Terapia

 

Schiavo9

 

Arrivo alle otto in laboratorio e consegno il lavoro.

- Ecco qui, professore. Tutti i dati con le schede di analisi.

Il professor Freebody sorride, scuotendo la testa.

- Wolf, mi chiedo come abbia fatto. Tutto questo lavoro in così poco tempo. Ho visto gli altri materiali: sono perfetti.

Il suo elogio mi fa un immenso piacere. Ho grande stima di lui, come scienziato e anche come persona. Perciò tengo moltissimo al suo giudizio e ho cercato di svolgere il mio compito nel modo più preciso possibile.

- Ormai non mancava più molto. L’ho finito questa mattina prima di venire qui.

- A che ora si è alzato? Alle cinque?

- Più o meno.

Sto mentendo: mi sono alzato alle tre. Sono due mesi che mi alzo alle tre e lavoro fino alle sette e mezzo, mangiando un boccone alla scrivania. Poi vengo in laboratorio e trascorro l’intera giornata proseguendo con gli esperimenti o discutendo dei risultati con Freebody e gli altri. Nel tardo pomeriggio smonto, torno a casa, lavoro ancora, di solito fin verso le undici, quando vado a dormire. Mi interrompo solo per fare qualche esercizio fisico.

Mi sono gettato in questo lavoro a capofitto, come mi getto in tutto. Mi trovo bene nel laboratorio, il professore è un genio e, a differenza di altri grandi scienziati che ho incontrato, è un uomo cordiale e profondamente buono. Sono felice di contribuire agli studi che sta conducendo.

Adesso però ho concluso la mia parte. Il professore potrà completare la relazione che presenterà al convegno di Copenaghen e che di certo farà scalpore: gli esperimenti condotti aprono davvero nuove prospettive per gli studi di neurobiologia.

- Non vuole prendersi una giornata di vacanza, Wolf?

- No, no, sistemo un po’ di cose in laboratorio.

- Benissimo. Adesso guardo il suo materiale e oggi pomeriggio ne parliamo.

- D’accordo.

In laboratorio non ho molto da fare, ma negli ultimi giorni, particolarmente frenetici, si è accumulato un certo disordine. Mettere in ordine sarà piacevole e rilassante.

Incomincio con slancio, poi rallento. Ora che non ho più nessun lavoro urgente da svolgere, la stanchezza degli ultimi mesi sta venendo fuori. A metà mattinata mi rendo conto che ho combinato pochissimo e che ho sbagliato nel mettere a posto alcune cartelle. Le tiro fuori, per controllare i titoli. Mi sento stanco, come se avessi lavorato intensamente tutto il giorno, mentre non sono nemmeno due ore che sto riordinando.

Mentre guardo le cartelle, le scritte incominciano a ondeggiare paurosamente. Poi tutto scompare.

 

Mi sveglio disteso su un lettino. Il dottor Stormhell mi sta auscultando.

Il dottore è il medico del centro di ricerca. Lavora nell’ospedale con cui il centro di ricerca ha una convenzione. Stormhell viene da noi una volta la settimana per le visite di controllo, a cui dobbiamo sottoporci tutti, con scadenze diverse. Noi dei laboratori biologici non corriamo particolari rischi, ma in altri laboratori si maneggiano sostanze pericolose, perciò ci sono periodicamente visite mediche e alcuni devono anche effettuare esami in ospedale.

Per combinazione oggi è mercoledì, il giorno in cui Stormhell è da noi, ed evidentemente mi hanno portato subito da lui.

- Come si sente, Wolf?

Sorrido e cerco di alzarmi, ma una mano di Stormhell mi blocca.

- Bene, è stato solo un malessere passeggero.

Anche lui sorride, ma la voce è molto decisa mentre dice:

- Che cos’è, glielo dirò io, dopo che ho finito la visita. Lei è un biologo, il medico sono io. 

- Ma non è niente di grave.

Stormhell ignora la mia obiezione e incomincia a chiedere:

- Lei ha svolto un grande lavoro in questi ultimi mesi, vero?

- Ma sì, volevamo completare una ricerca per il congresso di Copenaghen. Il professor Freebody ha fatto una scoperta molto importante e…

- Quante ore per notte dorme in questo periodo?

Mento:

- Cinque o sei.

- No, non sarebbe in queste condizioni. Lei sta mentendo, Wolf.

Mi prende del tutto in contropiede. Non mi aspettavo che la mia menzogna venisse scoperta. E l’espressione “In queste condizioni” mi inquieta un po’.

- Forse un po’ di meno.

- Diciamo tre o quattro al massimo.

- Quattro di sicuro, dottore.

- E tutto il resto del tempo lavora. E magari mangia di corsa, per non perdere tempo prezioso.

Non so come ci sia arrivato. So che è considerato un ottimo medico, con un raro talento diagnostico. E incomincio a sospettare che sappia leggere dentro le persone.

- Qualche volta…

- E ha sempre lavorato anche il sabato e la domenica.

- No, qualche domenica sono andato in giro con la moto.

Negli ultimi mesi i miei giri domenicali con la moto si sono ridotti a un massimo di due ore, mentre una volta passavo l’intero fine settimana girando lo stato di Washington, l’Oregon e il Canada sulle due ruote.

- Pochissimo, non più di un’ora o due.

A questo punto mi rendo conto che è inutile mentirgli. Taccio. Stormhell fa ancora una serie di controlli e poi mi dice:

- Non so per quali motivi lei voglia ammazzarsi, Wolf. Ma adesso lei se ne va a casa. Come primo passo della terapia dorme per tre giorni e poi va in vacanza. Non rimette piede nel laboratorio prima del 15 maggio. Chiaro?

- Ma…

Non mi lascia neppure iniziare la frase.

- Non ci sono ma. Cerchi di mangiare regolarmente a colazione, pranzo e cena. E sia un po’ cauto nel riprendere l’attività fisica: dopo un periodo in cui ha fatto poco, non è il caso di esagerare. Non si stordisca con gli esercizi, dopo essersi stordito con le ricerche.

Rimango senza parole e mi sento anche un po’ inquieto. Stormhell sembra aver capito un po’ troppe cose di me.

Aggiunge ancora:

- E non faccia uso di droghe, per nessun motivo.

Scuoto la testa, infastidito:

- Non ho mai…

- Lo so che non ne ha mai prese. Non incominci adesso, in questa situazione potrebbe esserle fatale.

Ottenuto infine il permesso di andarmene, ritorno in laboratorio, alquanto innervosito. La segretaria mi dice che Freebody è occupato al telefono, per cui devo attendere. Quando infine Freebody ha finito, mi fa accomodare. Il dottore mi sembra alquanto scosso. Gli chiedo se c’è qualche cosa che non va: anche se io sono solo uno dei ricercatori e lui il capo del laboratorio e una delle massime autorità mondiali nel settore della neurobiologia, abbiamo un buon rapporto.

