Il mare e la spada

 

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Il mare si abbatteva furiosamente sulla scogliera, sollevando bianchi pennacchi di spuma, che il vento disintegrava, trasportandone le goccioline fin sulla strada polverosa, qualche metro più in alto. Filippo si spostava i capelli dalla faccia, irritato. Gli bruciavano gli occhi, ma non riusciva a decidersi ad andarsene da lì. Il tulipano che aveva gettato, controvento, non aveva neppure raggiunto le onde. Si era fermato sugli scogli sottostanti, e veniva spostato di qua e di là dal vento, senza che l’acqua riuscisse a raggiungerlo per catturarlo. Filippo aspettava che una coincidenza favorevole tra onde e brezza se lo portasse via. Quel fiore era per Martino, che non c’era più, da quando il mare l’aveva reclamato, senza più restituirlo. Non era mai facile procurarsene uno, ma era il fiore preferito da Martino. Da cinque anni, il 10 di ottobre, anniversario di quella tragedia, Filippo ripeteva quel rito e mai era capitato un tempo così brutto. Il tulipano non ne voleva sapere, si era incastrato in una fessura tra due massi. Da lì non si sarebbe più spostato.

Filippo si domandò se fosse un segno. Martino voleva fargli capire che doveva riprendere la sua strada? Certo, avrebbe potuto andarsene mille volte. Proprio ieri, il capitano della Melisenda gli aveva proposto un ingaggio. Doveva trasportare merce preziosa a Ragusa e per questo stava costituendo una scorta armata. Forse Martino rifiutava la sua offerta per convincerlo a liberarsi anche del suo stesso ricordo.

Filippo sistemò la cintura da cui pendeva la spada che portava al fianco, pose la mano sull’elsa, in un gesto abituale, e lanciò un ultimo sguardo d’addio al tulipano, al mare infuriato davanti a sé e al suo ricordo di Martino.

D’accordo. Era l’ultima volta.

 

Il capitano della Melisenda era un omone panciuto, dalla pelle scura e rugosa, crepata dalla salsedine, dal vento e dal sole. Su quella pergamena era disegnata una barba nera, folta e riccioluta, interrotta dalla fessura delle labbra sottili, che si aprivano su denti bianchi e forti.

– Ti sei convinto, allora? Si salpa appena il tempo migliora. Resta da queste parti, perché io non aspetto nessuno.

– Agli ordini, capitano Ranieri. Resterò in allerta.

– Giusto, mi fai venire in mente una cosa. Ho bisogno di una guardia per la notte. Se non hai altri impegni, ti puoi guadagnare un extra.

– Certo, non ho niente da fare. Vado a prendere la sacca e torno.

– Fai con comodo, ma al tramonto ti voglio qui.

– Non mancherò.

Filippo tornò sui suoi passi, volgendo ogni tanto lo sguardo verso la chiesetta di San Francesco che dominava dalla collina. Le strette e tortuose stradine di Vieste lo inghiottirono nel loro bianco abbraccio, mentre ripiombava un’ultima volta nei ricordi che voleva lasciarsi indietro.

Martino Lippolis era un pescatore, di quelli convinti che la vita lontano dal mare fosse impossibile. Il mare scorreva nel suo sangue già prima di nutrirsi del latte materno. Erano stati pescatori suo padre, suo nonno, il padre di suo nonno e chissà quanti altri avi prima di lui.

Un giorno che passeggiava lungo la costa, Filippo lo vide che rattoppava le reti. Era il tramonto. La luce giallognola e rosata metteva in risalto i muscoli che a ogni movimento del braccio guizzavano sotto la pelle coriacea, mentre infilava la spoletta tra le corde per poi sollevarla verso il cielo terso. Filippo si fece incantare da quel gesto ripetuto con monotona cadenza. Si avvicinò sempre di più, senza rifletterci, fino a che si fermò davanti a lui. Il pescatore sollevò la testa, osservandolo, con uno sguardo interrogativo. Poi, visto che Filippo non parlava, gli disse:

– Per oggi il pesce è tutto venduto.

– Peccato.

– Domani sarà una giornata buona. Se vieni prima, lo trovi.

– Farò come mi dici.

– Buona serata – lo congedò Martino.

Fatto sta che Filippo non voleva essere congedato.

– Non sono troppo malmesse le tue reti?

– La cosa ti riguarda?

– E perché dovrebbe?

– Allora, di grazia, perché me lo chiedi? Vuoi prestarmi il denaro per comprare le reti nuove?

– Filippo Grimaldi che presta soldi! - scoppiò a ridere.

– E Martino Lippolis che riesce a restituirli!

Martino si mise a ridere con lui.

Era stato così che si erano conosciuti, il pescatore e lo spadaccino. Due mondi lontani che si erano incontrati sul finire di una giornata dal cielo spennellato di arancio e viola. Nei mesi che erano seguiti, tra risate e mugugni, tra spuntini a base di ricci, che Martino andava a raccogliere sott’acqua, e bevute all’osteria, si erano raccontati le loro brevi vite. Martino rimproverava a Filippo di farsi servo di mille padroni. Chi avesse bisogno di una scorta armata, poteva rivolgersi a lui. Filippo gli rimproverava la miseria cui andava incontro, lavorando da solo, mentre avrebbe potuto unirsi agli altri pescatori, ottenendo molto di più. Tra una discussione e l’altra, quasi per gioco, si erano scambiati le poche conoscenze che possedevano. Filippo aveva insegnato a Martino a tirare di scherma e Martino aveva insegnato a Filippo quello che sapeva del mare. Lui, che amava la libertà più d’ogni altra cosa, ammetteva come suo unico padrone il mare. Ed era stato proprio quello a pretenderne la vita, quando un giorno, durante una tempesta scoppiata all’improvviso, l’aveva strappato alla sua barca, che era tornata a terra da sola, trascinata dalle correnti, fino a sfasciarsi contro la scogliera. Per giorni Filippo sperò l’impossibile, scrutando le lievi onde che si frangevano ai suoi piedi in una risacca silenziosa. Dentro di lui la disperazione aveva scavato un pozzo che si era riempito di pece nera. Gli pesava anche solo muovere un passo. Gli pesava respirare. Il dolore mordeva col blu di quel mare indifferente sotto un cielo dello stesso colore. Eppure, non era capace di odiarlo, quel mare che gli aveva portato via tutto.

