per cui cambia argomento, facendo alcune considerazioni
sulla situazione del Regno di Gerusalemme: la minaccia costituita da una
possibile alleanza tra alcune tribù curde e il giovane al-Malik al-Salih
Ismail, figlio ed erede di Nur ad-Din; i vani tentativi fatti da re Amalrico prima
di morire per ottenere un appoggio contro Nur ad-Din e il suo potente
vassallo, il Saladino, divenuto sultano d’Egitto. È soprattutto quest’ultimo
a preoccupare Denis. Più tardi Denis accompagna Ferdinando nei sotterranei di
Rougegarde. Dell’esistenza di una rete di canali e passaggi segreti
Ferdinando era già al corrente. Denis ha fatto condurre un lavoro di
esplorazione sistematica, e poi ha messo alcuni sbarramenti, in modo da poter
controllare completamente i passaggi. Ci sono cisterne dell’acqua, alcune sale segrete, corridoi a
volte tanto stretti che Ferdinando passa a fatica e si lascia scappare
qualche bestemmia, a volte tanto larghi e alti da potersi muovere a cavallo. - Porcoddio! Ci starebbe un’intera città qui sotto. E sai
una cosa, Denis? - Dimmi. - C’è un fresco delizioso. Si sta d’incanto. Se avessi un
simile paradiso a disposizione, ci vivrei da maggio a settembre. Denis ride. - Se vuoi possiamo bagnarci. - Bellissima idea. Raggiungono una grande vasca, posta sotto il palazzo. Denis
dice ai soldati che li accompagnano di rimanere all’ingresso. Ferdinando
guarda stupito la grande cisterna, la cui volta è sorretta da pilastri. - È immensa. Denis annuisce. Mettono le torce negli anelli di ferro
predisposti alle pareti, poi si spogliano. Ferdinando guarda il corpo
dell’amico. Sorride a pensieri che non saprebbe definire. Denis è il suo
migliore amico, l’unico su cui sa di poter sempre contare. Non hanno mai
scopato, ma adesso, a vederlo nudo… Ferdinando, scuote la testa, ride e si
immerge nell’acqua. - Porcoddio, che meraviglia! Nuotano a lungo. Quando si allontanano dalle torce, il buio
diventa sempre più fitto e le grandi colonne si vedono appena. A Ferdinando
piace rimanere immerso nell’acqua fresca, nell’oscurità che avvolge gran
parte della cisterna. Rimangono in acqua a lungo. Poi escono e quando i loro corpi
sono asciutti, si rivestono e raggiungono i soldati sulla porta. Più tardi Ferdinando passa nella camera che gli è stata
assegnata. Alessandro e gli altri sono andati a fare un giro in città:
Rougegarde è un centro importante e offre di tutto: botteghe con ogni tipo di
merce, bagni, bordelli di ogni genere. Rientrano alla spicciolata, perché in città si sono divisi
in base ai loro interessi. Ferdinando ha chiesto di essere avvisato quando Alessandro
fosse rientrato, ma quando il giovane arriva, si è fatto tardi: è ormai ora
di cenare e Ferdinando preferisce rimandare il discorso. Soltanto dopo cena, in camera, Ferdinando si ritrova da solo
con Alessandro. Sarebbe il momento di parlare, ma il conte si accorge di non
averne voglia. Preferisce rimandare il momento in cui comunicherà che non
intende andare a Santa Maria, perché teme che la reazione di Alessandro sia
una conferma dei sospetti di Denis, che ormai sono anche i suoi. Ma è proprio Alessandro a introdurre il discorso. - Quando pensi di partire, domani? Mi dicono che di qui ci
vogliono tre giorni. Ferdinando fissa Alessandro. Per un momento tace, poi dice: - Non so. Denis mi sconsiglia di andare a Santa Maria. Alessandro è stupito, non capisce. - Ma Antonio e Sebastiano sono in pericolo. Non andare
