Attore non protagonista

 

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La scena che devo girare è breve: la ragazza del boss mi guarda ed io le sorrido. Lui se ne accorge e fa un cenno a uno dei suoi uomini, che si avvicina. Io intuisco, mi alzo rapidamente e me ne vado, senza voltarmi. Non arriviamo a due minuti, anche se ci vogliono alcune ore per le riprese. Il regista è un perfezionista ed io sono contento di avere questa minuscola parte in un suo film, anche se so di essere stato scelto solo perché avevano bisogno di un attore dal fisico atletico, in grado di far colpo sulla ragazza del boss. Ma il boss è un personaggio secondario, la ragazza conta ancora meno ed io sono il due di picche.

La mia carriera di attore non sta facendo grandi progressi. Potrei dire che non ne sta proprio facendo, né grandi, né piccoli: non sono partito male, ma non vado più avanti. Continuo a ottenere parti molto secondarie, che mi consentono di sopravvivere, facendo magari qualche lavoretto in nero (autista, istruttore di palestra, per due mesi ho fatto anche il cameriere in un ristorante italiano). Max mi dice sempre che dovrei girare film porno: guadagnerei di più e potrei diventare una star. O, se non voglio che magari qualcuno veda uno di quei film e mi sputtani in Italia (qui non me ne importerebbe: non ho molti legami), potrei fare l’escort. Non mi va l’idea di scopare a pagamento: non l’ho mai fatto e non intendo farlo. Ma a tratti mi chiedo se non farei meglio a tornare in Lombardia e a cercarmi un lavoro a casa, rinunciando a inseguire sogni impossibili. A Hollywood non mi sembra di avere grandi possibilità.

Girare la scena richiede l’intera giornata: al regista non va mai bene niente. Per fortuna non sono l’unico motivo della sua insoddisfazione: il boss non è abbastanza boss, deve dare l’ordine con un cenno del capo, ma deve farlo in modo autorevole e poi quando mi guarda, solo per un attimo, si deve capire che mi considera insignificante, lo stronzo di un cane, da allontanare per non sporcarsi le scarpe; la ragazza deve notarmi, ma quasi senza volerlo, si deve capire che sta molto attenta a come si muove quando è in compagnia del boss, bisogna che finga di non essersi neanche accorta di me, ma si deve vedere che l’ho colpita; io devo rendermi conto della situazione solo quando uno degli uomini si avvicina, prima ho guardato la ragazza, non il boss; lo scagnozzo che mi allontana deve essere abbastanza minaccioso da non aver neppure bisogno di parlare perché io me ne vada il più in fretta possibile. Insomma, ce n’è per tutti. Proviamo e riproviamo finché il regista non si dichiara soddisfatto.

È stata una faticaccia, però almeno ho guadagnato qualche cosa e ho inserito nel mio curriculum una (minuscola) parte in un film di un grande regista.

La sera festeggio andando con Doc al Guns and Men. Mi piace questo locale, dove si possono fare incontri interessanti. Magari c’è Jeff, l’agente di assicurazioni con cui ho scopato qualche settimana fa. Poco versatile (rigorosamente attivo, pur avendo, direi, il più bel culo che abbia mai visto in vita mia – e garantisco che ne ho visti e provati tanti), ma un bel viso e un gran bel corpo. Avrei voluto conoscerlo meglio, ma non dà confidenza e gli altri mi hanno detto che non è tipo da legarsi.

Nel locale siamo subito avvicinati da alcuni che conosciamo, come sempre succede. Doc dice che viene con me perché attiro gli altri uomini, così anche lui riesce a rimorchiare qualcuno. È vero che quando entro in un locale ho sempre un certo successo, ma Doc esagera.

Charles si avvicina con un tizio sui quaranta, corporatura robusta, leggermente sovrappeso. Fa le presentazioni. Il tizio si chiama Kevin Wesker ed è un uomo d’affari. Si siedono con noi e incominciamo a chiacchierare. Da come è vestito e da come parla, Kevin deve guadagnare in un giorno quello che io guadagno in tre mesi (non che significhi molto, visto che le mie entrate sono irregolari e mai abbondanti).

Poco dopo Charles si alza con una scusa e scompare: ho il sospetto che sia venuto al nostro tavolo solo per presentare Kevin, che voleva conoscerci. Dovrei dire conoscermi, perché Kevin ignora Doc. Il mio amico non se la prende: sta chiacchierando con un conoscente comune, uno che fa l’autista. Doc è uno rilassato, che non ha l’ansia di concludere. Gli va bene anche se passa la serata a chiacchierare, senza combinare altro. Ci è capitato più volte di passare la serata a parlare in gruppo e andare poi a casa soddisfatti, senza aver scopato (Doc dice che capita molto più a lui che a me. Forse ha ragione).

Kevin, visto che nessun altro partecipa alla conversazione, non ci gira intorno:

- Senti, che ne diresti di andare a casa mia? Siamo più liberi.

Non mi faccio pregare, perché il tipo mi piace, anche se non è bello: rimango sempre affascinato dagli uomini di successo, li vedo così sicuri di sé. Io invece sprofondo in un mare di incertezze e spesso penso di non valere una cicca. Non a letto, no: non posso proprio lamentarmi del mio fisico, non faccio fatica a rimorchiare e non ho insicurezze in posizione orizzontale (neanche quando faccio le stesse cose in posizione verticale, come ogni tanto capita). Ma nella vita mi sembra di aver combinato molto poco e un uomo che invece ha saputo raggiungere una posizione mi mette in soggezione.

La casa di Kevin è una villa, di quelle che non potrò permettermi mai. Grandi vetrate con vista sul mare e sulla città, stanze spaziose (credo che il mio appartamentino starebbe per intero nella cucina), arredamento di lusso.

Non è la prima volta che mi trovo in una casa di questo tipo, ma sempre come un ospite che avrà modo di conoscere solo la camera da letto e il bagno (oddio, mi è capitato di farlo anche in cucina, sul divano, nel box, nella lavanderia, però sono varianti occasionali).