Freebody respira a fondo e dice:

- Ho appena finito di parlare con il dottor Stormhell. Ho preso la peggiore lavata di capo della mia vita.

Lo guardo, allibito.

- Ma perché… che cosa…

- Mi spiace, Wolf, non era mia intenzione in nessun modo metterla sotto pressione come è avvenuto. Non ho saputo valutare la situazione. Adesso lei si prende le tre settimane di vacanza di cui ha bisogno e poi ne riparliamo. Mi scusi, Wolf, non…

A questo punto sono ancora più irritato e lo interrompo.

- Ma perché si scusa, professore? Non è mica colpa sua.

- Lo è, Wolf. In quanto responsabile del laboratorio devo saper vedere ciò che succede ed evitare che un ricercatore si ammazzi di lavoro. Mi sarebbe bastato guardarla in faccia per capire quanto era stanco.

Faccio per obiettare, ma lui mi blocca con un gesto.

- Lei è il miglior ricercatore che io abbia visto in questo laboratorio e sono sicuro che farà strada. E non è una questione di impegno, che da solo non basta mai: lei ha una grande intelligenza, una notevole dose di intuito e una rara capacità di sintesi. E dato che tengo moltissimo a non perderla, adesso va a casa e ci rivediamo tra tre settimane.

- Ma dobbiamo discutere dei risultati…

Di nuovo mi interrompe.

- Se ci saranno problemi, la contatterò, ma lei lavora qui da abbastanza tempo e so benissimo che non ci saranno problemi. Abbia cura di lei, Wolf. Ci tengo a ritrovarla in perfetta forma tra tre settimane. Mi sentirei in colpa se non fosse così.

Adesso sono ancora più sbalestrato e irritato di prima.

 

Torno a casa, rimuginando su quanto è successo. Decido di mettere un po’ di ordine nel caos che si è creato in questi mesi di lavoro frenetico, ma dopo venti minuti incomincio ad avvertire il sonno: mi dico che evidentemente mettere in ordine mi affatica di più del lavoro. Decido di stendermi une mezz’oretta. Guardo l’orologio prima di chiudere gli occhi. Sono quasi le due. Mi addormento immediatamente.

Quando mi sveglio, l’orologio segna le due e un quarto. Ma la camera è immersa nel buio. È notte fonda. Ho dormito dodici ore di seguito. Vado alla finestra: mi sembra incredibile che sia davvero notte. La strada è deserta. Dopo un momento vedo un’auto passare.

Ho fame. Mi vengono in mente le parole di Stormhell sui pasti regolari. Ho saltato pranzo e cena. Adesso mangerò alle due di notte. Pasti regolari!

Apro il frigo, ma è desolatamente vuoto. Prendo la bottiglia del latte e me ne verso un bicchiere. Bevo.

Decido di stendermi ancora un momento.

Mi risveglio dopo le otto. Ho dormito altre sei ore. Diciotto ore di sonno! Non è possibile, ma è così.

Adesso mi sento bene. Non ho molto per la colazione: da parecchio tempo mangio due biscotti insieme al latte e nient’altro. Oggi però posso andare a fare colazione a un caffè che si trova a dieci minuti di strada: non ho da lavorare.

L’aria fresca del mattino e la prospettiva di una buona colazione stimolano il mio appetito. Arrivo con la classica fame da lupo, d’altronde l’ultimo pasto è stata la misera colazione di più di ventiquattro ore fa.

Mangio in abbondanza, poi faccio un lungo giro per tornare a casa. Ritrovo il piacere di camminare, che avevo completamente perso negli ultimi mesi. Faccio la spesa e intanto mi torna in mente Stormhell e il suo consiglio (o il suo ordine? È una prescrizione medica, fa parte della terapia): dovrei andare in vacanza. Ci penserò su, ma l’idea di prendere la moto e andare in giro lungo la costa mi stuzzica alquanto. La moto e le camminate sono sempre state le mie passioni, ma negli ultimi mesi le ho trascurate.

Decido anche di riprendere ad allenarmi, ma, memore dei consigli di Stormhell, lo faccio con cautela. Scopro che aveva ragione: mi affatico in fretta. Per troppo tempo ho fatto pochissimo e adesso ne risento.

Rimango a Seattle una settimana, facendo ogni giorno una lunga passeggiata e un giro in moto nei dintorni e andando in palestra. Dormo moltissimo: anche dieci ore per notte. Cerco di mangiare regolarmente. Penso che Stormhell sarebbe contento di me: sto seguendo puntualmente la sua terapia. Devo confessare che l’immagine del dottore mi torna spesso in mente: anche se il colloquio con lui sul momento mi ha infastidito, ripensandoci devo ammettere che aveva ragione.

Adesso seguo la sua terapia con lo stesso slancio in cui mi butto in tutto. Dai diciotto anni in poi ho incominciato a gettarmi a capofitto nelle attività, fossero lo studio, la moto, gli esercizi fisici, il lavoro. Ho perso il senso del limite. Capisco benissimo l’avvertimento di Stormhell sulle droghe: se incominciassi a farne uso con la stessa frenesia con cui mi dedico a ogni attività, farei una pessima fine molto in fretta.

Per diversi anni mi sono dedicato con grande impegno agli studi e poi al lavoro e ho trascorso gran parte del tempo che mi rimaneva andando in moto e facendo attività fisica. Sembra quasi che io abbia paura di rimanere inoperoso anche solo per mezz’ora.

So che il mio dinamismo frenetico è un modo per stordirmi e dimenticare ciò che non funziona nella mia vita. Che poi è il binomio sesso-sentimenti. A trent’anni compiuti sono ancora vergine. Non mi sono mai avvicinato a un uomo. I miei vaghi amori sono stati tutti platonici, a rigorosa distanza di sicurezza e già solo per questo senza speranza. 

 

Intanto incomincio a pensare alla mia vacanza. Saranno due settimane in moto, su questo non ho dubbi. Molte volte sono andato in giro in moto, anche prima di avere un lavoro fisso. Mi piace moltissimo.

Dove andare?

È maggio, ma a Seattle fa ancora freddo e sulle montagne quest’anno è scesa molta neve. Andrò verso sud, in California, viaggiando lungo la Interstate 5. Girerò da solo, come sempre, ma magari mi capiterà di fare amicizia con altri motociclisti. Sono piuttosto timido con gli estranei, ma quando sono in moto questa timidezza scompare. I miei lunghi giri in moto mi hanno abituato a familiarizzare con altri centauri. 

 

*

 

La sensazione di libertà è bellissima. Man mano che scendo verso sud, il clima diventa più caldo. A Seattle la primavera sembra agli inizi, in California pare sia estate.

Percorro la I-5, poi la lascio per raggiungere la costa: conto di prendere il sole e bagnarmi.

Il sabato cerco un angolo di costa tranquillo per un buon bagno, lontano dalle località affollate. Trovo una strada sterrata che scende verso il mare. La percorro in moto fino a quando termina in un piccolo slargo. Non c’è nessuno. Perfetto!

