C come cicala

 

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C’è un refolo d’aria che entra a malapena attraverso la zanzariera, con un effetto sfondamento che mi fa ben sperare. Se uscissi da questo buco, potrei finalmente respirare. Il vento mi scompiglierebbe i capelli e farebbe svolazzare la mia maglietta extralarge. No, credo che per uscire ne metterei un’altra: questa ormai è troppo larga per me. Sono dimagrito di venti chili. Per te, solo per te, Simone, per poterti mostrare il mio lato migliore, se esiste un lato migliore. E quanto è deprimente il pensiero che tutta questa fatica non sia servita a niente.

Sul lungomare c’è un piccolo chiosco a forma di limone. È buffo. Quando l’abbiamo visto per la prima volta, ci siamo messi a ridere come due deficienti. Poi sei tornato serio, parlandomi di marketing, d’immagine, di concordanza tra offerta e dimostrazione, o qualcosa del genere. Dopo i primi minuti, ti confesso, ho smesso di ascoltarti. La pubblicità è il tuo campo, non il mio. A me non interessa. Il succo del discorso, come alla fine ho potuto intuire, è che se vedi un furgone a forma di limone e in quel momento hai sete, ti ci avvicini senza neanche pensarci. Forma e sostanza si uniscono in un insieme indissolubile. Limone uguale dissetarsi. Tutto qui. E tu ci hai sprecato un sacco di parole.

Quel giorno, Simone, dovevi essere particolarmente in vena. Quando siamo scesi in spiaggia, a passeggiare con le scarpe in mano, mi hai detto che ti eri innamorato di me. No, certo, non l’hai espresso con queste poche parole. Ci hai girato intorno, ci hai fatto un trattato, mettendo a dura prova la mia capacità di concentrazione. Io sono stato attento, perché l’intuito mi diceva che stavi cercando di comunicarmi una notizia importante, per te e per me. Se mi avessi semplicemente preso tra le braccia e baciato, per poi dirmi ti amo, ti saresti sentito sminuito nella tua virilità. Lo capisco perfettamente. Ma non hai idea di come mi sentissi, mentre aspettavo che giungessi a una conclusione, io che ti ho amato dal primo momento che ti ho visto.

Fatto sta che, per me, da quel giorno, l’idea del limone e quella dell’amore, si sono confuse in un unico concetto.

Questo nostro amore non è mai stato dolce, ma adesso il suo sapore ha assunto un gusto nuovo, passando dall’aspro del limone all’aspro dell’aceto.

Mi hai giurato fedeltà eterna ed eterno amore. Come tu abbia potuto sviluppare l’idea che nella tua vita ci potesse essere qualcosa di eterno, non lo capirò mai. Hai cambiato scuola, hai cambiato città, lavoro, casa, amici, gusti, interessi, hobby e amori un’infinità di volte. Che cosa avrebbe dovuto tenerti ancorato al nostro amore? Che cosa avrebbe dovuto tenerti attaccato a me? Non ci ho mai creduto. Mi divertiva però l’idea che convincesse te. E poi, non lo nego, mi sentivo incredibilmente compiaciuto; gongolavo.

Tu hai la capacità di parlare per ore del nulla. Sei un vulcano in continua eruzione. Io sono silenzioso per natura e per scelta. Prima di parlare mi chiedo se quello che sto per dire abbia un senso, sia necessario, sia utile. E ci metto tanto a decidere che automaticamente è già sorpassato, quindi inutile, perciò irrilevante alla conversazione, e mi convinco che ho fatto bene a tacere. Il mio silenzio è più costruttivo delle parole che potrei dire. Il mio pensiero è ininfluente per il resto del mondo. Spesso mi chiedo se anche la mia presenza sul pianeta abbia un qualche peso, a parte quello degli ottantacinque chili che premono sulla crosta terrestre. Se io non ci fossi, cambierebbe qualcosa? Oggi mi sembra di no. Sono certo che la lontananza non ci ha fatto bene, eppure aspetto ugualmente il tuo ritorno.

 

Quel giorno non era diverso dagli altri. Solo un tantino più freddo, il cielo un po' più grigio, il mare più agitato e ricordo che il vento scuoteva le imposte. Tu, Simone, eri più silenzioso del solito. Questo avrebbe dovuto farmi scattare un allarme interiore. Invece, come al solito, ero concentrato sul panorama che si scorgeva dalle finestre e mi sembrava che il tuo silenzio fosse in perfetto accordo con lo scatenarsi degli elementi. Non mi rendevo conto che uno di quegli elementi fossi tu.

– Matteo, ti devo dire una cosa.

– Dimmela.

E già scattava l'ansia. Tu inizi a parlare senza preamboli. Per te è la cosa più semplice del mondo. Ma quando sai che quello che dirai potrebbe farmi male, allora la precedi con un annuncio, come questo.

– Devo andare a Parigi, per qualche mese.

Ah, ferale notizia!

– E quando parti?

– Stasera.

– Stasera? Come mai me lo dici solo adesso?

– Non sono riuscito a trovare il momento giusto. Mi dispiace tanto. So che dispiacerà anche a te. E poi ho sperato fino all'ultimo che i miei capi ci ripensassero, che scegliessero qualcun altro...

– Capisco.

Sono una persona comprensiva. Può far male, ma capisco.

Così è un anno che mi nutro delle tue e-mail e delle nostre telefonate. Sarà anche per questo che sono dimagrito: non sono abbastanza nutrienti per i miei gusti.

 

Anche oggi arrivo fino al molo. Lo percorro tutto, lanciando un'occhiata ai pescatori della domenica, con la canna puntata lontano, verso il blu più blu. L'aria è di nuovo immobile, mentre qualcuno lancia una piccola esclamazione di gioia. Ne ha preso uno grosso, che si dibatte nell'aria, mentre gli altri ne valutano la stazza, approvando col capo. E io penso a come sia facile abboccare all'amo, quando sei pronto a farlo. Sei lì che non aspetti altro, con la bocca già leggermente aperta. Devo esserti sembrato uno di quei pesci stupidi che si avvicinano a riva, incuriositi dalle esche succulente che fluttuano con la corrente. Quando ti ho guardato negli occhi per la prima volta è stato come vedere il mare dagli oblò di una nave. Lo stesso colore, la stessa luce, la stessa intensità. Per un attimo ho fatto fatica a rendermi conto che intorno a quegli oblò c'era anche una faccia, e sotto a quella tua testa notevole, un corpo, robusto, muscoloso, massiccio. Come potevo non abboccare? Sono un ingenuo, Simone, anche se non ti ho mai creduto fino in fondo. Come non ho creduto alle ragioni che impedivano il tuo ritorno, scuse campate in aria, assicurazioni che presto le cose si sarebbero risolte. Ma quando, perché? La verità, quella che non vuoi dirmi, è che a Parigi ti sei trovato bene, che hai incontrato qualcuno che ti piace e che non vuoi lasciare. Avrei potuto facilitarti il compito, dicendoti che l'avevo capito, ma voglio invece che questa fatica la faccia tu, sarà tutta tua.

 

Ma quante volte ci devo girare intorno? Simone non è il mio sole. Devo solo convincermi. E scordarmelo. Che ci vorrà mai?

Intanto la canna trema tra le mie mani. Finalmente qualcosa ha abboccato. Deve essere bello grosso. Senti come tira! Avvolgo velocemente la lenza, tiro, avvolgo, mi passo il braccio sulla fronte per cancellare il sudore. Tiro, avvolgo, tiro e l'acqua libera la sua preda, che scodinzola nell'aria venendomi incontro, e si allontana, come sull'altalena. Lo tiro ancora verso di me e me lo trovo a portata di mano. Afferro il viscido pescione che si dibatte come un pazzo. Lo butto nel secchio. Ci sta a malapena e si muove tanto che mi rende quasi impossibile afferrarlo bene per sganciare l'amo. Uff, che fatica che mi hai fatto fare. Bello grande, cazzo. Almeno due chili. E chi l'ha mai vista una bestia così in questo fiume? Da dove è arrivato?

