Decameron, giornata XI, novella 1 A
Giovanni Boccaccio, coautore suo malgrado Ritornati i giovani nella egregia città di Fiorenza, infine cessò anche la mortifera
pestilenza, come piacque a Dio. E, passato tempo alquanto, sempre vedendo
Filostrato dal fiero dolor d’amore oppresso, a lui parlò Dioneo, che assai
caro l’avea: “Amico mio caro, tu udisti
la novella che Pampinea narrò dello scolare e della
vedova, ma tu non bene intesa l’hai, forse perché ella non te ne narrò la
fine, non cognoscendola. Io la conterò nuovamente, senza nulla celare,
acciocché tu possa meglio intenderla. Egli non sono ancora molti
anni passati, che in Firenze fu Currado di messer Filippo
Domenichi, uomo grande e nerboruto, di corporal forza e d’ingegno dotato, in
opera d'arme e in cortesia pregiato. Ei non amava le femine e non di rado co’
mascoli giaceva, ma poiché molto discreto era, nessuno mai s’avvide de’ gusti
suoi. E tutti stimandolo cavalier di gran valore, ei
conduceva la sua vita tranquillo. Vicino a lui abitava una
giovane del corpo bella e d'animo altiera e di legnaggio gentile, de' beni
della fortuna convenevolmente abondante e nominata Elena; la quale rimasa del
suo marito vedova, mai più rimaritar non si volle, essendosi ella d'un
giovinetto bello e leggiadro, ma di vile condizione, a sua scelta innamorata;
e da ogni altra sollicitudine libera, con l'opera d'una sua
fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con
maraviglioso diletto si dava buon tempo. Egli, che Fresco nome
avea, di tale amore era ben lieto e leggiadro molto e più pulito che una mosca, con sua cuffia in capo, con una zazzerina
bionda e per punto senza un capel torto avervi, andava in giro per Fiorenza e
dell’amore della sua donna con gli amici menava gran vanto. Avvenne che in questi
tempi un giovane chiamato Rinieri, nobile uomo della nostra città, avendo
lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienzia a minuto,
come molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d'esse (il
che ottimamente sta in gentile uomo), tornò da Parigi a Firenze; e quivi
onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per la sua scienzia,
cittadinescamente viveasi. Ma, come spesso avviene, coloro
ne' quali è più l'avvedimento delle cose profonde,
più tosto da amore essere incapestrati, avvenne a questo Rinieri. Al quale,
essendo egli un giorno per via di diporto andato ad
una festa, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come
le nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza al suo giudicio e di tanta
piacevolezza, quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e seco
estimò colui potersi beato chiamare, al quale Iddio grazia facesse lei potere
ignuda nelle braccia tenere. E una volta e altra cautamente riguardatala, e
conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare,
seco diliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollicitudine in piacere a
costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse, e per questo il
potere aver copia di lei. La giovane donna, la quale
non teneva gli occhi fitti in inferno, ma, quello e più tenendosi che ella
era, e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava, accortasi di
Rinieri, in sé stessa ridendo disse: - Io non ci
sarò oggi venuta in vano - . E cominciatolo con la coda dell'occhio alcuna
volta a guardare, in quanto ella poteva, s'ingegnava
di dimostrargli che di lui le calesse; d'altra parte, pensandosi che quanti
più n'adescasse e prendesse col suo piacere, tanto di maggior pregio fosse la
sua bellezza, e massimamente a colui al quale ella insieme col suo amore
l'aveva data, per quanto di vile condizione. Il savio
scolare, lasciati i
pensier filosofici da una parte, tutto l'animo rivolse a costei; e,
credendosi doverle piacere, davanti la sua casa incominciò a passare, con
varie cagioni colorando l'andate. Più volte lo vide Currado,
che ben lo cognosceva, poiché avevano due poderi vecini in Mugello.
