Il cugino Jean I - Tempesta Il giardino è spoglio.
Siamo ormai all’inizio di marzo e da vicino si potrebbero vedere le gemme prossime
a schiudersi, ma dalla finestra tutto sembra ancora dormire il lungo sonno
invernale. Quest’anno la primavera non vuole arrivare, il freddo regna
sovrano. Jean distoglie lo sguardo
dal giardino e lo abbassa sul disegno che ha appena ultimato. Lo osserva con
attenzione: il lupo in piedi a destra, con la camicia e la cintura,
appoggiato sul bastone; l’agnello in ginocchio, di fianco al torrente, con
una giacchetta, la scodella nella mano; dietro l’agnello, sullo sfondo,
qualche albero, per riempire lo spazio vuoto e conferire all’immagine
l’equilibrio necessario. La composizione è
armoniosa, il disegno di per sé è piacevole e risponde anche abbastanza allo
spirito della favola, ma quel lupo troppo umanizzato non lo convince. E
neppure l’agnello con la scodella. Che senso ha? No, anche questa soluzione
è da scartare. Jean sta ancora cercando
la strada. Procede per tentativi. È partito da un’umanizzazione completa dei
due personaggi: ha trasformato il lupo in un guardaboschi e l’agnello in una
bambina che raccoglie legna. Quella prima versione non funzionava, perciò ha
restituito ai due protagonisti della favola il loro aspetto animale, dando
loro una postura ed un abbigliamento in parte umani. Ma neanche questa
soluzione lo soddisfa, è artificiosa. Jean sbuffa. Forse incominciare da una
favola così nota è stata un’idea sbagliata. Troppi modelli con cui
confrontarsi, troppe idee ben radicate nelle teste dei lettori. È una gabbia,
da cui non è facile uscire. Farebbe meglio a scegliere
una delle favole meno conosciute, quelle che compaiono solo nelle edizioni
complete di No, in realtà la scelta di
partire da Il Lupo e l’agnello è sensata, se trova una soluzione
convincente per questa favola, potrà applicarla alle altre. O almeno ad
alcune, perché non è necessario che le illustrazioni siano tutte dello stesso
tipo. Talvolta un’umanizzazione dei personaggi animali può essere
convincente. Vedrà caso per caso. Il problema è un altro e
Jean lo sa benissimo. In questo periodo non ha la testa per mettersi a
disegnare. E la sua insoddisfazione lo rende incontentabile. Non si è mai accontentato
facilmente, nel suo lavoro, ma l’irrequietezza attuale ha un’origine diversa. Jean guarda di nuovo il
giardino: gli alberi sono sagome scure, un intrico di linee grigie e nere,
alcune più sottili, altre più spesse. Forme senza vita, che solo il vento
impetuoso sembra animare. Jean riabbassa il capo,
prende un altro foglio ed incomincia a disegnare un nuovo schizzo. Un lupo ed
un agnello realistici. Il lupo in alto, al centro dell’immagine, punto culminante,
verso cui corre lo sguardo, l’agnello più in basso a destra, quasi sotto il
lupo, che lo sovrasta. Jean traccia il muso dell’animale rivolto verso il
lupo, poi lo corregge, ma neppure la nuova versione lo soddisfa. Riprende la
matita, sbuffa di nuovo… Basta! Non ce la fa più a
continuare. Con un gesto impulsivo
prende il disegno e lo straccia. Non lo fa mai, ogni schizzo può contribuire
alla realizzazione della tavola finale, anche quando sarà eseguita in modo
del tutto diverso. Ma il suo nervosismo lo rende insofferente ed il non
riuscire a lavorare lo esaspera, peggiorando la situazione. Si alza di scatto,
spingendo indietro la sedia, che cade a terra. Jean si china e la rimette
a posto. Non è giornata, da tempo non
è giornata. Perché ha accettato quel lavoro? Perché è un bellissimo
lavoro, le Favole di Non è il lavoro che non lo
stimola abbastanza: è la presenza di un chiodo fisso nella sua testa che gli
impedisce di concentrarsi in quello che sta facendo. Inutile cercare di
disegnare in queste condizioni. Potrebbe riordinare
l’archivio. È parecchio tempo che deve farlo. Da quando ha finito l’edizione
di Shakespeare. Lo fa sempre al termine di un lavoro importante. Jean è
ordinato, meticoloso, ha la stessa attenzione ai dettagli nel tenere le sue
cose e nel disegnare le tavole. Ma l’archivio attende da
oltre due mesi, tutte le tavole dell’ultimo lavoro giacciono accumulate alla
rinfusa sui due ripiani inferiori dell’armadio. Jean apre le ante. Non sarebbe un lavoro molto lungo. Ma
anche questa volta alla vista del materiale da riordinare un senso di
scoramento lo assale. E poi sa benissimo che se
incominciasse a mettere in ordine, troverebbe la tavola di Romeo e
Giulietta in cui ha disegnato Mercuzio ed i diversi schizzi preparatori.