Già, da dove è arrivato? Quanta strada ha fatto? Quante correnti ha attraversato, quanto cibo ha trovato, quante compagne ha avuto, quanti altri pesciolini portano il suo marchio di fabbrica? Perché è toccato a me? Perché siamo qui, adesso, io e lui, a guardarci negli occhi? Afferro il secchio e lo slancio di colpo verso l'acqua. Lui sguscia via, in uno schizzo da tuffo perfetto, di testa, si lancia veloce a pelo dell'acqua e si allontana in un attimo. Poso il secchio per terra, riprendo la canna, avvolgo altra esca all'amo e ripeto il mio buon lancio, quello che mi ha insegnato Simone. Ecco, adesso posso tornare a pensare, con calma.

Pescare ti mette il cervello alla stessa frequenza del sonno leggero. La mente, pacifica, riposa. Ecco, non sempre. Dipende dai giorni. Dipende da come stai messo. Oggi sto messo male. Simone mi ha scaricato, esattamente come avevo previsto, ma io ci sono rimasto attaccato come una cozza. Non riesco a togliermelo dalla mente. Non riesco a liberarmene. Forse, forse, il vero motivo è che non sono capace di essere libero. Non sono proprio capace. Sono sempre rimasto attaccato a qualcuno. Prima a mio padre, poi a mio fratello, poi al mio prof. di lettere, poi al magazziniere della ditta dove lavoravo, poi a Marco, e da Marco sono passato a Piero e da Piero a Fabio e da Fabio a Simone. E adesso? Voglio restare attaccato a Simone finché non spunterà qualcun altro? No, basta. Basta, basta, basta!

Io. Eccomi, qui ci sono io. Ci sono. Che altro voglio? Perché non mi basto? Perché cerco sempre fuori di me l'equilibrio per stare bene? Non posso darmelo da solo, questo equilibrio? Non è ora che approfitti della mia solitudine per capire cosa è meglio per me? E perché devo farmelo dire da un altro? Non sono capace di capirlo da solo? Se ci provo, per una volta, magari ci riesco. Stare da solo e stare bene lo stesso. Non è una bestemmia. Niente di cui avere paura. Si può. Vivere in compagnia dei propri pensieri, facendo quello che ci piace. Approvandoci, amandoci, liberandoci dai condizionamenti. Liberando un pesce di due chili appena pescato. L'avrei mai fatto davanti a Simone? No. Ecco, e allora questa è la prova che per trovare un equilibrio è meglio stare da soli. Adesso mi sentirei in colpa. Del resto il pesce nemmeno mi piace. E allora perché vengo a pescare? Già, perché? È una scusa per starmene sulla riva di un fiume, a guardare il mondo com'è, lontano dalla società del cemento. E non puoi farlo senza impugnare una canna? E se mi vede qualcuno? Che può pensare? Che sono qui a spararmi le seghe? E un bel chissenefrega non ce lo vogliamo mettere? Si fotta chiunque mi vede qui a non far nulla. Butto la canna per terra ed è una bella sensazione. Mi siedo sull'erba a osservare le macchie di sole che colpiscono l'acqua che passa. Gli alberi fanno passare i raggi del sole e si specchiano nell'acqua deformandosi. Se alzo gli occhi a guardarli non sono mai come li vedo nello specchio dell'acqua che monta e respira.

Mi stendo sull'erba e chiudo gli occhi. Ecco, Simone, tu non mi servi. Posso anche vivere senza di te. Posso pensare, senza di te. Posso cambiare idea, senza di te. Non potrai continuare a dirmi che non sono coerente. Chissenefrega della coerenza, se quello che cambio non sono le mie idee, ma le tue. Solo adesso capisco che mi hai reso schiavo. No, non è vero. Sono io che mi sono reso schiavo di te. Volevo piacerti a tutti i costi. Volevo la tua approvazione. E perché? Perché volevo scoparti. Tutto qui. Ma che cazzone che sono. Ma che infinito immenso cazzone. Si può essere più deficienti di così?

Va bene, adesso l'ho capito. Mi serva di lezione. Sì, questa cosa mi è servita. In fondo non si smette mai di imparare, soprattutto dai propri errori. Adesso basta. Devo essere me stesso e solo dopo, solo dopo, cercare qualcuno con cui dividere la mia vita.   

Che poi, che è 'sta mania di voler dividere la vita con qualcuno? Dividere. Ma dividere che? Dividere un letto, una casa, un bagno, una colazione, una cena, un televisore. Dividere. Cioè ridurre a metà. Già mi sembra di non averla una vita, e la devo pure ridurre a metà. Ma perché? Io semmai la voglio raddoppiare, triplicare, moltiplicare. Voglio più vita, non di meno. La mia neppure mi basta.

Così, in realtà, quello che faccio è prendere la vita degli altri per portarla dentro di me. Li sfrutto per rendere la mia vita più piena. Ma poi, a ben guardare, non è la vita, sono io. Sono io che mi sento vuoto. Affogo da solo nel mio vuoto. Beh, lo sai che c'è? Da oggi sarò vuoto lo stesso, ma il vuoto sarà tutto mio. Non voglio più riempirla degli altri. Voglio bastare a me stesso, quel che viene viene. Sento le catene che si sciolgono, sento la libertà che fa piazza pulita dentro di me, dentro lo schiavo che sono.

 

Ho buttato via il televisore. Non mi serve. La sera leggo, mi godo il silenzio, il ronfare della mia gatta accuscinata accanto a me. Russa. Prima non lo sapevo che anche i gatti russano. Me l'ha insegnato Luna. Veramente sembra un contatore Geiger, ma è il suo modo di russare, come io avrò il mio, anche se non lo posso sentire. Però potrei registrarlo, se proprio volessi.

Ho conquistato un pezzetto di libertà. Ogni giorno ne strappo un centimetro. Sto lavorando su di me. Sto cercando di capire chi sono. Chi sono stato lo so, uno stronzo. Ma non è con l'autocritica che posso fare passi avanti. Giudicare non fa bene. Limita le cose e le persone all'interno di recinti. Io non ne voglio più di recinti, di gabbie, di territori limitati. Così osservo tutto quello che costituisce le sbarre della mia prigione. L'osservo e me ne libero, quando e se è possibile. Anche le idee che mi ero fatto del mondo sono gabbie. Che poi non sono mica stato io, ci hanno pensato gli altri, gli educatori. Mio padre, mia madre, i miei insegnanti, il prete, anche i ragazzi che ho frequentato. Non ho mai conosciuto nessuno che mi dicesse, guarda, questa cosa ti è scesa dall'alto, puoi anche rifiutarla. No, nessuno te lo dice. Così, per esempio, prendi le mode, te le metti addosso, non hanno senso, non hanno scopo, ma ti fanno sentire uno uguale agli altri, qualcuno che possono accettare. Bisogna dire le stesse cose, essere vestiti nello stesso modo, essere omologati. Che succede se ti rifiuti? Arriva un fulmine dal cielo che ti incenerisce? Beh, a me non è ancora capitato. Eppure un pezzettino di libertà me lo sono conquistato.