Kevin mi chiede se voglio bere. Io ho già preso un gin e preferisco non andare oltre: bevo volentieri un po’, ma detesto ubriacarmi (non mi va proprio e poi ci mancherebbe solo che facessi cilecca anche a letto). Lo ringrazio e declino l’offerta. Lui si versa un whisky e poi mi dice:

- Passiamo direttamente in camera da letto?

Non ci gira intorno, ma d’altronde siamo qui per questo, lo sappiamo tutti e due, per cui sorrido e gli dico che va benissimo.

La camera da letto è gigantesca, come mi aspettavo, ma molto spoglia: oltre al grande letto, c’è solo un mobiletto che serve come comodino (con sopra alcuni preservativi, di certo non lasciati lì per caso) e una bellissima scultura africana, che raffigura un rapace stilizzato.

Kevin incomincia a spogliarsi e io lo imito. Di solito mi piace spogliare un maschio, è un modo per scoprirlo poco a poco, baciarlo, abbracciarlo, morderlo, leccarlo. Ma sono tutte cose che si possono fare anche nudi.

Kevin non è niente male. Non è un atleta, ma è forte, ha un fisico un po’ appesantito, cosa che a me non dispiace per niente, e una discreta dose di pelo sul petto e sul ventre. Direi che ha anche una buona attrezzatura.

Mi avvicino a lui e lo bacio. Lui non si sottrae, ma capisco che gli importa poco dei baci. D’accordo, si passa subito al dunque. Va bene anche così. In questi anni, in cui non ho avuto nessuna relazione fissa, ho avuto modo di conoscere un casino di uomini e so che ognuno ha i suoi gusti. Amo procedere per gradi, ma non mi dispiace nemmeno un approccio più rude, che va subito al dunque, con la giusta dose di brutalità.

Kevin dev’essere questo tipo d’uomo. Mi volta con decisione, mi morde una spalla, mi spinge sul letto e si stende su di me. Una mano mi stringe il culo, poi due dita premono contro il buco, senza delicatezza. Mi lamento, per avvisarlo che non esageri: non sono masochista (anche se qualche giochino con la cintura dei pantaloni non mi dispiace, a una estremità o all’altra della cinghia).

Kevin si stacca, mi morde il culo con forza, due o tre volte, poi prende il necessario e sento di nuovo le sue dita che premono. Questa volta sono lubrificate e scivolano dentro incontrando poca resistenza. Niente di strano: il mio culo è abituato a ricevere ospiti, anche se più spesso è il mio cazzo che va a casa altrui. Visto che sono di corporatuta atletica, molti danno per scontato che sia rigorosamente attivo o forse non si pongono il problema di che cosa voglia io. Neanche Kevin se l’è posto, ma va bene così.

Le dita di Kevin distribuiscono la crema e poi sento il suo cazzo che si affaccia alla porta posteriore. Ho visto la bustina del preservativo finire per terra, perciò sono tranquillo.

Kevin entra con una certa irruenza, facendomi un po’ male. Io borbotto un “piano” che lui non sembra prendere in considerazione. Incomincia ad arare il campo con decisione e devo dire che il suo aratro lavora bene. Mi piace sentirlo entrare a fondo, smuovendo la terra, e poi ritrarsi. Avrei preferito una maggiore delicatezza, ma anche così va bene: non mi dispiacciono gli uomini forti e un po’ rudi, che si prendono quello che vogliono senza tanti complimenti. Entro certi limiti.

Kevin ara un buon momento, poi esce. Non è ancora venuto, di questo sono sicuro.

- Diamoci il cambio.

Io mi sollevo e lui si stende al mio posto. Gli guardo il cazzo, ancora infilato nel preservativo, che adesso si toglie e mette nel portacenere sul comodino. Ha un bel cazzo, con una vena in rilievo e una cappella scura. Lo assaggerei volentieri, ma lui ha deciso altrimenti.

Prendo uno dei preservativi e me lo infilo. Ci metto un po’ di crema. Gli allargo le natiche con le mani. Gli guardo il buco del culo, che emerge tra la peluria scura. Ci infilo un dito con un po’ di crema e la spargo. Poi metto un secondo dito. Avvicino il cazzo ed entro anch’io con una certa decisione, tanto che sussulta, ma non dice niente. Non incontro resistenza: è abituato a prenderselo in culo. Ma ha preferito incominciare come stallone, prima di farsi giumenta.

Mi piace fottere un bel culo maschio, non quello dei ragazzi, che non sa di niente (questione di gusti, lo so). Spingo fino in fondo e mi tiro indietro, con un ritmo costante. Mi sollevo un po’ sulle braccia, riducendo il contatto tra i nostri corpi solo al mio cazzo che gli entra in culo. A tratti invece mi stendo sopra di lui. Lo bacio sul collo, ma non sembra che gliene importi niente, per cui non insisto.

Faccio una bella cavalcata e infine sento che il piacere non è più contenibile. Con alcune spinte più forti vengo. Allora mi lascio andare su di lui. L’impulso è quello di accarezzarlo, ma ho capito che non ci tiene, per cui lascio perdere.

- Mettiamoci su un lato.

Ruotiamo in modo da rimanere su un fianco e lui incomincia a farsi una sega. Io provo a contribuire, ma lui allontana la mia mano: preferisce fare da solo.

Viene dopo poco. Si rilassa e io lo abbraccio.

Quasi subito però si stacca da me, si alza e va a fare una doccia. Io mi sfilo il preservativo e lo metto nel portacenere insieme a quello che ha usato lui. Quando torna, vado anch’io a lavarmi.

Mi asciugo ed entro in camera, pronto ad andarmene se lui mi fa capire che preferisce non avermi tra i piedi: succede abbastanza spesso, soprattutto con quelli che non amano i preliminari e vanno subito al sodo.