Scendo a piedi fino alla riva. Mi spoglio e nascondo i miei abiti tra i cespugli. Poi mi tuffo. L’acqua è fredda, ma nuotare mi piace moltissimo e mantenendo un buon ritmo non sento il freddo. Nuoto a lungo, badando solo di non allontanarmi troppo dalla costa: sono un ottimo nuotatore, ma so che ci possono essere correnti pericolose, che ti trascinano lontano in fretta.

Quando infine esco, riprendo gli abiti e risalgo fino allo spiazzo. Mi tolgo il costume e mi stendo: mi piace prendere il sole nudo. È una giornata calda e si sta benissimo.

So che rischio di scottarmi, per cui non rimarrò a lungo al sole. Ma il posto è bellissimo, per cui conto di fermarmi qui, un po’ al sole e un po’ all’ombra. Mi spiace soltanto di non aver portato molto da mangiare: ho solo un po’ di biscotti.

Improvvisamente sento il rombo di altre moto che si avvicinano: qualcuno deve aver preso la stradina in terra battuta che ho percorso io. Mi alzo per rivestirmi: in California ci sono parecchi hippy ed è frequente incontrare uomini e anche donne che prendono il sole nudi in spiagge isolate, ma non voglio farmi sorprendere in costume adamitico da gente a cui potrebbe dare fastidio.

Non faccio in tempo a rivestirmi: compaiono diverse moto, quasi tutte Harley Davidson. Mi accorgo con sgomento che sono Hells Angels: i capelli lunghi, le barbe, i numerosi tatuaggi, tra cui quello con il rombo e la scritta 1%, non lasciano dubbi. Di questa grande banda di motociclisti si parla molto. Sono molto aggressivi e violenti e spesso si scontrano con altre bande. Questi sono in sei, tutti forti e massicci. Mi sembrano militari. Alcuni possono aver combattuto in Vietnam e il più anziano potrebbe essere stato un soldato nella seconda guerra mondiale.

Mentre mi infilo le mutande e i pantaloni, loro fermano le moto e scendono, fissandomi. Li saluto cordialmente, ma sono spaventato. Vedo che hanno i coltelli. Il più anziano mi chiede:

- Che cazzo ci fai tu qui?

Io sorrido e dico:

- Ho fatto un bagno. E adesso prendevo un po’ di sole.

Colgono subito dall’accento che non sono statunitense.

- Da dove cazzo vieni?

- Da Seattle, lavoro lì da tre anni, ma sono inglese.

- Inglese, eh?! Ecco perché hai una moto del cazzo.

Dire a un motociclista che ha una moto del cazzo è un’offesa mortale, ma loro sono in sei, armati e con una pessima fama. La prendo sul ridere.

- Ehi, ma ti sembra il caso? La mia povera Triumph Bonneville è un po’ vecchiotta, ma…

Mi interrompono:

- Un po’ vecchiotta? Puoi metterla al museo, ‘sta moto del cazzo!

- Ma va ancora avanti?

Mi avvicino alla moto, la accarezzo e dico:

- Non te la prendere, piccola.

Ridono. Mi sento un po’ sollevato, ma so che la situazione è ancora a rischio. Vorrei potermene andare, ma temo la loro reazione: la preda che fugge scatena l’istinto del cacciatore.

Uno chiede:

- Com’è l’acqua?

- Fredda, ma nuotando non te ne accorgi.

- Ci facciamo una nuotata, ragazzi?

Decidono di immergersi. Mi sembra un’ottima cosa. Così io potrò andarmene tranquillamente. Ma uno mi invita:

- Vieni anche tu.

Sembra quasi un ordine, anche se non c’è ostilità nella sua voce. Mi sembra più saggio acconsentire.

- Perché no?

Hanno incominciato a spogliarsi. Io vado a prendere il costume, che ho steso ad asciugare, ma uno mi dice:

- Il costume? Cazzo te ne fai?

Loro non hanno costume. Sono tutti nudi. Una serie di maschi formidabili, tutti con diversi tatuaggi. Quello che mi sembra essere il capo e un altro hanno cazzi massicci.

Lascio perdere il costume. Quando incominciano a scendere verso gli scogli, gli dico:

- Non conviene nascondere i soldi e le chiavi delle moto? Se arriva qualcuno a rubare…

Il capo ghigna e dice:

- Rubare a noi? Credi che qualcuno abbia i coglioni per farlo?

Annuisco. Hanno ragione. Non vorrei davvero avere questi sei inferociti alle calcagna.

Scendiamo in acqua. Sono tutti bravi nuotatori, ma io non sono da meno. In due ci spingiamo parecchio lontano, gli altri rimangono indietro. Quando torniamo mi rendo conto che mi sono guadagnato la loro stima. Non è una garanzia che non mi sbudelleranno, ma mi sento più rilassato.

Ci stendiamo sull’erba vicino alle moto. L’atmosfera è tranquilla. Mi chiedono come mai sono venuto negli Stati Uniti. Racconto dei miei studi di medicina e dell’offerta ricevuta dal centro di ricerca del professor Freebody.

- Allora sei un intellettuale del cazzo.

Ma non c’è cattiveria nel commento: con la nuotata ho ottenuto il loro rispetto. Poi la conversazione si allarga alla politica. Dire che sono conservatori non rende l’idea.

- Ford non ha i coglioni. 

- Neanche Nixon li aveva. Avrebbe dovuto sganciare qualche atomica su Hanoi, ma era solo una testa di cazzo.

Saigon è caduta l’anno scorso. Io evito di pronunciarmi: ho sempre considerato l’intervento statunitense in Vietnam una follia, ma non mi sembra il caso di dirlo qui. Scopro che due sono stati marines.

- Politici di merda. Ci hanno mandati a combattere, ma loro non avevano i coglioni per fare la guerra.

- Theo, ti ricordi quella volta che abbiamo beccato l’ufficiale vietcong?

Ride. Anche Theo ride e risponde:

- Catturare vivo un ufficiale è stato un colpo di culo. Ci siamo divertiti, eh, Dereck? Cazzo, ti ricordi come ci insultava mentre lo fottevamo? Fottuti insulti in qualche fottuta lingua del cazzo.

- Quando gli abbiamo tagliato i coglioni non ci insultava più. Urlava. Cazzo, se urlava!

Theo ride di nuovo. Io faccio finta di niente, ma mi sento sempre più a disagio. Vorrei solo essere lontano da qui, ma so che non posso andarmene adesso.

- E poi quel fottuto bastardo del sergente ci ha pure messo in punizione. Dovevamo portarlo vivo al comando. Poteva avere informazioni importanti. Che stronzo!

Mi rivoltano lo stomaco, ma bado a non lasciar trasparire niente di quello che provo.