Lo so, pago un prezzo. Ma questo prezzo è alto solo agli occhi degli altri, che ormai non mi capiscono più. Se sei diverso non ti capiscono, perché non rientri più nei loro parametri, nei loro schemi, non sanno più come prenderti. Diventi come un cactus. Ti chiamano disadattato. Dio, è meraviglioso! Disadattato. Uno che non si adatta. Il miglior complimento che mi abbiano mai fatto. No, non mi adatto. Voglio starne fuori. Voglio seguire una strada che mi costruisco da solo, mattonella su mattonella, pietra su pietra, ponti compresi.

Ogni tanto c'è bisogno di un ponte. Incontri una persona che ti piace, per qualche motivo sconosciuto, e allora cerchi un ponte, un punto d'incontro. Ma se non lo trovo, chissenefrega. È bello anche solo stare vicini, senza parlare, assorbire le sensazioni che ti arrivano, inviarne di tue. Tutto qui. L'incontro allora accade su altri piani. Difficile descriverli se non si è fatta molta strada. Io non ne ho fatta, quindi mi lascio andare e basta. Ma è bello lo stesso. E quando finisce, finisce. Non resto più attaccato alle persone che incontro. Ho capito che non serve. Quello che serve è la libertà.

Un giorno ho incontrato per caso Simone. Ci siamo parlati per dieci minuti, scambiandoci appena qualche notizia di noi. Non ci vedevamo da tre anni. Mentre parlavo, stranamente, cambiava l'espressione del suo viso. A un certo punto mi è sembrato che esprimesse persino ammirazione. Poi è venuto a trovarmi qui. Si guardava intorno come un astronauta che esplora un mondo sconosciuto, dove nessuno è mai atterrato prima.

Quando gli ho aperto la porta, mi ha detto: – Mi sento in imbarazzo. O ti vesti tu o mi spoglio io.

Io ho riso. In casa sto sempre nudo, eccetto che in pieno inverno.

– Come preferisci. Per me è uguale – gli ho risposto.

– Forse è meglio che ti vesti.

Così sono andato a mettermi un pantalone e una maglietta.

– Va meglio?

– Non lo so. Non ho ancora deciso.

Per sciogliere definitivamente il suo imbarazzo, gli ho presentato Luna. Lei naturalmente l'ha graffiato non appena ha cercato di accarezzarla.

– Rilassati. Sente che sei teso e reagisce male.

– E tu come reagisci?

– Sono contento di vederti. Vai ancora a pescare?

– Certo. Perché, tu hai smesso?

– Sì. Preferisco lasciarli in pace, quei pochi pesci che sono rimasti.

– Sei diventato una specie di eremita?

– Non proprio, altrimenti non ci saremmo incontrati in città, ti pare?

– Come te la cavi senza lavoro?

– Ma io un lavoro ce l'ho. Lavoro qui, per me.

– Adesso non vorrai farmi credere che produci tutto quello che ti serve. Ci sono cose che non puoi produrre, come i vestiti, gli utensili, che ne so, il sale, lo zucchero.

– Qui intorno ci sono delle fattorie con cui faccio degli scambi e a volte loro vendono i miei prodotti e mi pagano con del denaro. Con quello mi procuro ciò che mi serve, quando capita che mi occorra qualcosa.

– Sai una cosa? Da una parte penso che tu sia pazzo, ma dall'altra ti invidio.

– Beh, quale delle due scegliere è un problema tuo. Io sto bene così.

– Che fine ha fatto la tua collezione di CD?

– Venduta.

– Niente più musica? Come mai?

– Non mi serviva. Mi piace il silenzio, o il suono della natura.

– Non ti riconosco più.

– No, la verità è che non mi conoscevi prima e nemmeno io.

Simone ha lasciato Parigi perché la sua storia è finita. Mi confessa che mi ha cercato invano, che avrebbe voluto rivedermi, riallacciare i rapporti con me. Ma, adesso che mi ha ritrovato, è spiazzato. Non sono più quel Matteo che amava. Non sa come prendermi. Ecco, appunto, non farlo.

 

Questo strazio di pianoforte, ancora! Devo cambiare casa, non c’è niente da fare. Osservo dalla finestra il diluvio universale. Il nuovo affittuario è arrivato da una settimana, e non c’è stato un solo giorno in cui si sia preso un po’ di riposo. Stacanovista della musica. Cazzo, proprio a me doveva capitare. A me, che amo il silenzio e la solitudine e che ho affittato questa casetta in culo al mondo proprio perché non avrei avuto vicini. Il padrone di casa mi aveva assicurato che l’altro appartamento sarebbe rimasto sfitto perché lo teneva libero per il figlio, che un giorno avrebbe potuto venirci a vivere, se fosse tornato in Italia. Io gli ho chiesto dove stava questo figlio emigrato e la sua risposta è stata molto rincuorante, in America. Menomale, nessuno torna dall’America. E allora, a chi cazzo l’ha affittata questa casa? Perché? Il figlio gli aveva forse detto: scordatelo, papà, io non tornerò mai più. Non è così che si fa. A un padre bisogna sempre lasciare una speranza, che diavolo!

Mi sorprendo a battere il tempo con un piede. Merda, che cosa mi sta succedendo? E non posso neppure uscire, con questo tempo. Ma perché poi devo uscire? Che se ne vada quell’altro!

Luna mi si viene a strofinare intorno alle gambe. Quando fa lo slalom in questo modo vuol dire che ha fame. Sì, bella, adesso ci penso io a te. Vuoi i croccantini? Vieni, bella. Mi stacco a fatica dalla finestra e dalla scrosciante festa delle cascate del Niagara. Apro un pacchetto di croccantini e lo verso nella ciotola di Luna.

Mi ricordo di una cosa che mi ha detto Simone, ma non era da lui. Non so come gli sia venuta in mente. Mi ha detto – Chi ama il silenzio è perché ha già una musica dentro di sé. – Stronzate. Chi ama il silenzio è perché ne ha già sentite troppe, ed è stufo di tutti e di tutto, anche di se stesso. Studio i pensieri che si affacciano nella mia mente, scartandoli a uno a uno. Ne valuto il peso, l’importanza, li rendo innocui, li zittisco, mi rifiuto di concedergli asilo politico. Me ne sbarazzo una volta per tutte. O così almeno credo.

 

Il mio orto è ancora una palude di fango, spero che il raccolto non sia del tutto rovinato. Questo è il mio cibo. La mia sopravvivenza è legata a questi frutti della terra. Torno verso casa, vedo le imposte chiuse del mio vicino. Eppure ho l'impressione di essere osservato attraverso le lamelle aperte. Non ho ancora avuto modo d'incontrarlo. Se esce dal suo buco, lo fa di notte, come un vampiro. Sembra che odi la luce del sole. Ma sono affari suoi. A me basterebbe che la smettesse con quel pianoforte, anche se ormai mi ci sono abituato. Quello che non capisco è perché non suoni mai un pezzo dall'inizio alla fine. Gli piace interrompersi all'improvviso, di solito a metà di un crescendo. Contento lui!