significa abbandonarli al loro destino. Per Ferdinando, l’insistenza di Alessandro è un’ulteriore
conferma del tradimento. - Tu pensi che dovrei andare? - Certamente. La tua autorità ti permetterà di liberarli o
almeno di ottenere che scontino la pena nell’Arram. Non puoi lasciarli nelle
mani dei Templari. Ferdinando annuisce, non alle parole di Alessandro, ma a un
pensiero che gli rode dentro. Poi dice, con voce decisa: - No, non partirò. Il duca di Rougegarde me lo sconsiglia. Alessandro è chiaramente disorientato. Insiste ancora, ma il
conte appare irremovibile. Alessandro non sa che cosa fare. Da una parte il
pensiero che Ferdinando non venga arrestato e condannato è un sollievo,
dall’altra lo spaventa, perché sa che in questo caso è la sua vita a essere
in pericolo. Ferdinando taglia corto: - Basta, non ne parliamo più. Spogliati, Alessandro, che ho
voglia di fottere. Alessandro annuisce. Proverà a riparlarne domani. Ferdinando si sta spogliando con gesti bruschi. Oggi appare
nervoso. Lo era già in mattinata. La faccenda dell’arresto di Antonio e
Sebastiano e il viaggio lo hanno irritato. Anche nel fottere Alessandro non
usa le cautele che di solito prende. Lo infilza deciso. Alessandro lancia un
grido: il dolore è stato troppo violento. - Cazzo! Esci, per favore. Ferdinando esita un attimo, poi si ritrae. - Mi hai fatto un male bestiale. Vacci piano. Ferdinando annuisce. Poco dopo avvicina nuovamente la cappella all’apertura e la
infila dentro lentamente. Le sue mani
scorrono lungo la schiena di Alessandro, indugiano sul collo. Se ha tradito… * A Santa Maria, Godefroi e Jorge discutono. - La confessione di Antonio è una prova debole, perché non
può più confermarla. Godefroi concorda. - Sì. Dobbiamo far confessare anche Sebastiano. Jorge dubita che sia possibile costringere a cedere
quest’uomo forte, che le torture non hanno piegato. Ma Godefroi insiste. C’è
uno strumento che di rado viene usato, ma che per un sodomita può essere
adatto. Sebastiano viene portato nella stanza degli interrogatori. Il
boia gli mostra uno strumento metallico. Sorride e dice: - Questa è una pera. Sebastiano guarda lo strumento nelle mani del boia. Ha in
effetti la forma di una pera con un manico al posto del picciolo e una punta
alla base. Il boia fa girare la chiave posta alla punta del manico. La pera
si apre in tre spicchi. Al suo interno non c’è nulla. Sebastiano non capisce. Il ghigno del boia gli dice che il
marchingegno è destinato a lui. Mettono Sebastiano su un cavalletto e gli legano le caviglie
e i polsi. Il dolore alle articolazioni è terribile, ma Sebastiano riesce a
non urlare. Solo quando sente la pressione della pera contro l’apertura
tra le cosce, Sebastiano intuisce. Gli occhi gli si dilatano in uno sguardo
di terrore. Il carnefice spinge la pera dentro di lui. La pressione contro le
pareti è dolorosa. Il carnefice aziona il meccanismo e gli spicchi si aprono.
Il dolore diventa lancinante. Sebastiano non è in grado di reggere. Grida,
più volte, finché non sviene. Fanno molta fatica a risvegliarlo. Gli pongono domande, ma
Sebastiano risponde solo: - Bastardi! Il carnefice dilata ancora la pera. Sebastiano urla e perde
di nuovo i sensi. Non riescono più a farlo rinvenire. Il carnefice richiude il meccanismo e lo estrae. Sangue e
pezzi di interiora escono insieme alla pera. Il giorno dopo Sebastiano riprende i sensi, ma non mangia.
Dal culo continua a perdere sangue e gli sale la febbre. Jorge e Godefroi discutono ancora. Jorge è preoccupato.