Filippo si era reso conto, nel momento in cui l'aveva perduto, che Martino era diventato tutto per lui, fratello, amico, confidente, complice. Qualcuno la cui assenza lo menomava, come se a essergli sottratto fosse stato un braccio, una gamba, o il cuore.

Erano ormai trascorsi cinque anni da quella tragedia. Filippo si disse che allontanarsi da quei luoghi carichi di ricordi, l'avrebbe liberato per sempre da quei fantasmi. Andare per mare sarebbe stato come entrare in un mondo nuovo.

 

Lasciò senza rimpianti la stanzetta dove aveva vissuto. La sacca non era pesante, nonostante vi avesse riposto tutti i suoi beni. Guardò il letto disfatto, aprì un'ultima volta la cassapanca, per accertarsi di non aver dimenticato nulla, sfiorò con lo sguardo la sedia di paglia e il tavolino, poi aprì la porta e uscì, richiudendosela alle spalle. Scesa la stretta scala, salutò Marianna, cui consegnò le ultime monete per la locazione, lasciò che gli posasse un bacio sulla guancia e attraversò il portoncino.

Marianna lo vide scomparire sul viottolo in discesa, con passo sicuro e veloce, immaginando a quali pericoli stesse correndo incontro, imbarcandosi in un periodo dell'anno in cui le navi si tenevano prudentemente alla larga dai marosi. Era stato inutile ricordargli quanto il mare fosse infido tra la fine di settembre e la fine di novembre. I suoi saggi consigli non avevano fatto presa sul solitario e silenzioso affittuario. Marianna sospirò e riprese a spazzare il piccolo atrio.

Appoggiato con i gomiti alla battagliola della sua Melisenda, cullato dalla risacca e dagli scricchiolii delle cime, il capitano Ranieri vide lo spadaccino uscire dai vicoli e scendere con passo fermo verso l'attracco. Era l'andatura stabile e decisa di un uomo di terra. Ranieri sperò che non si rivelasse uno di quelli che alla prima cullata davano di stomaco fuoribordo, senza neppure accorgersi di trovarsi controvento.

 

Tulipe Jaune fece gettare tutti fuoribordo, tranne il comandante della nave affondata. Se sapevano nuotare, sarebbero tornati a terra sani e salvi, in caso contrario, sarebbero annegati, ma nessuno avrebbe potuto accusarlo di averli uccisi. Il pirata Tulipe Jaune non ammazzava le sue prede, a meno che non avessero la faccia tosta d’ingaggiare un duello con lui. In tal caso, la sua spada non perdonava. Lo sapevano tutti. E tutti ormai conoscevano il vessillo della sua nave, una strana macchia gialla in campo nero. Tutti i naviganti sapevano che incontrare quel vessillo voleva dire che sarebbero stati spogliati di tutto, ma restava la speranza di salvare almeno la pelle.

Si voltò verso l’ultimo rimasto.

– Cosa dicevi a proposito della Melisenda?

L’uomo corrugò la fronte, chiedendosi cosa poteva guadagnare dalla curiosità del pirata.

– Coraggio, ti lascerò salva la vita, se mi dici tutto quello che sai della Melisenda.

– Dicevo che è ben armata e per questo non andrà mai a picco come la nostra.

– Capisco. E sai anche che cosa sta trasportando?

– Olio e grano.

– Bene. Te ne puoi andare, adesso.

L’uomo si guardò intorno, angosciato.

– Ma siamo in alto mare.

– Hai ragione. Ti faccio aiutare dai miei uomini. Ragazzi, fate un bel lancio!

La Melisenda, ancora. Una vera spina nel fianco. Qualcuno dei suoi uomini aveva cominciato a chiedergli di raggiungerla e attaccarla. Erano convinti che avrebbe aumentato la sua reputazione.

 

Dopo aver rifiutato di unirsi ai marinai che giocavano a dadi, Filippo si era affiancato al capitano Ranieri, sulla tolda.

– Cosa ti preoccupa? – gli domandò, osservando la sua faccia più scura del solito.

– Lo sai cosa dicono? Che la mia Melisenda è una nave fortunata.

– E non sei contento?

– Non c’è cosa che porti più sfortuna che dire a qualcuno che è fortunato, soprattutto se va per mare. Dobbiamo votarci a tutti i santi e pregare il padre eterno che ci preservi dalle invidie. Dobbiamo contare sulle nostre forze, sulle nostre capacità di domare i marosi, non certo sulla fortuna, che secondo me non sa neanche nuotare.

Filippo si mise a ridere.

– Tutti i marinai sono superstiziosi come te?

– No, gli altri sono peggio. Ma ti dirò un’altra cosa che ho sentito a Ragusa l’ultima volta. Dicono che chiunque ti porti a bordo avrà un viaggio liscio come l’olio.

– Questa è proprio bella!

– Hai mai dovuto affrontare un attacco in mare, tu?

– No.

