Batteria scarica

 

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Accompagno la classe all’uscita e controllo che tutti i bambini vengano ritirati dai genitori. Come è già successo altre volte, manca la madre di Patrizia, che la cerca invano con gli occhi. Mi fa pena, perché soffre a vedere gli altri andare via con la mamma o il papà, mentre lei deve aspettare. Sua madre è spesso in ritardo. So che esce alle due dal lavoro, per cui non è quello il problema. Credo che semplicemente abbia difficoltà a organizzarsi, le sembra sempre di poter fare più cose di quelle che il tempo le consente.

Patrizia mi guarda smarrita. Io le sorrido e le accarezzo la testa. Lei risponde al mio sorriso. In quel momento vedo sua madre spuntare, trafelata come al solito.

- Eccola, la tua mamma!

Patrizia segue la direzione del mio sguardo, vede la madre e batte le mani, poi le corre incontro a braccia aperte. Io lancio un’occhiata di controllo intorno, verifico che tutti i miei bambini siano stati presi in carico da chi di dovere, rispondo con un cenno al saluto di due madri che si sono fermate a chiacchierare e rientro a scuola.

In sala insegnanti mi aspetta al varco donna Matilde, la femme fatale della nostra scuola. A quarant’anni Matilde Genco è davvero una gran bella donna e, per quel che ne so, anche una brava maestra. Ma è convinta che tutti gli uomini debbano desiderarla e corteggiarla. Io non ne ho nessuna intenzione e non solo perché ha quindici anni in più di me. A me le donne non piacciono, almeno non per portarle a letto.

- Allora, il nostro bell’Antonio è pronto per la fossa dei leoni?

Non mi va che mi chiami “il bell’Antonio”. Non mi identifico volentieri con il personaggio del romanzo di Brancati. O forse mi identifico troppo, perché come lui sono impotente con le donne: i due tentativi fatti qualche anno fa si sono conclusi con un disastro. So che non avrei dovuto farli, per coerenza con me stesso. Ma non è facile accettare di essere quello che sono, in questo paese. Ho l’impressione che Matilde mi chiami così per punzecchiarmi, perché lo scarso interesse che dimostro nei suoi confronti la infastidisce. Sorrido e rispondo:

- Cercherò di non farmi sbranare.

“La fossa dei leoni” è il Consiglio di Circolo. Ho commesso l’errore di accettare un posto nella lista e sono stato eletto: sinceramente non me l’aspettavo, ma ho avuto parecchi voti, anche se sono arrivato in questa scuola solo un anno fa. Non pensavo che sarebbe stata una passeggiata, ma non mi aspettavo neanche il clima incandescente che ho trovato. Purtroppo il Consiglio è considerato da alcuni padri una piattaforma di lancio per una possibile carriera politica e vi sono scontri feroci che poco hanno a che fare con la scuola.

Il Consiglio incomincerà alle sei. Farò un salto a casa, tanto abito abbastanza vicino: in meno di un quarto d’ora arrivo. Mi muovo in auto, ovviamente, perché non esiste nessun collegamento diretto tra questa cittadina in cui insegno e quella in cui vivo. Dovrei andare fino a Torino con l’autobus, per poi prenderne un altro. Tra i tempi d’attesa, lunghissimi, e quelli di percorrenza, il viaggio potrebbe durare anche più di due ore.

Mentre mi preparo a uscire, la direttrice apre la porta del suo studio.

- Antonio, posso parlarti della riunione di questa sera? Anna e Serena sono già qui.

Vorrei rispondere di no: conosco lei e le mie colleghe e so che cosa mi aspetta. Finirà che discuteremo almeno per un’ora e a casa non avrò modo di andarci. Il che significa che farò da questa mattina a questa notte quasi senza stacco. Ho il discutibile onore di essere convocato perché pare sia giudicato affidabile e sensato, a differenza di alcune colleghe.

Non ho nessuna possibilità di sottrarmi, per cui dico:

- Certo, arrivo subito.

Un salto al cesso e poi entro in direzione.

Come prevedevo, la riunione si trascina per le lunghe. Si tratta di arginare le iniziative di Todi, uno dei due consiglieri di simpatie democristiane, sempre pronto a polemizzare su tutto, per apparire come il difensore dei valori e della morale. Lo detesto, perché, come tanti della sua risma, è solo un ipocrita: non crede nemmeno lui a quello che dice, gli serve solo come propaganda. Mira a diventare consigliere comunale e forse si presenterà alle prossime elezioni, tra due anni.

