Corde

 

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 - Che cazzo è questa roba?

Melania alza gli occhi dalla tastiera e guarda il foglio che il dirigente le sta tendendo. Risponde:

- Il rendiconto del ramo sinistri del mese di gennaio, dottore, per la sezione italiana e quella del Canton Ticino.

Nell’ufficio rimaniamo tutti con il fiato sospeso, fingendo di continuare a occuparci dei nostri lavori.

- Cazzo, Monticelli, ha una vaga idea di come si fa un rendiconto? In due anni qua dentro, qualche cosa ha imparato, oltre a darsi lo smalto sulle unghie?

Melania Monticelli incassa, con una smorfia: l'insinuazione la offende, il fatto che corrisponda a verità la offende ancora di più.

- Li ho sempre fatti così, i rendiconti. E il dottor Speranza non ha mai avuto niente da ridire.

- Si vede che guardava le sue scollature, invece dei rendiconti. Una roba del genere potrei usarla giusto per pulirmi il culo. Adesso si rimette al lavoro e per le cinque mi fa un rendiconto completo, con tutti i dati mancanti. Si faccia spiegare da Colletti come si fa.

- Per le cinque, ma io... Manca solo mezz'ora.

- Peccato. Questa volta non avrà il tempo per rifarsi il trucco prima di uscire. Si muova, prima che mi ricordi che ci sono un sacco di giovani disoccupati che hanno voglia di lavorare.

Melania è mortalmente offesa, ma il discorso del dirigente è chiaro, la stoccata ha colto nel segno (gli ultimi venti minuti della giornata Melania li trascorre in bagno, da cui esce truccata alla perfezione) e il dottor Favagrossa non scherza. Melania si mette al lavoro.

Il capufficio si rivolge a me:

- Rodi, venga nel mio ufficio.

Mi alzo e lo seguo oltre la porta che separa l'ufficio del dottore da quello in cui lavoriamo. 

- Chiuda la porta.

Eseguo.

Lui si siede alla scrivania e io sto per sedermi dall'altra parte, come faccio sempre quando sono nel suo ufficio, quando lui mi dice:

- No, Rodi. Prenda la sedia e si metta vicino a me.

Sono un po' stupito, ma evidentemente vuole che vediamo insieme qualche cosa. Porto la sedia accanto alla sua. Non mi è mai capitato di stare seduto così vicino a lui. Posso sentirne l'odore, un aroma di sigaro (di marca), mescolato a un leggero odore di sudore.

Apre con la chiave il primo cassetto (non credo che Speranza abbia mai tenuto un cassetto chiuso a chiave, non siamo mica i servizi segreti) e tira fuori un plico di carte. Lo appoggia sul tavolo.

- Ho rivisto i rendiconti dell'anno scorso e ci sono diverse cose che vorrei capire. Troppe cose.
Favagrossa è arrivato tre mesi fa, prendendo il posto di Speranza che è andato in pensione (beato lui: a me mancano almeno trentacinque anni). Non proviene dalla ditta per cui lavoriamo, la SAG, ma da un'azienda della concorrenza. Il suo arrivo ha segnato una rivoluzione: si è subito dimostrato competente e maledettamente esigente.

Io sono sempre a disagio quando lui è vicino. Non perché abbia paura di essere colto in fallo e rimproverato: credo di fare bene il mio lavoro e lui ha dimostrato di apprezzarmi in diverse occasioni. D'altronde se sono vicecapufficio a trent'anni, in un'azienda in cui sono entrato quattro anni fa, è perché non devo essere un disastro sul lavoro.

Il problema è un altro, che si è manifestato la prima volta che lui è entrato in ufficio: il mio capo mi piace. È esattamente il mio tipo d'uomo: sui cinquanta, massiccio, non molto alto, grosso, barba e un sacco di peli. Insomma: uno splendido esemplare d'orso, che fuma pure il sigaro e ha una voce profonda. Gli salterei addosso, se solo potessi, e mi farei infilzare (o lo infilzerei – sono versatile) senza pietà. Ma temo che mi stenderebbe con un solo pugno: deve avere una forza incredibile.

Favagrossa incomincia a mostrarmi i conti del ramo vita. Il nostro ufficio non si occupa direttamente delle assicurazioni: le polizze stipulate vengono gestite da altri uffici. Noi ci occupiamo dei conti e il bilancio dei diversi rami della compagnia di assicurazioni che operano qui nel Canton Ticino e in Italia dev’essere vagliato da noi. Tra un mese ci sarà la conclusione dell’anno finanziario e Favagrossa sta controllando i materiali che il suo predecessore gli ha lasciato in eredità. Non mi stupisce che abbia trovato qualche cosa che non va: Speranza ormai pensava solo più alla pensione e alle tette di Melania, la quale ne approfittava in modo spudorato. E del ramo vita si è sempre occupata lei.