– Appunto. Dicono che tu tieni lontana la malasorte.

– Adesso mi spiego perché ho ricevuto tante proposte d’imbarco.

– E mi dici perché le hai rifiutate?

– Perché mi trovo bene con te.

– Scommetto che ti hanno offerto più di quello che ti pago io.

– In effetti, sì.

– E come mai non ne hai approfittato per chiedermi un aumento di paga?

– Perché non ho potuto ancora dimostrarti il mio valore.

– E io spero che non venga mai quel giorno.

– Anche se mi sento del tutto inutile, qui, me lo auguro anch’io.

Filippo strizzò gli occhi, riparandosi con una mano dal riverbero del sole.

– Cos’è quella?

Il capitano Ranieri indirizzò lo sguardo nella medesima direzione, poi estrasse dal panciotto un piccolo cannocchiale, che allungò con mano esperta, fissando l’occhio nel mirino.

– Ecco cosa si guadagna parlando del diavolo.

– Tutti ai posti di combattimento! – urlò il capitano Ranieri, mentre gli sguardi erano tutti puntati sulla veloce nave che giungeva da poppa.

– Quello è il pirata Zoran. Che Iddio ci aiuti!

Donato si fece il segno della croce, lamentandosi che sarebbero morti tutti.

Si diceva che Zoran non avesse mai risparmiato nessuno.

Filippo vide un’altra nave sopraggiungere all’improvviso. Si voltò verso Donato, che era al suo fianco. Anche lui l’aveva vista.

– E quelli chi sono? Che fanno?

– Sembra che stiano incrociando la rotta di Zoran.

– Ma perché?

– Che bandiera è quella?

– Credo che sia quella del pirata Tulipe Jaune.

Donato tornò a segnarsi.

– Di bene in meglio. Questa volta siamo spacciati.

Il capitano Ranieri intanto urlava ordini per togliersi d’impaccio. Col vento a favore potevano aumentare l’andatura del vascello e fare un tentativo di sfuggire ai due sciabecchi che si stavano intralciando a vicenda.

La fortuna forse non sapeva nuotare, ma il capitano Ranieri ci sapeva fare. La terra era in vista e se pure fossero finiti lontano dalla loro meta iniziale, sarebbero comunque stati al riparo. Il viaggio avrebbe potuto riprendere nel momento in cui fosse stato più sicuro. Stremati, ma salvi, giunsero infine a ridosso della costa. Era sembrato che i due sciabecchi, per un momento, avessero ingaggiato un combattimento tra di loro. Ma nessuno era sicuro di quello che aveva visto, forse perché una cosa del genere non si era mai vista prima. Erano passati indenni in mezzo ai due sciabecchi che li avevano raggiunti e se l’erano filata a gonfie vele sotto il loro naso.

 

Zoran non si capacitava dell’insolenza di Tulipe Jaune.

– In questa zona di mare comando io! – gli aveva urlato Zoran.

Tulipe era scoppiato in una sonora risata. Come se il mare potesse avere frontiere o territori protetti, aveva pensato.

Zoran aveva avuto la peggio ed era stato costretto a mutare la sua rotta.

Quelli della Melisenda avevano visto lo sciabecco di Zoran allontanarsi e quello di Tulipe incrociare per qualche tempo davanti alla costa dove il loro vascello si era ancorato. Poi era scomparso anche quello.

– Beh, Filippo, comincio a pensare anch’io che averti a bordo sia una specie di assicurazione sul carico. Non ho capito quello che è successo tra quei due, ma di sicuro ci abbiamo guadagnato noi. Quando siamo riusciti a passare in mezzo a quei due senza che ci fermassero, non ci potevo credere.

– Si stanno spartendo le rotte, ecco che cosa è successo. E quel Zoran è entrato in un territorio che non è di sua competenza. Tulipe gliel’ha ricordato.

– La prossima volta, dunque, ce la dovremo vedere con Tulipe. Ce l’ha fatto capire.

– Beh, almeno Tulipe si limiterà a buttarci in mare. Io so nuotare, e tu, capitano?

Ma altre immagini lo inseguirono quella notte, mentre guardava le stelle brillanti e lontane, fredde compagne di tante ore insonni.

Tulipe, in piedi sulla battagliola, appeso al paterazzo, che brandiva il suo spadone come un vessillo. Tulipe con la maschera di cuoio che gli nascondeva la faccia, con indosso solo una paio di brache nere infilate negli stivaloni alti alla coscia. Tulipe che urlava con quella voce stentorea che gli aveva dato i brividi. Tulipe che rideva, mentre il sole colpiva i muscoli poderosi delle braccia, il torace maestoso.

 

Il secondo di Tulipe Jaune aveva lo sguardo rabbuiato del mare in tempesta.

– Potevamo prenderla. Era nostra. Perché diavolo l’hai lasciata fuggire? Era la Melisenda!

– A nessuno su quella nave dev’essere torto un capello. Te l’ho già detto e te lo ripeto. Cosa c’è che non capisci dei miei ordini?

– Perché? Non capisco perché!

– Questi sono affari che non ti riguardano.

– Sono il tuo secondo, per il diavolo!

– Ma qui comando io.

Beltrano si allontanò sputando e borbottando.

Tulipe chiamò uno dei suoi uomini, quello di cui si fidava di più.

– Gerardo, controlla da vicino il secondo. Che non gli venga in mente di sollevare i compagni contro di me o di disubbidire ai miei ordini.

L’interpellato si calcò in testa il cappellaccio e ghignò, mostrando un sorriso sdentato, poi si allontanò seguendo Beltrano.

