Al Genji Club Tra mezz’ora devo uscire.
Mi faccio una doccia e mi vesto. Quando ho finito, guardo l’orologio: naturalmente
è ancora presto, non ci metto molto a prepararmi. È meglio che aspetti ancora
dieci minuti, non vorrei arrivare troppo in anticipo e poi dovermi sorbire
più a lungo del necessario la conversazione vacua di queste occasioni. Dovrò
già farlo dopo lo spettacolo. Non ho nessuna voglia di
andare, ma non mi va neanche di starmene a casa. Sono scazzato, questa è la
semplice verità, sempre più insoddisfatto della vita che conduco. Sul lavoro
non avverto questa sensazione, perché sono troppo coinvolto. E poi il mio
lavoro mi è sempre piaciuto e mi dà parecchie soddisfazioni. Ma quando torno
a casa, tutto il mio malcontento viene fuori. Mi siedo e guardo dalla
finestra il panorama della città illuminata. I pensieri vagano e, come
mi capita spesso, mi chiedo perché sono qui. Mio padre mi diceva sempre
che bisogna sforzarsi di fare il proprio lavoro nel miglior modo possibile:
se uno lavora sul serio, prima o poi otterrà il riconoscimento che gli
spetta. E se anche non dovesse ottenerlo, non dovrà mai vergognarsi delle sue
azioni e non sarà costretto ad abbassare lo sguardo quando incontra una
persona onesta. Sante parole, me lo dico
sempre. Lo dico anche a lui, quando ci sentiamo per telefono o quando vado a
trovarli, lui e mia madre, una volta ogni tre mesi (se va bene). L’unico
punto su cui ho dei dubbi è la faccenda di non dovere mai abbassare lo
sguardo: qui lo devo fare quasi sempre, altrimenti faccio la figura del
cafone. Io sono più alto della media (europea) e i giapponesi sono più bassi
degli europei, per cui se non abbassassi un po’ gli occhi, finirei per
guardare sopra la testa della gente. Non sarebbe gentile, da parte mia. Seguendo i consigli di mio
padre, di strada ne ho percorsa, moltissima: sono arrivato all’altro capo del
mondo. L’unico problema è che incomincio ad avere dei dubbi sul fatto di
riuscire a tornare indietro, un giorno o l’altro. E dire che quando il
direttore generale mi propose di andare in Giappone per sei mesi, mi sembrò
una splendida occasione: a trentadue anni sarebbe stata un’esperienza
importante, che avrebbe avuto un peso nel mio curriculum e mi avrebbe
permesso di fare carriera al mio ritorno. Avevo visto giusto, a parte quel
dettaglio “al mio ritorno”. La carriera c’è stata, il mio stipendio ha avuto
un’impennata davvero notevole, anche considerando i costi proibitivi della
vita da queste parti, sono diventato famoso e sono pure finito in copertina
su una rivista economica giapponese e su una inglese. Ho ricevuto offerte una
più allettante dell’altra da varie ditte della concorrenza. Tutte per
lavorare in Giappone, ovviamente. I sei mesi sono diventati
un anno, poi due, poi… poi non è più stato fissato
un termine. So che mi basta accennare all’idea di tornare a lavorare a Londra
per ricevere un aumento o qualche bonus, benefit o come cazzo volete
chiamarli. Ho quattro voli Tokyo-Londra in prima
classe pagati ogni anno, corrispondenti a quattro settimane di ferie da fare
una alla volta, ma sono voli di andata e ritorno. Ho lavorato seriamente, ho
avuto successo e ora sono incastrato in questa città, tra un ufficio e un
appartamento, entrambi alquanto lussuosi, a migliaia di chilometri dalla casa
dei miei genitori (io una casa a Londra non l’ho più: l’ho venduta, che la
tenevo a fare?) e senza nessuna speranza di tornare indietro. Ora di muoversi. Spero che
lo spettacolo sia interessante. Da quando c’è Ellen Marsh,
la compagnia teatrale è molto migliorata. Lei è in gamba, aveva già recitato
in Inghilterra, e qui fa da regista e da attrice. Il problema sono le parti
maschili: di solito gli attori maschi sono piuttosto scarsi. Non è strano:
gli spettacoli sono messi in scena da un gruppo di europei, soprattutto
inglesi, e americani che vivono a Tokyo perché qualcuno della loro famiglia
si è trasferito qui per lavoro. Sono quasi sempre gli uomini a essere stati
mandati a lavorare in Giappone e le mogli li accompagnano. Perciò ci sono
parecchie donne che si annoiano e sono alla ricerca di qualche attività che
renda le loro vite più interessanti: il teatro è una di queste. Ci sono anche
le visite culturali e il sesso, ovviamente. Se fossi etero avrei un sacco di
occasioni. Prima che arrivasse Ellen,
mettevano in scena testi come Otello
e Macbeth: da piangere, non per la
storia, ma perché sono testi che richiedono attori di alto livello e non
tutti hanno un talento teatrale. Ellen propone testi più alla portata degli
attori dilettanti. Magari Shakespeare, sì, ma La dodicesima notte, oppure, come questa sera, Agatha Christie: Trappola per topi. Nel foyer del teatro ci
sono già molte persone. Alcuni si avvicinano. C’è qualche uomo d’affari che
ne approfitta per parlarmi di lavoro (cosa che non apprezzo, anche se a volte
per sfuggire a certe conversazioni va bene anche questo), qualche signora che
mi fa la corte, non avendo ancora capito che anche se fosse Marylin Monroe
non avrebbe nessuna speranza. Avvisto infine Pauline Godier e la raggiungo: è una delle poche persone con cui
ho un rapporto più confidenziale, quasi un’amica. Mi piace moltissimo e
apprezzo la sua intelligenza e la sua sensibilità. Dopo i saluti, parliamo
dello spettacolo. - Credo che sarà uno dei
migliori che abbiamo visto. - Mi fa piacere. Ellen farà
la giovane sposa, come si chiama? - Mollie.