Quando esco è troppo tardi per andare a casa: mancano quaranta minuti. Ormai è buio: siamo a novembre e le giornate sono brevi. Tanto vale che faccia un salto al bar e mi mangi un panino: la riunione può durare anche più di quattro ore e se arrivo a casa dopo le dieci, avrò le batterie completamente scariche. Riuscirò solo a stendermi sul divano per guardare la televisione o per leggere.

Il bar di solito non offre una grande scelta di panini e questa sera non è rimasto niente: d’altronde chiudono tra un’ora. Al banco però c’è Tecla, la zia di una mia allieva, che mi prepara subito un panino con tonno e carciofini. Lo mangio volentieri (il pranzo alla mensa oggi faceva davvero schifo e ho mangiato il meno possibile, giusto il necessario per non dare il cattivo esempio ai bambini) e ci aggiungo un croissant. Bevo un bicchiere di acqua minerale e prendo un caffè: dico che mi servirà per rimanere sveglio, ma non è così. Se la discussione sarà animata come quella della riunione precedente, di sicuro non rischierò di addormentarmi.

Torno a scuola. Mancano ancora venti minuti. All’ingresso c’è Marco, il custode. Mi sorride e dice:

- Buona fortuna. Mi sa che ne avrai bisogno.

Annuisco, sconsolato.

- Non so chi me l’ha fatto fare. Hanno approfittato della mia ingenuità per mettermi in lista.

- Ma no, abbiamo bisogno di gente sveglia, come te.

Scuoto la testa e gli dico:

- E allora, perché tu non ti sei candidato?

Marco scoppia a ridere. Mi piace molto la sua risata, franca. Mi piace molto lui, come persona. È simpatico, sempre disponibile. Con i bambini è un mago e loro lo adorano.

In realtà Marco mi piace anche come maschio. Non è bello di faccia: è quasi completamente calvo e ha un viso allungato, che la fitta barba nera rende ancora più lungo. Però ha un bel corpo, muscoloso e snello. Mi sono sempre guardato bene dal mandargli il minimo segnale: scoprirmi nella scuola in cui lavoro sarebbe una follia. E soprattutto non credo proprio che a Marco interessino gli uomini: è stato sposato e ha avuto due figli, uno dei quali abita a Torino e viene spesso a trovarlo, mentre l’altro è rimasto in Sicilia con la madre.

Quando ha finito di ridere, Marco mi dice:

- Mpare… chi ti pari chi c’haji scrittu Giocondo na frunti?

- No, no, non hai scritto Giocondo, quello ce l’ho scritto io. Ma tu… haj a testa sulu ppi spattiri l’aricchi!

Marco ride di nuovo.

- Mpare, hai a testa sulu ppi spardari sciampu!

Con Marco ogni tanto usiamo qualche espressione in dialetto. Proveniamo da città diverse della Sicilia, ma ci capiamo benissimo. Io non parlo bene il dialetto: a casa mia si parlava italiano, perché i miei genitori volevano che noi figli lo imparassimo bene. Ma dai nonni e per strada, tutti usavano il dialetto. Mi è rimasto dentro il cuore e sentire due parole in siciliano mi fa sempre piacere: mi sembra di tornare a casa. Quando parliamo in dialetto, usiamo anche espressioni che di certo non diremmo davanti ad altri, soprattutto a scuola, ma controlliamo che nessuno ci possa sentire. Ci prendiamo per il culo e poi arriviamo a insultarci, sempre ridendo.

Finito lo scambio di gentilezze sull’uso della testa, per tenere separate le orecchie o per sprecare lo shampoo, io rilancio andando sul pesante:

- Mbare, ma cettu chi c’haj na bedda facc’i minchia.

- T’azziccu i scapi ‘ndo culu.

Quando Marco mi minaccia di infilarmi in culo qualche cosa, anche solo le scarpe, le sue parole mi solleticano. E mi chiedo che cosa farei se davvero mi proponesse di farlo (non con le scarpe, evidentemente). Credo che avrei paura, perché non l’ho mai fatto. Ma avrei anche voglia di provare. Mi limito a invitarlo a pensare a quello che dice:

- Prima ‘i parari mastica i paroli.