 

Erano ormai tre anni che Filippo faceva da scorta alla nave che da Vieste si recava a Ragusa. In tutto questo tempo, non aveva mai dovuto dimostrare la sua capacità di abile spadaccino e cominciava a temere di essere ormai arrugginito, anche se si allenava ogni volta che gli era possibile. Si era ormai al 10 di ottobre, ma questa data aveva smesso di avere importanza per Filippo. Martino era un ricordo lontano, che ritornava di rado, solo per dargli una fitta di dolore, che subito svaniva. Aveva trovato nel mare un capace guaritore. Era sul punto di partire per la Sicilia. Una rotta nuova, per lui. La Melisenda trasportava preziose stoffe giunte da Salonicco. Sarebbe poi rimasta in secca fino a primavera, per trasportare indietro un carico di pesce salato e fichi secchi.

Fu poco prima di arrivare a Cefalù che la Melisenda incontrò infine il suo destino, che aveva di nuovo la bandiera di Zoran. Questa volta la fortuna di Filippo non bastò. La battaglia fu dura e sanguinosa, ma Filippo non fu in grado di vederne le sorti. Un colpo in testa lo tramortì a tradimento mentre incrociava la spada con uno dei pirati.

 

Quando riprese i sensi era sulla terraferma, sicuramente lontano dal mare, di cui non sentiva lo sciabordio, forse rinchiuso in una segreta. Il buio totale gli impediva di capirlo con certezza. Silenzio, buio e mani e piedi legati. Zoran l’aveva preso prigioniero. Filippo si disse che in fondo la fortuna non l’aveva abbandonato completamente. Non si era mai sentito che Zoran facesse prigionieri. Perché l’aveva lasciato in vita? Che cosa voleva da lui? Si arrovellò su quel dilemma per molto tempo, prima che il silenzio fosse interrotto dal suono attutito di passi che si avvicinavano. Un rumore di ferraglia spalancò un rettangolo di luce in cui si stagliò netta la figura di Zoran. Vedendolo raggomitolato in un angolo, il pirata scoppiò in una risata disgustosa. Altri due uomini lo seguirono nella stanza.

– Finalmente! Non sai da quanto aspettavo questo momento!

Filippo riuscì con fatica a conquistare la posizione seduta. Avrebbe voluto alzarsi in piedi, ma comprese che era impossibile.

– Che cosa vuoi da me?

Zoran rise di nuovo.

– Da te, cimice? Proprio niente. Tu sei lo strumento che mi restituirà il mio territorio. Voi, dategli da mangiare e da bere. E trattatelo bene. Mi serve vivo.

Zoran si allontanò, lasciando nella stanza i due uomini che lo accompagnavano. Uno reggeva la torcia, l’altro una pignatta e una brocca che depositò ai suoi piedi.

– Se non mi liberi le mani come faccio a mangiare? – disse Filippo.

– Ha ragione – grugnì il primo.

– Zoran non ha detto che dovevo liberarlo.

– Ha detto che deve mangiare e bere e a meno che non vuoi essere tu a imboccarlo, devi sciogliere quella corda.

L’uomo si grattò la testa. Poi, come se quell’azione gli avesse in qualche modo messo in funzione il cervello, si decise, recidendo le corde con un pugnale.

– Andiamo. Può mangiare da solo.

Mentre si allontanavano, Filippo chiese se potevano lasciargli un po’ di luce.

– E che altro vuoi, signorino, le chiavi della porta?

– Dai, non fare storie. Come fa a mangiare al buio?

L’uomo con la torcia arrivò in fondo allo stanzone e ne tornò con un mozzicone di candela, che accese e lasciò a una buona distanza dal prigioniero.

– Non durerà molto, ma tra poche ore sarà l’alba.

I due uscirono brontolando e richiusero la spessa porta.

 

Tulipe estrasse la spada con la precisa intenzione di decapitare in un sol colpo il messaggero che gli aveva appena portato la ferale notizia. Il messaggero si buttò a terra in attesa del colpo.

Tulipe lo guardò.

Tutti i presenti trattennero il fiato, mentre si udivano soltanto i  morbidi tonfi della vela che si tendeva imbrigliando i colpi del vento.

– Dove diavolo hai detto che sta?

– All’Isola delle Femmine, nella torre quadra.

– E dov’è?

– Nella baia di Carini.

Tulipe rinfoderò la spada.

– Sparisci, prima che ci ripensi.

Il messaggero non se lo fece ripetere due volte. In due falcate raggiunse la battagliola e la scavalcò, scivolando velocemente lungo la cima, fino al salto che lo riportò sulla tartana con cui si era affiancato allo sciabecco di Tulipe Jaune.

Gerardo si avvicinò al suo comandante. Lo osservò di sottecchi, sputò fuoribordo e poi gli chiese – E adesso?

– Adesso andiamo a vedere se è tutto vero.

– Tulipe, questa storia puzza tanto di trappola.

– Se così sarà, combatteremo.

– E se invece è vero, che cosa te ne importa?

– Questi sono affari miei.

– Lo so, che sono affari tuoi, che tu sei il capo, e che un mare forse vale l’altro, ma perché cedere a un ricatto di quel gran figlio di puttana?

– Non hai niente da fare, Gerardo? Vai a dare una mano al cuoco di bordo.

Gerardo si allontanò brontolando.

Tulipe maledisse Zoran e la sua sfacciata fortuna. Quello era un diavolo. Si diceva che leggesse il futuro nelle stelle, che a insegnarglielo fosse stata una donna che aveva rapito e poi ucciso con le sue stesse mani il giorno in cui aveva capito che gli aveva fatto una fattura d’amore.