Sì, è lei. Sam è il marito, Giles. E il sergente Trotter è Alessandro Greco. Il nome mi dice qualche
cosa, ma non riesco a collegare, nonostante il sorriso di Pauline mi dica che
dovrei sapere chi è. - Lo dovrei conoscere? Paulette sorride: - Almeno di nome sì. Scuoto la testa. Poi mi
viene un lampo: - L’attore? Quello che è
arrivato con quel tipo californiano? - Esatto. In effetti ne ho sentito
parlare più volte. Un personaggio affascinante e per di più gay: mi
piacerebbe conoscerlo meglio (anche in senso biblico), ma lui frequenta
pochissimo la comunità euro-americana a Tokyo, come me d’altronde. Ed è
difficile che due persone si incontrino in un posto dove entrambe vanno molto
di rado. È arrivato poco dopo di me, quasi quattro anni fa, con il suo
compagno, un uomo d’affari. Invece di fare la parte del coniuge annoiato, si è
messo a studiare il giapponese (può sembrare incredibile, ma c’è gente che è
qui da cinque anni e sa dire solo sayonara, konbanwa, domo arigato e sumimasen), ha trovato lavoro come attore in diversi film,
dove di solito fa il poliziotto o il criminale o il turista americano. Non è
diventato una star, però ottiene parti significative. Con l’industriale californiano
ha rotto già prima che quello tornasse negli USA ed è rimasto a vivere qui. Pauline sorride e dice: - Secondo me dovresti
cercare di conoscerlo. Sorrido. Pauline sa benissimo
quali sono i miei gusti. - Mi piacerebbe, eccome. - Dopo lo spettacolo te lo
presento. - Grazie, sei davvero
un’amica. Magari questo tipo ha
voglia anche lui di conoscere un europeo con cui combinare qualche cosa. Il sesso è una delle note
dolenti del vivere in Giappone, come pure l’amicizia e l’amore. Qui ho molti subordinati
(sei quando sono arrivato, settantanove adesso: capisco perché alla direzione
centrale nessuno vuole che io ritorni a casa), rapporti amichevoli con
qualcuno, ma nessun vero amico e pochissime possibilità di trovare l’amore o
anche solo una serata di sesso, un po’ perché comunque sono il capo e questo
rende più difficile un rapporto paritario, un po’ perché molti degli europei
tornano a casa dopo un po’ di tempo – beati loro - e con i giapponesi è meno
facile. Non frequento molto la comunità di americani e inglesi a Tokyo,
perché mi manca il tempo e perché la vivo come un ghetto soffocante: ci vado
ogni tanto, ma partecipo solo ad alcune iniziative, come lo spettacolo di
questa sera. Il sesso a pagamento non mi ha mai attratto. Il risultato è ovvio.
L’abbonamento a Men at Play lo pago io, però: anche
se il direttore generale mi ha sempre detto che posso caricare in conto alla
ditta qualsiasi spesa legata allo svago, non mi va di farlo. Anche i
preservativi me li pago io, ma purtroppo non è una grande spesa e di solito
li butto perché scadono. Insomma: sono solo. Gli amici di Londra ormai
sono sempre meno amici: è vero che a volte ci telefoniamo (posso fare tutte
le telefonate private che voglio a spese della ditta: uno dei tanti benefit
per bloccare una richiesta di rientro fatta due anni fa) oppure ci parliamo attraverso
Skype o chattiamo, ma non è sufficiente e gli orari
completamente sfasati ci complicano la vita. La solitudine è il
problema principale del vivere in questo maledetto paese. Intendiamoci, non
ho niente contro il Giappone: è una realtà affascinante, con una cultura che
amo profondamente – e questo è sicuramente uno degli elementi del mio
successo, perché i giapponesi adorano questo inglese che parla giapponese e
conosce le loro tradizioni. La cucina è quello che è,
ma a Tokyo ci sono ottimi ristoranti italiani: anche se sono alquanto cari,
io ci potrei mangiare tutte le sere. Ristoranti inglesi no, non li ho
cercati: ho sempre considerato la cucina inglese un ottimo motivo per
emigrare; non è una novità che gli inglesi hanno conquistato il mondo alla
ricerca di posti dove mangiare meglio che a casa (e continuavano a
conquistare, perché dovunque mangiavano meglio); e se gli inglesi non hanno
conquistato il Giappone secondo me è solo perché dopo i primi contatti hanno
capito che quanto a cucina non avrebbero fatto un buon affare. D’accordo,
avete ragione, c’è il sushi. Non si vive di solo sushi. Un altro neo è che gli
appartamenti sono molto piccoli, ma il mio è più che sufficiente per me (e
credo che costi alla ditta quanto un attico a Manhattan). I trasporti sono
efficienti e in ogni caso il traffico se lo becca il mio autista. Ma la vita
non è soltanto un lavoro ben retribuito e pure soddisfacente, anche se molti
sarebbero ben felici di averlo. Ci sediamo in sala. Lo
spettacolo è piacevole e più che mai mi conferma l’intelligenza di Ellen:
anche se alcuni degli attori non sono il massimo, il tutto scorre bene.
Arriva infine in scena il sergente Trotter, questo famoso Alessandro Greco.
Appena lo vedo, capisco che non ho nessuna speranza. Ha un fisico atletico,
da dio guerriero, e una faccia belloccia. Uno così può avere tutti gli uomini
che desidera, tutti gli uomini gay, almeno. E non ha molti motivi per volere
uno come me. Non faccio schifo, ma non sono al suo livello. Pauline si china e mi sussurra
all’orecchio: - Vale la pena di vederlo,
no? - Concordo. Al 100%. Greco dimostra una grande
sicurezza sulla scena: si vede che è abituato a recitare. Nel finale se la
cava, senza brillare: deve essere a suo agio più in film d’azione che nel
rendere i tormenti interiori di un personaggio come lo pseudo-sergente
Trotter. Lo spettacolo è un
successo, grandi applausi per tutti. Gli autori si uniscono al
pubblico per il rinfresco. Intorno ad Alessandro Greco c’è un gruppo numeroso
e io lascerei perdere, ma Pauline insiste: - Secondo me gli piacerai.
Ha molte più cose in comune con te che con tutti gli altri qui. La guardo, dubbioso. - Non certo il fisico. - Non sottovalutarlo. - Sottovalutarlo? Ti sto
dicendo che uno così manco mi guarda. - Appunto, non sottovalutarlo:
anche se cura molto il suo aspetto, non è uno che pensa solo alla palestra.