Mi lavo e mi vesto, prendo la bici e esco a farmi un giro. Mi piace questa sensazione di pulito dopo una pioggia abbondante. La vegetazione un po' ammaccata torna a rizzarsi verso i raggi del sole. Sul sentiero c'è un tappeto di foglie e rametti divelti, fiori strappati, insetti che svolazzano impazziti, come sentissero nuovi richiami, profumi inebrianti liberati con forza nell'aria rigenerata. Torno indietro prendendo un sentiero che gira intorno alla proprietà e che scende in picchiata sul retro della casa, dove c'è la legnaia. Dall'alto vedo un pick-up fermo davanti all'ingresso del vicino. C'è un tizio che scarica uno scatolone. Mi sembrano provviste. Certo, il recluso dovrà pure mangiare. Continuo a scendere, ma non arrivo in tempo per vederlo. Il pick-up parte proprio nello stesso momento in cui arrivo. Lancio uno sguardo all'altro ingresso, a sei metri dal mio. La porta è chiusa. Ci sono orme di fango sul pavimento di arenaria che circonda la costruzione, formando una specie di marciapiede di un metro e mezzo, coperto da un portico dal tetto spiovente di coppi ingrigiti dal tempo. Il suo lato è completamente vuoto, come se la casa fosse ancora disabitata. Scendo dalla bici e l'appoggio al muro, tra stivali di gomma, vasi di basilico, salvia e rosmarino, una carriola, una pala e un secchio della spazzatura. Non ne produco molta. Ogni tanto la porto in paese, quando ci vado per necessità. Il pianoforte interrompe i miei pensieri.

 

La luna stasera è incredibilmente grande e luminosa. Per assaporarne lo splendore ho spento tutte le luci. Respiro questa notte nutrendomi della magia che emana. Gli alberi sullo sfondo creano un'ombra più scura, mentre il mio orto, sulla sinistra del mio campo visivo, è un merletto traforato su cui le lucciole ricamano come aghi luminescenti. E nella mia mente ferma e vuota si imprime l'immagine di un uomo confuso con lo sfondo. Mi rendo conto che è lì, immobile, a una ventina di metri da me. Fissando l'attenzione su di lui, lo vedo bene, adesso. Sta guardando la luna. So che è il pianista. Non ho aspettative su di lui, eppure mi interrogo. Ormai è parte del mio piccolo mondo, benché non l'abbia mai davvero visto. Ma so che c'è. Comprendo perfettamente la sua necessità di restarsene da solo. È la stessa che ha spinto me a rifugiarmi qui. Rispetto la sua scelta di non avere contatti con me. Nemmeno io ci tengo. Anzi, in qualche modo ne sono confortato e soddisfatto. Ma allora perché mi nasce questo desiderio di uscire all'aperto? Di avvicinarmi a lui e dirgli una frase qualsiasi, del tutto banale? Che bella luna stasera. È un bisogno di condividere questa notte meravigliosa.

Ci risiamo. Condividere. Fare metà per uno, alla romana, come si dice. Ma perché? Io la voglio tutta questa sensazione di pienezza. Ed è bene che anche il pianista se la prenda tutta. Ciascuno a modo suo.

All'improvviso la sua ombra si muove. Si volta e torna indietro. Contro la luminosità della luna la sua figura è nera e opaca. Sembra un cartone animato. Giunto a pochi metri da me lo vedo bloccarsi all'improvviso, portare una mano davanti al viso come per coprire uno sbadiglio, e poi riprendere in fretta il suo cammino, con un'urgenza che prima non c'era. Penso che mi abbia visto e che ne sia rimasto sorpreso. La luce della luna rimbalza sul mio corpo nudo nel riquadro della finestra. Certo che mi ha visto.

 

L'inverno è arrivato in anticipo. Ho appena finito di occuparmi delle mie conserve. Ho cibo per tutto l'inverno e probabilmente molto di più. Ho di che scambiare o vendere. Ho tirato giù dal solaio il piumone e gli abiti pesanti. Ho rifornito la legnaia sul retro della casa; di fianco al camino ho un cesto grande con i legnetti che ho raccolto in giro e in uno più piccolo i gusci di noci e nocciole. Mi servono per accendere il fuoco. Ho fatto scorta di riso, pasta e semola per la polenta. Sono pronto.

L'esperienza mi ha insegnato di che cosa ho bisogno e in quale quantità. Ritrovarsi bloccati dalla neve con la dispensa vuota non è stato piacevole, ma questo è accaduto al mio primo inverno qui. Quella volta mi sono chiesto perché nessuno mi avesse avvertito, ma in seguito ho scoperto che non accadeva da cinquant'anni. Molti non avevano mai visto così tanta neve in vita loro. Chi se l'aspettava? Ricordo che mi sono fatto coraggio e sono andato a piedi fino all'agriturismo di Cosma e Felicia. Ci ho impiegato un giorno intero, e non so quante volte ho rischiato di lasciarci le penne. Ma la fame è fame. Quando sono arrivato, quei due non ci volevano credere. A dire il vero non ci credevo nemmeno io. Eppure ero ancora vivo. Sono rimasto da loro quattro giorni. Poi Cosma è riuscito a procurarsi un gatto delle nevi e con quello mi ha riaccompagnato a casa, con una scorta di viveri e un micio bianco come la neve. Luna però, al momento di tornarsene all'agriturismo, non ne ha voluto sapere. Nonostante la casa gelida, si è trovata un posticino accanto al camino appena acceso e ha comunicato molto chiaramente la sua intenzione di restare qui. Cosma si è arreso, ridendo, e annunciandomi che non ero più solo, mi ha augurato buona fortuna. Luna è la compagnia migliore che abbia mai avuto.

All'improvviso mi sento felice. È come un lampo. Un colpo di gong. Una sensazione che mi illumina dentro facendomi vibrare. Sono un puntino trascurabile, aggrappato a un pianeta che gira velocemente intorno a se stesso e nel medesimo tempo intorno alla sua stella, in un luogo sperduto dell'immenso universo, e sono felice.

 

Non credo molto nell'incombente cambiamento climatico, nella teoria del riscaldamento del pianeta. Sono quattro giorni che nevica, esattamente come tre anni fa, e c'è un freddo glaciale. Io e Luna dormiamo davanti al camino. Mi piace stare qui, sui tappeti, avvolto nel sacco a pelo e nella luce del fuoco. Leggo, sogno, a volte semplicemente mi lascio ipnotizzare dalle fiamme, dallo scoppiettio del legno che brucia. Mi addormento senza accorgermene, svegliandomi quando il freddo mi morde il viso o le braccia, perché il fuoco si è spento. Aggiungo altra legna alle braci. Dalla finestra arriva la luce del giorno, esaltata dal muro di neve che circonda la casa. Devo andare a spalare di nuovo il sentiero della legnaia. Ormai è uno stretto passaggio tra due pareti bianche.

Appena uscito, il richiamo di un colpo di tosse mi fa voltare. Del mio vicino, imbacuccato in sciarpe e berretto, vedo solo gli occhi, per la prima volta.

– Salve.

– Salve a te, straniero.

Non ci ho pensato. Mi è venuto dal cuore. E il pianista ride. O per lo meno traduco così il cigolio che mi giunge attutito dagli strati di lana.

– Un bel guaio. Siamo bloccati qui – commenta con la sua voce ovattata.

Per uno che non mette mai il naso fuori dalla sua tana, non dev'essere un gran problema. Ma mi viene in mente il pick-up che ogni lunedì lo rifornisce di viveri. Oggi è martedì. Comprendo la sua preoccupazione e anche il motivo che l'ha spinto a lasciare il letargo.

– Posso offrirti un tè?

– Grazie, non ti disturbare. Non voglio interrompere il tuo lavoro.

– C'è tempo. Non siamo ancora sepolti del tutto.

– No, davvero, semmai, se puoi prestarmi qualcosa da mangiare...

– Quello sarebbe venuto dopo il tè. Dai, vieni.

Il pianista si avvicina con cautela. Sembra che si aspetti da un momento all'altro di saltare su una mina. Ma con un ultimo cauto sforzo raggiunge la porta di casa, mentre io l'ho già preceduto.

– Entra, entra!

Supera la soglia con il panico negli occhi. Accosta la porta. Luna si avvicina a lui sollevando il muso per osservarlo. Poi gli volta le spalle, tornando ad acciambellarsi davanti al camino. Evidentemente non l'ha trovato per nulla interessante.