 

Zoran osservava il tramonto dalla torre. L’Isola delle Femmine prometteva senza mantenere. Se donne c’erano state, ora non c’erano più. Si diceva che fossero state sette, bellissime, disponibili, che attiravano con dolci incantesimi ogni marinaio che passava nello stretto. Si diceva. Ma Zoran, agli incantesimi come alle fatture, non credeva più. Aveva ucciso la sua ultima illusione, era libero. La sua forza risiedeva nel non credere in nulla. O meglio, nulla che non dipendesse da lui, dalla sua forza, dalla sua intelligenza, dalla sua volontà. Lui e il mare, lui e la sua spada. Riusciva ad ammettere che Tulipe Jaune fosse un degno avversario, ma di ogni avversario, anche pari in forze, bastava scoprire il punto debole, per trovare il modo di annientarlo. E lui l’aveva trovato. Non era stato difficile. E ora giaceva là sotto, a qualche metro da lui, in attesa del suo destino. Quella era una scommessa. Se aveva indovinato, molto presto Tulipe si sarebbe presentato a lui. Altrimenti... beh, altrimenti, Grimaldi sarebbe morto.

 

Tulipe Jaune si presentò alle prime luci dell’alba. Lo sciabecco di Zoran era in rada. Si vedevano alcuni dei suoi uomini ramazzare o lucidare gli ottoni della nave. Ma Zoran doveva essere all’interno della torre.

Sbarcò con due dei suoi uomini, poi ordinò che restassero alla lancia.

– Tulipe, vengo con te – disse Gerardo.

– No, il messaggero è stato chiaro. Devo presentarmi da solo. E poi ne abbiamo già parlato. Sai quello che devi fare.

– Questa è una trappola, lo sai anche tu.

– Devo rischiare.

Tulipe guardò lo sciabecco nemico.

– Eseguite gli ordini e non fatevi ammazzare.

 

Mancavano pochi passi al portone della torre, quando Tulipe ne vide uscire Zoran, con la mano sull’elsa del suo spadone. Si fermò davanti a lui, a distanza di sicurezza e abbassò il capo in un saluto silenzioso.

– Splendido giorno per me, Tulipe Jaune. E per te?

– Che cos’è questa storia?

– Non fingere con me. Se sei arrivato fino a qui, vuol dire che sai benissimo cos’è questa storia. Dovrai accettare le mie condizioni. Io ritorno nella mia zona di pesca e tu te ne trovi un’altra. Altrimenti lo farò a pezzi sotto i tuoi occhi.

– Chi mi assicura che tu non l’abbia già fatto?

– Vieni a vedere tu stesso.

Tulipe si voltò indietro verso i suoi uomini.

– Da solo – aggiunse Zoran.

Tulipe pensò che si stava giocando tutto.

– Andiamo.

 

Filippo era riuscito a sciogliere i nodi delle caviglie e da quando un filo di luce aveva rischiarato il grande sotterraneo, camminava avanti e indietro, misurando a lunghi passi il territorio della sua prigionia. Continuava a chiedersi che cosa Zoran volesse da lui. Cosa c’entrava con Zoran? Perché mai doveva essere lo strumento che gli avrebbe permesso di tornare padrone incontrastato del mare di Puglia?

La pesante porta si aprì mentre guardava una striscia di cielo da una delle feritoie che fornivano aria e luce al sotterraneo. La singolare coppia di pirati che si presentò davanti a lui, lo stupì.

– Come vedi è vivo, per ora – disse Zoran.

– Vedo, sì.

– Che cosa volete da me? – chiese ancora una volta Filippo.

– Non sei stato interpellato – lo zittì Tulipe.

Filippo non disse più nulla, ma la sua attenzione si concentrò sulla voce di Tulipe, una voce che risvegliava in lui ricordi di un passato lontano, una voce che gli pareva di riconoscere. Forse era solo un’impressione e in ogni caso non aveva più importanza. Ma mentre si diceva che quella faccenda era ormai chiusa, sapeva benissimo che non era vero, perché avvertiva dentro di sé una tensione nuova e un coagulo oscuro di desideri, rimpianti, sogni, speranze.

– Allora, affare fatto? – domandò Zoran.

– Andiamo a parlarne fuori.

– Perché? Qui non puoi parlare? Devi dire solo sì o no. Se dici sì me ne vado. Se dici no, devi assistere allo spettacolo.

Ignorandolo, Tulipe uscì dalla porta, ma riapparve poco dopo, con la spada sguainata.

– Fai allontanare i tuoi uomini, se non vuoi assaggiare questa.

Zoran ebbe la prontezza di raggiungere Filippo e mettergli un coltello alla gola.

– Devi solo dire sì o no. Non ti chiedo troppo, mi pare. Ci metto un attimo a sgozzarlo. E subito dopo, a un mio ordine, i miei uomini penserebbero a te. Nemmeno tu usciresti vivo da qui.

– Hai fatto male i conti, Zoran. I miei uomini sono già sulla tua nave. Hanno ordine di colarla a picco se non mi vedono tornare entro un’ora. Che tu mi ammazzi oppure no, i tuoi traffici finiscono qui.

– Non è vero. I miei uomini mi avrebbero avvertito.

– Quali? Quelli qui fuori o quelli rinchiusi nelle tue stive?

Zoran chiamò a gran voce i suoi uomini, che si precipitarono nello stanzone.

– Avete notizie dalla nave?

– Tutto tranquillo.

– Andate a controllare.

Un paio di uomini si allontanarono, mentre altri due restarono a sbarrare la porta.

Passò del tempo. Zoran restò immobile dietro Filippo, con il pugnale puntato alla sua gola, Tulipe con la spada sguainata a metà della stanza, e i due uomini davanti alla porta.

