Il drone
Nel container non sapevi mai se era giorno o notte. Non
c’era nemmeno un buco. Senza l’aria condizionata ci potevi lasciare le penne
in poche ore. Ma perché preoccuparsi? Ogni quattro ore qualcuno apriva la
porta per darci il cambio. Le telecamere a circuito chiuso mostravano inoltre
tutto quello che accadeva all’interno. Avevamo anche un pulsante rosso,
grande come un padellino, per lanciare l’allarme in caso di necessità. Io ci
appendevo il berretto.
Eravamo in quattro, rinchiusi là dentro da due anni. Quattro
per turno voglio dire, in turni di quattro ore, ventiquattr’ore su
ventiquattro.
Il resto del tempo libero lo passavo nel camper. Il
villaggio aveva l’aspetto di un normale villaggio di campeggiatori, di quelli
abitati da un popolo alternativo, artisti, sbandati, vecchi figli dei fiori,
reduci di qualche guerra vecchia o nuova, ribelli, new-agers, eccetera
eccetera. Eravamo in mezzo al deserto. Se qualcuno arrivava da quelle parti,
c’erano cartelli ben visibili incatenati alle recinzioni, che dicevano
chiaramente ‘resta fuori dalle palle’, proprietà privata. Era un sistema
infallibile, collaudato e vincente. Nessuno avrebbe mai immaginato quello che
facevamo lì: combattevamo una guerra che infuriava a migliaia di miglia di
distanza. Perché un centro militare si mimetizzasse da qualcos’altro, non
riuscivo a capirlo. Forse pensavano di evitare la stessa curiosità che aveva
attirato un mare di gente nell’area 51.
Piccolo Lord e io ci eravamo battuti a ogni gioco possibile.
Poi arrivò Last Chaos e c’iscrivemmo alle vere olimpiadi del wargame. Las
Vegas era la cornice ideale. Incredibilmente, passammo tutte le selezioni,
fino a giungere in semifinale. Eravamo in quattro. Non pensavo che ce
l’avremmo fatta. E invece ci ritrovammo in pedana, l’ultimo giorno, Piccolo
Lord e io, l’uno di fronte all’altro, come se fossimo a casa, sul mio divano
o sul suo. Vinse lui. Andammo a festeggiare con tutti gli altri in uno dei
bar del Circus Circus. Dopo qualche brindisi, fummo avvicinati da un tizio
ben vestito. Ricordo che aveva un farfallino. Troppo elegante, per i miei
gusti. Voleva parlarci in privato. Sono quelle scene che vedi nei film e che
di solito mettono in moto una trama piena di guai. Ma quella sera eravamo
piuttosto alticci, quindi le nostre difese non erano impostate sul chi va
là, bensì sul chissà cosa vuole ’sto tizio. La curiosità tende
sempre a fotterci.
Quello che voleva il tizio era noi, i migliori nel
campo, i migliori a maneggiare un joystick e premere un bottone per abbattere
un nemico. Un nemico virtuale, sullo schermo di un computer o di un
televisore, precisò Piccolo Lord. Ecco, noi avremmo potuto farlo servendo il
nostro paese. Che ne pensavamo? Che ne pensava Piccolo Lord fu subito chiaro,
dal medio che mostrò a Belvestito. Lui aveva iniziato a fare il giornalista,
già al college, e ultimamente era stato assunto da una testata giornalistica
locale. La sua strada era ben segnata. Sapeva esattamente quello che voleva.
Per me era diverso. Io non sapevo ancora che farmene della mia vita. Avrei
voluto poter continuare a giocare per sempre. È questo che mi ha fottuto
davvero.
Quella notte a Las Vegas, tuttavia, accadde un’altra cosa, davvero
incredibile. Per la prima volta scopai con Piccolo Lord. Quanto lo
desideravo! Erano almeno due anni che ci pensavo, da quella volta che l’avevo
visto nudo, cioè in tutto il suo magnifico splendore. Ci vedevamo spesso, per
confrontarci e batterci ai videogiochi, ma parlavamo poco. Non me l’ero mai
sentita di fare un tentativo. Eppure lo sapevo che non gli interessavano le
fighette che gli svolazzavano attorno. Quindi, perché non provarci? Perché?
Quella notte non riuscii a trovare una risposta convincente, forse perché
ragionavo in modo lento e scoordinato. Prese il sopravvento l’altra mia
testa, e non ci fu verso di farla ragionare. Per giunta le andò bene. Anche
Piccolo Lord era fuori combattimento. Così lasciammo fare al resto dei nostri
corpi, che non avevano nessun bisogno dei nostri cervelli. Credo sia il più
bel ricordo della mia vita. Un giorno incredibile, dall’inizio alla fine.
Poi io cedetti al fascino del joystick. Piccolo Lord divenne
un corrispondente di guerra. È così che si fa carriera nel giornalismo.