L’ultimo interrogatorio di Sebastiano è stato un errore. - A questo punto è assolutamente necessario che il conte
venga a Santa Maria e sia sorpreso mentre ha un rapporto contro natura con
qualcuno dei suoi uomini. Altrimenti tutto ciò che abbiamo fatto non servirà
a nulla. La testimonianza di un morto… no, non potrà mai esserci un processo
a un nobile del regno sulla base della testimonianza di un morto, tanto più
che l’altro arrestato non ha confessato neanche sotto tortura ed è ridotto in
condizioni tali... Quando lo vedranno, diranno che Antonio ha confessato solo
perché è stato torturato come Sebastiano e che questa confessione non ha
nessun valore. Non nei confronti di un conte. Godefroi freme, ma sa che Jorge ha ragione. La lettera del conte arriva il giorno dopo e fuga ogni
speranza. Dopo le formule di rito, il conte comunica: Non
posso recarmi a Santa Maria in Aqsa perché trattenuto qui da alcuni problemi
. Ho piena fiducia nella giustizia dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio e mi
rimetto alle sue decisioni. * Alessandro ha capito che è inutile insistere: all’ennesimo
tentativo di convincerlo a partire, il conte gli ha chiesto perché ci tiene
tanto che lui vada a Santa Maria in Aqsa. Non gli rimane che scrivere una lettera. Gli hanno dato il
nome di un uomo a Rougegarde, a cui trasmettere eventuali messaggi. Ci
penserà lui a far arrivare la comunicazione a Santa Maria in Aqsa. Il
conte aveva deciso di partire, ma il duca di Rougegarde lo ha convinto a
rinunciarvi. Ho cercato invano di convincerlo, ma non ho ottenuto nessun
risultato. Ditemi che cosa devo fare. A. Alessandro consegna la lettera a un mercante che in giornata
si recherà a Rougegarde. Non pensa che qualcuno sospetti di lui e non si
accorge che è sorvegliato. In serata Ferdinando chiama Alessandro. Il conte è seduto su
una sedia e lo fissa. Alessandro si sente a disagio. C’è qualche cosa di
minaccioso nello sguardo di Ferdinando. - Alessandro, devi spiegarmi una cosa. - Che cosa, Ferdinando? Ferdinando tira fuori un foglio. - Questa lettera. Alessandro guarda il foglio. È la lettera che ha scritto in
mattinata. * Sebastiano è stato caricato su una carretta, perché non è in
grado di camminare. La morte che lo attende non lo spaventa: da tempo la sua
vita è un inferno e le fiamme che divoreranno il suo corpo lo libereranno dai
dolori atroci che prova. L’esecuzione è stata organizzata in fretta, perché è
chiaro che Sebastiano non potrebbe sopravvivere a lungo. Quando lo scaricano dalla carretta lo devono portare di peso
sul rogo. La folla guarda, muta. I pantaloni di Sebastiano grondano sangue. Il boia passa una corda intorno al collo di Sebastiano. Se
il sodomita si pentirà e confesserà le sue colpe, verrà strangolato e la sua
morte sarà rapida. - Allora, confessi le tue colpe? Sebastiano sputa in faccia al monaco. Questi si pulisce lo sputo e scende. Il boia incendia le
fascine. Sebastiano, che solo le corde tengono in piedi, grida: - Mi uccidono perché non sono riusciti a farmi accusare un
innocente. Volevano servirsi di me per i loro intrighi. Volevano che
accusassi chi non aveva colpe. Jorge e Godefroi si guardano smarriti. Non si aspettavano
che Sebastiano avesse ancora la forza di gridare e le sue parole sono un
ulteriore macigno sul piano escogitato. Jorge fa un rapido cenno al boia. Questi esita un attimo,
perché le fiamme si stanno alzando, poi salta sul rogo e tira con forza la
corda, soffocando le parole che Sebastiano ancora grida. Poi il boia salta a
terra. Il cadavere del sodomita brucia, mentre un fumo nero si leva in alto. Godefroi sa benissimo che questo rogo servirà a ben poco.
Non è il grande rogo che pregustava. Il lezzo di carne bruciata, il fumo nero
che sale verso il cielo, il cadavere del condannato avvolto dalle fiamme,
tutto corrisponde a ciò che aveva immaginato Godefroi, ma il corpo che il
fuoco divora non è quello possente del conte, è solo quello di un soldato
qualunque, quanto di più lontano dal sogno accarezzato dal templare. * Il sole brilla in cielo e il calore è soffocante, ma nel
bosco c’è ancora un po’ della frescura mattutina. Alessandro è nudo: ha
dovuto lasciare ogni indumento. Cammina rapido, ma non corre, sa che è
inutile, non sfuggirebbe ai cani. Ed anche se lo potesse, non lo vorrebbe.