– Perché ci mettono tanto?

– Vuoi che andiamo a vedere?

– Andate, ma sbrigatevi a tornare!

Filippo fissava il volto di Tulipe, chiedendosi quanto orribile dovesse essere il suo viso, per avergli fatto decidere di coprirlo con una maschera di cuoio. L’umidità e la salsedine ne avevano scurito il colore, che era molto simile a quello della barba che gli nascondeva il resto del volto. Sentiva il coltello di Zoran premergli la gola e il respiro del pirata sulla nuca, tanto gli era vicino.

– Non torneranno. I miei uomini avevano l’ordine di fermare i tuoi. Adesso tocca a te. Se ti arrendi, ti restituirò la tua nave.

– Lo ammazzo!

– Come vuoi. Ma sappi che non uscirai vivo da qui.

A queste parole, entrarono Gerardo e i suoi cinque compagni, quattro dei quali erano stati sbarcati prima dell’alba sulla riva opposta dell’isola.

– Devi decidere, Zoran – disse Tulipe.

– Dove sono i miei uomini?

– Legati come salami vicino al pozzo – rispose Gerardo, ridendo.

– E la nave?

– In mano ai nostri compagni. A un mio segnale hanno l’ordine di colarla a picco – spiegò Gerardo.

– Che cosa vuoi fare, Tulipe?

– Io non ce l’ho con te. Tu libera il prigioniero e io ti restituirò la nave.

– Io rivoglio il mio territorio.

– Scordatelo. Non è tuo. Il mare è di tutti.

Zoran valutò le sue possibilità. Gli era andata male. Allontanò il pugnale dal collo di Filippo.

– Hai vinto, Tulipe.

– Lascia qui le tue armi.

Zoran gettò in terra lo spadone e il pugnale.

– Ragazzi, accompagnatelo dai suoi uomini e date il segnale alla nave.

– Arrivederci, Tulipe. Alla prossima.

– Addio, Zoran. Onde evitare malintesi, sappi che abbiamo un cannone puntato sulla tua nave. Quindi, non fare scherzi.

Zoran si allontanò in mezzo agli uomini di Tulipe.

Filippo osservò il pirata.

– Prendi le armi e seguimi – ordinò Tulipe.

– Che cosa vuoi da me?

– Voglio che ti togli dai piedi. Se ti è cara la pelle, cercati un ingaggio da queste parti, perché la prossima volta Zoran ti ammazza senza pensarci due volte.

Tulipe fece due passi, ma Filippo non si mosse. Ascoltava quella voce, che risvegliava un ricordo lontano, messo in un angolo, un ricordo che ora riaffiorava trascinandosi dietro un dolore.

– Martino... – mormorò Filippo.

Tulipe si bloccò di colpo, come se lo avessero colpito. Poi si volto e lo guardò.

– Martino è morto.

– Come fai a saperlo?

– Perché io c’ero.

– Smettila. Sei tu Martino Lippolis.

Tulipe rinfoderò la spada.

– Lo sono stato, sì, ma in un altro tempo.

Filippo cominciò a domandarsi perché Zoran avesse potuto pensare che Tulipe, cioè Martino, desse alla sua vita tanta importanza da poterlo ricattare. In realtà lui non contava davvero nulla per Martino. Se avesse contato qualcosa, gli avrebbe fatto sapere di essere vivo. Filippo ricordò tutti gli anni in cui aveva gettato un tulipano giallo in mare, il fiore preferito da Martino, un fiore incredibilmente difficile da procurarsi. Tulipe Jaune ne aveva fatto un nome, una fama e una bandiera.

– Adesso che so chi sei, puoi anche toglierti la maschera.

– Non ne vedo il motivo. Andiamo, ti sbarcherò in Sicilia. Non posso fare di più, per te.

– Puoi tenermi con te. So usare la spada e so dare una mano nella navigazione.

Tulipe lo osservò.

– Questa è bella. Vuoi passare al nemico? Ma che ti prende? Noi non abbiamo patente di corsa. Siamo fuorilegge. Se ci prendono c’impiccano. Sei stanco di vivere?

– Dammi una possibilità.

– Di farti ammazzare?

– Spiegami perché sei qui.

– Non devo spiegarti niente.

– In nome della nostra vecchia amicizia, dimmelo.

– Andiamo di sopra. Voglio vedere che cosa stanno facendo i miei uomini.

Dalla torre la vista spaziava nello stretto, fino alla costa opposta, dove svettava una torre rotonda. Gli uomini di Tulipe avevano lasciato la nave di Zoran e stavano per raggiungere la sua, mentre Zoran e i suoi uomini si erano appena staccati dalla costa.

– Perché Zoran pensava di poterti chiedere qualcosa in cambio della mia vita?

– Perché è un pazzo. Non l’hai capito?

– Perché non mi hai fatto sapere che eri vivo?

– Martino è morto. Sei duro a capire!

– Allora fammi vedere la tua faccia.

Tulipe si allontanò dagli spalti.

– Sei sempre il solito. Non capisci mai quando è il momento di lasciare in pace la gente.

– Mi sei mancato, Martino.

– Il mio nome è Tulipe Jaune. La prossima volta che mi chiami Martino ti passo a fil di spada.

– Va bene, Tulipe, ho capito. Se è questo che vuoi, difenditi!

Filippo si mise in guardia, puntando lo spadone di Zoran sul pirata. Tulipe sguainò la sua arma, affondando immediatamente. Filippo parò. Quante volte si erano battuti, quando Filippo insegnava a Martino l’arte del duello! Anche allora, il difetto del suo amico era l’irruenza. Preferiva essere sempre all’attacco, piuttosto che temporeggiare per studiare l’avversario. Ma in quell’occasione bisognava ammettere che non ce n’era alcun bisogno: Tulipe conosceva benissimo il suo avversario. Nonostante tutto, Filippo riuscì a disarmarlo con un colpo improvviso e a puntargli lo spadone alla gola.