Il viso di Mercuzio non vuole rivederlo. Perché a Mercuzio Jean ha dato il
volto di André. Merda! Jean guarda il tavolo su
cui disegna, ma non se la sente di riprendere il lavoro. Potrebbe passeggiare in
giardino, in casa è una belva in gabbia. Ma anche il giardino gli sembra
troppo piccolo. Meglio uscire, andare a spasso. Camminare un po’ gli farà
bene. Il movimento lo aiuterà a disperdere i pensieri bui, come sempre
avviene. E lo spettacolo di Parigi lo distrarrà, magari gli fornirà uno
spunto per il lavoro. Jean ama molto camminare.
Spesso raggiunge a piedi il centro di Parigi dalla sua casa, situata a Passy,
ai margini della capitale. In pochi minuti è alla Senna e, passato il ponte
della Scuola militare, entra in città. Altre volte invece si dirige verso la
campagna, passeggia tra le vigne o costeggia il fiume. Questa volta attraversa Jean cerca di concentrarsi
sul lavoro delle Favole, che lo impegnerà per almeno un anno, sei mesi
per ognuno dei due volumi che deve preparare. Ritorna ai testi che conosce
meglio, pensa a possibili scelte. Osserva due persone che parlano, il profilo
di quell’operaio è davvero interessante, Jean ne fissa in testa le linee
principali, l’attaccatura del naso, la fronte bassa: potrebbe servirgli,
nelle Favole ci sono parecchi personaggi umani, anche se sono più
conosciuti i testi che hanno come protagonisti gli animali. Come sempre la sua mente
coglie ogni dettaglio curioso, ogni gioco di luci di questo pomeriggio
invernale in cui il vento freddo dell’Atlantico rende terso il cielo, ma il
sole non riesce a regalare calore. Del tutto perso nei suoi
pensieri e nelle sue osservazioni, non bada a dove sta andando. Ogni tanto un
pensiero disturbante si affaccia alla sua mente, ma Jean lo scaccia con
determinazione. Svolta a destra in una
strada, come tante. I suoi piedi procedono sicuri, loro sanno dove vanno. È la bottega del fabbro a
fargli capire. Quante volte ha visto l’insegna, di quel verde scuro, con le
scritte sbiadite, che pende un po’ di lato? D’istinto Jean alza gli
occhi verso il terzo piano, alla finestra della stanza di André. Come ha
potuto essere tanto coglione da non accorgersi che stava venendo proprio qui,
nell’ultimo luogo di Parigi in cui avrebbe voluto arrivare!? Merda! Guarda la finestra, con l’intelaiatura
scura, i vetri sporchi. L’ha fatto centinaia di volte. Ora non ha più senso
farlo: André non abita più lì. Questa non è più la casa di André. André è
tornato a Tolosa, alla sua provincia, quella da cui voleva fuggire a tutti i
costi, dove giurava che non sarebbe mai tornato. Lo aspetta un buon
matrimonio, una carriera sicura nello studio del suocero, un brillante
avvenire di avvocato. Merda! André ha fatto quanto
doveva, deve pensare al suo futuro, rimanere a Parigi non aveva senso. André
non ha il talento per emergere nella giungla di Parigi, non ha neanche il
pelo sullo stomaco necessario: starebbe a galla a fatica, con il rischio di
essere travolto da un’ondata più grande. Sono alte le onde della vita
parigina, ci vuole uno scafo solido e parecchia esperienza per non rischiare
il naufragio. André navigherà meglio in qualche stagno di provincia, dove il
suocero gli assicurerà venti favorevoli. Jean sa vedere con
precisione i pregi ed i limiti dell’uomo che ha amato. Amato? Amato è troppo.