Piacquegli molto il giovane, bello d’aspetto e savio, ma comprendendo egli
passar per la via per vedere la donna, nulla disse o fece. Essendo uomo di fiera vista e robusto molto, non gli mancava di che
sodisfare ai desideri suoi, che molti giovani il cercavano, desiderosi di
provare lo sperone con cui cavalcava e mai niuno tornava senza il disiderio
di sentirlo ancora. La donna, per la cagion
già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di veder assai
volentieri il giovin scolare; per la qual cosa Rinieri, trovato modo,
s'accontò con la fante di lei, e il suo amor le
scoperse, e la pregò che con la sua donna operasse sì che la grazia di lei
potesse avere. La fante promise largamente e alla sua
donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo l'ascoltò, ma finse
di ricambiare l’amor suo. Rinieri lieto procedette a
più caldi prieghi e a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era
ricevuta, ma in dietro non venivan risposte se non generali; e in questa
guisa il tenne gran tempo in pastura. Ultimamente, avendo ella a
Fresco, come dissi suo amante, ogni cosa scoperta ed egli essendosene con lei
alcuna volta turbato e alcuna gelosia presane, essendo Rinieri a lui assai
superiore per lignaggio e fortuna, per mostrargli che a torto di ciò di lei
sospicasse, sollicitandola lo scolare molto, la sua fante
gli mandò, la quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto
da poter fare cosa che gli piacesse poi che del suo amore fatta l'aveva
certa, se non che per le feste del Natale che s'appressava ella sperava di
potere esser con lui; e per ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli
piacesse, nella sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima
potesse, andrebbe. Lo scolare, più che altro uom lieto, al
tempo impostogli andò alla casa della donna, e, come gli era stato dalla
fante detto, entrò da un cancello in una corte. Qui lo serrò la fante, sì che non potesse in istrada uscire. Rinieri
intanto la donna cominciò ad aspettare. La donna, avendosi quella
sera fatto venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che
fare quella notte intendeva gli ragionò, aggiugnendo: - E potrai vedere quanto e
quale sia l'amore, il quale io ho portato e porto a
colui del quale scioccamente hai gelosia presa. Queste parole ascoltò l'amante con gran piacer d'animo disideroso di
vedere per opera ciò che la donna con parole gli dava ad intendere. Era per
avventura il dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era
coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco nella
corte dimorato, che egli cominciò a sentir più freddo che voluto non avrebbe;
ma, aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva. La donna al suo amante
disse dopo alquanto: - Andiancene in camera, e
da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui
tu se' divenuto geloso, fa, e quello che egli risponderà alla fante, la quale
io gli ho mandata a favellare. Andatisene adunque costoro
ad una finestretta, e veggendo senza esser veduti,
udiron la fante da un'altra favellare allo scolare e dire: - Rinieri, madonna è la più
dolente femina che mai fosse, per ciò che egli ci è stasera venuto uno de'suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle
cenar con lei, e ancora non se n'è andato; ma io credo che egli se n'andrà
tosto; e per questo non è ella potuta venire a te, ma tosto verrà oggimai;
ella ti priega che non ti incresca l'aspettare. Lo scolare, credendo questo esser vero,
rispose: - Dirai alla mia donna che
di me niun pensier si dea in fino a tanto che ella possa con suo acconcio per
me venire; ma che questo ella faccia come più tosto può. La fante, dentro tornatasi se n'andò a
dormire. La donna allora disse al
suo amante: - Ben, che dirai? Credi tu
che io, se quel ben gli volessi che tu temi,
sofferissi che egli stesse là giù ad agghiacciare? - e questo detto, con
l'amante suo, che già in parte era contento, se n'andò a letto, e grandissima
pezza stettero in festa e in piacere, del misero
scolare ridendosi e faccendosi beffe. Rinieri, andando per la
corte, sé esercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove
fuggire il sereno, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e
ciò che udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s'aprisse; ma invano sperava. Essa infino vicino della