Kevin invece mi spiazza:

- Fermati a dormire, se ti va.

A me va benissimo, anche se non pensavo che me lo proponesse.

 

Il mattino dopo Kevin mi sveglia e mi dice:

- Facciamo un bis, no?

Anche se dev’essere piuttosto tardi (il sole è già abbastanza alto), avrei dormito ancora un po’ volentieri, ma devo dire che l’idea del bis non mi fa per niente schifo.

- Va bene.

Mi alzo e vado a pisciare. Poi torno. Kevin ha in mano lubrificante e preservativo e me li lancia. Tocca di nuovo a me fare lo stallone. È una parte che mi piace (sono alquanto versatile e sono poche le cose che non mi piacciono a letto). Kevin si volta sulla pancia e allarga le gambe. Non mi spiace prendermi un’altra volta questo culo forte che ora è pronto ad accogliermi. Gli stringo le natiche con le mani, pizzicando la carne, poi avvicino la bocca e assesto alcuni morsi decisi, di quelli che lasciano il segno. Verso un po’ di crema intorno al buco e con le dita la spargo. Infilo un dito dentro, poi due. Mi metto il preservativo, lubrifico la cappella e mi metto al lavoro. Entro senza tante cautele, spingendo fino in fondo.

- Cazzo!

Rido.

- Sì, è proprio un cazzo.

- Più piano, accidenti!

Sembra irritato. Allora mi ritiro in buon ordine.

Lascio che recuperi un po’ il fiato, poi avanzo di nuovo, con maggiore cautela. Questa volta mi accoglie con un gemito di soddisfazione. Incomincio a spingere e a ritrarmi, prima lentamente, poi con un ritmo più sostenuto, che gli strappa altri gemiti. Le mie mani percorrono il suo corpo, massaggiando, accarezzando, stringendo. E dopo una bella cavalcata, sento che il piacere sta per debordare e allora spingo con maggior forza, infilando il cazzo ogni volta dentro fino a che i coglioni gli battono contro il culo, poi ritirandomi e infilzandolo di nuovo. Lui geme a ognuna di queste spinte che lo squassano tutto.

L’onda del piacere mi travolge e mi lascia, boccheggiante e appagato, sul suo corpo.

Come ieri sera, ci mettiamo su un lato e lui si fa una sega, mentre io lo tengo tra le mie braccia, il mio cazzo sempre dentro al suo culo. 

Dopo ci facciamo una doccia. Siamo ancora nudi, quando lui dice:

- Facciamo colazione.

Si dirige in cucina e io lo seguo, guardando il suo culo appetitoso che ho gustato due volte. La cucina è come il resto della casa, molto ampia, perfettamente attrezzata, con mobili moderni di linee essenziali. Lui prende caffè, fiocchi, yogurt, pane tostato e marmellata e li mette sul tavolo. Qui negli USA ho imparato anch’io a fare colazioni abbondanti e mi servo senza farmi problemi. Tanto vado molto in palestra e smaltisco facilmente.

Mentre mangiamo Kevin mi chiede del mio lavoro. Ieri sera gli ho detto che sono un attore e che sono venuto dall’Italia a Hollywood per cercare di fare carriera, ma lui non mi ha chiesto altro.

- Ho girato diversi film, ma ho avuto sempre parti molto secondarie. Incomincio a dubitare che riuscirò a sfondare. Credo che finirò per tornare in Italia.

Kevin annuisce.

- Non ti scoraggiare. Per sfondare ci vuole pazienza.

Di pazienza ne ho avuta tanta, ma ha senso continuare se non si arriva da nessuna parte? Non mi sembra il caso di raccontargli i miei dubbi esistenziali, tanto più che Kevin deve andare a lavorare. Dopo aver mangiato, ci rivestiamo tutti e due. Mi è piaciuto fare colazione insieme, tutti e due nudi, e parlare un momento con lui.

 

Al momento di uscire, Kevin mi chiede:

- Ci rivediamo?

Mi fa piacere che me l’abbia chiesto. Mi è piaciuto scopare con lui e farò volentieri il bis (sarebbe un tris, visto che abbiamo scopato sia ieri sera, sia questa mattina).

- Volentieri. Quando ti va bene?

- Che ne dici di venerdì? Potresti venire da me la sera e magari fermarti per il week-end.

Fermarsi per il fine settimana è impegnativo, ma posso sempre andarmene in qualsiasi momento, se qualche cosa va storto: ci siamo visti per la prima volta ieri sera e il fatto che a letto abbia funzionato è un buon punto di partenza, ma non ci garantisce che tutto vada bene se rimaniamo insieme due giorni.

- Volentieri.

Il venerdì sera Kevin mi passa a prendere e andiamo a casa sua. Lui è nervoso per una serie di casini sul lavoro e io gli chiedo se preferisce che rinunciamo al nostro fine settimana.

Kevin scuote la testa:

- Eh no, già mi hanno rotto i coglioni sul lavoro, se poi ancora va in fumo la scopata serale, divento una belva.

Io rido.

- Va bene, allora, basta che tu non mi morda.

A casa sua, provo a spogliarlo io. Lui mi lascia fare, senza grande entusiasmo, ma senza opporre resistenza. Se mi fermo un momento per baciarlo o morderlo, lui prende a togliersi gli abiti da solo: insomma, non ama perdere tempo.

Come martedì, incomincia lui a montarmi e devo dire che mi piace. Poi però si ritira e mi passa il testimone.

I due giorni passano in fretta: molto sesso, andando sempre subito al sodo; buon cibo, preparato da altri (servizio di consegna cibi a domicilio, ma di gran lusso); un giro sulla spiaggia; un film; qualche chiacchierata.

Sono soddisfatto e anche Kevin lo è. È lui a propormi di ritrovarci una sera e poi per il prossimo week-end.