Favagrossa si è fatto molto in fretta un’idea precisa della situazione e vuole che io gli confermi i suoi sospetti. Io cerco di concentrarmi sui conti, dove, in effetti, ci sono diversi dati che non funzionano, e di non fissare troppo la sua grossa mano pelosa, con le dita un po’ tozze, che mi indica ora un dato specifico, ora un totale. Ma una parte del mio cervello immagina come sarebbe bello accarezzare quella mano, sentirla sulla pelle, magari anche sulle palle. Cazzo! Lo sapevo: sono un coglione. Mi sta diventando duro alla velocità della luce. Non credo proprio che Favagrossa se ne possa accorgere, ma la situazione è imbarazzante.

Rispondo alle domande del capo, confermo i suoi dubbi, faccio qualche ipotesi su come mai nessuno si è accorto degli errori madornali (essenzialmente: Melania, che non è stupida, ha fatto i conti pensando ad altro e Speranza, che invece era piuttosto stupido, non li ha controllati perché tanto l’anno finanziario non l’avrebbe chiuso lui). Vedo nubi nere sul capo di Melania, ma in realtà il fulmine piomba sulla mia testa.

- Rodi, mi fa il favore di occuparsi lei dei conti del ramo vita per quest’anno che si sta concludendo?

Pare una domanda, anche se in realtà è un ordine. Annaspo: il lavoro è parecchio e riprendere tutti i conti dell’anno adesso significa schiattare.

Favagrossa mi guarda e mi sorride:

- So di chiederle un impegno molto gravoso, ma non posso contare sulla Monticelli, che non rimarrà a lungo con noi.

Non riesco a concentrarmi sul fatto che Melania verrà licenziata: me lo impedisce il sorriso del capo. Ha un bel sorriso, Favagrossa. O forse il sorriso non è bello, ma questo orso sorridente mi piace. Penso che avrei voglia di baciarlo. E poi mi dico che in questo momento è l’ultima cosa a cui dovrei pensare.

- Dottore, non sono sicuro di farcela, materialmente. Non mi sono mai occupato del settore e i tempi sono ristretti.

Favagrossa continua a sorridere e il desiderio di baciarlo è fortissimo: non può sorridermi così cordialmente a una spanna dalla mia faccia.

- Me ne rendo conto. Avrà tutto il mio appoggio e là dove occorre lavoreremo insieme.

Questo è un colpo basso.

- Farò tutto il possibile, dottore.

So di aver fatto una delle peggiori cazzate della mia vita e che passerò il prossimo mese in ufficio senza alzare la testa dalla scrivania neanche nell’intervallo del pranzo. Va da sé che farò fior di straordinari. Merda!

- Grazie, Rodi. Sapevo di poter contare su di lei.

Ho il vago sospetto che il dottor Favagrossa sia un figlio di puttana e che mi abbia incastrato approfittando in modo ignobile dell’effetto che l’averlo vicino ha su di me (per inciso, il cazzo si è sgonfiato: anche lui ha capito che la situazione è tragica).

 

*

 

Mi ero aspettato un mese infernale, ma le mie previsioni erano infondate: è stato molto peggio. Sono stati rari i pomeriggi in cui sono uscito prima delle sette (l’orario di uscita è alle cinque), compreso il venerdì, in cui dovremmo smontare alle due, e ci sono stati anche gli ultimi due sabati. La mia vita sociale ha subito un drastico crollo e quella sessuale si è ridotta a zero: non ho una relazione fissa e quando sono finalmente a casa, la sola idea di alzarmi dal divano per mettermi alla ricerca mi provoca una crisi di rigetto. In questo mese il mio culo ha conosciuto quasi solo il suddetto divano di casa, su cui sonnecchio prima di andare a dormire a letto, a parte ovviamente la sedia alla mia scrivania e quella alla scrivania di Favagrossa (potrei citare la tazza del cesso, la sedia della cucina e il sedile dell’auto, volendo proprio essere pignolo). Il mio cazzo ha avuto il piacere di rinnovare conoscenza con la mia mano la domenica mattina e con questo ho detto tutto sulla mia vita sessuale. Non credo che sarebbe sufficiente per farne un blog.

Oggi però chiudiamo.

Siamo di nuovo nell’ufficio di Favagrossa. Sono le sei e mezzo di venerdì e da diverse ore sul piano non c’è più nessuno. Le signore delle pulizie hanno svolto il loro compito e se ne sono andate. Io sono seduto di fianco a Favagrossa e stiamo verificando per l’ultima volta i conti. Infine Favagrossa rimette il plico di fogli nel cassetto, lo chiude a chiave e dice:

- Bene, Rodi, ha fatto un lavoro eccellente. So benissimo quanta fatica ha fatto, ma adesso tutto funziona. Può essere sicuro che ne terrò conto.

C’è una vaga promessa di una gratifica, se non di una promozione, ma in questo momento l’unica cosa di cui davvero ho voglia è un bel letto. Eppure, nonostante tutto, mi spiace pensare che non avrò più molte occasioni di lavorare fianco a fianco con questo magnifico orso.

- Non le spiace se mi accendo un sigaro, vero? Per celebrare. 

- No, no, faccia pure.

L’ho visto qualche volta fumare alla finestra del suo ufficio, ma non l’ha mai fatto mentre lavoravamo insieme.