I loro discorsi hanno almeno un effetto positivo: mi aiutano a distrarmi da quello che vedo. Questi maschi nudi e possenti mi attraggono. Mi impongo di guardare solo le loro facce. Non vorrei che mi diventasse duro: non so davvero che cosa potrebbe succedere se si accorgessero che il vederli mi eccita. Per fortuna a calmare i miei bollenti spiriti contribuiscono il disgusto che mi provocano i loro discorsi e la tensione per la situazione rischiosa in cui mi trovo.

Chi non si preoccupa certo di una possibile erezione sono invece loro: uno che si chiama Willie si accarezza il cazzo tranquillamente e adesso ce l’ha mezzo duro. Evito rigorosamente di guardare da quella parte.

A un certo punto però lui dice, guardandomi:

- Io ho voglia di fottere.

Mi sento gelare.

Per fortuna Gus, il capo, gli risponde:

- Un’altra volta, Willie. Adesso è ora di andare, ragazzi. Gli altri ci aspettano a Petaluma.

Willie bofonchia, ma anche lui si riveste come gli altri. Li guardo sorridendo. Mi riempio gli occhi dei loro corpi muscolosi, dei loro cazzi robusti, dei ventri e dei toraci villosi, dei tatuaggi. Non ho certo molte occasioni di vedere maschi nudi, a parte la palestra. E questi sono davvero notevoli.

Mi salutano e se ne vanno. Mi sento sollevato al vederli scomparire oltre la prima curva, ma ora il desiderio preme.

Mi allontano un po’ dalla moto, nascondendomi dove la vegetazione è più fitta. Ho preso con me pantaloni, soldi e chiavi: agli Hells Angels nessuno ruberebbe, ma a quel povero coglione del sottoscritto sì.

Mi appoggio contro un tronco e lentamente mi accarezzo mentre penso a quei magnifici maschi e al cazzo mezzo duro di Willie. Li immagino che mi circondano e mi ordinano di mettermi a quattro zampe. Non oppongo resistenza. Loro mi prendono, uno dopo l’altro, e, mentre me li vedo tutti intorno a me e Willie è steso su di me che mi fotte, vengo.

 

Rimango tutto il giorno nello stesso posto. Mangio i biscotti che ho con me. Non è proprio un pasto regolare, come dice Stormhell, ma sono sicuro che apprezzerebbe questa giornata di riposo e attività fisica: è la terapia che mi ha prescritto lui.

Nel pomeriggio faccio ancora una lunga nuotata.

Quando sono asciutto, mi rivesto e mi rimetto in moto. Raggiungo un motel per fermarmi la notte: potrei anche dormire all’aperto, in passato mi è capitato diverse volte di farlo, ma tutto sommato per oggi ho già corso abbastanza rischi.

Ceno in un locale di fianco al motel. Non c’è quasi nessuno. Il gestore mi chiede da dove vengo – anche lui ha colto il mio accento straniero – e se sono in vacanza. Gli dico che lavoro a Seattle e che ho preso un periodo di riposo. Chiacchieriamo un momento e gli racconto che mi fermo lungo la costa per bagnarmi e prendere un po’ il sole.

Lui scuote la testa e dice:

- Non dovresti. È pericoloso. Fa’ attenzione. La settimana scorsa hanno stuprato e sgozzato un motociclista, non lontano da qui.

- Cosa?

- Dicono che siano stati gli Hells Angels. C’è una banda che gira da queste parti. Sono cinque o sei. L’hanno violentato e poi gli hanno tagliato la gola. Pare che due di loro siano ex-marines sbattuti fuori dall’esercito.

Annuisco, incapace di parlare. Credo che siano stati proprio loro. Sono sfuggito alla morte per poco. Sarebbe bastata una risposta sbagliata, per fare la stessa fine di quel poveretto.

 

*

 

Alla fine della prima settimana arrivo a San Francisco. Ci sono già venuto due volte: è una città che mi piace molto, vivace e libera. Amo andare in moto per le strade che si arrampicano, guardare la gente che suona sui marciapiedi, passeggiare al Fisherman’s Wharf. 

So che a San Francisco ci sono molti gay e mi guardo intorno. Se però qualcuno mi fissa o mi fa un cenno, guardo subito dall’altra parte. Ho paura. Questa è la verità. So che ci sono locali gay in città. Ho sentito parlare del Twin Peaks e di altri posti in un quartiere che si chiama Castro. Lo raccontava ridendo uno dei ricercatori, qualche mese fa. Io non ho detto nulla, ma non mi perdevo una parola di quello che diceva.

Non oso chiedere dove si trova Castro, ma individuo l’area su una pianta della città e la raggiungo. Non vedo niente di particolare, a parte il fatto che diversi uomini mi fissano. Io distolgo lo sguardo e accelero il passo. Non combinerò mai nulla, lo so. Vorrei, ma non ce la faccio proprio.

La sera ritorno nel quartiere. Vedo due uomini lungo la strada. Uno è appoggiato al muro, a gambe larghe, l’altro è in piedi davanti a lui, tra le sue gambe. Sono vicinissimi, i loro ventri si toccano. Non capisco come abbiano il coraggio di farsi vedere in pubblico così. Mi sembra che tutti debbano accorgersi che sono amanti. Io non avrei mai il coraggio. Uno dei due ride, poi l’altro gli dice qualcosa. Quello contro il muro si stacca e passa un braccio intorno alla vita del compagno. Si incamminano. Li seguo per due isolati, tenendo la stessa andatura. Non riesco a distogliere lo sguardo da quel braccio che cinge la vita dell’altro. Poi li vedo entrare in un locale, sempre abbracciati.

Passando davanti al locale, lancio una rapida occhiata, ma non si vede niente. Invece più in là trovo il Twin Peaks, che ha grandi finestre non schermate. Guardo dentro. Ci sono tanti uomini che parlano tra di loro, alcuni con un atteggiamento inequivocabile. Mi chiedo come non abbiano paura di farsi vedere così. Chiunque passi per la strada può vederli. Vorrei trovare il coraggio di entrare, ma non ce la faccio, non ce la farò mai.

Mentre sto guardando, sento una voce che mi dice:

- Che ne diresti di entrare? Dai, andiamo!

Mi volto e guardo quest’uomo, che deve avere la mia età. È barbuto, ha una camicia da boscaiolo e mi sta sorridendo. Ha un sorriso cordiale e sembra una brava persona, ma io scuoto la testa e mi allontano senza dire una parola. Mi rendo conto di stare male.

Cammino senza meta, smarrito. Almeno due volte incontro uomini che mi fissano. Un terzo fa per avvicinarsi a me, ma io accelero il passo. Sto male.

Ritorno rapidamente alla moto. Mi siedo sul sellino. Chino la testa. Sono un vigliacco, lo so. E rimarrò solo per sempre. Ma non ce la faccio, non ce la faccio.

Metto in moto. Mi sembra di non essere mai stato tanto infelice.