– Puoi liberarti della sciarpa e del cappello. Qui è abbastanza caldo.

Il mio invito cade nel vuoto. Capisco che non ha intenzione di fermarsi più dello stretto necessario. Intanto in un cesto ho messo un po' di viveri di prima necessità.

– Pasta, riso, salsa di pomodoro, un po' di verdure sott'olio e frutta sciroppata. C'è altro che potrebbe servirti?

– Oh no, grazie. È perfetto. Forse... Non avresti magari un po' di latte?

– Mi dispiace, quello no. Io preferisco il tè e le tisane.

– Va benissimo così, non so come ringraziarti.

– Un modo c'è. Se ogni tanto, quando suoni, potessi farmi il favore di finire il pezzo che cominci, non mi dispiacerebbe.

Di nuovo il suo cigolio. Luna si volta a guardarci.

– Io mi chiamo Matteo.

– Io sono Rocco – risponde.

Ci stringiamo la mano, o meglio, il suo guanto incontra il mio palmo nudo. Il suo sguardo adesso è rilassato. Uno sguardo castano che sorride, circondato da una raggiera di minuscole rughe. Gli passo il cesto, lui lo afferra e si volta verso la porta. Agevolo la sua uscita precedendolo, poi afferro di nuovo la pala, mi infilo i guanti pesanti e mi accingo a liberare il passaggio.

– Grazie ancora, Matteo – mi dice la sua voce attutita prima di rifugiarsi nuovamente nella sua tana.

– Non c'è di che. A presto, Rocco.

O forse non tanto presto. Chi lo sa?

 

Nel pomeriggio ha smesso di nevicare. Sto per addormentarmi davanti al fuoco che scoppietta, quando mi passa nella mente il sorriso di due occhi castani. Chissà com'è il resto? Straniero, sconosciuto vicino misterioso. Non c'è nulla di peggio di una curiosità che rimane tale. La curiosità è il grimaldello che forza le porte delle verità nascoste. Ma è anche il tarlo che impedisce uno stato d'animo sereno, uno stagno quieto in cui riposare, uno specchio limpido in cui riflettersi, lontano dalle acque agitate e feroci delle tempeste mondane. Insomma, faccio fatica ad addormentarmi.

Al mattino, aprendo la porta, mi trovo davanti ai piedi il cesto vuoto, anzi no, c'è dentro un biglietto. Me lo metto in tasca e vado a spalare ancora una volta il sentiero per la legnaia. Sto facendo il tè, quando mi ricordo del biglietto. Prendo la tazza e vado a sedermi davanti al camino. Dispiego il biglietto e mi trovo sotto il naso una vera e propria lettera.

 

Ti ringrazio molto, Matteo, per avermi aiutato. Sono un povero ingenuo. Non ho mai riflettuto che vivere qui, lontano da una grande città, dovesse implicare anche un modo diverso di porsi di fronte alle necessità elementari della sopravvivenza. Abituato ai supermercati aperti anche la domenica, non ho riflettuto che basta un'abbondante nevicata per restare tagliati fuori dal mondo civile. Mi è senz'altro servito da lezione. Mi farò guidare dal tuo esempio, creando una dispensa che sia abbastanza fornita da non farmi dipendere dal furgone settimanale che mi porta da mangiare.

Sento il bisogno di spiegarti anche qualcosa di me, perché prima o poi lo scopriresti comunque. Perciò preferisco prepararti. Io sono diventato un mostro. Non per colpa mia, ma purtroppo è successo. Ho dovuto abbandonare la mia tournée, la sala d'incisione, i miei fan, i miei collaboratori, gli amici e il paese che mi aveva reso famoso. Sfuggendo ai giornalisti, sono riuscito a tornare in Italia in incognito e il luogo che mi è parso più adeguato a me, mi è sembrato questo. Qui nessuno verrà mai a cercarmi. Sono certo che molti mi abbiano già dimenticato. La fama si conquista sì con i propri talenti, ma anche con una presenza costante. Se sparisci dalla circolazione, al tuo posto si sostituisce subito qualcun altro. Sono le regole del gioco. Non resterò a lungo, comunque. Ma intanto che sarò qui, mi fa piacere avere un buon vicino come te.

Rocco

 

Sono diventato un mostro. Chi può dire questo di sé? Che può aver combinato il mio vicino per ritenersi un mostro? Ha ucciso qualcuno? E lo direbbe a me? Sono diventato un mostro, perseguitato dai giornalisti. Forse ha picchiato una donna. Oppure... Ecco, adesso si rincorrono nella mia mente mille immagini orrende. Ma diavolo! Non sono venuto in culo al mondo per farmi seppellire di nuovo dalle mostruosità del genere disumano. Io voglio restarne fuori. Voglio vivere nella mia pace. Io sono pace. Respiro profondo, espirazione veloce. Butto tutto fuori, butto il biglietto nel fuoco. Accarezzo Luna, che mi fa le fusa, consapevole che quello che rende felice lei rende felice anche me. Che cazzo vuol dire sono diventato un mostro? Non resisto, devo sapere. Busso alla porta del pianista che non suona da giorni. Sento movimento in casa, una sedia che cade, una porta che sbatte. Ho capito. Non gli piace ricevere visite, ma lo sa che sono io. Siamo sommersi dalla neve, isolati come due naufraghi in mezzo all'oceano. Busso ancora, proprio mentre la porta si apre. Il naufrago mi appare più come un rapinatore col passamontagna. E se è un assassino, chi gli può impedire di farmi fuori seduta stante? Sono un idiota. Ma un idiota coraggioso, perdinci!

– Ti dispiacerebbe spiegarmi che significa sono diventato un mostro?

– Entra.

Io entro senza fare tanti complimenti. Il camino è acceso. L'ambiente è caldo. Non c'è bisogno di coprirsi in quel modo. Rocco porta anche i guanti. Io invece mi tolgo il giaccone e lo butto su una sedia.

– Non potevi evitare di scrivermi quella roba?

– Siamo vicini di casa. No, non potevo schivare, per il semplice motivo che prima o poi mi vedrai. È quasi inevitabile.

– Vederti?

Resto un attimo in apnea. Quindi si riferiva al suo aspetto fisico. Ma certo, come ho fatto a non pensarci? Lui si è rifugiato in questa tana per non farsi vedere e io gli sono venuto a rompere i coglioni dopo che ha avuto il coraggio di confessarlo a me, a un perfetto sconosciuto. Mi sento una bestia.

– Sì, che avevi capito?

– Non ho capito un cazzo.

– Sono inguardabile.

E io sono un coglione. Vorrei sprofondare al centro della terra.

– Allora non è per il freddo che ti sei bardato in quel modo.

Non riesco a trovare nulla di decente da dire. Dovrei impegnarmi di più per stare zitto.

– Vedo che sei intelligente. Cominciavo a disperare.

– E io che pensavo... Vabbè, scusami tanto, non sono affari miei. Ti lascio alla tua tranquillità.

Afferro il giaccone e me lo infilo. All'improvviso non vedo l'ora di levarmi dai piedi.

– No, adesso che ci sei, puoi anche vedermi.

La giusta punizione. Pensavo forse di farla franca con tanta facilità?

– Senti Rocco, mi dispiace. Ho frainteso, non c'è bisogno che...