- Lei non fuma, vero?

Scuoto la testa, mentre si accende il sigaro.

- No.

- Spero che non le dia fastidio il sigaro.

- No, ha un buon odore.

Lui fuma tranquillo e sorride. Tra di noi cala il silenzio e io mi sento un po’ a disagio. Siamo seduti di fianco, quasi a contatto, ma adesso che abbiamo finito il lavoro, questa vicinanza non ha più motivo di essere. Lui non mi congeda. Dovrei chiederglio io se posso andare, ma non lo faccio. Mi godo questo momento, lo guardo che fuma il suo sigaro e rimango in silenzio.

Il silenzio però diventa imbarazzante, per me almeno: lui sembra tranquillissimo. Ma non so davvero che cosa potrei dire. A un certo punto mi schiarisco la gola e faccio per chiedergli se posso andare: non ha davvero senso che io rimanga qui. Ma lui mi previene.

- Ora che abbiamo finito con il lavoro, potremmo festeggiare, no? Che ne dice?

Non capisco bene che cosa intenda. Si è voltato verso di me e nel suo sorriso c’è di certo molta ironia.

- In che senso, scusi?

- Siamo soli in questo ufficio. Non passerà nessuno.

Deglutisco. Non sono sicuro di aver capito.

- Insomma, Pierluigi Rodi, io ti piaccio e tu mi piaci, qui non c’è nessuno e potremmo dedicarci a… un passatempo piacevole.

Scoppia a ridere.

Non so come abbia fatto a capire che lui mi piace, ma non mi stupisce che ci sia arrivato: ci siamo frequentati più di due innamorati nell’ultimo mese e ogni tanto mi ha sorpreso a contemplarlo nei momenti di pausa.

Io sorrido e dico:

- Non intende propormi una partita a Monopoli, vero?

- Neanche una mano a poker.

Ride di nuovo.

- Per me va bene, capo.

- Puoi chiamarmi Tobia.

- E tu Pier.

Detesto il mio nome completo, scelto da mia madre perché un cognome breve richiede un nome lungo, preferibilmente doppio (c’è sempre qualcuno che spara stronzate di questo genere, senza preoccuparsi di condannare un povero innocente, che non è neppure nato, a portarsi dietro certi obbrobri per tutta la vita).

Tobia posa il sigaro, si alza e io lo imito. Mi abbraccia e poi mi bacia sulla bocca, mentre le sue mani, senza nessun ritegno, mi palpeggiano il culo. Considerando il livello della mia vita sessuale negli ultimi trenta giorni, già questo è sconvolgente. Se poi ci aggiungiamo che mi si è appiccicato addosso, che sento una pressione particolarmente piacevole contro il ventre e che la sua lingua tra un po’ raggiunge le mie corde vocali, insomma, potremmo dire che è una resurrezione. E, in effetti, qualcuno che dormiva si è levato in piedi e fa la voce grossa, certo che sarà (infine) ascoltato e avrà modo di conoscere qualche cosa di meglio di una mano con cui condivide il corpo da una trentina d’anni.

Le mani di Tobia stanno procedendo a spogliarmi e io non mi oppongo. Mi sembrerebbe scortese non collaborare, per cui un po’ lo aiuto a togliermi gli abiti, un po’ cerco di fare lo stesso con lui. Quando gli ho aperto completamente la camicia, mi stacco e lo guardo: è come lo immaginavo, con una magnifica pelliccia sopra i muscoli. Mi piace!

Ci baciamo di nuovo, con grandi manovre delle nostre lingue, mentre le sue mani proseguono il loro lavoro e le mie cercano di non rimanere indietro. Ci ritroviamo nudi tutti e due e io gli sto mordendo i capezzoli, poi gli do una bella slinguata sui pettorali e scendo fino all’ombelico. Mi ritrovo in ginocchio, a contemplare un cazzo splendido (Favagrossa: nomen, omen; Tobia ha proprio preso dall’antenato a cui avevano affibbiato questo soprannome). Non sono uno spirito contemplativo, per cui passo rapidamente all’azione e la mia bocca si apre per accogliere, con un po’ di fatica, il più bel cazzo che mi sia capitato di gustare. Bacio la cappella, do un’altra slinguata, scivolando con la lingua fino ai coglioni (che meraviglia anche quelli, grossi e pelosi!), mentre le mie mani stringono il culo di Tobia. Lecco, succhio, mordo, stringo, una mano scivola sul solco tra le natiche, si ferma sull’apertura, la stuzzica.

Lui mi alza a forza e io, per quanto sia riluttante a mollare questo magnifico cazzo, obbedisco.

- Ti va di legarmi?

- Perché no?

Un po’ di bondage mi piace, anche se non sono un esperto. Come mi piace usare la cinghia per frustare e credo che questa sera Favagrossa avrà il culo a strisce, giusta punizione per tutto quanto mi ha fatto passare nell’ultimo mese. A questo punto credo che sia disponibile più a prenderlo in culo che a mettermelo, ma mi va bene, anche se devo dire che mi sarebbe piaciuto farmi infilzare da questo bestione. In ogni caso anche il contrario è una bella prospettiva. Prendo la sua cravatta e lui mette le mani dietro la schiena. Le lego bene, fregandomene se gli stazzono la cravatta.