Il giorno dopo lascio San Francisco. Ritorno verso nord. Evito l’area in cui ho incontrato il gruppetto degli Hells Angels. Mi è andata bene una volta, la seconda potrebbe non andare altrettanto bene, anche se adesso ci conosciamo. Basterebbe pochissimo per provocare uno scoppio di violenza, lo so.

Il tempo è benigno: prendo la pioggia poche volte. Mi bagno e nuoto a lungo, scorrazzo per le montagne, cammino nelle foreste. Man mano che passano i giorni, recupero un po’ di serenità. Ho accantonato i miei sogni impossibili. Sono pronto a rituffarmi nella realtà.

 

*

 

Freebody mi accoglie sorridente. È evidentemente contento di rivedermi e questo mi fa molto piacere.

- Vedo che sta bene, Wolf. Sono felice che si sia ripreso. La sua vacanza è andata bene?

- Sì, benissimo. Devo riconoscere che ne avevo bisogno. La terapia di Stormhell mi ha rigenerato e non vedo l’ora di parlare un po’ con lei dei risultati del lavoro, quando avrà tempo.

- Questa mattina stessa, dopo che sarà stato dal dottore.

- Da Stormhell? E perché?

- Mi ha proibito di farla riprendere a lavorare senza una sua visita preventiva. Credo che le abbia detto di rientrare il 15 maggio perché è di mercoledì e quindi c’è lui. Ci vada subito, così poi possiamo parlare. Il suo lavoro è stato determinante per i risultati della ricerca.

L’idea di tornare da Stormhell non mi piace, ma non ho alternative.

Stormhell mi vede e mi sorride. Ha un bel sorriso, che trasforma il suo viso severo.

- A vederla direi che la vacanza le ha fatto bene.

- Può dirlo, dottore. Questa volta non mi rimprovererà. Ho seguito la terapia che mi ha indicato.

- Mi fa molto piacere. Adesso facciamo i controlli.

I controlli sono i soliti. Stormhell sembra soddisfatto e infatti conclude la visita dicendo:

- Lei si è ripreso, perfettamente, Wolf. Ha un fisico robusto e una grande resistenza.

Poi aggiunge:

- Ma rimane un soggetto a rischio.

- Che cosa intende? Mi ha detto che è tutto a posto.

- Fisicamente lo è. Ma non ci vuole molto a ridursi come uno straccio riprendendo i ritmi di prima e lasciandosi andare.

- La ricerca a cui stavamo lavorando è conclusa e non credo che avremo modo di lavorare di nuovo a un ritmo così intenso.

- Se non è quello lei si troverà qualche cos’altro. Nel lavoro. Oppure con gli esercizi fisici, che, me lo lasci dire, oltre un certo limite sono sempre un danno. Oppure con la moto. Non lo so. Finché non smetterà di scappare…

- Scappare?

- Lei sta scappando, Wolf. Da tempo. Scappa da qualche cosa di sé che non accetta.

Mi manca il fiato. Stormhell ha capito un po’ troppe cose. Adesso quest’uomo mi spaventa.

Chino il capo, poi lo rialzo e gli chiedo:

- E che cosa dovrei fare, dottore, per uscire da questa situazione?

- Come medico generico posso solo consigliarle di parlare con uno psicologo. Non ho le competenze necessarie.

Chino di nuovo la testa. Non lo farò mai, lo so. Lui capisce.

- Non se la sente? La spaventa?

Annuisco, sempre più disorientato.

- Posso proporle un’altra strada, meno impegnativa. Se funziona potrebbe essere una terapia altrettanto risolutiva.

Lo guardo.

- Mi dica, dottore. Lo farò.

- Diciamo che venerdì sera alle 21.30 lei va al Sundowner. Guarda chi c’è al bancone e se c’è qualche uomo che le piace, gli si avvicina e gli si presenta, dicendogli: “Ciao, io sono Martin.”

Non sono sicuro di aver capito. O piuttosto, ho capito benissimo, ma non voglio crederci. “Se c’è qualche uomo che le piace”: l’espressione non lascia molto spazio a dubbi.

- Che cos’è il Sundowner?

- Un locale in Spring Street, al numero 27.

- E perché devo andarci venerdì?

- Perché c’è il Bang, la serata gay.

Incasso il colpo. C’è un momento di silenzio. Non so come abbia capito. Stormhell sta sorridendo e ogni traccia di durezza è scomparsa dal suo viso.

Guardo a terra, mentre gli dico, sinceramente:

- Non avrò mai il coraggio di farlo.

- Allora lo prenda come un ordine, una prescrizione medica. Fa parte della terapia.

Cerco di sorridere e replico:

- Ma ha detto che lei non ha le competenze.

- Per questo le ho.

- Ma se vado, poi, che cosa…

- Che cosa succederà poi, lo vedrà. Adesso può andare al lavoro. Ma venerdì alle 21.30 lei entra al Sundowner.

Annuisco, senza dire nulla. Mi alzo e lo saluto.

Torno a parlare con Freebody. La discussione sul lavoro svolto mi prende completamente. Non penso a Stormhell. Freebody vuole che vada anch’io a Copenaghen per il congresso. L’idea è entusiasmante. Penso anche che potrei partire qualche giorno prima e passare da Londra, per salutare i miei, ma ho appena preso tre settimane di vacanza. Ma è Freebody stesso a dirmi che se voglio posso fermarmi qualche giorno a Londra dopo il congresso.

Esco molto soddisfatto, ma tornando a casa ripenso a Stormhell. Mi dico che non andrò al Sundowner. Questo è sicuro. Non me la sento proprio. Stormhell è capace di chiamarmi mercoledì prossimo per chiedermi se sono andato al Sundowner, ma non sono cazzi suoi. Non può impormi di fare quello che non voglio.

La giornata di giovedì è piena. Devo rimettermi al passo con gli altri dopo queste settimane di stacco totale. Non ho molto tempo per pensare ad altro ed è meglio così. Quando smonto, giovedì sera, il pensiero va immediatamente a Stormhell e alla sua prescrizione. Non ci andrò, questo è sicuro. Non me la sentirei mai di rivolgermi a uno sconosciuto in una serata gay e di dirgli quella frase assurda. Ma come si fa ad avvicinare un uomo così? Stormhell è un idiota. Io… di colpo mi viene un’idea, forse assurda. Ci penso a lungo. Sono sempre più confuso. Finisce che dormo male.

Venerdì non ci sono con la testa. Penso in continuazione alla serata, mi chiedo se ciò che ho pensato è vero e soprattutto che cosa succederebbe se trovassi il coraggio di entrare. Ieri ero sicuro che non sarei andato al Sundowner, adesso non sono più sicuro di niente. Continuo a dirmi che non ci andrò, che non saprei come gestire la situazione. Farei la figura del coglione.

 

Sono le nove passate. Mi sono lavato a fondo e sono venuto qui a piedi. Da casa mia è una mezz’ora. Supero il Sundowner, lanciando appena un’occhiata, e proseguo. Non ce la faccio. Non ce la faccio. Ma se la mia idea fosse giusta…

Dopo aver fatto un bel po’ di strada torno indietro. Si sta facendo tardi. Ma non ho il coraggio. Tra poco passerò di nuovo davanti alla porta. Vorrei entrare, ma non ce la faccio.