Viaggi con un cameraman, cercando di non farti ammazzare, oppure, meglio
ancora, da solo, con una telecamerina digitale e fai risparmiare l’emittente.
L’ultima volta che ne avevo avuto notizie, si trovava in Myanmar.
In quel cesso di villaggio non c’era nessuno con cui
scopare. Quindi mi arrangiavo da me, per lo più ricordando quella sera. Ce
n’erano state altre, ovviamente, ma quella era in assoluto la migliore trama
per offrirmi un’eccitazione adeguata. Di solito però passavo dall’ultimo
brindisi del Circus Circus, al letto del Four Queens. Preferivo dimenticare
Belvestito, sennò mi si ammosciava. Insomma, era per causa sua che mi trovavo
lì. E non mi piaceva. Avevo firmato per tre anni e due erano passati. Dovevo
avere la pazienza di aspettare che ne passasse ancora uno e poi mi sarei
congedato. Che cosa avrei fatto dopo non lo sapevo e non m’importava. Sapevo
soltanto che me ne volevo andare il più lontano possibile. E magari andare a
trovare Piccolo Lord, ovunque fosse andato a cacciarsi.
Pensare continuamente a Piccolo Lord, produceva ogni tanto
l’effetto che mi arrivasse una sua mail. Accadeva di rado, perciò le tenevo
come cimeli preziosi, stampate su carta e rigorosamente conservate in una
cartellina con il logo top secret nascosto da un adesivo di Batman. Dopo un
prolungato silenzio, mi arrivò una sua mail con queste precise parole: Four
Queens stanza 513 ore 22,00 settembre 21.
Inutile descrivere in questa sede i salti mortali con triplo
avvitamento che mi permisero di lasciare la base per un paio di giorni.
Quello che conta è che finalmente, dopo due anni e qualche giorno, rividi
Piccolo Lord. Ci dicemmo a vicenda che sembravamo cambiati, ci squadrammo con
espressione sospettosa come due sconosciuti, e poi ci buttammo l’uno tra le
braccia dell’altro ridendo come due cretini. Ero così felice che mi sentivo
rizzare i peli. Piccolo Lord pretese che la smettessi di chiamarlo come
l’avevo sempre chiamato, allora lo chiamai Batman, ispirato dal berretto.
- Hai ragione, mi si addice, e dovresti vedermi in azione!
- Non mi dispiacerebbe affatto. Prima o poi vengo a lavorare
con te.
Nonostante il berretto di Batman, Piccolo Lord aveva fatto
carriera. Finalmente era entrato in pianta stabile alla Fx network e si stava
prodigando per recuperare l’umanità perduta. La bella notizia fu
d’ispirazione per un paio di brindisi, seguiti da una veloce quanto
disordinata rimozione del vestiario superfluo. Vivere nudi sarebbe stata la
mia massima aspirazione, soprattutto in presenza di un tale esemplare del
genere Homo Arrapantis. Tutto quel pelo a ricciolini sul torace pettoruto,
quei muscoli massicci, forse sviluppatisi in seguito alle fatiche di due anni
di vita da nomade in mezzo a chissà quali pericoli, quel gran pezzo di hot
dog che mi sorrideva da mezzo alla figura imponente, mi obnubilarono la
mente, come sempre mi accadeva alla sua augusta presenza. Per farla breve, fu
una scopata grandiosa e reiterata, che mi lasciò, inutile dirlo, un
incommensurabile vuoto assoluto, al momento di separarci. Come avrei fatto a
sopportare un altro lungo anno lontano da lui? Mi mancò persino la parola,
così, prima che s’imbarcasse sull’aereo, lo salutai con un silenzioso
abbraccio condito con un’umidità salina diffusa nella zona oculare. Insomma,
rischiai di mettermi a piangere come un vitello. Lungo la strada che mi
riportava al Great Basin e al mio villaggio-prigione, mi consolai con il
pensiero che avevo una nuova trama su cui sognare e smanettarmi l’uccello per
infinite volte.
I quattordici monitor e le quattro tastiere non erano
saltati in aria durante la mia assenza come invece avevo sperato. Aspettavano
come sempre che iniziassi il turno con i miei tre compagni di sventura. Ma
quando ripresi servizio mi annunciarono una novità. Durante la mia assenza,
il Predator che avevo condotto negli ultimi mesi era precipitato durante
un’azione di controllo del territorio. Non era il primo. Un altro milione di
dollari buttato nel cesso. Mi mostrai addolorato, mentre dentro di me una
voce rideva a squarciagola, esultando.
Ripresi confidenza con la comoda poltrona, poi allungai la
sinistra sulla cloche e con la destra afferrai il joystick. La sensazione era
sempre la stessa. Un senso di vuoto e di attesa.