- Mettimi anche un bavaglio. Usa il mio fazzoletto. I preservativi sono nella tasca della giacca.

Prendo il fazzoletto, lo appallottolo e glielo ficco in bocca. Poi gli lego la mia cravatta davanti alla bocca, in modo che non possa liberarsi del fazzoletto. Ora è nelle mie mani. Lo spingo sulla scrivania, forzandolo a mettersi a pancia in giù, con i piedi poggiati a terra. Poi prendo la mia cintura e gliela faccio vedere. Capisce e annuisce.

La prima scudisciata lo fa sobbalzare. Non ci sono andato piano: non ne avevo nessuna intenzione. Proseguo, dandoci dentro con foga, ed è un piacere vedere i segni rossi che si formano sul suo bel culo peloso.

A questo punto se proseguo vengo senza neanche toccarmi, per cui decido che è ora di incularlo. Prendo un preservativo dalla sua giacca e me lo infilo. Poi mi sputo sulle dita e preparo l’apertura. Entro con una certa cautela, ma quando infine sono dentro di lui, incomincio a spingere con forza. C’è tutta l’astinenza di questo mese a darmi energia ed è bellissimo fottere questo splendido culo su cui ci sono i segni rossi delle cinghiate. Lo stringo con le mani, pizzicandolo. Lo morderei, ma in questa posizione per farlo dovrei uscire e non se ne parla proprio.

Dopo un po’ il piacere è tanto forte che non riesco più a reggere: vengo dentro di lui, con una serie di spinte frenetiche, mentre ondate di piacere mi percorrono tutto. Poi mi abbandono sul suo corpo. È stato breve – non scopavo da troppo tempo – ma splendido. Esco, carezzando questo bel culo villoso, e poi gli tolgo il bavaglio, perché possa dirmi che cosa vuole che io faccia.

Lui si alza. Ha il cazzo perfettamente in tiro ed è davvero uno spettacolo grandioso. Si gira e si stende sulla scrivania, anche se mettersi disteso con le mani legate dietro la schiena non è certo comodo.

- Impalati, dai.

Questo è davvero un invito a nozze!

Gli rimetto il bavaglio, poi salgo sulla scrivania, con i piedi ai lati del suo corpo, e poi mi siedo su di lui. Gli infilo il preservativo e poi gli metto il cazzo in verticale. Mi sollevo, mi colloco nella posizione giusta e lentamente mi impalo su questo magnifico arnese. Fa male, parecchio: un cazzo così è fuori misura. Ma è bellissimo. Il mio culo si lamenta, ma è tutta scena: è felice di questo palo che lo trafigge.

Mi muovo con lentezza, sollevandomi e poi sprofondando. Lui ogni tanto ha una smorfia di dolore: le mani legate dietro la schiena devono fargli male. Ma il suo cazzo è un pilastro di cemento armato. Anche il mio sta nuovamente gonfiandosi, benché sia venuto poco fa. Ma è troppo bello.

La sua faccia si deforma in una smorfia di piacere ed emette un grugnito soffocato dal bavaglio. Io allora mi accarezzo e vengo nuovamente, spargendo un po’ del mio seme sul suo ventre.

Guardo le gocce biancastre sui peli. Sorrido e chiudo gli occhi, esausto e soddisfatto come di rado mi è capitato in vita mia. Lui si alza. Gli libero le mani e lui si toglie il bavaglio.

Mi sorride.

- Bene, Pier, credo che avremo modo di lavorare parecchio insieme nei prossimi mesi e mi fa piacere sapere che ogni tanto possiamo anche svagarci.

Il finale è stato piacevolissimo e valeva un mese di vita infernale, ma se pensa che io intenda continuare con questi ritmi solo per farmi scopare da lui il venerdì pomeriggio, sta sbagliando i conti. Credo di potermi permettere un’osservazione:

- Spero che non ci siano troppi straordinari, però.

- C’è ancora parecchio lavoro da fare, ma di altro tipo. E con altri ritmi.

Non mi dice altro e, dopo esserci ripuliti e rivestiti, ce ne andiamo.

Mi chiedo quando avremo un altro incontro ravvicinato. Per me va bene presto, prestissimo (sarei disponibile anche domani), ma è lui il capo, per cui preferisco che sia lui a farsi avanti.

 

Per tutta la settimana lavoriamo come se nulla fosse successo. L’anno finanziario viene chiuso, il bilancio approvato e arrivano gratifiche (per me) e trasferimenti (in un altro ufficio per Melania, inviata in quella che chiamiamo la fossa dei leoni, inferno per lavoratori senza speranza di redenzione e anticamera del licenziamento).

La settimana seguente tutto prosegue come se non fosse accaduto nulla. Incomincio a chiedermi se Tobia non abbia rinunciato ai suoi progetti. Mi dispiacerebbe, anche se avere nuovamente un po’ di tempo libero e una vita sessuale non mi fa schifo. Diciamo però che nella mia vita sessuale inserirei volentieri qualche altro incontro ravvicinato con questo magnifico orso dal cazzo vigoroso e il culo peloso (una grande accoppiata).