 

Quella del fine settimana diventa un’abitudine, se uno dei due non è occupato. A me capita di rado: se voglio vedere qualcuno, posso combinare gli altri giorni. A lui succede di dover lavorare o di avere qualche impegno familiare (ha due figli, ormai grandicelli, che stanno con la ex-moglie).

Ci vediamo anche altre volte in settimana e infine arriva il momento in cui Kevin mi dice:

- Perché non ti trasferisci da me in pianta stabile?

È una scelta impegnativa. Sto bene con Kevin. Mi piace, so di esserne un po’ innamorato (non una passione travolgente, ma quanto basta per sentire la sua mancanza in diverse occasioni). Anche a letto le cose funzionano: con lui c’è un discreto affiatamento. Però c’è anche una distanza abissale: lui è un uomo d’affari molto ricco, io sono un attore sottoccupato che fa i salti mortali per arrivare alla fine del mese. Il nostro non sarebbe un rapporto alla pari, sul piano economico, e non potrei certo permettermi di condividere le sue spese: un fine settimana in qualche resort di lusso o una cena in un ristorante esclusivo sono al di fuori della mia portata. Non potendogli chiedere di rinunciare a una serie di sfizi che lui può permettersi, mi troverei a dipendere da lui.

Gli espongo francamente le mie perplessità. Lui mi dice di non preoccuparmi: se ha voglia di fare qualche cosa con me, può pagare per due, non gli pesa di certo. Capisco il suo punto di vista. È a me che pesa, se la cosa si ripete troppo spesso.

Alla fine accetto, in via sperimentale.

 

L’esperimento funziona. Dal lunedì al venerdì Kevin rimane fuori tutto il giorno e spesso rientra tardi. Io spesso non ho lavoro e se recito in zona, arrivo a casa prima di lui. Ogni tanto mi capita di rimanere fuori due o tre giorni perché il set è in Arizona o in Nevada.

Mi rendo conto che Kevin non è contento quando io sto fuori per qualche giorno, ma non lo esprime direttamente. Io non affronto l’argomento: sospetto che potrebbe essere terreno di scontro e tengo al nostro rapporto. Mi sto davvero innamorando, me ne rendo conto, e l’idea mi spaventa un po’. È stato Kevin a chiedermi di venire a vivere con lui, ma quanto tiene davvero a me? Non è tipo da smancerie, non ha mai detto di amarmi, di volermi bene. Scopa volentieri con me, ma che cosa prova per questo italiano mezzo americano che sogna di imporsi come attore?

Devo comunque riconoscere che tutto funziona. A letto abbiamo raggiunto un’ottima intesa e io sono soddisfatto.

Mi capita ancora di sentirmi un po’ a disagio quando andiamo a cena fuori in locali di lusso, dove non potrei mai permettermi di mangiare con quello che guadagno. Preferirei che non andassimo al ristorante, ma a Kevin piace e allora mi adeguo. 

Un giorno Kevin mi dice che se ho bisogno di denaro, posso chiederlo a lui. Lo ringrazio e gli rispondo che, anche se non nuoto nell’oro, me la cavo. È la verità. E preferirei proprio che tra noi non ci fossero questioni di soldi. Preferirei anche che manifestasse un po’ di affetto nei miei confronti e non solo attrazione sessuale, ma è un tipo poco espansivo.

 

I mesi passano. È la prima volta che ho un legame fisso qui negli USA. Sto bene con lui. Non posso dire che tra noi ci sia un’intesa perfetta, ma la convivenza funziona e di rado ci sono screzi. E io mi sono innamorato.

La mia carriera va avanti come al solito, cioè rimango sempre allo stesso punto. Ogni tanto giro qualche film, ma quasi sempre negli studi a Hollywood. Solo due volte mi assento da Los Angeles per una settimana. In queste occasioni Kevin non nasconde il suo malumore: è abituato ad avermi sempre a disposizione. Io sono troppo contento di aver ottenuto una parte un po’ più significativa per avere voglia di litigare.

 

Il fulmine arriva a ciel sereno, senza che nulla me lo abbia fatto prevedere.

- Alex, tra un mese e mezzo parto per il Giappone.

Per un momento penso a un viaggio d’affari, ma Kevin prosegue:

- Mi trasferisco là per un anno o due, vedremo. La mia ditta vuole espandere il mercato dell’Asia orientale e ha deciso di incominciare dal Giappone.

Non si tratta di un viaggio. È un trasferimento. Questo significa che la nostra storia è finita: di certo non può reggere a una separazione così lunga. Ma Kevin mi spiazza:

- Avresti voglia di venire anche tu in Giappone?

Lo guardo, interdetto. Stiamo bene insieme, ma non è una passione travolgente, per cui sarei disposto a qualunque sacrificio pur di rimanere con lui. L’idea di dare un taglio a tutto per seguirlo mi spaventa.

Lui prosegue:

- La ditta mi paga il viaggio per due, la casa è grande e mi farebbe piacere che tu venissi con me.

- Grazie per la proposta…

È evidente che non sono entusiasta.

- Che cos’è che ti fa esitare?

Il motivo principale è il lavoro. Non è l’unico: perderei quei pochi amici che ho e mi troverei molto solo in una realtà in cui non conosco nessuno. Anche quando sono venuto qui non avevo conoscenze, però parlavo benissimo la lingua. Di giapponese non so nemmeno mezza parola. Cerco di formulare i miei dubbi sul lavoro.

- La mia carriera di attore va avanti a fatica. Se rimango in Giappone un anno o due, quando torno non sanno più nemmeno che esisto.

- Visto che la tua carriera non decolla, magari potresti provare in Giappone. È facile che cerchino attori bianchi per alcuni dei loro film.

Non mi sembra molto probabile, ma in fondo potrei provare. Vedrò di parlarne con Robby, il mio agente. E intanto cercherò di chiarirmi le idee.