Ma poi aggiungo, sempre più sboccato:

- Si ‘na ciolla persa.

- Ottinni bastaddu! Ti spaccu u culu!

Mi piace sentirmelo dire. Lo provocherei ancora, ma Marco mi dice:

- Mutu! Spanu.

Poi aggiunge ancora, pianissimo, sorridendo:

- E non nni cacari a minchia!

Spanu è il padre di una bambina di una quarta con cui la mia classe svolge diverse attività. Fa parte del Consiglio di circolo ed è arrivato in anticipo. È un gran bell’uomo e un emerito stronzo, simpatizzante di Comunione e liberazione e degno alleato di Todi.

Spanu saluta, molto cortesemente, e mi chiede come sto. Con lui sono sempre sul chi vive: è il classico figlio di buona donna che ti sorride mentre affila il coltello per pugnalarti, preferibilmente alla schiena. Mi chiede dell’uscita che abbiamo fatto con la classe, lungo il Sangone, e mi sento subito a disagio. L’uscita è andata benissimo e glielo dico, non c’è stato nessun problema, ma se lui ne parla è perché in qualche modo vuole farmi una critica, insinuare un sospetto, dimostrandomi che nulla gli sfugge e che io, come i miei colleghi, non faccio tutto quello che dovrei. E infatti

- Da quello che mi ha raccontato mia figlia, siete passati molto vicino al torrente. In alcuni punti il sentiero era a strapiombo. Un salto di parecchi metri.

È ovvio che siamo passati vicino al torrente, altrimenti come avremmo potuto fare le osservazioni? Ma il problema non è questo.

- Il sentiero era largo e noi eravamo disposti in modo da poter controllare i bambini e da essere sicuri che nessuno di loro corresse rischi.

- Basta pochissimo per farsi male. Un attimo di distrazione. Bisognerebbe fare maggiore attenzione quando si scelgono le mete delle uscite.

Mi viene voglia di dargli un calcio. Tutti gli insulti che ci siamo scambiati con Marco li userei nei confronti di questo stronzo, ma non sarebbero più scherzosi.

- Scegliamo le nostre uscite sempre con la massima attenzione.

Lui chiaramente non è convinto. Ma prima che replichi, arriva Todi e i due, dopo essersi salutati, si avviano verso la sala dove si tengono le riunioni. Io saluto Marco.

- Arrivederci...

Poi aggiungo, sottovoce:

- …si babbu comu ‘n trunzu ri cavulu.

- A mia u rici? Ccà ci voli un cuteddu e un cannavazzu.

Coltello per ammazzare, straccio per pulire il sangue.

- Ou! Ma chi c’haj n’a testa? Canigghia?

- Di chiddu chi rici un mi nni futti na minchia. Fattilla mettiri r’un monucu surdu. Buona serata, Antonio. Non ti invidio.

- Non m’invidio neanch’io.

Ci lasciamo così, tutti e due sorridenti, dopo esserci coperti di insulti di ogni tipo. Adesso incomincia la passione.

La riunione si svolge come da copione. Todi ha da criticare su tutto: la mensa, la palestra della nuova sede che non è ancora agibile, i banchi che sono in cattive condizioni, gli orari. Si erge a difensore dei bambini, di cui non gli importa nulla (al massimo pensa a sua figlia, Patrizia, che a otto anni già guarda con sufficienza le compagne che non sono vestite alla moda come lei e cerca di imporsi come leader).

La collega Milona, che io chiama la pasionaria, risponde con veemenza, con l’unico risultato di trascinare all’infinito una discussione sterile. La direttrice, Anna e io cerchiamo di mediare e di evitare i toni polemici. Per fortuna i genitori in maggioranza fanno riferimento a noi e Todi si trova abbastanza isolato.

Alle dieci la discussione sembra concludersi e direi che quattro ore di riunione sono più che sufficienti. Ma Spanu chiede spiegazioni della mancanza di crocifissi nelle aule. Ci siamo trasferiti nella nuova sede due mesi fa, la palestra non è ancora agibile, la biblioteca non è stata montata, in due aule ci sono perdite dal soffitto, mancano alcuni arredi scolastici e Spanu si preoccupa dei crocifissi. Nessuno di noi sa come mai non ci siano. Milona ovviamente dice che ne possiamo benissimo fare a meno. Apriti cielo: nuova discussione, mentre Anna e io ci guardiamo, sconsolati. Finiamo alle undici.