Raggiungo la porta e quando l’ho quasi superata, mi giro, la spingo ed entro. Guardo il bancone. Stormhell è lì, come avevo pensato. Mi sento sollevato, anche se ho una paura dannata.

Mi avvicino a lui e gli dico:

- Ciao, io sono Martin.

Sorrido, ma la voce mi trema.

- Io sono Dan e sono contento che tu sia venuto, Martin, anche se… - guarda l’orologio e completa la frase – sei in ritardo di un buon quarto d’ora.

- Non è stato facile.

- Neanche quello che ti aspetta adesso lo sarà, Martin. Ma credo che ce la possiamo fare.

Mi piace che abbia usato il plurale, mettendosi dentro anche lui. Prosegue:

- Direi che possiamo andare a casa mia, se ti va.

Io annuisco e ci dirigiamo verso l’uscita. Non ho neanche preso da bere. Ci intercetta un tizio, sorridente, che si rivolge a Stormhell:

- E no, Dan! Non solo arrivi e te ne vai subito, ma ci porti pure via il più bel maschio che sia passato di qui nell’ultimo anno!

Dan Stormhell sorride e risponde:

- Gli avevo dato appuntamento io. Ma può darsi che diventi un cliente abituale del venerdì, adesso che ha visto il posto.

- Non ha fatto in tempo a vederlo, ha visto solo te.

- Quanto di più interessante c’era da vedere, no?

Ridono tutti e due. Io non riesco a ridere: sono troppo teso.

Dan è venuto in auto. Mi siedo accanto a lui. Non riesco a spiccicare una parola. Sto facendo la figura dell’idiota.

Lui mi lancia un’occhiata e mi dice:

- Rilassati, Martin. Non succederà niente che tu non voglia. Va tutto bene.

Lo guardo e cerco di sorridergli. Sono in panico. Vorrei aprire la portiera e scappare via.

Arriviamo a casa sua, una villetta nei quartieri residenziali. Dan scende. Io lo guardo, smarrito.

- Scendi anche tu. Anche se ormai non fa più freddo, dormire in auto non è comodo.

Cerco di sorridere, ma temo che la mia imitazione di un sorriso non sia il massimo. Scendo e lo seguo in casa.

- Ci sediamo un momento in salotto?

Annuisco. Sono rigido come un baccalà. Dan Stormhell mi piace, parecchio, ma in questo momento provo soltanto una paura tremenda.

- Al Sundowner non hai preso niente. Ti posso offrire un bicchiere. Ti va bene un calice di vino bianco?

- Vino bianco?

La proposta mi spiazza. Quando si parla di bere qualche cosa, di solito si offre whisky o qualche altro liquore.

- Non ti piace?

- No… sì, va bene.

Dan torna con una bottiglia e due calici. Versa il vino e poi tocca il mio bicchiere con il suo.

- A noi due.

Annuisco, senza riuscire a parlare.

Dan sorride e scuote la testa.

- Martin, sei riuscito a fare il primo passo, anche se ti è costata parecchia fatica. Vedrai che riuscirai a fare anche gli altri.

Poi aggiunge, sorridendo:

- La terapia va seguita fino in fondo.

Vorrei avere la sua sicurezza. Beviamo tutti e due.

- Andiamo in camera da letto, Martin.

Faccio un cenno con la testa. Dan si alza, ma io non mi muovo. Sono paralizzato. Dan mi tende la mano. Io la prendo. Lui tira e mi fa alzare. Mi accompagna in camera. Accende una luce sul comodino. La camera è immersa nella penombra.

- Adesso vediamo come si spoglia un uomo. Toglimi la cravatta.

Io annuisco, ma non mi muovo. Sto facendo una figura di merda. Provo il desiderio violento di scappare via, ma Dan mi prende le mani e le porta alla sua cravatta. Tremando leggermente, riesco a sciogliere il nodo.

- Sbottonami la giacca e falla scivolare a terra.

Eseguo. Mi sembra che nel mio cervello ci sia un vuoto assoluto.

- Ora mi sbottoni la camicia.

Di nuovo faccio un cenno affermativo con la testa: è l’unico movimento autonomo che riesco a fare. Le mie dita tremano mentre sbottonano la camicia, ma dopo tre bottoni mi rendo conto che Dan non ha niente sotto e mi fermo. Guardo la peluria sul suo torace, che si intravede attraverso la camicia sbottonata a metà. Ho la gola secca.

Dan mi scioglie il nodo della cravatta, poi mi sbottona la giacca e la posa, piegata, su una sedia. Infine si avvicina a me e incomincia a sbottonarmi la camicia. Lo lascio fare, incapace di reagire.

Quando la camicia è completamente aperta, Dan mi passa una mano sul petto, in una carezza. Poi avvicina il suo viso al mio e mi bacia sulla bocca. Non provo niente. Ho spesso pensato a come sarebbe stato bello essere baciato da un uomo. E ora non provo niente.

Di colpo mi chiedo perché sono qui, che cosa ci faccio. Scuoto il capo. Voglio andarmene. Ma non riesco a parlare.

Dan ha intuito.

- Martin, non ti preoccupare. Non facciamo niente che tu non voglia. Cerca di calmarti.

Non si stupisce che io non gli risponda: ha capito che non sono più in grado di parlare.

Prosegue:

- Togliti le scarpe.

Eseguo. Lui fa lo stesso. Poi finisce di sbottonarsi la camicia e se la toglie. Ha un torace muscoloso, piuttosto peloso. Mi prende una mano e l’appoggia sul suo petto. Capisco che dovrei accarezzarlo, ma non ce la faccio.

Dan mi abbraccia. Mi tiene tra le sue braccia. Io rimango rigido. Lui mi tiene così. Non so quanto tempo rimaniamo abbracciati, ma questa stretta mi restituisce un po’ di calma. Lo cingo anch’io con le braccia. Riesco a dirgli:

- Scusami, Dan.

- Non c’è nulla di cui devi scusarti, Martin. Sei spaventato, ma ce la faremo.

- Sì.

Non ne sono così convinto, ma adesso sto un po’ meglio, mi sento meno teso. E rimanere tra le braccia di Dan è bello. Sentire contro il mio petto il calore del suo è bello. Accarezzargli la schiena con le mani è bello. Dan mi bacia di nuovo e questa volta mi piace. Ricambio il bacio. Lui sorride e mi bacia ancora.

- Va un po’ meglio?

- Sì, grazie.

Mi stringe ancora e ci scambiamo altri baci. Poi si stacca, mi apre i pantaloni e li fa scivolare al suolo. Ora ho di nuovo paura. Lui mi abbassa le mutande. Mi sembra che il cuore si debba fermare. Dan mi abbraccia, ma sono a disagio. Lui mi bacia, si stacca e si toglie pantaloni e mutande. Non mi ha chiesto di finire di spogliarlo. Non so se me la sarei sentita.