Non vuole fuggire, vuole solo raggiungere la radura. Il movimento lo fa sudare. Eccola. Qui tutto è incominciato. Qui tutto finirà. Alessandro guarda il coltello che gli è stato dato. Scuote
la testa e lo getta via. Non intende servirsene. Si ferma. Rimane in silenzio. Si dice che non ha paura. Tra
poco i cani lo raggiungeranno e dopo di loro, i cavalieri. Alessandro recita, pianissimo: Bevi ora, e ama, Iskandar. Non sempre berrai e non sempre andrai
con gli uomini. Ci saranno sempre coppe di vino, ma non saranno più le tue labbra a
berle. Ci saranno sempre membri vigorosi, ma
non saranno più i tuoi fianchi ad accoglierli. I latrati dei cani interrompono i versi. Stanno arrivando. Alessandro chiude gli occhi, il suo cuore
batte all’impazzata, tutto il suo corpo è teso. La muta arriva, in un attimo lo circonda. Alessandro rimane
immobile. Guarda le fauci dei cani. Un brivido gli corre lungo la schiena.
Annuisce, anche se nessuno può vederlo. Il conte arriva al galoppo, con otto uomini. Alessandro lo
guarda avvicinarsi. Ora Ferdinando ferma il cavallo, davanti a lui. Il suo
viso sembra impassibile. Fissa Alessandro, che ricambia lo sguardo, senza
abbassare gli occhi, neppure un secondo. Non sente più i cani, non vede più
nulla. Solo gli occhi scuri di Ferdinando, che lo inchiodano in questa radura
dove morirà. Ferdinando ordina ai suoi uomini di smontare e di tenere i
cani. E mentre i servi eseguono e il conte scende da cavallo, Alessandro
guarda gli uomini che si affaccendano a legare gli animali. Il conte li ha
scelti con cura. Alessandro li conosce, almeno di vista, tutti. Otto uomini
robusti, muscolosi, con le spalle larghe e braccia forti. Otto animali che
l’odore del sangue eccita. - Spogliatevi. L’ordine del conte viene eseguito senza esitare. Gli uomini
sanno già quello che devono fare. Alessandro li guarda mentre si tolgono la
camicia e le braghe. Guarda i loro cazzi e di nuovo un brivido gli percorre
la schiena. Tre di loro ce l’hanno già duro. Ora sono tutti e otto intorno a
lui. Ghignano, mentre si avvicinano. Alessandro vede i loro sguardi carichi
di un desiderio feroce. Berto si mette davanti a lui. Alessandro guarda il corpo
possente, il cazzo taurino, già perfettamente teso. Una fitta peluria nera
gli ricopre tutto il corpo. È una bestia che sta per ghermire la preda. - Ora. All’ordine del conte, Berto chiude il pugno e colpisce
Alessandro al ventre, con tutta la sua forza. Il mondo vacilla e sembra
svanire. Alessandro cade a terra. Gli allargano le gambe. Berto passa dietro di lui. Gli sputa sul buco del culo. Poi
entra, con un colpo secco, ed Alessandro urla. Il dolore è tanto forte da
annebbiargli la vista. Alessandro è solo più un animale, da prendere per il proprio
piacere, da scannare, da dare in pasto ai cani. Berto spinge con violenza e ogni spinta è una lacerazione. Presto
ha concluso. Ora che si è preso il suo piacere, c’è posto per un altro. Maso
si mette su Alessandro. Anche lui entra senza riguardo, godendo del suo
trionfo. Alessandro ha le lacrime agli occhi. Alza la testa e guarda
il conte, che lo sta fissando. Ferdinando non si è tolto gli abiti, ma è
evidente che anche lui è eccitato. Uno dopo l’altro, tutti e otto lo prendono. Ognuno rinnova e
moltiplica il dolore. Ognuno si sazia in fretta. Bestie che soddisfano il
loro bisogno. Poi lo forzano a mettersi in ginocchio. Dal culo gli colano
sborro e sangue. Il dolore lo acceca. Berto è davanti a lui. - Puliscimi, troia. Alessandro apre la bocca e pulisce. Sente che il cazzo di
Berto sta crescendo di volume. Continua a leccarlo e succhiarlo. Berto viene una seconda volta, nella sua bocca. Dopo di lui,
anche gli altri si fanno pulire e due di loro lo forzano a succhiargli il
cazzo fino a che gli vengono in bocca. Berto si avvicina di nuovo. - Apri la bocca. Alessandro ubbidisce. Berto avvicina il cazzo ed incomincia
a pisciare. Alessandro beve, poi, quando non ce la fa più, chiude la bocca ed
il piscio gli cola sul mento e sul torace. La voce del conte risuona, imperiosa: - Ora andate. Gli uomini si rivestono. Prendono i cavalli e se ne vanno.