Jean ha amato un’unica volta nella sua vita. Ormai non è più capace di amare,
ma il pensiero di André ha accompagnato le sue giornate per due anni. Gli ha
voluto realmente bene. Non hanno diviso la stessa casa, ma si sono visti
regolarmente. Per la prima volta Jean ha avuto accanto a sé qualcuno, non il
compagno di poche ore in una pensione di quart’ordine. Si è quasi illuso di
essere amato. Essere amato! Povero
coglione! Come se lo specchio non parlasse chiaro: chi potrebbe amarlo, con
la faccia che si ritrova? Comunque ci ha pensato André a togliergli ogni
illusione. Sabato, poche settimane
fa, si sono incontrati per l’ultima volta. Si sono amati, in quel gioco dei
loro corpi che inebriava Jean. Ed anche André, perché tra le sue braccia
André ogni volta gridava il piacere che lo sconquassava. Quel sabato, dopo l’amore,
Jean ha stretto André tra le sue braccia, gli ha baciato la nuca, i capelli
neri, la spalla. E le sue mani hanno percorso il viso di André, sentendo con
i polpastrelli per l’ultima volta, come per fissarli nella memoria, i tratti
del suo amante: la fronte alta, il naso diritto e largo, le labbra carnose,
il mento un po’ sfuggente, il collo corto, il torace quasi completamente
glabro, il ventre, il sesso. E quelle carezze segnavano un addio, pieno di
dolcezza. La tenerezza lo ha
sopraffatto e Jean ha sussurrato: - Mi mancherai, André. André sembrava
indifferente alle carezze, già entrato in una nuova dimensione in cui non
c’era posto per Jean. Non ha replicato. Si è sciolto dall’abbraccio, quasi
con fastidio, ed ha detto: - È ora che tu vada. Io
devo prepararmi. Jean si è sentito
ricacciato indietro, nella solitudine che lo ha accompagnato per tutta la
vita. Ed ora è di nuovo di
fronte a questa casa, sotto lo sguardo sospettoso della merciaia, che ha
sempre diffidato di quest’uomo non più giovane. Non ha mai davvero creduto
che Jean fosse il cugino di André. Jean si volta, di scatto,
e si allontana. Cammina a passo veloce, come trascinato via dal turbinio dei
suoi pensieri. Sente l’angoscia che lo azzanna, mentre la luce svanisce. Il
vento impetuoso gli sbatte in faccia troppi ricordi a lungo respinti, che ora
si affacciano, si fanno avanti, come se trovassero aperta una porta. Ricordi
di morte e di sofferenza. I morti ritornano e chiamano Jean. Jean accelera ancora il
passo, vuole scappare da quella casa, da quei pensieri, dall’angoscia che
preme. Non sa dove va, sa solo che sta fuggendo, ma i fantasmi che gridano il
suo nome sono ovunque. Jean barcolla, si ferma un momento, stordito. Poi
riprende a camminare, senza sapere dove sta andando. La sera è scesa ed il
vento sembra volerlo fermare, con un turbinio di rimpianti, rimorsi e sogni
svaniti, ma Jean gli cammina contro, furente. Non vuole cedere, vuole
andarsene. Da dove, non saprebbe dirlo, ma ora procede quasi di corsa, sta
sudando, nonostante il freddo. In via Duphot stanno
demolendo una casa. Ci sono parecchie macerie. Non si può procedere lungo il
muro, bisogna passare quasi in mezzo alla strada. Jean si sposta, avanza,
sempre in lotta contro il vento ed i suoi pensieri. Superati i detriti, non