Troppo tardi. Resto senza fiato. Con una mossa velocissima si è disfatto del passamontagna e mi trovo davanti agli occhi una carta geografica scolpita su una maschera di pergamena ingiallita. Certo, quella è la sua faccia. Si toglie anche i guanti, molto lentamente. Sono grato di poter distogliere gli occhi dal suo volto. Le mani sono nelle stesse condizioni, ma mi fanno meno impressione. Non so che dire. Non so che fare. Mi siedo di nuovo. Aspetto che dica qualcosa. Io non sono in grado d'intendere e di volere. Ma il silenzio si protrae, concedendomi il tempo di riprendermi.

– Che diavolo ti è successo?

– Mi sono trovato nella macchina sbagliata sulla strada sbagliata nel momento sbagliato.

Sono dispiaciuto per te. Davvero.

– Hanno faticato a spegnere il fuoco, però sono ancora vivo. Così mi hanno detto, cercando di convincermi a non suicidarmi. Gli strizzacervelli sono impagabili, a volte. Ti dicono cose del tipo: stai male perché sei identificato con la tua vecchia immagine. Il corpo è solo un mero involucro. Sei dentro la materia, ma ciò che conta è la tua anima. Ah, no, questo me l'ha detto un prete. Tutti mi hanno distillato splendide perle di saggezza. Ognuno ha tirato fuori il meglio di sé. Dai, su, adesso tocca a te.

– A me?

E io che c'entro?

– Sì, a te. Non hai niente da dirmi? Approfittane.

– No.

Un mezzo sorriso screpolato sposta paesi e città.

– Bene, un punto a tuo favore.

– Già.

– E tu come mai hai deciso di vivere qui, come un eremita?

– Potrei essere nato qui. Perché me lo chiedi?

– Dimentichi che è mio padre ad averti affittato la casa. So benissimo da quanto sei qui, dove vivevi e cosa facevi prima.

– Ho scelto di tornare libero.

– Ah, interessante. Tu sei qui per sentirti libero e io invece qui mi sento prigioniero. Grandioso!

 

La neve si è sciolta. Rocco ha ricominciato a suonare il pianoforte. Pranziamo insieme più o meno due volte a settimana. Ci vediamo ogni giorno, almeno per accertarci se siamo ancora vivi. Luna a volte s'infila a casa sua e decide di restarci a dormire. Non sono geloso, ma ammetto che la prima volta ci sono rimasto male. Poi ci ho ripensato, in fondo Luna non è la mia gatta, ma quella di Cosma e Felicia. E se adesso ha scelto di stare un po' da me e un po' da Rocco, è perché è uno spirito libero. Va bene così. Non bado più alle mappe disegnate sul corpo di Rocco. Ieri sera mi sono fermato da lui e gli ho chiesto di suonare qualcosa. È stata una bellissima serata. Quando suona, Rocco si trasforma. C'è passione nei suoi movimenti, c'è dolcezza, eppure accanimento. La testa china alla luce del camino, lo scintillio del legno, le dita che accarezzano i tasti con un elegante movimento dei polsi. Tutto il suo corpo è in vibrazione con la musica. E anche io con lui.

Mi ha raccontato qualcosa di quello che ha vissuto dopo l'incidente. Soprattutto il dolore. Un percorso che dovrà affrontare di nuovo quando potrà fare la plastica, dopo alcuni mesi di riposo. In realtà avrebbe potuto sottoporsi subito all'intervento, ma si è rifiutato. Era stanco. Non ce la faceva più. Posso capire. Spero che la primavera arrivi presto. Gli farà bene.

 

In marzo, Rocco mi ha aiutato in tutto il lavoro di preparazione dell'orto. Poi abbiamo piantato le cipolle, le carote e i cavolfiori, melanzane, peperoni, zucchine e piselli. Ho pensato di aumentarne l'estensione, in modo da ottenere il doppio della raccolta. In aprile abbiamo messo giù meloni, prezzemolo e lattughe. Rocco mi ha preso in giro per la mia applicazione delle vecchie e sagge abitudini di seminare certe cose con la luna crescente e altre con quella calante. Poi, quando gli ho spiegato il motivo per cui la tradizione si tramanda, ha smesso di ridermi in faccia. Io ho ricambiato prendendolo in giro per la sua incapacità di distinguere una luna calante da una crescente.

– Va bene, c'è un modo per ricordarselo.

– Sentiamo.

– Quando sembra una D allora è crescente. Quando sembra una C invece è calante. Devi ricordarti che ci-cala, cicala, come l'insetto. È chiaro?

– Come no, cicala. Come l'insetto.

– Promosso.

– Quando andiamo a sistemare il frutteto?

– Non avevi detto che eri stanco?

– Non intendevo oggi. Per oggi basta. Mi sento tutte le ossa rotte.

– Non saranno i muscoli?

– Non lo so.

– Vorresti dirmi che non sai distinguerli?

– In questo momento no.

– Rocco, riposati. E mentre lo fai, cerca di ascoltare il tuo corpo.

– Strano che tu mi dica proprio questo. Dopo l'incidente ho cercato in ogni modo di separare le mie sensazioni dal corpo. Il dolore era troppo forte.

– Beh, credo che sia giunto il momento di rimettere insieme i pezzi.

– Ho paura che non sia così facile.

– Io non sono uno strizzacervelli e nemmeno un prete, ma secondo me è proprio questa la cosa più importante che puoi fare per te, adesso.

– Tu non puoi capire.

– Capisco che hai paura.

E dicendolo mi viene spontaneo allungare una mano sulla sua spalla, per un gesto di conforto che non arriva a segno. Rocco fa velocemente un passo indietro. Ha sempre evitato un qualunque contatto fisico con me. Me ne sono accorto quando abbiamo lavorato insieme all'orto. Adesso ho la certezza che vuole tenermi a distanza. E un po' ci resto male.

Lo guardo dritto negli occhi.

– Non volevo farti del male.

– Lo so. È un riflesso condizionato.

Capisco che è meglio che mi tolga dai piedi, per oggi. Lo saluto e me ne torno in casa. Sono dispiaciuto per Rocco. Ma non è solo questo. Sento un peso dentro, di cui vorrei liberarmi al più presto. Devo solo capire cos'è.

 

È una notte splendida, e forse per questo non riesco a dormire. Me ne vado sul prato e mi siedo sull'erba, a metà strada tra la casa e il bosco. Il cielo è così limpido e luminoso di stelle che sembra quasi pesarmi sulla testa. Amo restarmene così, tra terra e cielo, con la mente vuota e i sensi impegnati a nutrirsi di questa natura meravigliosa. Nel silenzio sento il fruscio cadenzato dei passi sull'erba. Rocco mi sta raggiungendo. Si siede accanto a me, con un sospiro. Mi volto a guardarlo nel buio, sorridendo.

– Niente luna, stanotte.

– Meglio, così non rovino il paesaggio.

Sento una morsa stringermi lo stomaco.

– Tu sei la parte migliore di questo paesaggio, Rocco.

– Non dire stronzate, per favore.

– A me non importa niente del tuo aspetto fisico. Sei tu che ti ci sei fissato. Ma a che ti serve? Ti sei reso prigioniero della tua pelle. Credi di essere solo questo, la tua pelle?

– Non potremmo restare in silenzio?

– Come vuoi, Rocco.

Il tempo si ferma. Il silenzio è rigenerante. Silenzio fuori e dentro. Nessun dialogo che si rincorre a vanvera nella mente. Assenza che diventa presenza, in una parte di me cui importa solo di esistere, senza aggettivi, senza qualità, senza luogo, senza tempo. Essenza che si riconosce parte di questo immenso universo.

– Buonanotte, Matteo.

La voce di Rocco mi fa sobbalzare. Avevo dimenticato la sua presenza accanto a me.

– Buonanotte, Rocco.

Sento la sua mano sulla spalla. È la prima volta che mi tocca. Io appoggio fugacemente la mano sulla sua.