Secondo me ti apprezzerà. Non sono convinto di
quello che mi dice Pauline, ma in effetti non provarci sarebbe davvero
assurdo: mi piace, parecchio; perché mai dovrei rinunciarci? Mal che vada,
constaterò che uno come me neanche lo vede. Aspettiamo un momento e
poi anche noi ci uniamo al gruppo. Il sorriso con cui Alessandro accoglie
Pauline è un punto a suo favore (doppio: in primo luogo perché dimostra che
l’apprezza e che quindi il suo cervello funziona; in secondo luogo perché è
un bel sorriso). - Alessandro, volevo
presentarti Ernest Greenwood. Credo che tu lo
conosca di nome, come lui conosce te. Il sorriso di Alessandro
si allarga, mentre mi stringe la mano e dice: - Piacere di conoscerti di
persona, Ernest. Ho sentito parlare di te: pare che tu sia in gambissima nel tuo lavoro. Parla l’inglese, quello
degli USA, con molta sicurezza e un leggero accento italiano. Chicchieriamo un momento della mia attività, poi dello
spettacolo. Noto che privilegia me e Pauline come interlocutori, anche se ci
sono diverse altre persone intorno. Dopo un po’, quando il
gruppo si riduce perché molti si dirigono ai tavoli del rinfresco, si
avvicina uno che conosco di vista. - Allora, Alessandro, ci
facciamo un bel poker? - Certo, volentieri. Poi Alessandro si rivolge
a me e mi dice: - Ernest, che ne diresti
di unirti a noi? Se fosse qualcun altro a
chiederlo, direi di no. Non amo molto il gioco e sono anni che non gioco a
poker: lo facevo a volte a Londra con gli amici. Ma se non accetto, lo perdo
di vista subito dopo averlo conosciuto e tutto sommato mi sembrerebbe assurdo
non cogliere l’occasione di conoscere un po’ meglio questo dio guerriero, almeno
per una serata. Magari dopo la partita a poker se ne potrebbe giocare una a
scopa. Non mi faccio troppe illusioni, sinceramente, ma provare non costa
molto. Prima di dirgli di sì, gli
chiedo qualche informazione, poi accetto. Salutiamo Pauline, che mi sorride
con aria complice, poi gli offro un passaggio: lui è venuto in metropolitana,
io con l’autista. Il viaggio in auto è
un’occasione per chiacchierare. Gli chiedo dell’ultimo film, che ha finito di
girare due mesi fa e sta per uscire nelle sale. Alessandro interpreta un
agente della CIA inviato in Giappone per collaborare con la polizia locale
nelle indagini su un gruppo criminale che agisce in diversi stati. Riesce nel
suo compito, ma viene scoperto e massacrato dalla Yakuza:
nella scena finale viene crivellato con settanta colpi. - Settanta colpi? Li hai
contati? Alessandro ride. - No, lo dice il medico
che mi fa l’autopsia. Niente di nuovo, comunque: sai com’è, con il genere di
film che giro, finisco ammazzato tre volte su quattro. Mi sono fatto un’esperienza
unica nel finire ammazzato. - Sono quasi sempre film
gialli? - Gialli, noir, d’azione.
Non ne hai visto nemmeno uno, vero? - Non vado molto al
cinema. - Ma so che parli
benissimo giapponese. - Benissimo forse è
eccessivo. Diciamo che non ho molto tempo per il cinema. - E quando ci vai cerchi
qualche film più interessante di quelli che giro io. Non ti do torto. Mi chiede di nuovo del mio
lavoro e mi spiace che il viaggio non sia più lungo: parlo volentieri con lui.
La serata promette bene. Raggiungiamo il locale di Shinjuku,
il Genji Club, dove ci danno una saletta riservata.
Siamo in cinque, tre statunitensi, un inglese (io) e un italiano (Alessandro).
Cambiamo cinquecento dollari. Mi dico che non ne cambierò altri, anche se
dovessi perdere tutto. Potrei cambiarne di più, non avrei problemi a perderne
dieci volte tanto, ma se qualcuno di loro ha visto in me un pollo da
spennare, non intendo farmi togliere più di qualche penna. So di non essere
un grande giocatore. Scopro presto che non lo sono neanche gli altri. Sono
tutti dilettanti e per loro cinquecento dollari sono già una grossa cifra. Giochiamo tre ore, al
termine delle quali io ho perso un centinaio di dollari e Alessandro ne ha
vinti duecento. Anche per gli altri, vincite o perdite non superano queste
cifre. Sembrano tutti soddisfatti di aver giocato, anche chi ha perso un po’.
Propongo ad Alessandro di
riaccompagnarlo a casa e lui accetta. Chiacchieriamo ancora, questa volta
delle nostre vite prima di trasferirci a Tokyo. Io però sono teso. Mi domando
se mi chiederà di salire a casa sua. Spero che lo faccia. Non c’è nulla nella
nostra conversazione che vada in quella direzione, ma lui è gay e io lo so,
io sono gay e credo che lui lo sappia. Perché no? Le mie aspettative vanno
deluse. - Ti chiederei volentieri
di salire, ma abito da un amico, che mi affitta una camera, e non posso
portargli qualcuno in casa a quest’ora. Prendo nota che non mi ha
chiesto di andare a casa mia, dove potremmo parlare (e non solo) in piena
libertà. - Non c’è problema. Ormai
è tardissimo e vado volentieri a dormire. Bugia, ma non posso dire
altro. Dovrei scoprirmi e lui non mi ha offerto il minimo appiglio. Vorrei
chiedergli chi è questo amico, se è soltanto un amico e non un compagno, ma
non voglio essere indiscreto. Sono un po’ deluso. È stato piacevole parlare
un po’ con lui, ma proprio per questo vorrei qualche cosa di più. Lui però prosegue: - Senti, mi piacerebbe che
ci vedessimo ancora. Sono a Tokyo per dieci giorni, prima che incomincino le
riprese del prossimo film. Ti lascio il mio numero di cellulare. Io gli do il mio e ci
lasciamo. Lo guardo scendere ed entrare nella casa. Le sue ultime parole
hanno lasciato aperta una porta e di sicuro cercherò di entrare. Sono le tre di notte, ma
prima di mettermi a dormire dovrò per forza guardarmi un filmato di Men at Play e utilizzare la mia mano destra. Se mi
mettessi a letto ora, non riuscirei a prendere sonno. Mi sveglio che è quasi
mezzogiorno: per mia fortuna non ho problemi con il sonno e, se non devo alzarmi
presto per lavoro, posso recuperare senza difficoltà una serata in cui ho
fatto tardi. Oggi è domenica e vorrei telefonare ad Alessandro e chiedergli
che cosa fa, ma ieri, pur avendo chiacchierato piacevolmente, non abbiamo
certo raggiunto un livello di intimità sufficiente per chiamarlo appena
alzato. Perciò rinuncio all’idea. Mi alzo, mi preparo la colazione e accendo
il computer per vedere la posta. Poi do un’occhiata a qualche quotidiano
online (giapponese, inglese e statunitense). Il telefono squilla.