ritorna lungo il muro. Continua a camminare quasi al centro della strada. Una carrozza sta arrivando
dal fondo della via. Il cocchiere incita i cavalli, il passeggero deve avere
fretta. Dall’altro lato della strada, proprio vicino al punto in cui si trova
Jean, un’altra carrozza si è appena fermata, per far scendere una donna, non
più giovane, con un abito troppo vistoso per la sua età. La carrozza sembra precipitarsi
su di lui, non c’è spazio per una manovra. Jean deve spostarsi, altrimenti
sarà travolto. Jean guarda il muso dei cavalli, uno nero, l’altro chiaro, con
una macchia scura vicino agli occhi, le zampe che corrono veloci. Il
cocchiere inveisce, urla qualche cosa che Jean non vuole sentire. Fissa
paralizzato la vettura, incapace di muoversi. La carrozza è davanti a
lui, il guidatore cerca di trattenere i cavalli, ma è troppo tardi. Un urlo
di donna. Un avvertimento. L’imprecazione del cocchiere. Improvvisamente Jean si
sente afferrare e sollevare. La carrozza lo sfiora e prosegue la sua corsa.
Il cocchiere bestemmia e sprona di nuovo i cavalli. Di colpo Jean si sente
esausto. Gli sembra che le gambe non lo reggano. Si appoggia al braccio
dell’uomo che lo ha salvato. Lo guarda, ma non può vederne i tratti: indossa
una maschera ed un costume, probabilmente si reca al ballo di Carnevale,
all’Opera. È basso e tarchiato e deve avere una forza erculea, perché Jean è
più alto di lui e pesa ottanta chili. - Intendeva ammazzarsi? La voce dell’uomo è aspra. Jean prova vergogna. Ha
fatto una stupidaggine. - No, mi scusi. L’uomo lo fissa, senza
dire nulla. Poi scuote le spalle. Jean toglie la mano dal suo braccio.
Vorrebbe dire qualche cosa, ma l’uomo riprende a camminare, senza più badare
a lui. Effettivamente si sta dirigendo verso l’Opera. Jean rimane fermo. Alcuni
passanti lo osservano, devono aver assistito alla scena. Jean vuole sottrarsi
ai loro sguardi, riprende a muoversi, camminando rasente al muro, ma si rende
conto che le gambe non lo reggono, ha bisogno di sedersi. Entra in un caffè,
il primo che trova, un locale dove non è mai stato e si fa portare un
bicchiere di cognac. Cerca di calmarsi. Rimane a fissare nel vuoto, a lungo. È stato pazzo. Quello che
ha fatto non ha nessun senso. Quell’uomo gli ha salvato la vita e lui non
l’ha nemmeno ringraziato! Che coglione! Voleva farsi ammazzare, forse? Per
che cosa, poi? Ordina un secondo
bicchiere. E poi pensa che è a digiuno. Vuole ubriacarsi, adesso? Ci manca
solo questa. Jean paga e si alza, lasciando sul tavolo il bicchiere ancora
pieno. Ferma una carrozza e si fa portare a casa. È meglio che per oggi non
si muova più. Di stupidaggini ne ha già fatte abbastanza. È notte. Jean ha mangiato
poco, provocando il malumore di Marie-Anne. La cena era eccellente, come al
solito, ma Jean non ha appetito. Ora è steso sul letto,
ancora vestito, al buio. Lascia che la mente vaghi, ripensa alla giornata appena
trascorsa, si dice che dev’essere impazzito. Ha bisogno di cambiare aria, di
lasciarsi Parigi ed il pensiero di André alle spalle. Potrebbe andare in
Provenza o magari in Italia, ma di mettersi in viaggio non ha proprio voglia.