Prima ancora di aver preso una decisione, mi metto a imparare un po’ di giapponese: se partiamo tra un mese e mezzo, non c’è tempo da perdere. Se decido di rimanere, non mi avrà fatto male imparare qualche parola di giapponese. Per mia fortuna, ho sempre avuto un dono per le lingue, forse perché sono bilingue: ho un nonno statunitense e anche mia madre ha passato quasi vent’anni negli USA, per cui io ho imparato l’inglese da bambino. Mi compro un corso su CD e ci do dentro.

Quando Kevin mi vede studiare giapponese, è contento: dà per scontato che partirò con lui. Io non ne sono così sicuro.

Robby è molto gentile e mi manda da un altro agente, che telefona a un terzo. Ci impiego due settimane, ma alla fine trovo un contatto con il Giappone: quando arriverò, saprò dove rivolgermi. Poi magari non se ne farà niente, ma potrò aspettare che mi chiamino, guardando in continuazione il telefonino, come faccio qui… Sì, ho deciso di partire, voglio rimanere con Kevin. E l’idea di ripartire da zero mi solletica, anche se un po’ mi spaventa.

Adesso quando Kevin rientra a casa, lo accolgo ogni volta con qualche nuova espressione giapponese.

- Kyo wa nanyōbi des’ ka?

- Che cazzo significa, questo?

Kevin non sembra condividere il mio entusiasmo per il giapponese (che mi piace moltissimo).

- Che giorno della settimana siamo? Avresti dovuto rispondere: kayōbi des, è martedì. Ma non dovresti cercare di imparare anche tu un po’ di giapponese?

- Figurati! Useremo solo l’inglese. E quando servirà, ci saranno i traduttori. Comunque, come si dice in giapponese: “Che ne diresti di lasciar perdere queste stronzate e di scopare?”

- Il mio corso di giapponese è molto serio. Le parolacce non sono contemplate. Dovrò aspettare di essere arrivato in Giappone per impararle. Però posso dirti: yorokonde.

- E sarebbe?

- Con piacere.

 

Partiamo per il Giappone tre mesi dopo che Kevin me l’aveva annunciato: la partenza è stata rimandata, ma questo mi ha permesso di imparare un po’ di più la lingua (naturalmente non parlo il giapponese, conosco solo alcune espressioni e ho appena incominciato a capire come funzionano la costruzione della frase e la scrittura) e anche di partecipare a due film, sempre con parti molto secondarie.

Io sono impaziente di conoscere il Giappone.

Poco prima di scendere su Tokyo vedo dal finestrino il Fuji che svetta. Mi sembra di buon auspicio.

- La dea ci accoglie in tutto il suo splendore.

Kevin mi guarda, senza capire. Gli indico dal finestrino il Fuji.

- Per i Giapponesi il Fuji è consacrato a una dea, una divinità del fuoco, pare.

Kevin scuote la testa.

- Si vede che non avevi molto da fare, se hai perso tempo a imparare queste cazzate.

La replica è piuttosto brusca e mi dà fastidio, ma non dico nulla: non vorrei litigare proprio ora.

È Kevin a parlare:

- Scusa, Ale. Non riesco mai a chiudere occhio in aereo e tra il viaggio e l’insonnia e la tensione… non volevo essere stronzo. Ma ci sono riuscito benissimo.

- Non ti preoccupare.

Guardo il Fuji. Comincia un’avventura. Spero che non entri in crisi il nostro rapporto. Di colpo mi chiedo se non ho fatto una cazzata ad accettare l’offerta di Kevin. È vero che ho un biglietto di ritorno senza data, ma questa esperienza non è uno scherzo.

 

L’appartamento che la ditta ha affittato è molto piccolo in base agli standard statunitensi, ma so benissimo che per il Giappone e soprattutto per Tokyo è grande. Kevin mi delega la sistemazione della casa: lui ha un sacco di cose da fare, deve incominciare a lavorare subito.

Svuotare le casse non è una grande fatica, in quanto ci hanno messo a disposizione una casa completamente arredata, biancheria e stoviglie comprese. Perciò si tratta di mettere a posto solo i vestiti, alcuni libri e poco altro che abbiamo spedito in nave, oltre alle valigie che hanno viaggiato con noi in aereo. Le casse sono partite prima di noi, per cui sono già qui. Io mi sono portato dietro quello che posseggo, ma le mie proprietà non riempiono certo molti scatoloni. Kevin ha lasciato quasi tutto a Los Angeles.

 

Completata la mia opera, aspetto con soddisfazione il ritorno a casa del mio bravo maritino: conto che apprezzi la mia efficienza.

Kevin rientra di cattivo umore. Non si è ancora abituato al fuso orario, per cui ha dormito male e già questo lo ha fatto partire con il piede sbagliato. Ci sono stati contrattempi vari: materiali che alla filiale giapponese avrebbero dovuto preparare  e che invece non sono pronti, compiti svolti in modo diverso da quello indicato. Il risultato è un’incazzatura.

Perciò, invece di apprezzare il mio contributo, Kevin si limita a chiedermi dove cazzo ho messo le sue pantofole. Mi verrebbe da rispondergli bruscamente: ho lavorato intensamente, mettendo a posto anche le sue cose, ma preferisco evitare uno scontro. Non mi è mai piaciuto litigare e ho l’impressione che ci diremmo cose di cui domani ci potremmo pentire. Anch’io ho i miei problemi, un mare di dubbi e di incertezze sul mio futuro qui in Giappone, sulla mia vita.

Dopo cena Kevin è più calmo, dimostra di apprezzare il lavoro che ho fatto e infine una bella scopata ci riconcilia.

 

Nei giorni seguenti mi do da fare per trovare un corso di giapponese e per cercare di proseguire la mia carriera di attore (o forse dovrei dire per incominciarne una nuova in Giappone). Il contatto che ho ottenuto si rivela utile. Ottengo, dopo appena quindici giorni una parte, naturalmente secondaria. Poi un’altra. Mi sembra un’ottima partenza.