mezza notte col suo amante sollazzatasi, gli disse: - Che ti pare, anima mia, dello scolare nostro? Qual ti par maggiore o il suo senno
o l'amore ch'io gli porto? Faratti il freddo che io
gli fo patire uscir del petto quello che per li miei
motti vi t'entrò l'altrieri? Fresco rispose come colui
che vile era d’animo e non solo di condizione. Odiando il giovin scolaro, a
lui troppo superiore per grado e per istruzione, disse: - Cuor del corpo mio, sì,
assai conosco che così come tu se'il mio bene e il
mio riposo e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua. Ma
colui io odio e desidero vederlo assiderato morire. - Ma che faremo noi, se
questo succederà? Fia grande scandalo. - Niuno. Il corpo suo metteremo nella strada e tutti crederanno che, camminando
dopo aver troppo bevuto, ei sia caduto nella neve e morto per il gran freddo. Così deliberarono. E
levati, alla finestretta usata n'andarono, e nella corte guardando, videro lo scolare fare su per la neve una carola trita al suon
d'un batter di denti, che egli faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta,
che mai simile veduta non aveano. Disse la donna: - Io voglio che noi
andiamo infin giù all'uscio: tu ti starai cheto e io
gli parlerò, e udirem quello che egli dirà; e per avventura n'avrem non men
festa che noi abbiam di vederlo. E aperta la camera
chetamente, se ne scesero all'uscio, e quivi, senza aprir punto, la donna con
voce sommessa da un pertugetto che v'era il chiamò. Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Iddio,
credendosi troppo bene entrar dentro; e accostatosi all'uscio disse: - Eccomi qui, madonna:
aprite per Dio, ché io muoio di freddo. La donna disse: - Io non ti posso ancora
aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che ier sera ci venne meco
a cenare, non se ne va ancora; ma egli se n'andrà tosto, e
io verrò incontanente ad aprirti. Io mi son testé con gran fatica scantonata
da lui, per venirti a confortare che l'aspettar non t'incresca. Disse lo
scolare: - Deh! madonna, io vi priego per Dio che voi m'apriate, acciò che io possa
costì dentro stare al coperto, per ciò che da poco in qua s'è messa la più
folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v'attenderò quanto vi sarà a
grado. Disse la donna: - Ohimè, ben mio dolce,
che io non posso ché questo uscio fa sì gran romore quando s'apre, che
leggermente sarei sentita da fratelmo, se io t'aprissi; ma io voglio andare a
dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi
tornare ad aprirti. Disse lo
scolare: - Ora andate tosto; e
priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò
che, come io enterrò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto
divenuto sì freddo che appena sento di me. Disse la donna: - Questo non dee potere
essere, se quello è vero che tu m'hai più volte
scritto, cioè che tu per l'amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi
beffi. Ora io vo: aspettati, e sia di buon cuore. L'amante, che tutto udiva
e aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi
beffe dello scolare consumarono. Lo scolare cattivello (quasi cicogna
divenuto, sì forte batteva i denti) accorgendosi d'esser beffato, più volte
tentò l'uscio sulla strada e quello della casa se aprir li potesse, e
riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le volte
del leone, maladiceva la qualità del tempo, la malvagità della donna e la
lunghezza della notte, insieme con la sua simplicità; e sdegnato forte verso
di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo e acerbo odio
transmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la
quale ora molto più disiderava, che prima d'esser con la donna non avea
disiato. E certo ei sarebbe morto
per il gran freddo, se Iddio misericordioso mandato non avesse a soccorrerlo. Come dissi, abitava nella
casa a fianco della donna Currado. Il quale, tardi rientrato per certi affari
suoi, si disponeva a prendere un bagno caldo, per iscacciare il freddo della
notte, quando udì le voci dal cortile vicino. E forte meravigghiandosi che a
tal ora e in tal notte alcun nel cortile parlasse, porse orecchio a ciò che
si diceva e, conoscendo Rinieri e la donna e il di lei amante, poiché più
volte li avea dalle finestre della sua casa veduti,
ciò che avveniva sospettò. Temendo che Rinieri potesse venire dal freddo
spento, decise di soccorrere al povero scolare.