E poi non è il momento: ha un grosso lavoro da avviare e gli sembrerebbe di
sprecare le sue giornate. Non è il tipo da rimandare gli impegni, ha bisogno
di essere sempre un po’ in anticipo rispetto ai tempi che si dà. Per un
perfezionista come lui, avere una scadenza ravvicinata è impensabile: non
accetterebbe di dare alle stampe una sola tavola senza esserne pienamente
convinto. D’altronde, solo il lavoro
può aiutarlo a superare questo momento nero: se non avesse le illustrazioni
da preparare, finirebbe per passare le giornate a rimuginare ed a rivangare
il passato. Ma ha un compito da svolgere e il portarlo avanti assorbirà
interamente le sue energie: Jean si dedica al lavoro con una passione ed una
meticolosità che lo hanno reso uno degli illustratori più quotati in Francia,
senz'altro il più famoso tra coloro che non si dedicano alla caricatura. Disegnare è sempre stata
la sua passione: ancora ragazzo, negli anni difficili che sono seguiti alla
morte di suo padre ed al secondo matrimonio di sua madre, ha trovato nel
disegno un rifugio e, benché sia passato molto tempo, il lavoro è ancora la
sua ragione di vita, oltre ad essere una fonte di soddisfazioni e di
guadagno. Non avrebbe bisogno di denaro: suo padre gliene ha lasciato
abbastanza per vivere di rendita. Ma senza il lavoro di illustratore la sua
vita sarebbe vuota. Jean si dice che deve
andare via da Parigi, ma poter continuare a lavorare. La soluzione è una
sola: la sua casa di Chaumont, la cittadina in cui è nato. Ci va ogni anno a
trascorrervi i mesi estivi. La casa che ha ereditato è un po’ fuori città, in
mezzo al verde, e domina un buon tratto della valle. Il luogo ideale per
disegnare in tranquillità. Quest’anno anticiperà la partenza, vorrà dire che
starà più a lungo. Ha alcune faccende in sospeso, ma in capo a due settimane
potrà allontanarsi e lasciarsi alle spalle André e i ricordi. Sì, le faccende
da sbrigare e i preparativi del viaggio gli permetteranno di tenere la mente
occupata per il tempo che manca. In questi giorni può predisporre anche lo
schema delle favole che gli serve per organizzare il suo lavoro. E a fine
mese, al massimo all’inizio di aprile, partirà per Chaumont. A sua madre farà piacere
vederlo tornare un po’ prima a Chaumont. Quanto agli altri parenti, non ci
tiene proprio a vederli. I suoi rapporti con il patrigno si riducono ad un
consensuale evitarsi il più possibile: solo qualche festa di famiglia, un
matrimonio o un battesimo, può costringerli a vedersi. Suo zio è un emerito
imbecille ed il figlio maggiore ha preso tutto da lui. L’unico parente che
Jean apprezza davvero è il figlio minore dello zio, David: un ragazzo
intelligente e sensibile, che però ha sempre frequentato poco: tra di loro ci
sono oltre vent’anni di differenza. È a Parigi anche lui, ma Jean non ne ha
mai avuto notizie. Marie-Anne brontolerà. È abitudinaria, le dà fastidio ogni
cambiamento, ogni imprevisto. André gli diceva che Marie-Anne è la domestica,
ma fa da padrona. Non è vero, le decisioni le prende Jean, ma poi deve fare i
conti con lei. Va bene, mugugnerà e poi si adatterà, come sempre. Il pensiero gli
restituisce un po’ di tranquillità. Si alza, si avvicina alla finestra e la
spalanca. L’aria è molto fredda, ma a Jean non importa. Il vento ha spazzato