– E adesso togliti la maschera.

Bestemmiando, Tulipe sollevò lentamente le mani dietro la nuca, sciogliendo i nodi che la tenevano ferma. La maschera di cuoio cadde ai suoi piedi. Filippo abbassò lo spadone per la sorpresa. Il volto di Martino non era stato deturpato. Era sempre lui, solo più maturo. La barba gli donava un aspetto autorevole, molto serio. Lo sguardo però era duro, molto diverso da quello che conosceva un tempo. Quello era lo sguardo di Tulipe Jaune, freddo, crudele, ostile.

Filippo chinò il capo.

– Adesso puoi rimettertela, Tulipe. Hai ragione, Martino è morto.

Sollevò di nuovo lo sguardo per fissare Tulipe negli occhi.

- Lo sai, per cinque anni, il 10 di ottobre, ho gettato in mare un tulipano giallo in suo onore. Avevo sofferto in modo terribile per la sua scomparsa. Mi aveva spezzato il cuore. Ma adesso neppure quel Filippo esiste più. Puoi raccogliere la tua spada. Devo ammettere che sei diventato molto bravo. Ti aspetto di sotto.

Filippo voltò la schiena a Tulipe, allontanandosi. Sentiva un dolore acuto, che cercava di ricacciare in fondo. Si diceva che non gl’importava più niente, ma sapeva benissimo che non era vero: la resurrezione di Martino gli aveva regalato una speranza folle, che poi era svanita lasciandogli l’amaro in bocca. Non c’era più calore in Martino, neppure l’ombra di quell’amicizia che li aveva legati, di quello strano miscuglio di sentimenti che gli aveva fatto credere di amarlo. Rammaricarsi di tanta giovanile stoltezza era davvero fuori luogo.

Mentre scendeva le scale, Filippo si aspettava quasi di essere fermato dal lancio di un pugnale dietro la schiena. Invece arrivò al piccolo cortile coperto. Il sole picchiava fuori dal portone.

– Filippo.

Filippo si voltò.

– Ti sbarcherò a Carini. Da quel momento le nostre strade si divideranno.

– Come vuoi, Tulipe. Per me un posto vale l’altro.

Abbassò il capo e aggiunse:

- Le nostre strade si sono già divise. E non per mia scelta.

Tulipe non disse nulla.

 

Gerardo e Totò aspettavano Tulipe alla lancia. Era andato tutto secondo i piani, con grande soddisfazione di Gerardo, che ammirava senza condizioni il suo comandante. Se qualcuno gli diceva che aveva una vera venerazione per lui, Gerardo sputava in mare e cominciava una vera litania di bestemmie, ben articolata. Nello stesso modo odiava quel Filippo Grimaldi per cui avevano rischiato di finire in una trappola. Gerardo odiava tutto quello che poteva sminuire le forze di Tulipe. E ora lo vedeva avvicinarsi al fianco del suo comandante. Qualcuno doveva trovare una soluzione.

 

Alla cena, nel cassero, si festeggiava la buona riuscita dell’impresa. Erano presenti Tulipe, il secondo Beltrano, Gerardo, e il primo timoniere, Corrado.

– Manca l’ospite d’onore, mi pare – commentò quest’ultimo.

– Non è un ospite d’onore: non siamo mica stati noi a invitarlo. Domani mattina lo sbarcheremo e ce lo toglieremo dai coglioni.

– Si può sapere perché ci siamo dati la pena di venire a salvarlo dalle grinfie di Zoran? – domandò il secondo.

Tulipe lo fissò per un attimo in silenzio. Poi si decise a rispondergli.

– Avevo un debito di riconoscenza con lui. Adesso abbiamo pareggiato i conti. Sei contento, ficcanaso?

– Alla salute, Tulipe! Un pirata che rispetta un debito di riconoscenza, è davvero un grand’uomo!

– Alla salute! – urlarono tutti.

Filippo sentiva le urla e le risate. La sua posizione sul ponte non era molto comoda e faceva abbastanza freddo, ma aveva mangiato e gli avevano buttato una coperta per scaldarsi. La luna era alta nel cielo, ma come il solito non riusciva a dormire. Tulipe non gli aveva risposto. Perché Zoran aveva potuto immaginare di ricattarlo prendendolo prigioniero? Perché si era degnato di venire a salvarlo? E oltre tutto contro il parere dei suoi uomini, che lo guardavano con disprezzo, se non con odio. Ed era chiaro che non vedevano l’ora di levarselo di torno.

Non aveva nessuna importanza, nessuna: a Tulipe non importava niente di lui e a lui non importava niente di Tulipe. E andava bene così. E quel dolore che lo rodeva sarebbe svanito presto, appena fosse stato lontano da quel fottuto posto.

Più tardi qualcuno si avvicinò a lui.

– Tulipe ti vuole.

Filippo si alzò.

– Meglio se le armi le lasci a me.

– È un ordine di Tulipe?

Gerardo si mise a ridere. – No, è un ordine mio. Non mi fido di te.

– E io non mi fido di Tulipe.

– Bella gratitudine, dopo che ha rischiato tutto per venirti a salvare dalle grinfie di Zoran.

– E perché l’ha fatto?

– Non te lo immagini?

– No. Dimmelo tu.

– Fattelo dire da Tulipe.