Kevin si abitua al fuso orario e si rilassa. La nostra vita riprende un andamento regolare, con lunghe attese per me (ma meno che negli USA) e impegni frenetici per Kevin, che spesso torna a casa di cattivo umore. Quando non sono occupato con il corso di giapponese (ne frequento uno intensivo e l’insegnante mi fa i complimenti perché – dice lui – sono bravissimo) faccio la brava mogliettina e preparo per il mio maritino belle cenette (rigorosamente europee o americane: ho capito che Kevin la cucina giapponese proprio non la regge). Dopo cena faccio io il marito e infilzo Kevin. Ormai ho capito che gli piace prenderselo in culo e che fa da stallone solo se in qualche modo vuole riaffermare la sua posizione di superiorità. Perché, me ne rendo conto, Kevin si considera superiore: lui è quello che porta i soldi a casa, che si è affermato nel lavoro. Il mio lavoro, i miei corsi di giapponese, il tentativo di capire la realtà in cui vivo, tutto gli appare il diversivo di uno che si annoia perché ha troppo tempo libero. Non me lo dice mai chiaramente, ma capisco che è così. Non mi fa piacere, per niente. Sto bene con lui, ma questo atteggiamento mi dà fastidio. E poi lo vedo sempre più spesso irritato. Più volte se la prende con me. Poi magari mi chiede scusa, ma non ho voglia di fargli da punching-ball. Piccole crepe nel nostro rapporto. Spero che sia solo un periodo passeggero.

 

Quest’anno è volato. Non posso lamentarmi. Ho ottenuto tante piccole parti e sono finito anche in televisione per una pubblicità. Un buon inizio, senza dubbio, per uno che è appena arrivato dall’altra parte dell’oceano. Ma non posso neanche essere molto soddisfatto: mi limito a brevi apparizioni, mai nessuna parte importante. Mi sembra di ripetere l’esperienza degli Stati Uniti: anche lì ero partito abbastanza bene, ma poi non avevo più fatto molta strada. Incomincio a sospettare di non essere proprio destinato a sfondare.

A preoccuparmi, più che la carriera, è il rapporto con Kevin. Mi sembra che si stia deteriorando. Scopiamo, a letto le cose vanno benissimo. Ma lo vedo distante, nervoso, indifferente a me.

Anche questa sera Kevin ritorna chiaramente incazzato.

- Che cosa c’è Kevin?

Lui grugnisce qualche cosa che non capisco, poi mi dice:

- Stiamo elaborando i dati sul fatturato dell’anno.

La sua faccia non lascia dubbi sul fatto che non è soddisfatto dei risultati. Chiedo:

- È andata male?

Lui storce la bocca e dice:

- Più dodici per cento.

A me sembra un ottimo risultato.

- Mi sembra un bel progresso, no? Perché non sei contento?

- Ernest Greenwood della GoldenWay è arrivato in Giappone una settimana dopo di me. Ha triplicato il fatturato dell’azienda. Merda!

- Ma un aumento del 12% è tanto.

- No, non in rapporto all’investimento fatto quest’anno. È un risultato mediocre.

A quanto pare la ditta ha investito moltissimo e il ritorno non è stato all’altezza delle aspettative. Kevin lo vive come un fallimento personale.

 

Quando giunge il momento di andare in vacanza, decidiamo di separarci: io voglio rientrare in Italia, per vedere i miei e ritrovare alcuni vecchi amici che magari si saranno dimenticati di me. Kevin vuole tornare alla sua casa di Los Angeles, per rivedere i figli. Poi forse passerà una settimana da amici nel Nevada.

Credo che un periodo di separazione non potrà che fare bene al nostro rapporto. Kevin è sotto stress e molto irritabile. Io cerco di evitare lo scontro, ma non sono il tipo che porge sempre l’altra guancia. Ci sono stati diversi screzi e anche qualche momento di forte tensione.

 

Sono tornato da un mese quando faccio un provino per una parte significativa in un film. Sono l’unico italiano, ma siamo in otto americani o europei per questo ruolo. Non ci conto troppo.

Invece mi prendono.

Quando l’agente mi telefona per dirmelo, mi verso un bicchiere di vino bianco. Lo sorseggio lentamente. Dovrei essere felice. Sono riuscito a ottenere una parte significativa in un film. Certo, una pellicola di serie B e non un ruolo da protagonista, ma è un passo avanti, dopo una serie di brevi apparizioni. Non è stato facile: non sono certo molti gli attori italiani che recitano in Giappone. Per uno come me che ha lavorato tre anni, con scarsi risultati, a Hollywood, è un buon passo avanti. Sto incominciando a lavorare davvero nel cinema e non solo a fare qualche breve apparizione in un film ogni tre mesi. Vorrei riuscire a mantenermi come attore, senza cercarmi altri lavoretti (qui ho fatto anche l’insegnante di inglese) o dipendere da Kevin. Lui non me l’ha mai fatto pesare, ma per me non è facile.

Dovrei essere felice, ma non lo sono. Il problema è proprio Kevin. Dopo oltre due anni di convivenza, tra gli USA e il Giappone, il nostro rapporto sta entrando in crisi. Si sta sfilacciando. A volte mi sembra che a Kevin importi poco di me, quasi nulla. Gli vado bene per scopare, gli do quello che gli piace. Ma mi pare che non ci sia altro.

 

Kevin rientra verso le sei, di cattivo umore, come spesso accade in questi giorni. Non solo in questi giorni. Gli affari non vanno male, ma lui si aspettava risultati migliori. Contava di ottenere qualche grosso successo, che gli permettesse di fare carriera. Per quello ha accettato di trasferirsi da Los Angeles a Tokyo. Ma espandere il mercato giapponese si è rivelato un compito più lento e difficile del previsto. A pochi riesce, come a quell’Ernest Greenwood della GoldenWay che ogni tanto cita con rabbia e che sembra detestare.

Lo bacio e lui mi chiede:

- Allora, com’è andata la giornata?