Vorrei che fosse Alessandro ed esito un attimo a rispondere, per cullarmi
nell’illusione, che viene subito smentita dai fatti: il numero è quello di
mia madre, che chiude la chiamata subito, come al solito. Così io le
ritelefono, a spese della ditta. Il pensiero di Alessandro
ritorna più volte e mi disturba. Decido che gli telefonerò a metà pomeriggio,
per proporgli una cena insieme in settimana, un’occasione per sondare il
terreno. Quando compongo il numero,
il telefono squilla a lungo senza che Alessandro risponda. O non sente, o ha
visto il mio nome e ha deciso che preferisce non parlarmi. Se non ha sentito,
vedrà che c’è una chiamata persa, per cui se vuole può telefonarmi. Alessandro non si fa vivo,
né domenica, né lunedì. Intendo cercarlo di nuovo: può non essersi accorto
che io ho telefonato, per un qualunque motivo, e in ogni caso è stato lui a
dirmi che gli avrebbe fatto piacere vedermi ancora. Però preferisco lasciar
passare qualche giorno: non voglio apparire impaziente. Mercoledì sera faccio un
secondo tentativo, dicendomi che sarà l’ultimo. Questa volta il telefono è
staccato. Va bene. Se vuole, mi richiama, se no, vaffanculo
(magari è proprio quello che sta facendo). Nessuna chiamata da parte
di Alessandro, né mercoledì, né nei giorni successivi. Metto nel
dimenticatoio, senza nessuna fatica. Il sabato pomeriggio il
cellulare squilla. Guardo il display e vedo il nome di Alessandro. Meglio
tardi che mai. - Ciao, Alessandro. - Ciao, Ernest. Scusa se
non ti ho cercato prima, ma le cose sono andate in modo imprevisto. Ti
telefono da Sapporo. Sapporo è nell’isola di
Hokkaido, la più settentrionale del Giappone. - Come mai? - Uno degli attori del
film si è ammalato mentre stavano per incominciare le riprese e allora hanno
deciso di girare prima alcune scene in cui c’ero io. Me l’hanno comunicato
domenica e in serata ho preso il volo per Sapporo. Settimana di fuoco, tra
finire di studiare la parte, un regista incazzato per il cambio di programma
e diversi incovenienti tecnici. - Mi spiace. Per quanto
tempo ne hai ancora? - Tre settimane, ahimè.
Qui fa un freddo bestiale. Chiacchieriamo un momento.
Poi Alessandro mi dice che si farà vivo quando torna. Le tre settimane passano. Alessandro
non si fa vivo. Magari non è ancora tornato. Mi dicono invece a una serata
musicale che è a Tokyo da diversi giorni. Non gli telefono: se non gli
interesso, non ha senso che cerchi di impormi. Due settimane dopo scopro che
è ripartito per girare altre scene del film, in una località termale. Mi metto il cuore in pace.
Intanto è il mio turno di partire: una settimana a Londra, a ritrovare i
vecchi amici, a vedere i miei genitori e mia sorella. Non parto volentieri,
per quanto possa sembrare assurdo: partire sapendo che poi dovrò tornare mi
fa stare male. A Londra passerò alla sede centrale della ditta per parlare
con il direttore generale. Ho già fissato un appuntamento. Ne ricaverò alcune
nuove assunzioni (continuiamo a espanderci) e una serie di benefit non appena
accennerò alla possibilità di tornare a Londra. A Londra ricevo una
chiamata di Alessandro. Non rispondo, pensando che è meglio che lo richiami
io: probabilmente non sa che io sono a Londra e che quindi la chiamata gli
costerebbe un occhio della testa. A me non costerà nulla (rientra sempre nei
benefit). Ma quando sto per premere il tasto e richiamarlo, mi chiedo che
senso ha. Ha una serata libera e non ha niente di meglio da fare? Non posso
raggiungerlo adesso, quindi è inutile. Lascio perdere. Alessandro riprova il
giorno dopo e anche questa volta non rispondo e non lo richiamo. Mi chiedo se
non mi sto comportando da stronzo. Forse sì, ma mi sembra che la faccenda non
abbia senso. A lui non importa niente di me (e come potrebbe essere
diversamente? Ci siamo visti un’unica volta), dice che mi cercherà, ma poi quando
è a Tokyo non prova nemmeno una volta a chiamarmi. Evidentemente mi cerca solo
se non ha niente di meglio da fare. Mi piace, molto, ma non ha senso
corrergli dietro. Meglio chiudere. Chiudere qualche cosa che non è nemmeno
incominciato. Al momento di ripartire
per Tokyo ho un attimo di cedimento. Mi dico che potrei non prendere questo
fottuto aereo e rimanere a Londra, mandando a quel paese l’ennesimo aumento
di stipendio, la quinta settimana di ferie e un appartamento più grande (che
ho rifiutato: non me ne faccio niente e il trasloco sarebbe solo un lavoro in
più). Non so perché parto,
probabilmente per inerzia. Il Fuji che svetta sopra
le nuvole è una bella vista, ma l’aereo si immerge e quando atterriamo ad
attendermi c’è solo un cielo grigio (e l’autista, naturalmente). Mi sembra
che sia la mia vita a essere grigia, ma sono stupidaggini. Passo due mesi di intenso
lavoro. Ottengo un ulteriore aumento del fatturato. Seguo un corso di calligrafia:
sono ovviamente l’unico europeo. Leggo Kawabata in
lingua. Mi rendo perfettamente conto che non funziona, che il vuoto affettivo
mi pesa. Alessandro non si fa più
vivo ed è meglio così. Ho visto un suo film, l’ultimo che è uscito. Ha una
parte abbastanza importante e il film, senz’essere di alto livello, ha un
certo spessore. Mi fa piacere per lui, perché mi è simpatico. Spero che la
sua carriera prosegua e che la sua vita sia più soddisfacente della mia. Esco a cena con Pauline.