 

Rocco non si è fatto vedere per tutto il giorno. Qualcosa mi dice che devo lasciarlo in pace. Eppure, prima di cena, mi ritrovo davanti alla sua porta. Non busso.

– Rocco, stai bene? – urlo.

Dopo un attimo di silenzio mi raggiunge la sua voce. – Sì.

Non mi serve altro. Ritorno sui miei passi. Ceno, rigoverno, mi siedo davanti al camino, che accendo ancora, la sera, per togliere l'umidità. Sto leggendo, con Luna addormentata accanto a me, quando sento grattare alla porta. L'orso è uscito dalla sua tana.

– Ciao, Rocco.

– Ciao.

Ha una bottiglia in mano. Sembra grappa.

– Ti va di farti un goccio con me?

– Certo. Trovati un posto comodo.

Rocco si siede a terra davanti al camino. Io prendo due bicchieri, sedendomi accanto a lui.

– Avevi ragione quando mi hai detto che mi sono fissato. Ma non posso farci niente.

E mi offre la trama smagliata di un sorriso.

– Quando te ne andrai da qui, avrai rimesso insieme i pezzi, te lo prometto.

– Cosa sei? Un mago?

– No, sto cercando di essere un uomo libero.

– Allora, libera anche me.

 

L'estate c'è piombata addosso all'improvviso. Sotto il portico abbiamo piazzato due poltroncine di giunco e ci sediamo fuori, la sera, a parlare, finché non giunge l'ora di dormire. Facciamo sempre più tardi. Anche questa sera, che non si respira dal caldo, Rocco si presenta impaludato nelle sua tuta improbabile, calzoni fino alle caviglie e maglia a manica lunga. Io lo guardo.

– Non hai un paio di calzoncini?

– Sì, perché?

– Vatteli a mettere.

– Non posso.

– Ma chi ti vede? Da queste parti non viene nessuno.

– Ci sei tu.

– Ma io non ti guardo, non preoccuparti.

– Non ce la faccio.

E all'improvviso, in un lampo, capisco. Io amo quest'uomo. Perciò ogni sua sconfitta mi stringe il cuore, come fosse mia.

– Vieni con me.

– Che vuoi fare, Matteo?

– Voglio che superi questo ostacolo. Se ce la fai una volta, sarai libero.

– Matteo, non posso.

– Dai, vieni con me.

Gli tendo la mano. Lui me la guarda come se fosse un serpente a sonagli pronto ad attaccarlo.

– Non ti mangia.

Rocco infine sembra superare la sua indecisione. Mi afferra la mano e si lascia trascinare in casa. Ha il panico negli occhi. Ci fermiamo in mezzo alla stanza. Mi avvicino a lui lentamente.

– Stai tranquillo, – gli sussurro, mentre comincio a spogliarlo. – La Terra continua a girare. Ci siamo solo io e te.

Lancio la maglia sulla sedia più vicina.

– Stai tranquillo. Vedi? Non succede niente.

Rocco cerca un sorriso senza trovarlo. Quello che trova è il coraggio di baciarmi. Da qui in poi è tutto più facile.

 

A Rocco piace nascondersi sotto il lenzuolo, a me invece piace scoprirlo e guardarlo. Prima o poi si abituerà.

– Ma non ti faccio ribrezzo?

– Adesso basta. Lo vuoi capire che tu sei più di qualche macchiolina sulla pelle? Cosa vuoi che m'importi?

Scorro la mano sul suo corpo, che un incendio ha tentato di ridurre a una fragile crisalide. Ma l'uomo è più forte del fuoco. A volte è persino più caldo.

 

C'è voluto del tempo, ma oggi finalmente posso dire che Rocco è in via di guarigione. Stamattina è venuto il fattorino del supermercato a fare la solita consegna del lunedì e lui è uscito di casa in calzoncini, a torso nudo. Il fattorino non ha fatto una piega. Rocco è pronto per tornare nel cosiddetto mondo civile. Più aspettiamo e peggio sarà. Per quanto mi riguarda, io voglio solo che Rocco sia felice. Voglio che riprenda la sua vita. Mi mancherà, ma questo non è il posto giusto per lui. Qui si sente davvero in prigione.

– Quando pensi di partire?

– Non so, forse in primavera.

– È un anno che sei qui. Adesso saresti pronto per la nuova operazione.

– Mi stai cacciando via?

– Da che cosa l'hai capito? – scherzo.

– Sto bene, qui. Mi sento sereno.

– Hai ancora paura dell'intervento?

– No, non più. Penso solo che non mi manca affatto la vita che facevo.

– Ma come, rimpiangevi la fama, il successo...

– ...e i supermercati aperti la domenica.

– Devi tornare alla tua vita, sei pronto.

– Credo di sì, ma che ci faccio con tutta la roba da mangiare che ho messo in dispensa? Ce n'è per un esercito.

– Te li vendo io all'agriturismo, non ti preoccupare.

– Sei impazzito? Hai fatto tutto tu, l'hai coltivata, l'hai raccolta, l'hai messa nei barattoli...

– Ma tu mi hai aiutato in tutto, hai fatto metà del lavoro.

– Basta! Non sento ragioni. Quando parto ti riprendi tutto.

– E quando parti?

– Presto, brutto bastardo. Ne hai abbastanza di me, vero?

E intanto mi salta addosso e mi stringe in un abbraccio che sembra una mossa di lotta e che mi immobilizza. Cerco di reagire, ma Rocco mi bacia e perdo tutte le forze. Come cazzo farò a sopportare la sua assenza?

 

Stavolta è diverso. Rocco mi manca, ma non mi sento svuotato e inutile. Sono rimasto tutto intero. Intero, innamorato e notevolmente triste. C'è una differenza tra l'essere depressi e l'essere tristi. La nostalgia mi viene soprattutto alla sera, quando vado a letto, e so che le mie braccia resteranno vuote. So che voltandomi verso la finestra non vedrò in controluce le colline e le valli del suo corpo. Quel corpo che lui ha tanto denigrato, odiato, ripudiato, come il ricettacolo di tutti i suoi guai. Quel corpo che io ho amato infinitamente, nonostante le sue carte geografiche. Non era molto diverso da qualcuno che si riempie di tatuaggi. Quella volta che gliel'ho detto, Rocco mi ha risposto di sentirsi come una borsa di Alviero Martini. Io non sapevo di che cosa stesse parlando, ma proprio l'altro giorno, da Felicia, ne ho vista una su una rivista. Rocco aveva ragione. Si vede che mi piacciono le borse di Alviero Martini. Penso a lui con serenità. Ripenso a ogni momento che abbiamo vissuto insieme. Non voglio dimenticarmene. Sono la cosa più bella che mi sia mai capitata. Prima di andare via, mi ha chiesto se avrei mai potuto raggiungerlo a New York. E io gli ho detto no.

– Allora non mi ami.

– No, non ti amo.

– Però ti piace scopare con me.

– Se non c'è niente di meglio...

Anche quella volta abbiamo fatto la lotta e ha vinto lui. Non gli ho mai detto di amarlo. L'ho detto a tutti quelli che non ho amato davvero, ma a Rocco non l'ho detto. L'ho detto a tutti quelli che mi hanno mollato. In compenso, l'unico che abbia mai amato davvero l'ho cacciato via. No, non proprio. L'ho convinto ad andarsene, che non è molto diverso. Non volevo renderlo prigioniero dei miei sentimenti. E non volevo esserne prigioniero io stesso. La libertà ha i suoi costi e qualche volta, come in questo caso, sono costi molto alti.