Liberano i cani. Alessandro è ancora in ginocchio. Ferdinando si mette
davanti a lui. Il conte si spoglia, senza distogliere gli occhi da quelli
di Alessandro. Ora è nudo. Alessandro guarda per l’ultima volta il corpo del
suo assassino. Guarda il cazzo superbo che ha accolto tante volte. Il dolore
lancinante che gli sale dal culo non ha più importanza, anche se sta per
rinnovarsi, anche se sarà proprio quella picca voluminosa ad accenderlo
un’altra volta, in un rogo inestinguibile, che solo la morte spegnerà. - A quattro zampe. Alessandro esegue. È una bestia da scannare e quella è la
sua posizione. Ferdinando posa il coltello di fianco ad Alessandro, ad un
palmo dalla sua mano. Alessandro potrebbe prenderlo e cercare di uccidere il
suo assassino, ma sa che non lo farà, anche se forse entrambi lo vorrebbero. Il conte gli afferra il culo con le mani, tanto forte da
farlo gemere. Poi avvicina il cazzo al buco, guarda l’apertura da cui colano
sangue e sborro. Ride, una risata violenta che Alessandro sente come un
graffio sulla pelle. Il conte entra, da trionfatore. Di nuovo il dolore,
violento, ma anche il piacere. Alessandro non saprebbe dire quale sensazione
è più forte. A lungo, molto a lungo, Ferdinando rimane dentro di lui,
senza muoversi, ed il dolore sfuma, il piacere cresce e si dilata, impetuoso.
È sempre più forte e ora che il conte prende a muoversi dentro di lui,
sovrasta la sofferenza, la costringe a tacere. La tensione cresce, gli sale
dai coglioni e infine il precipizio si spalanca davanti a lui. Ora, nell’attimo in cui il piacere sta per esplodere,
Ferdinando prende il coltello. Alessandro sente la tensione deflagrare e,
mentre il seme sgorga, la punta della lama preme contro il basso ventre. Ferdinando immerge la lama. Alessandro
urla il dolore atroce che sale dal suo corpo straziato, il piacere
travolgente che si spegne nella sofferenza. Ferdinando muove la lama, aprendo
il ventre di Alessandro dai coglioni fino all’ombelico. Il giovane emette un
suono strozzato e cade a terra. Ferdinando cade con lui e rimane sopra quel
corpo, dentro quel corpo, ancora un buon momento. Poi si alza. Ferdinando
volta il corpo con il piede. Guarda il cazzo teso, di fianco a cui la lama ha
aperto uno squarcio. Guarda Alessandro, che agonizza, ma ancora è cosciente e
lo fissa. Ferdinando chiama i cani e dà il segnale. La muta si lancia sulla
preda, l’azzanna, incomincia a divorarla. Alessandro sente i morsi nella
carne, il dolore della lacerazione. Urla, mentre ancora guarda il conte. Poi
il mondo scompare per sempre. Il conte rimane immobile a guardare i cani che
si cibano del corpo di Alessandro. Poi si riveste, senza pulirsi, sale a
cavallo e si allontana. Note 1 Poesia di Kavafis 2 Poesia di Kavafis 3 Rielaborazione di una poesia di Albisola 4 Rielaborazione di una poesia di Stratone |