Ora siamo nudi tutti e due e vorrei solo scappare via. Se fossi vestito lo farei.

Dan mi prende per la mano e mi guida al letto. Mi fa stendere. Sono rigido come una mummia.

Dan mi accarezza delicatamente. Mi passa la mano sul viso, sul collo, sul torace, sul ventre, sulle gambe. Mi bacia sulla bocca.

Poi la sua mano ripercorre la stessa strada e questa volta mi accarezza il cazzo, sempre con molta delicatezza. Poi lo stringe. Non succede niente. Mi rendo conto che sto andando in panico.

Dan mi accarezza ancora e mi dice, sorridendo:

- Senti, Martin, la puoi smettere di preoccuparti?

- Dan, io… mi dispiace… non…

Mi sento angosciato. Non riesco a continuare.

- Ti preoccupi perché non ti sta venendo duro? Martin, come potrebbe? Si direbbe che tu sia davanti al plotone di esecuzione, non sul letto con un bell’uomo a cui piaci un sacco. E non accetto osservazioni sul “bell’uomo”.

Sorrido e mi sforzo di dire:

- Non mi permetterei mai.

Per me Dan è davvero un bell’uomo. La faccia ha lineamenti duri, non armoniosi, ma molto maschi, come piace a me. E il corpo è forte.

- Meno male. Meno male per te, Martin. Adesso io e te passiamo un po’ di tempo coccolandoci e chi se ne fotte del resto? Io ho scopato a sufficienza nella mia vita e per te incominciare qualche giorno prima o dopo, che differenza fa? Ora ci rilassiamo.

Provo un enorme senso di sollievo. Riesco a sorridere e indico il suo cazzo, teso come una lama e duro come una roccia.

- Non mi sembra molto rilassato.

- Peggio per lui. Io non posso ordinare a John Thomas di non essere una testa di cazzo, ma lui non può pensare che io sia ai suoi ordini.

- John Thomas?

- Ma non hai neanche letto L’amante di Lady Chatterley? Martin, sei una frana. Dovrò insegnarti tutto.

Sorrido. La tensione si sta allentando. Il sapere che non faremo altro che coccolarci, mi toglie un peso. E sentirgli dire che dovrà insegnarmi tutto mi fa sperare in bene per il futuro. Non ha deciso di lasciarmi affogare dopo aver verificato che sono un disastro.

Questa volta riesco persino a rispondere a tono:

- Sono un ottimo allievo, quando si tratta di teoria.

Martin mi bacia sulla bocca e poi mi dice:

- Anche nella pratica, ne sono sicuro. Bisogna solo dare tempo al tempo.

Si stende su di me e mi abbraccia. Mi bacia sulla bocca. È bellissimo rimanere così tra le sue braccia. Non ha nessun effetto in basso, ma ormai ho perso ogni speranza e mi abbandono a questa stretta.

Dan sorride e dice:

- Se mi accarezzi un po’ non ti fa male.

Sorrido. Gli poggio le mani sulla schiena, poi le lascio scivolare fino al culo. È bello afferrargli le natiche e stringere con forza. È bello anche quando mi bacia. Non so perché quando l’ha fatto per la prima volta non ho provato niente. In realtà lo so benissimo: ero troppo teso. Adesso so che non dobbiamo fare altro e riesco ad apprezzare questo momento. Sono abbracciato a un uomo, un uomo che mi piace e a cui piaccio. Ci baciamo, ci abbracciamo, ci coccoliamo senza altre preoccupazioni. È bello. Mi piace un sacco.

Dan si solleva e si siede sul mio ventre. Emetto un gemito.

- Non mi dire che sono pesante.

- No, no, però un po’ di dieta non ti farebbe male.

Mi molla un buffetto. Mi accarezza. Con vigore, ora. Si china su di me e mi bacia, poi le sue labbra avvolgono un capezzolo e incominciano a succhiare. Ripete lo stesso con l’altro capezzolo. Poi si stende nuovamente su di me e ci baciamo. Mi abbraccia e gira su se stesso. Ora lui è sotto e io sono sopra. Mi siedo anch’io su di lui e lo accarezzo. Sotto il culo sento il suo cazzo, rigido e caldo. Struscio un po’ il culo. Mi piace sentirlo lì. Passo ancora le mani sul suo petto, poi gli mordicchio un capezzolo.

Adesso sto bene. Penso che è bellissimo stare così, a toccarci e accarezzarci, senza preoccuparsi d’altro. Lui mi attira a sé e io mi stendo su di lui. Ci baciamo di nuovo e questa volta lui spinge la lingua dentro la mia bocca. È una sensazione nuova, che non mi dispiace per niente.

Cambiamo nuovamente posizione. Adesso lui è su di me e dopo avermi accarezzato, si solleva un po’ e mi gira sulla pancia. Mi chiedo se non voglia prendermi. Ha il cazzo duro, forse vuole farlo. Nuovamente mi tendo. Lui se ne accorge e mi sussurra:

- Non ti preoccupare, Martin, non intendo fare niente di quello che tu pensi. Solo leccarti un po’.

Leccarmi? Rimango senza parole e poi sento la lingua di Dan dietro l’orecchio e poi sul collo. Lui si solleva e mi morde il culo. Un morso deciso.

- Ahia!

- Ahi, sì, dimenticavo. Oltre a leccare, mordo.

In effetti si mette a mordicchiarmi il culo, assestando ogni tanto un morso più deciso. Poi passa la lingua sul solco. Un altro morso, un nuovo passaggio della lingua, due volte. Gemo. È una sensazione bellissima. Lui va avanti a morsi e leccate e le sue mani si muovono lungo la mia schiena, accarezzano, tornano in basso, pizzicano il culo. Mi abbandono completamente a questa deliziosa tortura. Rido e lascio che lui prosegua.

Le sue mani scendono sotto e mi stuzzicano un po’ le palle. È una meraviglia. Adesso mi sento bene e i suoi morsi e la sua lingua mi trasmettono i brividi.

Dan prosegue con la sua attività, poi mi rivolta. Si siede di nuovo sul mio ventre e realizzo solo ora che il mio cazzo si è teso.

Dan struscia un po’ il culo sul mio cazzo e il piacere è intensissimo. Poi si tira indietro, mi sposta le gambe, si inginocchia nello spazio tra le mie ginocchia e prende in bocca il mio cazzo. Chiudo gli occhi, perché la sensazione è troppo forte.

Dan succhia la cappella, poi la lascia andare e con la lingua scende dalla cappella alle palle. Risale, inghiotte la cappella, mordicchia appena appena. E le sue mani intanto scivolano lungo il mio corpo, accarezzano i capezzoli, li stringono, salgono fino al collo, ridiscendono, avvolgono le palle.

- Dan!