Le parlo del senso di solitudine che provo: è la prima volta che sono così
franco. A un certo punto lei mi chiede: - Come mai non ti sei più
fatto vivo con Alessandro? Alzo le spalle. - Pauline, con Alessandro
non ha funzionato: non è scattata nessuna scintilla. Ci siamo parlati un po’,
senza che si aprisse uno spiraglio. - Io ho l’impressione che
tu gli piaccia molto. - Pauline! Non dire
sciocchezze. Alessandro non si è nemmeno accorto che io esisto. Mi ha cercato
due volte perché non aveva niente di meglio da fare, ma non gli interesso. - Non credo. Anche lui è convinto
di non piacerti. Dice che ti ha cercato, ma tu non ti sei fatto vivo. - Credi che uno come Alessandro
possa davvero pensare di non piacere a un qualunque maschio gay? - Alessandro ha avuto una
brutta esperienza con l’uomo d’affari californiano. Si è sentito disprezzato,
trattato come una marchetta. Anche tu sei un uomo d’affari, di grandissimo
successo, assai più dell’americano. Metti in soggezione chi non ti conosce,
oltre a tutti i tuoi rivali in affari. - Non devo mica fare
affari con lui. Io l’ho cercato. Perché lui non ha fatto altrettanto? Pauline sorride: - Alessandro è
sostanzialmente un insicuro. - Insicuro? Uno come Alessandro?
Con il corpo che ha? - Anche tu, Ernest! - Anch’io che cosa? - Anche tu come tutti gli
altri a pensare che se uno ha un gran bel corpo, allora deve essere sicuro di
sé, vanesio e magari pure stronzo. Parliamo ancora un buon
momento. Pauline mi dice che Alessandro ha appena finito di girare un film di
un certo livello e che sta lavorando in una serie per la televisione, ora. Ma
insiste che in qualche modo io e lui dobbiamo ritrovarci. Io sono molto scettico. Due mesi dopo Pauline mi
telefona: - Ernest, mi accompagni
alla prima dell’ultimo film di Alessandro? Pauline sa essere ostinatata, ma questo non è una novità. Il film è davvero di buon
livello. È un film storico, ambientato a Nagasaki al tempo in cui la città
aveva un quartiere commerciale olandese. Alessandro è un avventuriero che fa
amicizia con un samurai. Il loro rapporto ha anche una sfumatura di
attrazione sessuale, che però non si concretizza. Appare solo in una scena,
in cui entrambi si lavano in una fonte termale e il samurai osserva il corpo
di Alessandro. Lo guardo anch’io, lo guardiamo tutti, in sala, e sono sicuro
che non sono l’unico uomo a cui viene duro. Non si vede di fronte, ma da
dietro lo posso ammirare per intero. Ed è davvero un bello spettacolo. Anche
il samurai non è niente male. Assomiglia al Mifune Toshiro di Rashomon. Lo si vede
nudo solo un attimo, quando entra nell’acqua, ma in diverse scene indossa
solo il fundoshi, per cui posso apprezzare il suo
corpo armonioso e virile: in generale non sono attratto dai giapponesi,
perché preferisco uomini più muscolosi, ma a uno così di certo non direi di
no. Il film ha un finale tragico.
Il samurai è sospettato di essere in combutta con gli europei e deve uccidere
Alessandro per dimostrare la sua innocenza. Lo fa, a tradimento, ma questo
non è sufficiente ed è costretto al seppuku: il
film finisce nel momento in cui l’uomo si immerge la spada nel ventre e il
sangue schizza. Su quel fermo immagine scorrono i titoli di coda. Dopo la proiezione, io me
ne andrei, ma Pauline non mi molla. Partecipiamo al rinfresco e poi, quando
ormai gli ospiti se ne vanno, ci avviciniamo ad Alessandro, che è con Kasunari Goro, l’attore che
interpreta il samurai. Pauline si fa avanti. Io
la seguo. Alessandro mi saluta. Ci stringiamo la mano. La tengo un attimo di
troppo. O forse è lui che tiene la mia. Non lo so. Poi Alessandro mi presenta
Goro e io gli dico che ho ammirato la sua bravura. Goro si stupisce a sentirmi parlare giapponese. - Come mai conosce il
giapponese? - Lavoro qui da quasi
cinque anni, ormai. E l’ho studiato. - Ma lo parla benissimo.
Già mi aveva stupito che Alessandro lo parlasse così bene, ma trovare un
secondo europeo che conosce la mia lingua… - Ci sono tanti giapponesi
che parlano benissimo la mia. - Non così tanti, lo sa anche
lei. Goro è curioso. Mi pone molte domande e ogni
mia risposta lo sorprende. Finisce che conversiamo io e lui, trascurando
tutti gli altri ospiti, che, molto educatamente, si allontanano. Pauline
parla con Alessandro. Vorrei coinvolgerlo, ma Goro
mi monopolizza. - Alessandro parla bene il
giapponese, ma non è un conoscitore della nostra cultura. Lei sembra essere
un intenditore in grado di dare lezioni a certi nostri maestri. Scommetto che
è anche un esperto di calligrafia. - Ma no, so apprezzare un
carattere tracciato bene, ma quanto a essere un esperto, ce ne passa. La sala si svuota, Alessandro
se ne va con Pauline, ma Goro non mi molla. Come
tutti i giapponesi, è riservato, ma alcune sue domande sul film mi mettono
sulla strada giusta. - Le è piaciuta la scena
del bagno alle terme, Greenwood-san? - Certo, Kasunari-san. Due bellissimi attori che esprimevano bene
il loro reciproco desiderio. - Non era difficile per
me: Alessandro ha un corpo splendido. - Direi che anche Goro ha un gran bel corpo. È la prima volta che uso
il suo nome. Ma a questo punto so di potermelo permettere. Lui sorride. - Noi giapponesi di solito
piacciamo poco agli europei. Cercano solo i ragazzi. - Non tutti gli europei
hanno gli stessi gusti. A me non piacciono i ragazzi. Lui tace, un po’ incerto.
Io procedo: - Andiamo a casa mia, Goro? Possiamo proseguire questa conversazione in
libertà. Goro accetta. Goro apprezza molto l’appartamento, molto
grande per gli standard giapponesi. Beviamo un bicchiere e poi mi avvicino a
lui. Lo bacio sulla bocca. Non si ritrae, ma non mostra un grande entusiasmo.