Sono stravolto e desidero solo il mio letto. Indugio a parlare con la madre di una mia allieva, che approfitta dell’occasione per chiedermi alcune cose. Poi salgo in auto, quando ormai tutti se ne sono andati, e metto in moto. O almeno ci provo: l’auto non dà nessun segno di vita. Mi sfugge un “Merda!” che nessuno può sentire. A quest’ora riuscirei ancora ad arrivare a Torino con i mezzi pubblici, ma di lì non ci sono più autobus per andare dove abito. E domani mattina non saprei come raggiungere la scuola. Che cosa posso fare? Non posso telefonare ai colleghi per chiedere di ospitarmi: sono le undici passate e non ho sufficiente confidenza. Ci fosse ancora qualcuno, magari si offrirebbe di aiutarmi in qualche modo. Devo dormire in auto? L’idea non è propriamente esaltante.

Mentre faccio ancora un tentativo, vedo uscire dalla scuola il figlio di Marco. Marco è ancora sveglio, magari mi dà una mano. Forse riesce a far partire l’auto…

Scendo, raggiungo il campanello e suono. Nessuno risponde. Non è possibile che Marco non sia in casa. Magari è al cesso. Aspetto un momento e suono di nuovo. Nessuna risposta. Vedo però le luci accese nella scuola: Marco fa il suo giro serale di controllo, come sempre. Quando le luci si spengono, suono di nuovo. Questa volta Marco risponde subito, chiedendo chi è.

- Sono Antonio. Senti, l’auto non mi parte. Mi puoi dare una mano?

Non so che cosa possa fare, ma mi aiuterà a trovare una soluzione.

- Vengo subito.

Marco mi raggiunge in un attimo. Fa anche lui un tentativo.

- Batteria defunta. Da cambiare.

- Merda!

- Maestro, modera il linguaggio: sei davanti a scuola.

- Merda! Merda! Merda! E adesso, come vado a casa?

- Se vuoi ti porto io. Domani mattina sono libero e chiamo l’elettrauto. Tanto anche tu hai il pomeriggio, no?

Purtroppo non è così: la mia collega mi ha chiesto un cambio per domani.

- Merda! No! Ho il mattino. Ti ringrazio, ma non saprei come tornare qui per le otto.

- Allora dormi da me questa notte.

Non rispondo subito. È una proposta molto gentile da parte sua ed è l’unica soluzione sensata, ma mi sento a disagio. Chiacchieriamo volentieri e ci scambiamo insulti e parolacce, ma non c’è intimità tra di noi. E, soprattutto, sono conscio di desiderarlo. Poi mi dico che sono un minchione. Mi farà dormire sul divano e va benissimo così. Non potevo trovare di meglio. Figuriamoci se mi avesse invitato donna Matilde… A dover fare il casto Giuseppe…

- Marco, ti ringrazio. Non vorrei rompere…

- Ma figurati, Antonio. Al massimo ti spingo giù dal letto, perché la notte mi muovo molto.

E con queste parole Marco scende. Io rimango di nuovo un attimo paralizzato. Le parole di Marco sono chiarissime: dormirò nel suo stesso letto. D’altronde so che la casa del custode è molto piccola, probabilmente non ha un divano o un altro letto. L’idea mi turba e spero di non fare figuracce (per intenderci: una bella erezione).

Chiudo a chiave l’auto (precauzione doppiamente inutile, visto che è un pezzo da museo, che nessun ladro ruberebbe, e che in ogni caso non parte) e seguo Marco fino a casa sua.

Appena entro, mi colpisce la temperatura.

- Che caldo che fa!

- Non me ne parlare: secondo me il riscaldamento è guasto. Tengo aperte le finestre tutto il tempo. Vuoi mangiare qualche cosa? Hai appena finito il Consiglio, no?

Scuoto la testa. Magari a casa mangerei un boccone, ma non voglio approfittare dell’ospitalità di Marco.

- No, sono troppo stanco e poi ho già mangiato al bar.

- Allora se sei stanco, possiamo fare che andare a letto. Io mi faccio una doccia. Vuoi farla prima tu? Ah… vuoi uno spazzolino?