Il giovedì però il dottore mi chiede se il pomeriggio del giorno dopo mi posso fermare. Gli dico di sì: non ho preso impegni, nella speranza di fare il bis dell’ultima volta. Spero solo che non intenda farmi lavorare di nuovo per un mese prima di passare al dessert.

Il venerdì, quando tutti se ne sono andati, ci sediamo di nuovo uno a fianco dell’altro e Tobia mi fa vedere diversi fogli di dati, spiegandomi di che cosa si tratta. Non ci metto molto a capire che è un casino.

Il lavoro che ho fatto con il capo il mese scorso era una banale, per quanto faticosa e impegnativa, sistemazione di conti fatti male. Ma i dati che adesso mi porge sono di altro genere. Fanno pensare a manovre poco chiare. La SAG è una delle più importanti compagnie di assicurazione d’Europa e al suo interno il settore finanziario si è sviluppato sempre di più, tanto che oggi rende di più del settore assicurativo in senso stretto. Girano tantissimi soldi, cifre da capogiro. E i dati mi danno la netta impressione che qualcuno abbia deciso di far finire nelle proprie tasche una parte di quel denaro. Una piccola parte, ma parliamo di svariati milioni di euro e franchi svizzeri.

Mi chiedo come abbia fatto il dottor Favagrossa a entrare in possesso di questi dati: è un funzionario di alto livello, ma a questi dati non possono certo accedere tutti.

- Pier, tu sei uno in gamba e ho visto che con i dati te la cavi benissimo. Qui c’è parecchio lavoro da fare, per capire che cazzo sta succedendo.

Annuisco.

- Mi sembra che siano casini grossi, a giudicare da quel che vedo.

- Sì, Pier, e ho bisogno di qualcuno di fidato per indagare senza che nessuno se ne accorga. Occorre essere prudenti.

Sì, su questo Tobia ha ragione.

 

Incomincia una nuova fase di lavoro. Tobia si procura, non so come, bilanci e rendiconti che non sono di pubblico dominio. Li esaminiamo insieme e cerchiamo di scoprire passaggi e movimenti anomali. Ce ne sono parecchi, relativi alle filiali italiane e a quelle francesi.

In capo a due mesi abbiamo un quadro preciso della situazione e delle persone che sono sicuramente coinvolte in questi traffici loschi, in primo luogo il dottor Loroux, uno dei massimi dirigenti del settore finanziario per l’Italia e tutta l’area del Mediterraneo. Abbiamo elementi sufficienti perché Tobia ne parli al direttore generale e smascheri i responsabili.

Tobia però mi dice che non intende ancora agire. Le ricerche successive aggiungono poco a quanto già sappiamo e io incomincio ad avere dei dubbi. In questi mesi ho sempre pensato che Tobia volesse tirar fuori le magagne per raddrizzare la situazione, magari anche perché pensava che lo avrebbe aiutato a fare carriera. Perché allora non vuole parlarne al direttore generale? I dati in nostro possesso non lasciano dubbi. Non credo che lui possa intervenire direttamente: i responsabili hanno, almeno nel caso di Loroux, un livello superiore al suo. Perché non si decide ad agire?

 

Anche questo venerdì tutto si svolge come al solito: esco un po’ dopo gli altri, timbro il cartellino (così nessuno può sapere che sono ancora dentro) e ritorno in ufficio. Uscirò poi dal parcheggio con Tobia, che in quanto funzionario non deve timbrare e può lasciare l’auto in cortile.

Lavoriamo due ore e poi ci prendiamo la pausa.

Lego le mani dietro la schiena di Tobia (adesso usiamo una corda), poi gli calo i pantaloni e lo stendo sulla scrivania, nella solita posizione. Mi inginocchio dietro di lui e incomincio a mordere questo grosso culo peloso. Poi uso la lingua. Mi piace un casino morderlo e leccarlo. Mi piace questo culo, come mi piace il suo cazzo. Non sono innamorato di Tobia, ma il suo corpo mi fa impazzire.

Dopo aver lavorato un bel po’ sul culo, gli passo una seconda corda intorno al collo, con un nodo scorsoio. Stringo un pochino, quel tanto che lui avverta la pressione. Poi gli metto un bavaglio rudimentale, mi infilo il preservativo e lo trafiggo, senza troppe cerimonie. Mi piace fotterlo, mi piace sentire i suoi grugniti, che il bavaglio attutisce senza spegnere, mi piace stringere il suo culo peloso tra le dita, mentre il mio cazzo affonda, fino a che i miei coglioni battono contro il suo culo. Mi piace ritrarmi e poi affondare di nuovo, mi piace guardare le sue mani legate dietro la schiena, le dita che si contraggono quando spingo più forte, quando esco da lui e poi lo infilzo con un colpo secco e lui emette un grido strozzato. Mi piace tirare un po’ la corda che gli stringe il collo (poco: non voglio certo fargli correre dei rischi), mi piace, quando poi gli tolgo il bavaglio, sentire gli improperi di cui mi copre. E poi mi piace impalarmi sul suo cazzo splendido.