Però mi scioglie il nodo della cravatta e apre la camicia. Allora incomincio
a spogliarlo. Ha davvero un bel corpo, Goro. Goro non prende iniziative. Mi lascia fare.
Raggiungiamo la camera da letto. Goro si stende e allarga le gambe. Io mi
metto sul letto, in ginocchio, tra le sue gambe e incomincio ad accarezzarlo,
a pizzicargli il culo. Poi sputo sull’apertura, due volte, e con un dito
spargo la saliva. Introduco il dito, piano, fino in fondo. Lui si tende
appena. Ripeto l’operazione, poi mi infilo il preservativo e mi stendo su di
lui. Con la mano guido il cazzo fino all’apertura ed entro. Lui emette un
sospiro. Incomincio la mia
cavalcata, lentamente. Ogni tanto mi interrompo per baciargli la nuca. Gli
accarezzo i capelli. Ma sembra indifferente a questo contatto. Imprimo un ritmo più
deciso ai miei movimenti, finché non sento il piacere esplodere. Mi lascio
andare su di lui. Poi lo volto di lato e gli
prendo il cazzo, che è moscio. Nelle mie mani s’indurisce in fretta e poco
dopo viene anche lui. Subito dopo Goro si alza. - Io ora devo andare.
Grazie per la serata. Non ha funzionato. Non so
perché. - Grazie a te. Vuoi farti
una doccia? - No, mi do solo una
pulita. Scompare in bagno e torna
poco dopo. Io mi sono infilato la vestaglia. Goro si riveste. Scambiamo due parole
cortesi, come se non avessimo appena finito di scopare, ma avessimo bevuto
una birra in un locale. Poi se ne va. Non ha funzionato, no, di
questo sono certo. Né per me, né per lui. Per me non è andata bene perché lui
è rimasto inerte: mi piace abbracciare, baciare, accarezzare un corpo vivo,
non semplicemente fottere un culo che mi si offre. E per lui? Perché non ha
funzionato? È stato lui a offrirsi in quel modo. Non lo so. Mi sembra di essere ancora
più solo e triste. Merda. Sono passati due giorni. Il
cellulare squilla. Non conosco il numero. Escludo che sia Goro.
Rispondo. - Ernest Greenwood. - Ciao, Ernest, sono Alessandro. Evidentemente ha cambiato
numero di cellulare. - Ciao, mi fa piacere
sentirti. - Davvero? La sua domanda mi spiazza. - Ma certo! - Ti farebbe anche piacere
vedermi? Di nuovo rimango
interdetto. Far attendere la mia risposta sarebbe quanto mai brutto, per cui
dico: - Sì. - Che ne dici di una
partita a poker questa sera? Mi chiedo se gli manca un
giocatore per la serata, ma non lo dico. Per un attimo ho la tentazione di
dire di no, ma mi dico che sarebbe proprio da stronzo. - Per me va bene. - Alle nove al Genji Club? - D’accordo. Alessandro saluta e
chiude. Mi chiedo perché ho
accettato, ma, sinceramente, perché non avrei dovuto accettare? Cambiamo duecento dollari.
Alessandro mi dice che non può permettersi grandi somme: vivere a Tokyo è
caro e lui non guadagna cifre astronomiche. Entriamo nella saletta
riservata. Non c’è nessuno. Io osservo: - Gli altri non sono
ancora arrivati. - Non c’è nessun altro. Guardo Alessandro senza
capire. - Una partita a poker in
due? - Sì, Joe e Matt hanno
rinunciato all’ultimo minuto. Non gli chiedo se l’ultimo
minuto era prima che lui mi telefonasse o dopo. Ho il sospetto che Matt e Joe
non sapessero nemmeno che avremmo giocato. Non capisco dove voglia andare a
parare Alessandro. Incominciamo a giocare,
chiacchierando dei suoi film e del mio lavoro. Nessuno dei due sembra molto
interessato al gioco e mi chiedo se non avrebbe più senso andare in qualche
locale o a casa mia. Vinciamo e perdiamo un po’
per uno. Non puntiamo molto: Alessandro è prudente e io non voglio
approfittare della sua scarsa disponibilità di denaro. Dopo un po’ la fortuna
gira e in breve spenno Alessandro come il classico pollo. Mi spiace, non
avrei voluto vincere. Quando mi sono reso conto della situazione ho perfino
giocato in modo sbagliato: non ha senso che io, che ho molti più soldi di
quelli che mi servono, gli prenda i suoi. Alessandro non sembra
scoraggiato. Si toglie la cravatta – al Club l’abito è d’obbligo – e la mette
sul tavolo. - Mi gioco la cravatta.
Cinquanta dollari. Rido. - Non voglio spogliarti. - Non ti vorrai mica
ritirare dopo avermi spennato? In fondo non è una cattiva
idea. Così può riguadagnare quello che ha perso. Ma questa sera la fortuna
gli rema contro. Non appena scopro le mie carte, Alessandro butta via le sue. Alessandro si fruga nelle
tasche, poi si toglie un anello, l’unico ornamento che indossa. - Proviamo con questo. Non ho nessuna intenzione
di prendergli ciò che indossa. Spero che vinca. Questa volta io ho solo una
coppia di re. Alessandro ha due dieci. Alessandro annuisce, come
se non fosse neanche stupito. Si alza, si toglie la
giacca e la posa sulla sedia. Poi prende il mazzo e mescola. Rido. Prima o poi vincerà
e se perde, di sicuro gli renderò il tutto. Però adesso voglio vedere fin
dove arriva. Un tris di fanti contro
una coppia di regine. Scarpe e calze vengono
messe come posta, e perse, insieme. Ogni volta Alessandro
ripete lo stesso cenno con la testa, senza dimostrare stupore. Ora si sfila i
pantaloni. Abbiamo smesso di parlare.
Io ogni volta spingo verso il centro del tavolo tutto ciò che lui ci ha messo
nelle mani precedenti: è la posta in gioco. Ma Alessandro è perseguitato
dalla sfiga. A questo punto Alessandro
si toglie la camicia. Vederlo a torso nudo è uno
spettacolo grandioso. Mi diventa duro in fretta. Rompo il silenzio, mentre
di nuovo metto gli oggetti e il denaro in gioco: - Se vinci tu, però, col
cazzo che mi spoglio. Alessandro non dice nulla.