Sto sprofondando in un vortice di piacere. Sollevo le braccia e accarezzo questo corpo che mi trasmette sensazioni intensissime.

Dan si stende ancora una volta su di me e mi bacia. Ci baciamo a lungo, appassionatamente. Poi mi dice:

- Se vuoi, ci fermiamo qui.

Rido e gli rispondo:

- Scherzi? Non se ne parla neanche. Avanti a tutta birra.

Ma mentre lo dico mi rendo conto che mi sto di nuovo preoccupando. Lui se ne accorge subito.

- Ormai è tutta discesa, Martin.

Decisamente, Dan ha le antenne.

Si solleva, si rimette come prima e riprende in bocca il mio cazzo. Di nuovo un’ondata di piacere, ma questa volta Dan non si interrompe e il piacere cresce, si moltiplica e infine esplode. Grido:

- Dan!

Chiudo gli occhi, mentre tutto il mio corpo vibra di piacere e il mio seme si scaglia fuori, nella bocca di Dan che lo inghiotte.

Non credevo che si potesse godere tanto.

Dan succhia ancora un momento, ma io gli dico:

- Basta!

Dan si stacca. Mi sorride e si stende su di me. Mi bacia.

- Come ti senti, Martin?

- Sono l’uomo più felice del mondo.

Dan scuote la testa.

- Sono contento, Martin.

Gli prendo la testa tra le mani e lo bacio appassionatamente.

Poi, quando le nostre bocche si staccano, gli dico:

- Dan, tu non sei venuto. Vuoi prendermi?

Dan scuote la testa.

- No, Martin. Sarebbe troppo presto. Lasciamo passare un po’ di tempo.

Sorride e aggiunge:

- Magari domani o dopodomani.

- Vuoi che ti faccia quello che hai fatto a me?

Dan sorride:

- Voglio solo che tu stia bene e faccia quello che desideri.

Che cosa desidero? Rimanere vicino a Dan, baciarlo, abbracciarlo, stringerlo, leccarlo, morderlo, accarezzarlo.

E allora continuiamo a coccolarci, ma la mia mano scende sempre più spesso al suo cazzo, lo accarezza, stringe un po’ le palle. E poi provo anch’io a usare la lingua e gli lecco il cazzo. Poi avvolgo con le labbra la cappella. È una sensazione strana, che mi piace. Incomincio a succhiare avidamente.

Dan mi avvisa:

- Martin, se prosegui, verrò.

Decido di andare avanti. Continuo a succhiare e leccare. Sento che Martin si tende. Mi dice:

- Adesso.

Lascio la mia preda e guardo ammaliato lo sborro che schizza fuori e si spande sul ventre di Dan. Poi passo la lingua e ne assaggio una goccia. Martin prende un fazzoletto e si pulisce, poi mi abbraccia di nuovo.

Rimaniamo a lungo abbracciati, poi riprendiamo i nostri giochi. Presto abbiamo di nuovo tutti e due il cazzo duro. E allora io dico:

- Prendimi, Dan.

Lui mi guarda, poi annuisce.

Mi fa stendere sulla pancia, riprende a leccarmi e mordicchiarmi, poi avvicina due dita bagnate al buco, stuzzica un po’ e infine infila prima un dito, poi tutt’e due. È una sensazione piacevole.

- Tutto bene, Martin?

- Benissimo, Dan.

E allora lui stuzzica ancora un po’, con la lingua e con le dita, poi si stende su di me. Mi mordicchia il lobo dell’orecchio, gioca con i miei capelli, mi tira i peli della barba, poi assesta un morso deciso alla spalla e mi accorgo che è entrato. Ora ho il suo cazzo in culo, che si muove lentamente. Mi fa un po’ male, ma mi piace, moltissimo. È bello sentirlo dentro di me.

Lui si muove con molta cautela e ogni movimento mi trasmette un brivido di piacere, in cui c’è anche un po’ di sofferenza. Le sue mani mi accarezzano, una si infila sotto il ventre e stringe il mio cazzo teso. Mormoro:

- Dan!

Lui incomincia a muoversi avanti e indietro, con molta lentezza e mi piace sentire il suo cazzo che affonda dentro di me e poi si ritrae. Gemo di piacere, un piacere che dal mio culo si irradia in tutto il corpo.

Il suo movimento diventa più intenso e il piacere cresce ancora. Gemo più forte. E poi mi rendo conto che il piacere è troppo forte, un’onda che mi travolge.

Lui mi accarezza, spinge ancora e poi viene dentro di me. Rimaniamo abbracciati, stretti l’uno all’altro, lui sopra e dentro di me. Vorrei dirgli che lo amo, anche se è assurdo. Gli dico:

- Grazie.

- Grazie a te, Martin.

Più tardi ci alziamo e ci facciamo una doccia. Nella cabina in due stiamo comodamente: è molto più ampia del normale. Noi però ci stringiamo uno all’altro come se fosse una cabina piccola. Lui insapona me, io insapono lui e alla fine abbiamo di nuovo tutti e due il cazzo duro. Dan si passa un po’ di sapone tra le natiche, poi si appoggia a una delle pareti, senza dire niente.

Io guardo smarrito il suo culo. Avvicino la cappella al buco. Esito un attimo, ma poi spingo dentro con decisione. Lui sussulta. Devo avergli fatto male.

- Esci un attimo, Martin.

Mi ritraggo.

- Scusa, Dan.

- Non ti preoccupare. Sei stato un po’ irruente, ma adesso riproviamo.

- Sicuro? Io…

- Datti da fare.

Questa volta mi muovo con cautela. Spingo lentamente. Entro. Ed è una sensazione meravigliosa. Sono dentro di lui. Mi appoggio a lui, mentre l’acqua calda scivola sulla mia schiena. Gli afferro il culo e lo stringo con forza, poi incomincio a muovermi avanti e indietro, prima lentamente, poi sempre più rapidamente. Mi rendo conto che non sto preoccupandomi se gli faccio male, penso solo a me, trascinato da un desiderio troppo forte. Ma lui mi dice:

- Sì, Martin, così! Così!

Lo fotto con violenza ed è bellissimo vedere il mio cazzo che affonda nel suo culo e poi riemerge, sentire il calore della sua carne intorno alla cappella. È meraviglioso.

E quando infine vengo dentro di lui, mi sembra che il mondo scompaia. Chiudo gli occhi, esausto.

Dopo un buon momento esco da lui. Finiamo di lavarci, poi ci corichiamo. Lui mi stringe tra le braccia.

- Sono le due, Martin. Che ne diresti se ci mettessimo a dormire?

- Se è già finita la terapia…

- No, di certo, abbiamo preso solo la dose di oggi. La terapia va fatta giornalmente.

- Per quanto tempo?

La domanda mi è sfuggita. Vorrei che non finisse così.

- Molto, molto a lungo. Adesso è ancora presto per dire.

- Meno male che sono nelle mani di un bravo medico.

- Puoi dirlo forte.

                                                                                             

 

2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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