Non mi ha chiesto come è andato il provino. Gli è del tutto passato di mente che oggi avevo questo appuntamento, anche se gliene ho parlato ancora a colazione.

- Benissimo. Mi hanno preso.

Per un attimo non capisce. Poi gli viene in mente e allora risponde:

- Bene, sono contento.

In realtà è evidente che non gli importa. Considera la mia professione di attore come un mio hobby, non un lavoro, come il bridge delle mogli di altri uomini d’affari. E non si aspettava che trovassi un ingaggio qui.

- Non è un ruolo da protagonista, ma è un buon passo avanti.

Lui annuisce. Non gliene fotte un cazzo, ma chiede, tanto per non lasciar vedere la sua indifferenza:

- Quando incominci?

- Tra due settimane. Giriamo prima a Tokyo, poi a Shikoku. Starò via dieci giorni.

Kevin storce la bocca. L’idea non gli piace, gli dà fastidio che io mi allontani. Non che mi ami tanto da non reggere la mia lontananza. Più semplicemente è abituato ad avermi a disposizione.

- È proprio necessario?

- Kevin, è il mio lavoro!

Kevin alza le spalle.

- Puoi farne a meno. Ti faccio mancare qualche cosa, forse?

- Kevin, sto cercando di costruirmi un futuro, come attore.

Kevin scuote la testa.

- Non mi sembra…

Non prosegue, ma ho intuito che cosa vorrebbe dire: che perdo solo il mio tempo. Apro la bocca per parlare, ma poi la chiudo senza dire niente: tutti e due non diciamo quello che pensiamo, perché sappiamo che ne nascerebbe un litigio.

Le vacanze ci hanno fatto bene, siamo tornati più rilassati e sereni, contenti di ritrovarci. Ma è bastato che Kevin riprendesse il lavoro, con le tensioni che gli provoca, e che io avessi una parte per ritornare al punto di prima.

 

Man mano che la mia carriera procede, il nostro rapporto va deteriorandosi. Kevin non sopporta che io stia lontano più giorni. Se il problema fosse che sente la mia mancanza, potrei accettarlo. Ma mi sembra che lui si irriti perché non rispetto quello che nella sua testa è il contratto, per cui dovrei essere sempre a sua disposizione, in cambio di vitto e alloggio.

Quando torno dopo due settimane trascorse a Okinawa per girare un film, mi accoglie con un sarcastico:

- Finita la vacanza?

Di solito non raccolgo, per evitare di arrivare a un conflitto. Ma mi rendo conto che la situazione mi pesa. Gli chiedo:

- Perché la chiami vacanza? È il mio lavoro.

- Non è con quello che ti guadagni la vita.

Certo: è lui che mi mantiene. Ingoio. Non voglio peggiorare una situazione già abbastanza critica.

- Faccio quello che posso, Kevin.

So che Kevin è sotto pressione sul lavoro. Il secondo anno in Giappone è finito e i progressi sono stati limitati. Intanto Ernest Greenwood ha decuplicato il fatturato della GoldenWay, finendo pure sulla copertina di alcune riviste. Il manager dell’anno. Kevin lo odia.

 

Una sera mi dice che torneremo negli USA tra due mesi. Non mi chiede se io voglio tornare o meno: lo dà per scontato. È talmente irritato, che non gli chiedo spiegazioni. D’altronde della possibilità che lui tornasse si era già parlato: manderanno qualcun altro al suo posto. Uno smacco che gli brucia.

Io non dico nulla. Non so che fare. Qui in Giappone la mia carriera è decollata. Non sono certo grandi parti, ma lavoro in modo abbastanza regolare. Ricomincio da zero negli USA? Rimango qui, dove conosco poche persone, quasi tutte di passaggio in Giappone?

 

Mentre mi dibatto in questi dubbi, mi telefona il mio agente per dirmi che mi ha ottenuto una parte in un altro film, per cui dovrò ripartire tra dieci giorni. È un’ottima notizia, una conferma del fatto che incominciano a conoscermi e mi vogliono (sempre in ruoli non da protagonista, ma questo personaggio ha un notevole spessore e ci tenevo ad avere la parte). Il problema è che non so come la prenderà Kevin. O, meglio: lo so benissimo. La prenderà male.

- Tra dieci giorni riparto. Giriamo a Shikoku.

- Alex, piantala di perdere tempo con queste cazzate.

- Kevin, non sono cazzate. È il mio lavoro. Non è un lavoro ben retribuito come il tuo, ma è la vita che ho scelto di fare.

Kevin non nasconde la sua irritazione.

- Se torniamo negli Stati Uniti tra due mesi, che senso ha perdere tempo a recitare in qualche film di quarta categoria?

- Non so che cosa farò tra due mesi, Kevin. Qui riesco a lavorare.

Sapevo che prima o poi avrei dovuto parlargli della possibilità che io rimanessi qui e di conseguenza di una separazione che avrebbe sancito la crisi del nostro legame. Mi chiedevo come l’avrebbe presa. Ma lui non sembra preoccuparsene.

- Che cazzo significa che non sai che cosa farai tra due mesi? Pensi di rimanere qui? Credi di poterti pagare un appartamento come questo lavorando come attore?

Il tono è sarcastico. Il ghigno che lo accompagna è uno schiaffo. Mi guarda come se fossi un povero mentecatto.

Questa volta reagisco.

- Kevin, negli USA vivevo anche prima di conoscere te. Mi pagavo l’affitto di una casa e le mie spese. Non prenderei certo un appartamento come questo, ma in qualche modo potrei cavarmela. Devo pensarci su.

- Sei un povero coglione.

- Forse.

- Fa’ quel che cazzo vuoi.

Aspetto che gli passi e che mi chieda scusa, ma non lo fa. Va a dormire senza più rivolgermi la parola.

Non vado nella camera da letto. Mi stendo sul divano. È la prima volta che capita.