È teso. Decido che perderò questa
mano, ma poi cambio idea. Ho voglia di vedere dove intende fermarsi. Full, questa volta. Il suo
tris cade sul tavolo, accompagnato da un sonoro: - Cazzo! Alessandro non indugia. Si
cala i jock-strap e a me manca il fiato. Alessandro getta i jock-strap su tavolo. Va bene, faremo
quest’ultima mano e poi gli restituirò il tutto. La sua coppia di donne
perde contro la mia doppia coppia. Sorrido e sto per dirgli
che è stato divertente, ma che adesso può rivestirsi, quando lui prende il
mazzo e mescola. Lo guardo senza capire. - Che cosa ti giochi? - Il mio culo. Deglutisco. Alessandro dà
rapidamente le carte. Io sono frastornato. So che non potrei mai farlo. Ma
gioco, meccanicamente, senza dire nulla. Ho una coppia di donne. Cambio tre
carte. Mi viene una terza regina. Se Alessandro ha di meno…
Non lo farò, comunque non lo farò. Mi farei schifo, se lo facessi, ma
rinunciare a questo corpo splendido mi pesa. Faccio vedere il mio tris.
Alessandro posa le sue carte, una smorfia in faccia, senza nemmeno mostrarle. Si alza. - Come vuoi che mi metta? Lo guardo. È bellissimo.
Mi piacerebbe un casino farlo. Ma non posso. Non è solo che non voglio: non
posso proprio, anche se il cazzo è un tizzone ardente. Scuoto la testa. - Non posso, Alessandro. Non
posso prenderti solo perché hai perso. Lui mi guarda. Non
sorride. C’è un’espressione maledettamente seria sul suo viso. Non si sta
divertendo. Che senso ha tutto questo? - Perché no? Poi aggiunge: - In fondo se mi gioco il
culo, sono una troia, no? Puoi anche farlo. Lo guardo, perplesso.
Cerco di capire. Lui è teso, inquieto, vorrei quasi dire triste. - Che succede, Alessandro? - Insomma, abbiamo
giocato. Hai vinto. Prenditi quello che hai vinto. O ti faccio proprio
schifo? Mi alzo e lo guardo. Di
colpo provo pena, pena per la sua sofferenza, perché in questo momento sta
male. Non capisco perché si è messo in questa situazione, ma non si diverte. - Alessandro, non rientra
nella mia mentalità. Mi piaci molto, ma non mi ritengo in diritto di
incularti solo per averti vinto a poker. Riprenditi le tue cose e finiamo
questa storia assurda. - Ti piaccio? - Te l’ho appena detto. Alessandro gira le carte
dell’ultima mano e mi mostra il suo tris di re. Lo guardo, interdetto. Anche
in altre mani ha gettato via le carte senza farmele vedere. Ha barato, per
perdere, per arrivare a questo. Non capisco. - Perché, Alessandro? Alessandro sorride,
finalmente. Non è un sorriso sicuro: vi leggo incertezza. Ma è un sorriso. In
qualche modo la sofferenza sta svanendo. - Puoi prenderti quello
che hai vinto. Possiamo parlare dopo. Annuisco e sorrido. È
vero: possiamo parlarci dopo. Posso prendermi ciò che lui ha deciso di darmi,
perché non l’ho vinto. Non a poker, almeno. Mi alzo, mi avvicino a
lui. Lo bacio sulla bocca, con
molta delicatezza, poi schiudo le labbra e avanzo con la lingua, che lui
accoglie. Il nostro bacio diventa appassionato e finalmente lo stringo tra le
braccia, le mie mani incominciano a percorrere il suo corpo, la sua schiena,
scendono fino al suo culo, lo stringono con forza. Continuiamo a baciarci, ma
ora è la sua lingua a prendere l’iniziativa, le sue labbra avvolgono il mio
labbro inferiore, mentre anche le sue mani esplorano il mio corpo, scivolando
sotto la giacca. È bello sentirle scorrere sulla schiena, salire fino al
collo, scivolare fino al culo. Ci stacchiamo e io mi
sciolgo la cravatta. Lui mi slaccia i bottoni della camicia, uno dopo
l’altro, ma quando ha terminato non me la sfila. Io lo bacio di nuovo, lo stringo
con forza e rimaniamo avvinghiati uno all’altro. Posso sentire la pressione
del suo cazzo contro il mio ed è una sensazione bellissima. Tutto è bello, in
questo nostro baciarci e stringerci. Quando ci stacchiamo, io
mi sfilo la giacca e la camicia, poi mi tolgo le scarpe e le calze. Gli
sorrido. Faccio un cenno di incoraggiamento. Allora lui mi slaccia la
cintura, mi abbassa la cerniera dei pantaloni e me li cala. Poi fa scivolare
anche i boxer e contempla il mio cazzo, perfettamente pronto all’uso. Si
inginocchia, lo accarezza con la destra, poi lo prende in bocca e incomincia
a leccarlo e succhiarlo. Io gli accarezzo i capelli, mi chino su di lui, gli
passo le mani lungo la schiena, faccio scorrere le mie dita dietro le sue
orecchie, dentro, sulle guance. Poi lo fermo. - Mettiti sul tavolo. La mia voce esce roca. Alessandro sgombra il
tavolo e si stende, allargando le gambe. Io mi inginocchio e passo la lingua
sul solco, più e più volte. Spingo la lingua contro il buco. Mordo le
natiche. Bacio il culo, il buco. Mordo ancora, poi riprendo ad accarezzare
con la lingua il solco, mentre le mie mani stringono il culo di Alessandro,
lo pizzicano, avanzano a stuzzicare i coglioni e il cazzo, magnifico in tutta
la sua forza. Alessandro geme, più
volte. Io mi rendo conto che non sono in grado di reggere ancora a lungo e mi
stacco. Prendo un preservativo e me lo metto. Poi avvicino la cappella al
buco, che ho ampiamente lubrificato, e spingo dentro. Alessandro mi accoglie
con un nuovo, più forte gemito. Io avanzo fino in fondo, godendomi il calore
e la consistenza di questo culo caldo che ora mi accoglie. Con la mano aperta do
qualche colpo alle sue natiche: è bello sculacciarlo, con decisione. Mi muovo
lentamente: sono troppo eccitato, non voglio venire subito. Assaporo le
sensazioni splendide che mi trasmette il suo corpo. Gli accarezzo la schiena,