Disse al servo suo di tenere acceso il fuoco e calda l’acqua e scese nel suo
cortile. La porta aperse, che di fianco era a quella della donna e, siccome uomo era forte e robusto, forzò l’uscio del
cortile della vedova. Lo scolare, che morto si
vedeva, a terra era caduto, per cui Currado, lo sollevò e lo portò in casa
sua. Qui, quasi assiderato veggendolo, gli disse: - Tosto, buono uomo, entra in quel bagno, il quale ancora è caldo. Ed egli questo, senza più
inviti aspettare, di voglia ma a fatica fece; e tutto dalla caldezza di
quello riconfortato, da morte a vita gli parve essere tornato. Intanto
Currado e il servo suo, le braccia e le gambe a Rinieri massaggiando, vita
gli rendevano. Poi, asciugatolo, tra le
coperte il distesero, nuovamente privo di sensi. Bello d’aspetto era lo scolare e risvegliò tale che non era chiamato e su
si levò. Currado, per quanto di fiamma acceso e tanto caldo quanto freddo era lo scolare, parendogli men che onesto e contrario
all’onor suo prendere chi non potea negarsi, il suo disiderio ritenne. E
coperto bene il giovine, un bel fuoco nel camino lasciando, andò a coricarsi. Al termine della notte, la
donna e l’amante suo scesero nel cortile, per disporre del corpo, ma non lo
trovarono e, veggiendo l’uscio forzato, pensarono
che lo scolare fosse riuscito a escire. Questo alquanto rincrebbe all’uomo,
che per il rivale grande odio provava. Quando lo
scolare si destò, era debole assai e a fatica si muoveva, per che Currado,
mandato per alcun medico e dettogli il freddo che Rinieri avuto avea, alla
sua salute fe' provedere. Il medico con grandissimi
argomenti e con presti aiutandolo, il poté in breve
guerire; dopo tre giorni ei lasciò la casa di Currado, che la vita gli avea
salvato. E sempre gli fu riconoscente e amici divvenero. Ritornato sano e fresco,
dentro il suo odio servando, Rinieri tutte le femine spregiava,
ma vie più che mai si mostrava innamorato della vedova sua, cercando come
vendetta avere. Due mesi dopo Currado
incontrò lo scolare nella via dove dimorava e lo
vide che le finestre della vedova fissava. - Rinieri, tu non mi
sembri savio come la fama dice. Dove e in che pon tu l’animo e l’amore e la
speranza tua? Ben dovresti aver compreso che a lei nulla cale di te e che a
farti morire era disposta per dare piacere a un uomo vile, di cui è presa.
Che dunque ami? - Currado, non all’amore
di lei, ma alla vendetta contro coloro che la mia
morte vollero vo cercando una via. Stette pensieroso Currado,
poi disse: - Sulla donna non ti
aiuterò a prender vendetta, ma su Fresco che, essendo uom vile, non altro
merita che botte, ben volentieri ti aiuterò. Ascolta come noi faremo. Molto piacque a Rinieri il
piano di Currado e il giorno seguente in opera lo misero. Rinieri con un saccente
barattiere si convenne del prezzo, e datogli un bottaccio di vetro, il menò vicino della loggia de’ Cavicciuli, e mostrogli in
quella Currado. - Tu te ne andrai a lui
con questo fiasco in mano, e dira’gli così: - Messere, a voi mi manda Fresco,
e mandavi pregando che vi piaccia d’arrubinargli questo fiasco del vostro
buon vin vermiglio, ch’e’ si vuole alquanto
sollazzar con suoi zanzeri; - e sta bene accorto che egli non ti ponesse le
mani addosso, per ciò che egli ti darebbe il mal dì, e avresti guasti i fatti
miei. Disse il barattiere: - Ho io a dire altro? Disse Rinieri: - No; va pure; e come tu
hai questo detto, torna qui a me col fiasco, e io ti
pagherò. Mossosi adunque il
barattiere, fece a messer Currado l’ambasciata, davanti a molta gente. Messer Currado, udito costui,
fignendo di avvisar che Fresco, il quale egli conosceva, si facesse beffe di
lui, tutto tinto nel viso, dicendo: - Che "arrubinatemi" e che
"zanzeri" son questi? Che nel mal anno metta Iddio te e lui, - si levò in piè e distese il braccio per pigliar
con la mano il barattiere; ma il barattiere, come colui che attento stava, fu
presto e fuggì via. Rinieri contento pagò il
barattiere, poi nuovo incarico gli commise. Questi non riposò mai ch’egli ebbe trovato Fresco, al quale egli disse: - Fostu a questa pezza
dalla loggia de’ Cavicciuli? Rispose Fresco: - Mai no; perché me ne
domandi? Disse il barattiere: - Per ciò che io ti so
dire che messer Currado ti fa cercare, non so quel ch’e’
si vuole. Disse allora Fresco: - Bene, io vo verso là, io gli farò motto. Partitosi Fresco, Rinieri
gli andò appresso per vedere come il fatto andasse. Messer Currado, non
avendo potuto giugnere il barattiere, si fingeva fieramente turbato, come
colui che tutto in sé medesimo si rode, e ne
favellava, come se non potesse dalle parole dette dal barattiere cosa del
mondo trarre altro, se non che Fresco, ad instanzia di cui che sia, si
facesse beffe di lui. E in questo che egli così si rodeva, e Fresco venne. Il quale come egli vide,
fattoglisi incontro, gli diè nel viso un gran
punzone. - Ohimè! messer, - disse
Fresco - che è questo? Messer Currado, presolo
per li capelli e stracciatagli la cuffia in capo e
gittato il cappuccio per terra e dandogli tuttavia forte, diceva: - Traditore, tu il vedrai bene ciò che questo è. Che "arrubinatemi"
e che "zanzeri" mi mandi tu dicendo a me?