 

Il mattino dopo Kevin mi chiede:

- Sei sempre dell’idea di rimanere qui?

- Non lo so, può darsi. Ci devo pensare.

Kevin non dice più nulla. È furente. Al momento di uscire mi dice:

- Va bene. Questa sera vieni a giocare a poker con me al Genji Club.

A Kevin piace giocare a poker. Si ritrova spesso con due o tre altri uomini d’affari, statunitensi per lo più. Io partecipo solo quando hanno bisogno di un giocatore in più, ma gioco con i soldi di Kevin: anche se giocare mi piace molto, non guadagno abbastanza da buttare via i soldi in partite a carte, soprattutto con le somme che puntano Kevin e i suoi amici. Qualche volta vinco, ma mai contro Kevin: lui è molto abile, sembra quasi un professionista. Se riesco a vincere qualche mano con lui, poi si riprende in quattro e quattr’otto quello che ha perso. Probabilmente questa sera hanno bisogno di un giocatore in più. Non dico di no: non voglio peggiorare la situazione.

- Va bene.

 

La sera al Genji ci ritroviamo solo io e Kevin. Lo guardo, senza capire.

- Questa sera giochiamo io e te.

Mi dà metà delle sue fiches. Incomincia a mescolare le carte.

Io cerco di capire. Che senso ha questa partita in due, in cui tutti e due giochiamo con i suoi soldi? Perché? L’unica è vedere come evolve.

Kevin gioca forte e naturalmente vince. Ogni tanto riesco a riprendermi qualche fiche, ma poi la perdo di nuovo. In capo a un’ora, in cui non ci siamo detti nulla, ho perso anche l’ultima fiche.

Lui mi guarda, ghigna e dice:

- Mischia le carte.

- Mi hai spennato come un pollo. Non ho più niente da giocare.

- Giocati la cravatta.

Sono perplesso. Non capisco che cosa vuole, ma ha qualche cosa in testa, è chiaro. Che cosa, lo capirò solo stando al gioco.

- Va bene. Vada per la cravatta.

Mi tolgo la cravatta e la metto sul tavolo.

Ovviamente vince ancora. Mi dice di mettere in palio la giacca. Lo faccio. Ma intanto mi pongo domande. Perché mi sta spogliando? Che senso ha? Vuole farmi andare a casa nudo?

Riesco a riguadagnarmi la cravatta, ma poi la perdo di nuovo. In tre mani di pura sfiga perdo la giacca, la camicia e le scarpe. Ancora una volta mi chiedo fin dove vuole arrivare. E allora decido che lo vedrò davvero, senza stare a perdere tempo.

Alla mano successiva mi trovo con tre fanti. Ne scarto due, tenendomi le altre due carte di cui non mi faccio niente. Mi viene una coppia di dieci. Kevin ha una doppia coppia.

In questo modo arriviamo in fretta alla conclusione.

Adesso sono nudo come mamma mi ha fatto. Guardo Kevin, con un punto di domanda stampato in faccia. Voglio vedere che farà. Mi mollerà qui portandosi dietro i miei abiti? Non credo. Ha in testa altro.

Kevin incomincia a mescolare le carte.

- Guarda che non ho più niente da giocare. Non ho denti d’oro.

Lui mi guarda e mi risponde, con una voce aspra:

- Puoi giocarti il culo.

Lo guardo. E di colpo la sofferenza deborda. Non ce la faccio più.

- No, non me lo gioco. Non mi sono mai venduto.

Kevin alza le spalle.

- Più o meno…

- Che cazzo vuole dire, più o meno?

Lo so benissimo, ma vorrei che lui non lo dicesse, che capisse, che si fermasse. Vorrei non dover ammettere che l’uomo che ho amato è solo uno stronzo, convinto di avermi comprato con i suoi soldi.

- Ti ho mantenuto questi due anni, no? Vitto e alloggio, pensione completa.

È vero, mi ha mantenuto, perché ho accettato di seguirlo qui. In realtà mi ha mantenuto la sua ditta. Ma tutto ciò non ha nessuna importanza. Mi ha comprato, è vero. Ha comprato un corpo che gli piaceva. Proprio perché mi ha comprato, gli dava fastidio che io mi allontanassi da Tokyo per girare i film: venivo meno al contratto che secondo lui avevamo stipulato.

È sempre stato così, ma me ne rendo conto solo adesso. Prima ero abbagliato da lui, dal suo successo. Per un aspirante attore che riesce a fatica ad arrivare alla fine del mese tra piccole apparizioni in qualche film e lavoretti saltuari, un uomo d’affari strapagato appare quasi un miraggio. E io l’ho visto nello specchio delle mie illusioni, ho pensato che fosse innamorato di me, almeno un po’, come io lo ero di lui. Ma era solo attrazione fisica. Ho pensato di essere qualche cosa di più di un corpo da portare a letto. Sono proprio un coglione.

Nella sua proposta di accompagnarlo a Tokyo ho letto una dichiarazione d’amore, non l’esigenza di avere sempre un cazzo e un culo a disposizione, senza dover perdere tempo a cercare, a scapito del suo lavoro.

Ho impiegato troppo tempo a capire.

Sono rimasto in silenzio. Non ho più niente da dire.

Ma Kevin non si ferma, lui ha ancora qualche cosa da dire. Vuole togliersi i sassolini nelle scarpe, tutti. Vuole arrivare fino in fondo.

- Se mi dai il culo, ti rendo i vestiti. Che differenza fa per te, una volta in più? In fondo sei una marchetta, no?

Ora ha detto quello che voleva dire. Voleva arrivare lì. Non gli interessava scopare, voleva solo lanciarmi in faccia il suo disprezzo. Com’è? Questa donna… pagata io l’ho.

Chino la testa. So che non è vero, ma non ha senso rispondere.

Kevin si alza e se ne va, lasciando i miei vestiti. Non dice più nulla. Non c’è più nulla da dire.

 

2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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