- No, ne tengo uno a scuola, magari vado a prenderlo.

Marco mi apre la porta che mette in comunicazione il suo appartamento e la scuola. Entro in sala insegnanti e mi prendo lo spazzolino. Quando rientro in casa di Marco, lui è in camera da letto.

- Lavati i denti e fatti pure la doccia. Io rifaccio il letto.

- Ma, Marco, non è il caso…

- Lenzuola pulite per un ospite d’onore. Ma almeno lavati. Stai fitennu cchiù ru bancu ra tunnina.

Marco mi sorride. Perché mi sembra che il suo sorriso sia un po’ sornione? È solo la battuta sul fatto che puzzerei come il banco del pesce?

Vado in bagno e mi lavo i denti. Sulla lavatrice c’è un asciugamano pulito. Mi chiedo se è il caso di farmi la doccia: ne sento il bisogno, ma non vorrei disturbare. Mi spoglio e apro il box della doccia. È davvero una sensazione molto piacevole.

Mentre mi sto lavando, Marco entra. Mi rendo conto che non ho chiuso la porta del bagno, l’ho solo accostata. Non saprei dire perché l’ho fatto. Una vaga idea che in fondo non ero a casa mia. Stronzate, evidentemente.

Marco è davanti alla doccia e mi guarda, sorridente. Sono a disagio, doppiamente a disagio per la tensione che avverto nel ventre.

- Chi spacchiu ci talii?

Cerco di metterla sul ridere. Lui risponde:

- L’occhi su fatti pi taliari…

Poi aggiunge:

- Va bene se mi faccio la doccia con te?

Deglutisco. Guardo Marco che mi fissa e ridacchia. Mentre cerco le parole per rispondere, mi rendo conto che sto annuendo. Marco si spoglia lentamente, mentre io lo guardo. So benissimo che non dovrei, ma lo fisso. Lo guardo mentre si cala i pantaloni e li getta sulla lavatrice. Guardo il rigonfio delle sue mutande. Ho la gola secca e la minchia si sta irrigidendo. Marco sorride, mentre mi guarda negli occhi e si cala l’ultimo indumento.

Vedere che anche lui ce l’ha mezza dura da una parte mi solleva, dall’altra mi sgomenta. Non sto facendo una figuraccia di merda: anche lui è eccitato. Ma che cosa succederà ora? Lo so benissimo. È per questo che ho paura.

Marco apre la porta della doccia ed entra. Mi sorride e mi abbraccia. Il suo viso è vicinissimo al mio. Sollevo un po’ la testa (Marco è più alto di me di una spanna) e sento le sue labbra che si posano sulle mie. Non ho mai baciato un uomo. L’ho sempre desiderato e non l’ho mai fatto. È bello, bellissimo.

Sussulto quando sento che la sua lingua si infila tra le mie labbra. Apro un po’ la bocca e lascio che la sua lingua passi tra i denti e raggiunga la mia. È una sensazione strana, non saprei dire se mi piace o no. Vorrei dire che lo trovo un po’ repellente, vorrei che la togliesse. Ma vorrei anche che la tenesse lì.

Marco ritrae la lingua e solo adesso mi rendo conto che le sue mani mi stanno accarezzando la schiena, scendono, stringono il culo.

- Fatti azziccari un gniritu ‘ndo culu.

In effetti un dito preme contro il buco, ma incontra resistenza. Ora ho paura.

Marco sorride, toglie il dito, lo passa sul sapone e lo avvicina di nuovo. Manovra con cautela e io sento il dito che si muove con lentezza e affonda. Ho paura, ma Marco mi bacia di nuovo, mentre spinge il dito più a fondo.

Poi toglie il dito, mi prende il viso tra le mani, mi guarda negli occhi e mi bacia un’altra volta. Mi lava via il sapone e si lava rapidamente, poi chiude il rubinetto e apre la porta del box. Mi asciuga, fermandosi due volte per baciarmi, poi si asciuga anche lui.

- A letto, che oggi insegno io al maestro qualche cosa.

Marco ride, la sua risata forte. Lui ha capito che è la mia prima volta e sento che mi posso affidare a lui.

Mi passa un braccio intorno alla vita e mi trascina al letto. Guardo le lenzuola. Ho di nuovo paura. Non ho mai smesso di avere paura, solo che adesso la sento di nuovo.