via le nubi e la notte è limpida. C’è uno spicchio di luna che illumina il
giardino. Jean sorride e richiude le
imposte. * Questa è la casa del
cugino Jean. David guarda la villetta, con l’ampio giardino. Non ci è mai
stato fino ad ora. Anche se sono cugini primi, li separano almeno vent’anni e
non hanno mai avuto molte occasioni di frequentarsi: quando David è nato,
Jean risiedeva da tempo a Parigi, anche se si recava spesso a Chaumont. Jean è sempre stato molto
gentile con lui e David sa che è un uomo ricco e generoso, ma ora prova un
violento desiderio di fuggire via. Un’altra umiliazione lo attende, anche se
il cugino non gli farà certo pesare l’aiuto che gli darà. Forse, se riuscirà
a parlargli dei suoi problemi, Jean potrà in qualche modo dargli una mano,
intercedendo presso suo padre. Il cugino è un disegnatore famoso, magari
potrebbe indicargli come pubblicare i racconti: in questo caso non avrebbe
più bisogno del denaro di suo padre. Un’umiliazione in meno. David si dice
che sta correndo con la fantasia, mentre deve rimanere con i piedi ben
piantati a terra. Ma Jean è davvero generoso, questo lo dicono tutti. David respira a fondo, si
avvicina al cancello e scuote la campanella. Nessuno appare sulla
soglia. Soltanto adesso David nota che le finestre sono quasi tutte chiuse.
Si sente perduto. Il cugino torna a Chaumont tra maggio e giugno, non può
essere partito adesso, che siamo solo all’inizio di aprile. E se fosse in
viaggio? David rabbrividisce. Agita nuovamente il batacchio. Gli sembra che
il tintinnio risuoni cupo, come una campana a martello. Nessuna risposta. David appoggia la fronte
all’inferriata. Chiude gli occhi, mentre gli pare di sprofondare. La voce lo scuote: - Che cosa desidera? Davanti a lui c’è un uomo,
un inserviente, che lo guarda con diffidenza. David intravede un barlume di
speranza. - Buongiorno, sono David
Guyère, il cugino del signor Jean. Vorrei parlare con lui. L’uomo annuisce, anche se
nei suoi occhi c’è ancora una traccia di sospetto. - Il signor Guyère è a
Chaumont. È partito ieri. Io sono il giardiniere. A David pare che davanti
ai suoi occhi sia sceso un velo. Annuisce. Con fatica trova le parole per
ringraziare. Si allontana. Gli sembra di sentire lo sguardo dell’uomo su di
sé. Il destino si è divertito
un’altra volta alle sue spalle, giocando con lui come il gatto con il topo.
Ieri! Non rimane molto da fare.
Daniel lo ospiterà per la notte, perché nella camera in cui viveva non può
tornare: la padrona ha già accettato controvoglia i pochi mobili in cambio
dell’affitto non pagato e di certo non gli permetterà di fermarsi ancora una
sera. Domani mattina presto partirà per Chaumont, a piedi: non può
permettersi un posto in carrozza, ha a mala pena i soldi necessari per
comprarsi un po’ di pane lungo la strada. Quanti giorni di cammino lo
attendono? Dove troverà alloggio? E che accoglienza gli riserverà suo padre? David alza le spalle. Non
ha altre scelte. Potrebbe chiedere un prestito a quei pochi amici che ha, ma
sono tutti poveri come lui ed anche se riuscissero a dargli qualche
spicciolo, David sa benissimo che non potrebbe rimborsarli. Non vuole
togliere il pane di bocca a chi fa già tanta fatica a procurarselo. A Jean
poteva chiedere un aiuto, il cugino è ricco. |