mi chino a mordergli una spalla, a baciargli la nuca, a passargli la lingua
dietro l’orecchio e sul collo, mentre il mio cazzo lavora con forza il suo
culo. Le mie mani passano
davanti, a stringere i coglioni, ad accarezzare il cazzo, mentre io continuo
ad arare il campo. Alessandro geme, più volte, e sento che la tensione cresce
in lui come in me. Quando infine capisco che
non sono più in grado di reggere, stringo con forza il suo cazzo muovendo
rapidamente la mano, allo stesso ritmo con cui muovo il culo, finché sento
che l’onda del piacere sale e mi travolge. Il seme sgorga, abbondante, e
sento che anche il suo corpo vibra nell’orgasmo. Mi lascio andare su di
lui, lo bacio sulla guancia e gli dico: - Grazie, Alessandro. - Grazie a te, Ernest. Sono esausto. Rimarrei
volentieri dentro di lui, ma non so quanto sia comodo in questa posizione,
schiacciato sul tavolo dal mio peso. Perciò mi sollevo. Gli accarezzo ancora
la schiena. Gli dico: - Temo di non essere il
primo a dirtelo, ma sei bellissimo, Alessandro. Poi esco da lui. Mi sfilo
il preservativo e lo butto nel cestino. Alessandro si alza. Io mi
avvicino a lui e lo bacio, poi lo stringo. Lui ricambia l’abbraccio e
ci baciamo, a lungo. Poi ci stacchiamo. Io mi siedo sul divanetto. Alessandro
si stende, con la testa sulle mie gambe. Io gli accarezzo i capelli. È bellissimo rimanere
così. Mi sento appagato come di rado mi è successo nella mia vita. Le mie
dita scorrono sul viso di Alessandro, giocano con le sue labbra e i suoi
denti, con gli occhi, poi tornano ad accarezzargli i capelli. Rimaniamo così un buon
momento, poi io gli dico: - Perché questa partita
assurda a poker, Alessandro? Se ti piaccio – questo non lo so, non me l’hai
detto - perché fare tutta questa messa in scena? Va bene che sei un attore, però… Alessandro sorride. - Non è facile spiegare,
Ernest. Forse non lo so nemmeno io. Ride, poi aggiunge: - Però mi piaci, Ernest.
Mi piaci moltissimo. È per questo che ho esitato a lungo prima di cercarti.
Avevo paura di prendermi un’altra porta in faccia. - Ti ho dato l’impressione
che ti avrei detto di no? - No, ma, Ernest… ci sono un sacco di uomini che sono pronti a
portarmi a letto, ma che mi considerano solo un bel corpo. Tu mi piacevi
troppo, a tutti i livelli. E io mi chiedevo che cosa avevo da offrire, a
parte un bel corpo. Se era solo quello che volevi, allora te lo potevo far
vincere a poker. Alessandro fa una pausa,
poi aggiunge: - Se tu mi avessi preso
senza porti problemi… avrei avuto una conferma. Annuisco. Credo di aver
capito. E mi rendo conto che Pauline aveva ragione. - Alessandro…
vorrei che tu venissi a vivere da me. Forse corro troppo, ma mi
sembra che abbiamo perso già abbastanza tempo. Alessandro chiude gli occhi.
Poi li riapre. Mi sorride. Alza una mano e mi accarezza il viso. - Grazie. Parliamo ancora un
momento, ma la posizione di Alessandro, il contatto tra i nostri corpi, le
mie carezze sempre più sfacciate (mi rendo conto che le mie mani vanno per
conto loro) stanno riaccendendo i nostri corpi. - Vorrei che ora fossi tu
a prendere me, Alessandro. Ti va? Alessandro sorride,
sicuro, ora. - Non so, devi chiedere a
lui. Con un cenno del capo
indica il suo cazzo, che sta riacquistando volume e durezza. Poi aggiunge: - Direi che è d’accordo… - Meno male che lui è più
intelligente del padrone. Alessandro mi dà un buffetto
sulla guancia, poi si alza. - Mettiti in piedi, contro
il tavolo. Eseguo. Alessandro passa
dietro di me, mi stringe tra le sue braccia, le sue mani mi accarezzano. Io
sento il suo cazzo premere contro il mio culo. Sto bene così, tra queste
braccia forti. Le sue dita percorrono il mio corpo, dai capelli al viso,
indugiano tra i miei denti e sulle mie labbra, stuzzicano le orecchie,
scendono al collo, strizzano i capezzoli, scivolano sul ventre, stringono con
forza i coglioni, percorrono il cazzo dalla base alla cappella, passano
dietro a pizzicarmi il culo. Poi Alessandro arretra leggermente, si infila il
preservativo e sento il suo cazzo, caldo e turgido, premere contro il mio
buco e poi entrare. È parecchio che non mi succede e, per quanto Alessandro
si muova con delicatezza, mi fa un po’ male. Ma nonostante questo è bello,
davvero bello, sentirlo dentro di me caldo e forte, avanzare lento e
inesorabile, scavando nelle mie viscere, fino in fondo. Le mani di Alessandro
continuano a stringere, pizzicare, accarezzare e il suo cazzo si muove dentro
di me, lento e continuo, accendendomi le viscere e tutto il corpo. Le sue
labbra si posano sulla mia nuca, i suoi denti mi mordono una spalla. Il piacere sale e la
tensione diventa sempre più forte. Mi sembra che tutto il mio corpo sia sul
punto di esplodere. Sento che dai miei coglioni il piacere divampa, percorre
il cazzo e sgorga, mentre io chiudo gli occhi, travolto da questa ondata. Il
mio seme si sparge sul tavolo. Alessandro lo raccoglie con due dita e le
accosta alle mie labbra. Pulisco le sue dita e sento il gusto del mio sborro. Alessandro accelera il
ritmo, emette un suono strozzato e viene dentro di me, con spinte violente
che mi fanno male. Poi mi avvolge e si lascia cadere sul pavimento, tenendomi
tra le sue braccia. È bello rimanere disteso su di lui, il suo cazzo ancora
nel mio culo, le sue mani che mi stringono. Penso che questa partita a poker cambierà la mia vita. E quella di Alessandro. Le nostre vite. 2013 |