Il piacere diventa sempre più forte. Sento che l’orgasmo è vicino e infatti arriva, come un’ondata che mi travolge. Spingo con forza e infine mi abbandono su di lui. Cazzo, che scopata!

Poi mi stacco, mi rivesto e scendo al piano di sotto a prendermi una cioccolata calda. A Tobia piace che lo lasci così, legato e imbavagliato.

Mi bevo la mia cioccolata, con calma. Di solito lascio passare almeno dieci minuti. Un giorno o l’altro porto la cioccolata nell’ufficio e gliela rovescio addosso, poi lo pulisco con la lingua. Mi sembra una bella idea. Quasi quasi… Ma sì, prendo una seconda cioccolata e salgo, ridacchiando.

Tobia è dove l’ho lasciato (difficile che se ne andasse in giro con le mani legate dietro la schiena e i pantaloni abbassati), ma mi basta uno sguardo per capire che c’è qualche cosa che non va. Intuisco, ma mi rifiuto di crederci. Faccio due passi avanti, mentre ho la sensazione di aver ricevuto una mazzata in testa.

Tobia ha gli occhi spalancati, ma ormai non vede più nulla. Il viso è congestionato e dalla bocca è colata della saliva, nonostante il bavaglio, dal naso un po’ di muco. La corda che io gli ho passato intorno al collo ora è stretta fino a penetrare nella carne. Tobia è stato strangolato. Sotto il ventre si allarga una pozza di piscio e alcune gocce colano a terra.

Lo guardo, completamente paralizzato.

A scuotermi è l’urlo della donna, che non ho nemmeno sentito arrivare. Sussulto. Il bicchiere con la cioccolata mi cade a terra.

Prendo il telefonino e faccio il numero della polizia, senza distogliere lo sguardo dal viso congestionato di Tobia. Comunico che il dottor Favagrossa è stato assassinato e do l’indirizzo. Poi chiudo la comunicazione e aspetto, immobile.

Mi rendo conto della mia situazione. È presto detta: sono fottuto. Tobia è legato con la mia cravatta, nel cestino c’è il preservativo con il mio seme, il suo culo ha i segni dei miei morsi (e della mia saliva). Sono l’unica persona qui dentro, a parte la donna delle pulizie che mi ha visto accanto a un cadavere ancora caldo. Mi volto. È addossata alla parete di fondo, che fissa il cadavere. Che diavolo ci fa qui, a quest’ora? Conosco gli orari dell’impresa e so che dovrebbe passare dopo: io e Tobia abbiamo sempre fatto molta attenzione a non farci sorprendere.

 

Sono passate tre ore. Ho già subito un breve interrogatorio, ma adesso si incomincia sul serio. L’ispettore Haber è un colosso, più alto di me, alquanto muscoloso, con lineamenti forti, barbuto anche lui come Tobia (ma con la barba corta). Mi chiede le generalità, poi attacca subito:

- Perché ha ucciso Tobia Favagrossa?

- Non l’ho ucciso io.

- Non è stato lei a legarlo?

So benissimo che non posso negare. L’unica via da percorrere è quella di dire tutta la verità. Tanto non ho nessuna possibilità di cavarmela in altro modo. Neanche dicendo la verità, probabilmente.

- Sì, l’ho legato io, d’accordo con lui. Abbiamo scopato, poi sono andato al primo piano a prendermi una cioccolata e quando sono tornato l’ho trovato morto.

- Non gli ha messo lei il cappio intorno al collo?

- Sì, l’ho messo io, ma non l’ho stretto io.

E mentre rispondo, mi dico che è tutto inutile, che nessuno può credermi.

- Perché è andato al primo piano?

- A prendermi una cioccolata.

- E io dovrei credere che lei ha legato Favagrossa, scopato con lui e poi se n’è andato a spasso, lasciandolo lì? Mi prende proprio per coglione?

- Lo facevamo sempre, tutte le volte che ci fermavamo. Gli piaceva che io me ne andassi, lasciandolo legato. Forse immaginava che magari non sarei tornato o che cazzo ne so io.

- E che ci faceva il venerdì pomeriggio in ufficio, quando ha timbrato il cartellino per uscire? Vi vedevate solo per scopare?

- No, cercavamo di chiarire certi ammanchi e varie manovre losche all’interno della SAG.

L’ispettore mi guarda, perplesso. Io dico:

- Ispettore, posso raccontarle tutto dall’inizio?

- Mi sembra un’ottima idea.

Incomincio dall’inizio e gli racconto tutto. L’ispettore mi ascolta. Mi interrompe solo ogni tanto, per chiedere qualche precisazione. Io sono fottuto, ma l’attenzione di quest’uomo mi rende un po’ di speranza. Non pretendo che mi creda sulla parola, ma se mi prende sul serio, indagherà. Per quanto riguarda gli ammanchi ci sono elementi sufficienti a confermare le mie parole. Sul resto… è meglio che non ci pensi ora.