Ti presento Reaper, disse il mio vicino, Billy-tappo. Non
troverai nessuna differenza.
Sbagliato. Il mio nuovo giocattolo era più maneggevole, o
meglio, era più sensibile alle mie manovre, quindi dovevo essere più cauto e
delicato nell’imporgli la mia volontà. I quattro monitor che avevo davanti
risucchiarono tutta la mia attenzione, mentre scorrevano le immagini dei
sensori di bordo.
Sugli schermi del controllo missione giungevano i segnali
trasmessi dalle telecamere in alta definizione, oltre quelli di speciali
radar, infrarossi e laser. L’enorme quantità d’informazioni che ci pioveva
addosso doveva essere elaborata molto velocemente, per
individuare eventuali obiettivi e decidere se valeva la pena abbatterli. La
velocità di movimento e di decisione e la prontezza di riflessi erano la mia
specialità.
Il Reaper e io facemmo amicizia molto presto. Durante
l’ultima ora avevo inquadrato un gruppetto di taleban che andavano e venivano
tra un buco nella roccia e un rudere di casa con il tetto ancora in piedi. In
quella zona si nascondeva un pezzo grosso. La missione era di trovarlo e
colpirlo. Non che fosse tanto facile riconoscerlo in mezzo agli altri. La
foto che avevamo ci avrebbe aiutato poco, se il nemico non avesse sollevato
la testa verso i sensori. Ma a un tratto mi parve di vederlo e prima ancora
di pensare, avevo già schiacciato il pollice sul bottoncino rosso.
Ottimo strike, Lonestar. Forse li hai beccati tutti.
Sperai di no. Avevo inquadrato anche un paio di donne, ma
ero sicuro di averle viste infilarsi nella grotta. Mi era già capitato di
fare fuori qualche donna e non mi piaceva per niente. Dopo stavo male per una
settimana. Pensavo a mia madre, alle mie sorelle e mi dicevo che non mi
sarebbe piaciuto che facessero quella fine. Non ero tagliato per il mestiere
di soldato. Gli altri applaudivano ogni volta che mettevamo a punto un buon
colpo, ma io non ci riuscivo.
Guardai l’orologio. In Afghanistan erano le 15,30 e
splendeva il sole di un bel venerdì. Da noi era ancora giovedì, erano le 3,00
di notte e non sapevo se in cielo brillasse la luna. Avevo ancora un’intera
ora di servizio, prima di scoprirlo. Lasciai i comandi a Billy-tappo per la
ricognizione e mi limitai a seguire le immagini che scorrevano sui due
monitor grandi e i dati di volo su quelli più piccoli. Mi stupii di vedere
che i livelli di carburante erano bassi, ma poi guardai meglio. Si era
trattato di una svista. Dove avevo la testa? Forse accanto a Piccolo Lord.
Per fortuna arrivò il cambio del secondo turno. In quel periodo non
lanciavamo i droni in azioni notturne, che erano poco producenti, quindi mi
aspettavano venti ore di puro riposo. Avrei dormito per la maggior parte del
tempo. Quando ero depresso mi succedeva sempre.
Mi tenne compagnia il pensiero di Piccolo Lord, finché non
mi addormentai. Ancora nove mesi, nove insopportabili mesi, e poi l’avrei
raggiunto.
Un altro colpo ben assestato mi fece proclamare dai miei
compagni Gran Signore del joystick. Da molto tempo davamo la caccia al mullah
Nazir. Quel giorno lo beccammo con il mezzo in panne, su una strada deserta.
La mia squadra era indecisa, ma io mi lasciai guidare dal mio sesto senso.
Ero sicuro che fosse proprio lui e il mio pollice scattò senza indugio.
Mancava un mese e poi sarei stato libero da quel gioco infernale. Ero certo
che non avrei mai più voluto impugnare un joystick in tutto il resto della
mia vita, a meno che non fosse fatto di carne e non fosse collegato alla
consolle centrale di Piccolo Lord.
Quella notte la depressione mi colpì con forza inaudita. Il
tempo non passava mai. Restava inchiodato senza scampo. Non riuscivo a dormire.
Guardavo il mio Brera e segnava sempre la stessa ora, anche se la lancetta si
muoveva. Spuntò l’alba, ed erano sempre le cinque. Il sole si alzò, ed erano
sempre le cinque. Cominciò il consueto rumore del campo ed erano sempre le
cinque. Cominciai a pensare che ormai ero fottuto, che non avrei mai più
potuto congedarmi, che l’universo aveva trovato il modo d’incastrarmi lì per
sempre. Mi sentivo l’uomo più
sfortunato del mondo. Se il tempo doveva fermarsi, non sarebbe stato più
giusto che lo facesse quand’ero al Four Queens con Piccolo Lord? Che cosa gli
sarebbe costato? Mi misi a piangere, disperatamente. Volevo morire. Poi suonò
la sveglia. Era mezzogiorno. Ringraziai intensamente il cielo che mi aveva
regalato un tempo che passa. Un incubo come quello non l’avevo mai avuto.