Marco mi solleva e mi appoggia sul letto. Lo guardo, nudo, la minchia tesa, sorridente.

Sale sul letto e si inginocchia nello spazio tre le mie gambe. Incomincia ad accarezzarmi. È bello sentire le sue mani forti che percorrono il mio corpo, si appoggiano sul ventre, risalgono al torace, mi sfiorano il viso. Poi, di colpo, Marco mi molla uno scappellotto. Non è un colpo forte, tutt’altro.

- Ahia!

Lui scoppia a ridere. Io rincaro la dose:

- Fitusu.

Marco si china e mi passa la lingua sulla minchia. Chiudo gli occhi. Sento le sue mani che mi strizzano i capezzoli, facendomi male. Le sue labbra si posano sulle mie palle, poi sulla minchia, infine la bocca si apre e inghiotte. Sussulto. Chiudo gli occhi.

Marco lavora con la lingua, con le labbra, con i denti. Io mi agito. Quel contatto è quasi intollerabile, eppure vorrei che proseguisse. La lingua di Marco lavora la mia cappella. Io sento che il desiderio cresce, la minchia si tende ancora di più e infine il piacere sgorga. Marco si ritrae e la mia sborra si spande sul ventre e sul torace, in un lungo getto che fa vibrare di piacere tutto il mio corpo.

Marco mi accarezza, spargendo il seme e raccogliendone un po’ con le dita. Poi mi avvicina le dita alla bocca. Capisco ciò che vuole. Sono smarrito, d’improvviso incerto. Le dita di Marco si appoggiano sulle mie labbra. Schiudo la bocca. Lui introduce due dita. Le mordicchio. Lui mi dà un altro scappellotto. Incomincio a leccarle, fino a pulirle completamente.

Marco si stende su di me, mi bacia, di nuovo spinge la sua lingua nella mia bocca e questa volta quando si ritrae la mia la segue, un po’ incerta. È una sensazione piacevole, anche se strana, che un po’ mi ripugna.

Marco mi bacia sulla bocca, sugli occhi, sulla fronte, poi si mette in ginocchio e mi bacia i capezzoli, il ventre, l’ombelico, la minchia, le palle.

Si sposta di lato e, con un movimento deciso, mi volta a pancia in giù. So che cosa sta per succedere. Ho paura, una paura violenta.

- No!

Marco non mi ascolta. Sento la sua lingua scorrere lungo il solco e sussulto. Passa e ripassa ed è una sensazione splendida. Ma la paura è forte.

La lingua di Marco indugia sul buco, preme.

Poi Marco si stende su di me. Posso sentire contro il mio culo la sua minchia, rigida come un bastone e calda. Ho paura.

Marco mi mordicchia un orecchio, poi dice:

- Ora.

Sento la pressione contro il buco del culo. Mi tendo, ma Marco mi accarezza.

- Tranquillo.

Cerco di rilassarmi. Sento la pressione aumentare. Sta entrando. Mi sta inculando. Mi fotte.

È una sensazione strana. Per un momento mi sembra di aver bisogno di andare al cesso e temo di sporcare Marco, ma mi rendo conto che a darmi questa impressione è solo la presenza in culo della sua minchia. Non ci sono abituato. Non fa male, solo un po’. Mi abbandono. È bello sentire questo palo ardente in culo.

- Bravo. Così.

Sto bene, ora. Bene tra queste braccia forti, sotto questo peso che mi schiaccia, con questo palo che si muove lentamente. Marco ogni tanto mi accarezza o mi morde, mentre si muove con lentezza, avanti e indietro. Quando avanza avverto un po’ di dolore, ma poco, che svanisce quando si ritrae.

Marco procede con cautela, mi bacia su una guancia, mi tira i capelli, mi sussurra:

- Pulla!

Ma l’insulto è dolce come una carezza. Poi aggiunge:

- Bedda pulla.

Il suo movimento assume un ritmo più intenso, ma ormai mi sono abituato e anche quel po’ di dolore che avverto non mi spaventa. Le spinte accelerano, diventano più decise e provocano una certa sofferenza. Ma non vorrei che smettesse, per quanto mi faccia male, ora. E poi sento la scarica, il seme che mi riempie le viscere e poi la minchia che si riduce di dimensioni e il dolore si attenua.