 

Sono passati due giorni. Ho subito diversi interrogatori, ma nessuno davvero pesante. L’ispettore sta verificando le mie affermazioni e ovviamente trova conferme: non mi sono inventato niente. Non è stupido e incomincia a porsi qualche dubbio.

Intanto ho scoperto perché c’era una donna delle pulizie a quell’ora: la ditta ha cambiato gli orari per questioni organizzative.

Oggi Haber mi dice che avremo un incontro con il direttore generale della SAG. Mi conduce nel suo ufficio, dove già attende il dottor Rohmson.

Il direttore esordisce, in modo cortese:

- Dottor Rodi, l’ispettore mi ha autorizzato a porle alcune domande sulle irregolarità che il dottor Favagrossa e lei avrebbero rilevato.

Sono un po’ stupito: gli interrogatori di solito li fanno i poliziotti, non i direttori, ma in realtà l’ispettore non è in grado di capire se tutto quello che gli ho detto è vero. Ha bisogno della collaborazione della compagnia e il direttore generale è la persona più adatta.

- Sono a sua disposizione.

- La pregherei di dirmi in sintesi di che cosa si tratta.

- Ammanchi camuffati da operazioni finanziarie. Grosse somme stornate e registrate come perdite di investimenti, senza nessun fondamento.

- Operazioni di questo genere richiedono complicità ad alto livello.

- Esatto. È quanto pensava anche il dottor Favagrossa.

- Che però non mi ha mai parlato di questa faccenda.

- Io gli avevo accennato all’opportunità di parlargliene, visto che ormai le responsabilità apparivano piuttosto chiare, ma lui aveva deciso di aspettare, non sono in grado di dire il perché.

Il direttore appare perplesso. Io riprendo.

- Comunque non le sarà difficile verificare. Le faccio un quadro della situazione.

Fornisco al direttore una serie di riferimenti precisi. Ho sempre avuto una buona memoria e mi ricordo una quantità di dati più che sufficiente: anche se è uno che controlla le sue reazioni (e non potrebbe essere altrimenti, visto il livello che ha raggiunto), il direttore è chiaramente allibito. Lo ero anch’io: si parla di milioni di euro e di franchi svizzeri, non di spiccioli. Anche per un’azienda come la SAG non è poco.

Il direttore mi fa diverse domande: è uno che conosce il funzionamento della ditta e ha chiare le idee sui diversi settori. Ha capito benissimo che non posso essermi inventato il tutto, perché gli basteranno pochi controlli per verificare se ho mentito oppure ho detto la verità.

L’ispettore segue senza dire una parola. Solo quando dico che nel primo cassetto della scrivania di Favagrossa avevamo messo alcuni documenti importanti, interviene:

- Non c’era nulla nel primo cassetto della scrivania.

- Non è possibile, ho visto io stesso Tobia, il dottor Favagrossa, infilare i documenti e chiudere a chiave il cassetto. Qualcuno deve aver aperto il cassetto mentre io ero in giro.

Haber annuisce.

- Sì, l’ho pensato anch’io.

L’ispettore mi fa riaccompagnare nella cella.

 

Passano altri due giorni. L’ultimo interrogatorio è stato tutto centrato sulle mie attività sessuali con Tobia. Non so perché all’ispettore interessi sapere certi dettagli, ma ho risposto con assoluta sincerità: è la linea che ho scelto fin dall’inizio ed è l’unica che può dare frutti, visto che sono innocente. Ora lui sa tutto. Devo dire che Haber mi sembra ogni volta più rilassato: quest’ultimo interrogatorio sembrava quasi una conversazione amichevole (e molto sporcacciona). Lui non è parso per nulla stupito delle pratiche a cui ci dedicavamo io e Tobia e non mi sorprenderebbe se fosse anche lui della confraternita. Magari tiene il piede in due scarpe. La fede al dito non ce l’ha.

L’ispettore mi fa chiamare. Mi dice di accomodarmi e sorride:

- Credo che lei sia un uomo maledettamente fortunato, Rodi.

- Mi sta pigliando per il culo, ispettore?

- No, per niente.

- Sono in prigione per un omicidio che non ho commesso e dovrei ritenermi fortunato?

Haber ritorna serio.

- Sì, perché l’assassino ha sbagliato i suoi conti.

- Direi che li falsificava, più che sbagliarli.

- Non alludevo ai conti della società.

Lo guardo senza dire nulla, in attesa di una spiegazione.

- L’assassino doveva avere una piccola ferita alla mano e tirare una corda per stringere il nodo e strangolare un uomo richiede una certa forza e comporta uno sfregamento. Abbiamo trovato tracce di sangue su quella corda. E non è il suo.

Mi sembra che mi abbiano tolto un masso di dosso.

- L’avete identificato?

- Sì, Rodi. Non erano molte le persone che potevano avere interesse a uccidere il suo capo e i dati che lei ha fornito al direttore ci hanno permesso di individuare tre sospetti. In realtà siamo andati quasi a colpo sicuro.