Sperai di non averne più.
Quando entrai nel container quella notte mi sentivo uno
straccio. Poco prima avevo preso un paio di anfetamine per darmi la carica.
Non potevo cedere proprio sulla linea del traguardo. Volevo uscire da quella
situazione a testa alta, ancora detentore imbattuto del titolo di Gran
Signore del joystick, l’ultimo della lista scolpita a colpi di coltellino
sulla porta del bagno, con il punteggio più alto. Fa niente se al posto del
mio nome c’era scritto Lonestar. Ero io, il texano dagli occhi di ghiaccio.
Ero io, culo d’oro per colui che mi amava. In quel campo di merda nessuno mi
aveva mai chiamato col mio nome. Fanculo tutti.
Ero incazzato nero, ma non mi misi a cercare una causa
specifica. Che me ne fregava? Dovevo solo fare il mio lavoro, ancora quattro
fottutissime ore, e poi altre quattro e altre e altre, fino alla fine del
mese. Avevo iniziato il mio personale countdown.
Beccammo un gruppo di taleban in un villaggio che avevamo
già ripulito. I civili se l’erano squagliata, lasciandolo abbandonato. Loro
se ne stavano approfittando. Li studiammo per un po’, finché non arrivò un
furgone e uscirono tutti fuori. Il mio dito scattò come una molla. Tra il
momento del lancio e l’arrivo del missile qualcun altro uscì dalla casa
semidiroccata, saltando in aria insieme a tutti gli altri. Portava un
berretto di Batman.
Svenni.
Mi portarono in ospedale. Perdevo sangue dalle narici e non
riuscivo a parlare. Mi curarono per molto tempo, dicendomi che soffrivo di
sindrome post traumatica, quello che capita ai soldati in guerra sul campo. I
medici erano stupiti. In Nevada, a migliaia di miglia di distanza dalla
guerra che si combatteva sul serio, mi ero ammalato giocando a un videogame.
Così dissero. A un videogame. Non capivano un cazzo. Del resto erano medici,
mica militari. Loro non avevano mai visto saltare in aria nessuno. Saltare in
aria... con un berretto di Batman.
Dopo un mese cominciarono a cercare di sbattermi fuori. Ma
io non reagivo, non parlavo, non mangiavo. Qualche volta piangevo. Ma sempre,
ogni singolo giorno, pensavo a come fare per morire. Non c’era niente là
fuori per me. Io ero già morto, nell’attimo stesso in cui avevo visto saltare
in aria Piccolo Lord, colpito dal mio missile. Non mi chiedevo nemmeno come
cazzo era stato possibile che fosse proprio lì. Di tutte le guerre in atto
sul pianeta, andarsi a cercare proprio quella che combattevo io. Eppure lo
sapeva. Con lui non avevo mantenuto il segreto. Avrei potuto pormi milioni di
domande, ma non ne avevo la forza. Era tutto inutile. Nessuna risposta, anche
la più illuminante, me l’avrebbe mai restituito, né avrebbe potuto rimandare
indietro il tempo. Arrivai a pensare che se quella notte il mio incubo di un
tempo immobile si fosse tradotto in realtà, sarebbe stato il regalo migliore
che l’universo mi avrebbe potuto fare. Bizzarro come un incubo possa
trasformarsi in un sogno auspicabile.
Dopo due mesi, i sanitari decisero che dovevo riprendere a
vivere. Lo stabilirono loro, senza consultarmi. Si limitarono ad
annunciarmelo, una mattina, dicendomi che il giorno seguente mi avrebbero
dimesso e che intanto c’era una visita per me. Dunque qualcuno era già stato
informato. Probabilmente mia sorella era venuta a prendermi. Mi avrebbe
rimproverato come faceva sempre.
Devi finirla di autocommiserarti. Comincia a muovere le
chiappe.
L’infermiera completò il controllo della pressione. Mise via
lo sfigmomanometro e uscì. Io guardai fuori dalla finestra, sentendomi
penosamente vuoto, come il cielo che c’era là fuori.
- Ehi, culo d’oro, che ne diresti di alzare le chiappe? Non
ti pare di esserti riposato abbastanza?
Piccolo Lord non capì perché fossi improvvisamente diventato
bianco come il lenzuolo. Sapevo che ci avrei messo molto tempo a
spiegarglielo, perché di nuovo non riuscivo a parlare. Ma intanto gettò il
berretto di Batman sul letto e poi mi baciò.
Ci dev'essere del vero nella fiaba della
Bella Addormentata, perché quel bacio mi fece tornare alla vita.
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