Come ogni sera, al buio, prima di dormire, gli dico buonanotte, a bassa voce. E anche se so che non mi risponderà, le mie orecchie restano all'erta, per ascoltare la sua voce, e poi il suo respiro che si fa regolare. A volte sento quello di Luna, che salta sul letto senza che me ne accorga. Mi piace illudermi che sia quello di Rocco.

 

Di nuovo si affaccia timidamente un'altra primavera. Lavoro nell'orto come un forsennato. Mi serve per smaltire le energie, per potermi sentire tanto stanco, la sera, da non avere la forza di perdermi in sterili languori, e piombare in un sonno senza sogni, appena finito di mangiare. Niente romanzi a farmi compagnia. Rischierei d'inciampare in qualche storia d'amore che riaprirebbe una ferita appena rimarginata. La sofferenza è arrivata a poco a poco, strisciante, seguendo il varco lasciato aperto dalla nostalgia, e poi dalle stupide fantasie in cui mi sono crogiolato. Doveva accadere. Sono un essere umano. L'amore è l'unico sentimento che ci può atterrare. E non sa di limone, ma di miele. Mi ero illuso di non volere niente, che mi sarei bastato, lontano da tutto e da tutti. Ma Rocco mi è entrato nelle vene, scorre nel mio sangue, fa parte di me. Soffro la sua presenza.

 

Cosma è venuto a trovarmi e gli ho consegnato una quantità di conserve che non mi servono. Potranno venderle agli ospiti dell'agriturismo. Ne ho prodotto oltre il mio fabbisogno personale, e Rocco non mi ha dato una gran mano a smaltirle. Del resto ho bisogno di spazio per riporre quelle nuove. Finisce che mi metto in affari e ricasco nel vortice della mia vita precedente. Non voglio. Piuttosto lascio marcire gli ortaggi sulle piante. L'anno prossimo riduco l'orto. Non mi serve tutta quella roba. Non voglio più dello stretto necessario. Ho detto a Cosma di venirsi a raccogliere la frutta, quando vuole. Quello che m'importa è la sopravvivenza. Respirare, nutrirmi, coprirmi quando fa freddo, riscaldarmi. La legnaia è quasi a posto. Ho ancora un po' di tronchi da tagliare e poi può iniziare la festa. Mi piacerebbe sapere quanta neve cadrà il prossimo inverno. Ci siamo quasi. La sera comincia a fare molto freddo. Luna è rimasta all'agriturismo, l'ultima volta che ci sono andato. Ho sempre saputo che è uno spirito libero, ma adesso non so che farmene dei suoi amati croccantini.

Mi sono dato ai romanzi di Asimov e alle tisane di melissa. Potrei anche tentare di coltivarla nell'orto, ma è più divertente andarmela a cercare, anche se in giugno avrei altro da fare. No, non è vero, ho tutto il tempo del mondo, e nulla a cui pensare. Ho trovato un posto magnifico in cui crescono i funghi porcini. Ne ho raccolti parecchi e li farò seccare per  farci il risotto. Non l'ho mai cucinato, ma la ricetta che ho trovato mi sembra molto semplice. Ho ricominciato a parlare da solo, ma non c'è l'altra vocina che risponde. Sono l'unico che abita questo corpo. Tutti gli altri si sono andati a nascondere chissà dove. Si saranno annoiati. Adesso, quando penso "io", so di chi sto parlando. Credo che sia valsa la pena di fare tutto quello che ho fatto. E credo che questa sarà per sempre la mia vita, senza pentimenti.

 

Questa sera mi sento strano. Negli ultimi giorni ho la testa vuota e un senso d'attesa, molto simile al malessere che mi coglie subito prima di una nevicata. Fa molto freddo. Ho messo due tappeti spessi davanti al camino e mi sono armato di sacco a pelo. Voglio restare qui, davanti al fuoco, come facevo una volta. Voglio crogiolarmi nel calore, senza pensare a nulla.

Che cosa ci fa nel fuoco del mio camino la statua della libertà, con la sua fiaccola? A volte, mentre sto per addormentarmi, mi passano nella mente le immagini più astruse. Questa in fondo ha un senso. Quella statua è il simbolo di New York e a New York c'è Rocco. La mia mente si è fatta furba. Non mi ripropone immagini di Rocco, ma ci gira intorno, in modo che ci arrivi per associazioni. No, non andrò a New York, anche perché non saprei dove trovarlo, Rocco. Chissà com'è andato l'intervento? Avrà sofferto molto? Avrà ripreso i suoi concerti? I suoi fan avranno ricominciato a seguirlo? E i giornalisti? Peccato non avere uno straccio di collegamento col mondo. No, il mondo è questo. Tutto il mondo di cui ho bisogno. A volte qui sopra passano le nuvole. Anche Rocco è stata una nuvola. Chiudo gli occhi. Una nuvola vagabonda.

 

Mi sveglio di soprassalto. C'è stato un rumore. Eccolo di nuovo. Bussano alla porta.

– È aperto!

La maniglia si abbassa lentamente.

– Entra, Cosma, vuoi un invito scritto?

Finalmente entra, insieme a una folata di vento gelido che trascina in casa grossi fiocchi di neve e anche un po' di foglie. Richiude la porta a fatica. Da com'è bardato deduco che fuori c'è il blizzard.

– Scusa se non esco dal sacco a pelo, ma mi devo riambientare.

Cosma mi si avvicina, rabbrividendo e mi si viene a sedere accanto, buttando un ciocco nel camino e un po' di legnetti per riattizzarlo.

– Sembri un freezer con la porta aperta. Mi stai facendo congelare.

Cosma mi abbraccia all'improvviso. Che diavolo gli prende?

– Cosma, ma ti si è congelata la lingua? Non mi hai detto nemmeno buongiorno. E poi che ci fai qui a quest'ora?

– Ti risponderò quando ti deciderai a chiamarmi col mio nome, razza di bastardo senza memoria. A sapere che mi avevi già dimenticato non mi facevo migliaia di miglia per venirti a trovare.

– Rocco! Ma fatti riconoscere, cazzo. Hai ricominciato ad andare in giro conciato come un ninja?

– No, ma fa un freddo maledetto da queste parti.

Rocco finalmente si toglie la bardatura ed è sempre quello che ho conosciuto, con le sue mappe e il suo sorriso crepato, che smuove colline e città.

Adesso sono io ad abbracciarlo.

– Non hai combinato niente. Avevi detto che non avevi paura.

– Non è stata la paura. Ci ho ripensato. Così mi hanno voluto le vicissitudini della vita e non voglio nasconderlo sotto uno strato di pelle rosa nuova di zecca, coltivata in laboratorio. Non me ne frega niente.

– Ti sembrerà incredibile, ma mi piaci così. E che ci fai qui, invece di suonare ai concerti?

– Sono venuto a romperti le scatole. Tu vuoi lasciare il mondo fuori dalla porta? Beh, il mondo invece vuole entrare. Così ha mandato me a disturbare la tua pace da eremita. Se vuoi startene da solo dovrai trovarti un altro posto, sull'Himalaya, nel deserto del Sahara o non so dove. Io ho deciso di trasferirmi qui.

– Dicevi che stare qui ti faceva sentire prigioniero.

– Mi sbagliavo.

Sono così felice che mi sento attraversare da una corrente incandescente. Non so che dire, così sparo la prima cazzata che mi viene in mente.

– Mi è mancata la musica del tuo pianoforte.

– E io non ti sono mancato?

– No...

Rocco finge di strangolarmi, così finisco la frase con molta difficoltà e poca aria  – ...perché sei sempre rimasto dentro di me.

Che lo amo invece glielo dirò più tardi, quando avrà finito di strapazzarmi come merito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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