- Chi è?

- Non dovrei dirglielo, ma un’ora fa ha confessato e domani si saprà: Adrien Loroux.

Non mi sorprende: Loroux è il dirigente di massimo livello tra quelli coinvolti nel giro di affari illeciti. Ma l’ispettore prosegue:

- Favagrossa lo ricattava.

Rimango allibito.

- Cosa?! Lo ricattava?

L’ispettore ride.

- Sì, il suo capo non voleva scovare gli imbroglioni per denunciarli, ma per ricattarli. Ha estorto a Loroux grosse somme e stava ricattando anche altri due funzionari. Direi che era un bel figlio di puttana, ma ha tirato troppo la corda.

In realtà la corda l’ha tirata Loroux, intorno al collo di Tobia, ma evito di dirlo. L’ispettore prosegue.

- Loroux è stato tanto coglione da prendere i documenti dal cassetto senza pensare che stava lasciando le impronte digitali sulla chiavetta. Sostiene di non aver premeditato l’omicidio, ma di aver colto l’occasione. Potrebbe essere vero: se fosse partito con l’idea di uccidere Favagrossa, e magari anche lei, avrebbe preso almeno un paio di guanti per assicurarsi di non lasciare impronte. Ha visto lei e Favagrossa scopare, ha atteso che lei uscisse e ha strangolato il suo ricattatore. Poi però era troppo agitato per riflettere e ha aperto il cassetto senza usare nemmeno un fazzoletto.

Annuisco. Adesso tutto è chiaro, ho capito anche perché Favagrossa non voleva parlare con il direttore generale. Quel figlio di puttana si è servito di me per i suoi sporchi giochini: mi ha usato, tenendomi buono con le scopate. Eppure mi spiace per lui. Quanto a Loroux, se non aveva previsto di ammazzare Tobia, capisco che fosse agitato. Ma non pensare alle impronte sulla chiavetta è stato un errore clamoroso. Buon per me.

Penso che sono libero. Ho perso il mio lavoro, ma almeno sono libero.

Quasi mi avesse letto in testa, l’ispettore aggiunge:

- Adesso è un uomo libero. Vede che ho ragione a dire che lei è stato fortunato.

Scuoto la testa.

- Non direi. Di sicuro ho perso il posto di lavoro.

- Lei pensa?

- Scopavo con il capo in ufficio.

- Fuori dall’orario di lavoro.

- Non credo che questo faccia molta differenza.

- No, ma non dimentichi che lei ha un sacco di informazioni molto riservate, su irregolarità e ammanchi, e di certo la società preferirebbe che non venisse fuori niente di più di quel poco, pochissimo, che dirà agli organi di informazione.

- Mi sta suggerendo un ricatto?

- Me ne guarderei bene. Ma credo che per un po’ potrà rimanere alla SAG e poi ottenere una buona liquidazione quando avrà trovato un’altra ditta. Un’ottima liquidazione.

Riflettendoci, capisco che ha ragione. La SAG mi tratterà con i guanti e risolveremo tutto in modo elegante, in stile svizzero (gli svizzeri hanno molto stile quando si tratta di soldi): un’ottima liquidazione e buone referenze, per trovare lavoro altrove. Mi sa che lascerò il Canton Ticino e tornerò in Italia.

- Grazie, ispettore.

- Ho fatto il mio lavoro. Ma in futuro forse farà meglio a non scopare in ufficio e a lasciare il bondage a qualcuno che sia più esperto di lei.

Aggrotto la fronte.

- Che intende dire?

- Quei nodi erano chiaramente fatti da un dilettante. Favagrossa avrebbe potuto liberarsi senza problemi, se avesse voluto. Solo che l’assassino non gliene ha lasciato il tempo.

Guardo l’ispettore. Ha dei bellissimi occhi verdi. E sta ghignando.

- Lei è un esperto di bondage, a quanto capisco.

Sorride.

- Glielo posso garantire.

Sorrido anch’io, ironico.

- Non so se devo fidarmi della sua parola, in mancanza di prove inconfutabili.

Il suo sorriso si allarga.

- Glielo posso provare. In modo inconfutabile.

- Perché no? Qui?

Scoppia a ridere.

- No, l’attrezzatura ce l’ho a casa mia. Qui non tengo corde, bavagli, catene, fruste e altri aggeggi. Tengo ben distinti il lavoro e lo svago. È più prudente.

- Fruste? Aveva parlato solo di bondage.

- Non ti interessa scoprire qualche campo inesplorato? Eppure non credo che tu abbia molti pregiudizi. Mi sembri aperto a nuove esperienze, Pierluigi.

- Pier, per favore.

- Va bene, Pier. Io sono Gunther. E domani sera smonto alle sei. Ho una splendida cella sotterranea nella mia villetta, l’ideale per legare e imbavagliare qualcuno, torturarlo un po’ e fotterlo alla grande. Che ne dici?

Annuisco.

- Potrebbe essere una buona occasione per scoprire come si fanno i nodi. Mi piace imparare cose nuove.

- Credo di potertene insegnare parecchie.

 

2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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