Paiot’io fanciullo da dovere essere uccellato? E così dicendo, con le pugna, le quali aveva che parevan di ferro, tutto il
viso gli ruppe, né gli lasciò in capo capello che ben gli volesse, e
convoltolo per lo fango, tutti i panni in dosso gli stracciò. Alla fine,
avendol messer Currado ben battuto, ed essendogli molti
dintorno, alla maggior fatica del mondo gliele trasser di mano così
rabbuffato e malconcio come era. Poi che un poco si fu rimesso in assetto,
tristo e dolente Fresco se ne tornò a casa. Ringraziò Rinieri l’amico
che vendetta aveva fatto, anche se essa non gli pareva bastante. Avevano in Mugello Rinieri
e Currado lor possessioni. E di state Rinieri se n'andò in contado a quel suo
podere assai vicino a quello di Currado. Ora avvenne che uno giovedì quasi all'entrata di luglio essendo un
bellissimo tempo, e Rinieri entrato in pensier della crudel donna e
tormentato da un desiderio mai più saziato, comandato a tutta la sua famiglia
che solo il lasciassero, per più potere pensare a suo piacere, piede innanzi
piè sé medesimo trasportò, pensando, infino nel bosco. Ed essendo già passata
presso che la quinta ora del giorno, ed esso bene un mezzo miglio per il
bosco entrato, non ricordandosi di mangiare né d'altra cosa, subitamente gli
parve udire un grandissimo romore; per che, rotto il suo pensiero, alzò il
capo per veder che fosse, e maravigliossi nel bosco veggendosi; e oltre a ciò, davanti guardandosi vide venire, correndo
verso il luogo dove egli era, una bellissima cerva; e oltre a questo le vide
a' fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso
correndole, cercavano di giugnerla per morderla, e dietro a lei vide venire
sopra un corsiere nero un cavalier bruno, che riconobbe null’altri che
Currado essere. Lieti dell’incontro, i due
amici si salutarono e Currado, sospesa la caccia e richiamati i cani, Rinieri
condusse a un loco a lui noto. Quivi era un fiumicello, il qual d'una delle
valli cadeva giù per balzi di pietra viva, e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole, e sprizzando pareva da lungi
ariento vivo che d'alcuna cosa premuta minutamente sprizzasse; e come giù al
piccol pian pervenia così quivi in un bel canaletto raccolto infino al mezzo
del piano velocissimo discorreva, e ivi faceva un picciol laghetto quale
talvolta per modo di vivaio fanno né lor giardini i cittadini che di ciò
hanno destro. Ed era questo laghetto non più profondo che sia una statura
d'uomo infino al petto lunga, e senza avere in sé
mistura alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser d’una minutissima
ghiaia, la qual tutta, chi altro non avesse avuto a fare, avrebbe, volendo,
potuta annoverare. Nè solamente nell'acqua riguardando vi si vedeva il fondo, ma tanto pesce in qua e in là andar discorrendo,
che oltre al diletto era una maraviglia. Nè da altra ripa era chiuso che dal
suolo del prato, tanto d'intorno a quel più bello,
quanto più dello umido sentiva di quello. L'acqua, la quale alla sua capacità
soprabbondava, un altro canaletto riceveva, per lo qual fuori del valloncello
uscendo alle parti più basse sen correva. - Qui sempre mi bagno, Rinieri mio, dopo il calor della caccia. E mentre parlava principiò
a togliersi i panni, da Rinieri imitato, ed entrambi in acqua intrarono. E
dopo che si furono alquanto rinfrescati, grande piacere prendendo, ne uscirono e sull’erba si distesero. Ma guardando Currado il
giovin Rinieri tutto ignudo, lo stimolo della carne l'assalì subitamente e
fece tale in piè levare che si giaceva. Ciò ben vide Rinieri, né Currado di