Rimaniamo a lungo abbracciati. Marco mi accarezza. Non diciamo nulla. È bello restare così, in silenzio, stretti. Poi lui esce da me e si sposta. Io mi volto sulla schiena. Lui mi abbraccia.

Guardo il suo viso, passo le dita sulle sue labbra, sugli occhi, sul torace.

A un certo punto però sento che il liquido dentro di me preme per uscire.

- Devo andare al cesso!

Marco mi lascia e io mi alzo in fretta. Piombo in bagno e mi siedo sulla tazza, appena in tempo.

Marco entra, sorridendo. Sono un po’ in imbarazzo: non sono abituato a servirmi del cesso in presenza di qualcun altro. Ma abbiamo appena scopato e mi dico che non ha nessuna importanza.

Marco si mette davanti a me, mentre espello il suo seme dal culo. Ha la minchia di nuovo mezza dura. Mi scappa un:

- Evviva sta minchia!

Lui ride e si avvicina. Adesso la sua minchia è a un passo dalla mia bocca. Ne sento l’odore.

- Tu a mia ma suchi!

Annuisco. Prendo in bocca. È la prima volta che assaggio la minchia di un uomo. Sento il sapore del suo sborro, lo stesso che ho ancora in culo.

- Suca, maestro, suca.

Io mi do da fare, cercando di supplire all’inesperienza con la buona volontà. I risultati ci sono, perché la minchia diventa sempre più grossa e dura, tanto che faccio fatica a tenerla tutta in bocca. Quando si è rizzata completamente, la lascio andare, la lecco un po’, la bacio. Ma lui me la infila in bocca e incomincia a fottermi.

- Bravo, sucaminchia!

Procede deciso. Io gli tengo le mani sul culo. Mi piace sentire i peli sotto le mie dita, la pelle calda. Ogni tanto, quando l’uccello penetra a fondo, fatico a respirare, ma lui si ritrae subito.

Infine mi viene in bocca e sento il gusto, un po’ amaro, del suo sborro. Ce n’è poco, d’altronde è venuto nemmeno mezz’ora fa.

- Ci facciamo un’altra doccia e ci mettiamo a dormire?

- Va bene.

In realtà farei volentieri un bis anch’io, perché il lavoretto mi ha messo appetito, ma non voglio apparire troppo famelico.

Ormai credo di essermi liberato e mi alzo. Entriamo nella doccia e ci baciamo di nuovo. Marco apre l’acqua, poi mi volta, mi appoggia contro il suo corpo e mi afferra la minchia. Sussulto. Lui incomincia a lavorare con costanza, facendo scivolare la mano lungo l’asta tesa, con metodo. Io sento che nuovamente il piacere sale e infine esplode. Mi abbandono su di lui, che mi bacia ancora. Poi Marco mi lava (approfittandone per toccare il culo, le palle, la minchia). Anche lui si dà una lavata. Ci sciacquiamo tutti e due.

Marco prende un asciugamano e mi strofina con energia. Poi si asciuga anche lui e torniamo a letto.

Marco mi abbraccia e mi dice:

- Io vorrei che tu dormissi qui, ma se vuoi andare a casa, ricollego i cavi della batteria e puoi partire.

In un lampo capisco.

- Cosa?! Cosaaaaaaa? Hai staccato tu i cavi? Pezz’i mieidda!

Marco ride, mentre mi accarezza.

- Insomma, non ti decidevi, testa i minchia! Ti piacevo, ma rimanevi lì, senza mai fare una mossa. Ti ho dato una mano.

Scuoto la testa. Non l’avrei mai sospettato.

- Figghiu ri buttana! Ma come hai fatto, quando…?

- Mentre eri al consiglio di istituto. Lasci sempre il giaccone in sala insegnanti, minchiuni. Ho controllato che ci fossero le chiavi. E allora mentre tu ti divertivi con quelli, ho fatto il lavoretto.

- E se non avessi suonato a te, scimunitu?

- E a chi altri potevi rivolgerti? Comunque sarei uscito a vedere con qualche scusa.

- Curnutu! Cos’enutile! Testa i minchia!

Poi lo bacio sulla bocca, senza permettergli di rispondere. Mi fermerò a dormire qui. E non solo questa notte.

 

2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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