occultarlo ebbe pensiero, ché omo schietto era. - Perdona, Rinieri, per il
grande amore ch’io ti porto, se il mio disiderio si
disvela. Sta’ pur certo che nulla farò che non ti
sia gradito e se disideri che io men vada, farollo senza por tempo. Forte turbossi Rinieri del
desiderio che Currado mostrava. Da che discacciate aveva dalla mente la
vedova e le altre femine, mai con femina o con omo era giaciuto e troppo gli
incresceva la castità, a cui non era avvezzo. Volentieri avrebbe provato
con l’amico a giacersi, ma vedendo di che corno cozzava Currado, temeva che
troppo doloroso fosse. Per cui, da opposti disideri tirato,
non sapea il da farsi. Ma il corpo suo, dalla vista di quel di Currado
acceso, tradì il suo disiderio, per cui, appressatosi Currado, incominciò a
tanto fargli carezze e baci, e quando Currado abbracciollo, non si sottrasse
Rinieri. Infine, voltato lo scolare, a guisa di pecorella, Currado montone si fe’.
E preso il pivuolo col quale egli piantava gli uomini, prestamente nel solco
messolo, con grande ardore cominciò a lavorare il campo che mai era stato
arato. Il signor di Mazzaferrata non per forza e con ispargimento di sangue
in Cavernascosa entrò, ma paceficamente. E ciò avvenne con gran piacer di
quei d’entro, per quanto scevro di dolore non fusse. E dopo che il piacer loro
ebber preso, alquanto si riposarono, ma poi, non essendo sazi
l’un dell’altro, ancora al gioco ritornarono e più e più volte il ripeterono,
tanto che il dì volgeva ormai alla fine, quando si levarono e alla magione di
Currado si diressero. A fatica potea Rinieri cavalcare, ma tale era stata la
cavalcata, che gli parea di non disiderare altro. Da quel dì, in campagna
ogni giorno Currado e Rinieri insieme a' piaceri comuni si congiunsono. Li quali tanto all'una parte e all'altra aggradirono che,
non che l'un dall'altro aspettasse d'esser invitato a ciò, anzi a dovervi
essere si faceva incontro l'uno all'altro invitando. Non era ancora l’estate
finita, che Currado dovette, per affari suoi, in Fiorenza tornare, ma Rinieri
non sofferì di lasciarlo, per il grande amor che portavano l’uno all’altro, e
insieme se ne vennero. Ora era avvenuto, durante
l’estate, che, essendosi Fresco che dalla vedova era
amato (non avendo alcun riguardo all’amore da lei portatogli), da lei
staccatosi e innamorato di un’altra donna, e non volendo né poco né molto
dire né far cosa che a lei fosse a piacere, essa in lagrime e in amaritudine
si consumava. Ma cognoscendo lui volere sopra ogni altra cosa di Currado
prendere vendetta, lo mandò a chiamare, dicendogli che gli avrebbe furnita
occasione di vendicarsi di chi oltraggiato l’avea. Fresco, a cui ancora
bruciava l’oltraggio che Currado fatto gli avea nelle strade della città,
venne. La donna gli disse che Currado era tornato in città e che da casa sua
egli avrebbe facilmente potuto nella di lui casa
nella notte entrare e torre vendetta. Venendo egli la notte precedente e da
lei dimorando, nessuno l’avrebbe veduto e senza destare sospetti egli avrebbe
avuto ciò che desiderava. Sperava la vedova che
Fresco, vicino a lei rimanendo, dell’antico ardore si riaccendesse. Egli,
contento di poter sua vendetta prendere, fece quanto ella
gli chiedeva e con lei giacque. Avanti nella notte, avendo
l’animo al doversi vendicare, lasciando ogni ragione e ogni giustizia
dall’una delle parti, agl’inganni tutto il suo
pensier dispose; e tutto armato, dalla casa della vedova entrò nella casa e
poi nella camera di Currado chetamente, il quale egli vide che per lo gran
caldo che era, tutto ignudo si stava ad una finestra volta al cortile a
ricevere un venticello che da quella parte veniva. Non vide che nel letto dormiva, anch’esso ignudo, Rinieri. Per la qual cosa
chetamente n’andò per la camera infino alla finestra, e quivi con un coltello
fece per colpire Currado per le reni, infino all’altra parte volendolo
passare. Ma, destatosi Rinieri, quasi egli avesse sentito che il suo Currado
era in pericol di vita, un grido lanciò. Al che Currado si volse e il colpo
schivò. Luttarono i due e, benché armato fosse Fresco, troppo più robusto e
vigoroso era Currado, per cui, il polso torcendogli Currado, la sua stessa
lama nel petto gli penetrò, spegnendolo. - Questi venne a vendicar
ingiuria, ma trovò ciò che meritava. Rinieri guardò il corpo e
disse: - Iddio lodato sie tu:
venuto è il tempo che io farò col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ingiuria fattami in premio del grande amore che io
le portava. E a Currado rivolto,
disse: - Questi certo qui non
giunse se non con l’aiuto della vedova. Mettianlo nel giardino della donna e
lascianlo stare; egli sarà domattina trovato e su di lei ricadrà la colpa. Piacque a Currado, che
sapeva lui il vero dire, la proposta. E insieme preso il corpo, con quello
del giardino uscirono e verso la casa della donna si
dirizzaro. L’uscio era aperto, che la donna l’aveva lasciato, acciocchè
Fresco potesse senza romore rientrare. Allora Rinieri e Currado il corpo nel
giardino della donna, dove Rinieri la morte aveva scampato, deposero. E così tornando, per caso
avvenne che dalla famiglia del podestà, che andava a quella
ora per alcuno accidente, furon trovati. E questo giudicando che a
punto venisse, Currado disse: - Noi udimmo grida dalla
casa della vicina e uscimmo a vedere, ma né lume vedendo,
né sono udendo, non essendo la porta sforzata, più non sappiamo che dire. Il podestà, forte
bussando, si fece aprire e vide la donna assai turbata, che essa temeva
essere stato Fresco scoperto. Vedendo il suo
turbamento, il podestà la pressò, ma ella diceva che nulla era avvenuto. Guardando alquanto la
casa, le guardie nel giardino trovarono il corpo di Fresco, che alcuni
sapevano essere di lei stato l’amante e lei da lui essere stata diserta. - Ahi malvagia femina, tu
l’hai ucciso! Ella, per lo dolore del subito accidente che il suo amante tolto
aveva, quasi di sé uscita, non sappiendosi scusare, fu reputato da tutti che
così fosse. Per la qual cosa presala, piagnendo ella sempre forte, al palagio
del podestà ne fu menata. Un giudice, senza dare indugio alla cosa, si mise ad esaminarla del fatto; e conferma avuta che Fresco di
lei era stato l’amante e per altra l’avea diserta, decise di condannarla. Ma
ella non salì al patibolo, perché, non restando di piagnere, piagnendo si
morì; e così il suo disavventurato amore ebbe termine. Rinieri la casa della
vedova acquistò e, aperta una porta tra quella e la magione di Currado, da
allora ogni notte con Currado dormì, gustando delo sperone ch’egli
veramente d’acciaro aveva. E senza mai guardar festa o vigilia o fare quaresima,
quanto le gambe ne gli poteron portare, lavorarono e
buon tempo si dierono.” Bene intese Filstrato il
senso della novella che Dioneo narrato gli avea. E, vedendo l’amico oltre
ogni altro piacevole giovane, risolse di iscacciare dalla mente l’amore
molesto e del corpo dell’amico fare il suo piacere, come questi gl’invitava. E questo non una volta
avvenne, ma molte. Da allora questi due giovani sempre usarono insieme, e per
quello che mostrassono, così s'amavano, o più, come se stati fosser fratelli. 2013 |