Tulipe era solo nella stanza e forse aveva bevuto un po’ troppo, ma reggeva bene il vino. Lo invitò a sedersi con un inchino cerimonioso.

– Credo sia giusto che possa festeggiare anche tu.

Riempì un bicchiere fino all’orlo e lo invitò a bere con lui.

– Grazie. E grazie per essere venuto a salvarmi. Alla tua salute! – disse Filippo, mentre osservava il suo volto.

– Oh, quale onore! Un ringraziamento! Sono davvero colpito.

Tulipe si era rasato la barba e aveva abbandonato la maschera. Filippo aveva lo stomaco pressato in una morsa. Rivedere Martino era un dolore violento, uno di quelli che tolgono il fiato e tagliano le gambe.

– Bevi, bevi con me. Si dimenticano tante cose nel vino, vero?

Filippo bevve, mentre rispondeva:

- C’è chi non ha bisogno di vino per dimenticare.

Tulipe si irrigidì.

- Piantala di pensare al passato. Non esiste più.

- Già – replicò Filippo, con sarcasmo – c’è chi è bravo a lasciarselo alle spalle.

Tulipe lo fissò accigliato, ma Filippo non intendeva rinunciare a gettargli in faccia la sua rabbia. Disse, nuovamente sarcastico:

– Sono stato felice di scoprire dopo tutto questo tempo che eri ancora vivo. Magari mi avrebbe fatto piacere saperlo prima, ma in fondo, perché avresti dovuto darmi tue notizie? Non c’era motivo.

Tulipe non rispose. Si limitò a osservare:.

– Anch’io sono felice che tu sia vivo. Alla salute!

Si guardavano come due nemici. Filippo avrebbe voluto abbracciare Martino, perché l’uomo che aveva davanti era Martino, e la coscienza di quanto il suo sentimento fosse ancora forte, dopo tanti anni, lo riempiva di una rabbia cieca, che cercava di sfogare sull’uomo che aveva amato. Sull’uomo che amava ancora, lo sapeva benissimo. Avrebbe voluto provocarlo ancora, destare la sua furia, forse farsi uccidere. Se Martino lo avesse ucciso, avrebbe smesso di soffrire.

- Perché sei stato tanto coglione da venire a salvare uno di cui non ti importa niente?

Tulipe sembrò digrignare i denti.

- Bevi, Filippo, bevi. Che forse se ti ubriachi spari meno cazzate.

- Dai, spiegamelo.

Tulipe scosse la testa.

- Se non capisci una cosa che ha capito perfino quello scemo di Zoran, vuol proprio dire che sei una testa di cazzo.

- E che cosa ha capito, quel coglione?

Tulipe si avvicinò a Filippo, il viso irrigidito in una maschera di rabbia. Ora erano a una spanna l’uno dall’altro.

- Va a farti fottere, Filippo.

Se Filippo si fosse reso conto di quello che stava facendo, si sarebbe fermato, ma le sue mani si mossero da sole e si posarono sulle guance di Martino, perché quello era Martino, non Tulipe. E la sua bocca si poggiò sulle labbra del pescatore.

Martino rimase un attimo paralizzato, poi le sue braccia strinsero il corpo di Filippo. Scivolarono a terra, rotolando, baciandosi e spogliandosi: al diavolo i vestiti e gli stivali, e al diavolo tutto il resto.

 

In diversi anni sulla nave, Tulipe si era preso molti uomini e spesso, affondando la sua arma vigorosa tra i fianchi di qualche giovane pirata, aveva pensato all’unico uomo che desiderava realmente. Come sarebbe stato affondare lo spadone nel bel culo di Filippo? Quello era stato il suo pensiero fisso, fino a quella notte. Avrebbe voluto verificare subito, ma la tensione delle ore precedenti non si era ancora sciolta e in Filippo, sebbene lui non avesse alcuna intenzione di fare opposizione, prevalse il desiderio di prendersi per primo la rivincita sul tulipano. Tulipe lottò per un poco, senza convinzione, troppo debole per resistere alle possenti braccia di Filippo e così finì per trovarsi sotto. Sapeva che Filippo non avrebbe avuto pietà di lui, come lui non l’avrebbe avuta di Filippo, perché la notte che incominciava sarebbe stata lunga e ognuno avrebbe avuto la sua parte.

Filippo lo infilzò senza tante cerimonie, strappandogli un gemito e mentre lo possedeva, lo insultava dando fondo a tutto il suo vocabolario di soldato, ma Tulipe sapeva che gli stava gridando il suo amore. Quando Filippo ebbe finito, venendo con un grido, fu il turno di Tulipe, che non fu più delicato, né meno appassionato. Scoprì, con immenso stupore, che era il primo uomo a possedere Filippo e il pensiero gli trasmise un senso di euforia incredibile. Dopo il primo impeto, ripresero a baciarsi e ad accarezzarsi, a mordersi e a lottare, finché si lanciarono in nuovi giochi, senza ritegno. Era quasi l’alba quando si addormentarono, l’uno sull’altro.

 

Più tardi Filippo si svegliò, sul pavimento. Tulipe non c’era. Filippo si sollevò in piedi, con una certa fatica, e andò alla ricerca dei suoi vestiti. Trovò gli stivali sotto il tavolo e la camicia sulla sedia.

Tulipe rientrò in quel momento.

– Tra poco potrai sbarcare – gli annunciò.

– Io non vado da nessuna parte.

Il sorriso ironico di Tulipe, gli fece un buco nello stomaco, mentre il suo sguardo lo passava in rassegna da capo a piedi.

– E che cosa proponi, esattamente?

– Resto con te.

– Vuoi fare il pirata? Bravo, ottima scelta. Lo sai che la tua fama era immeritata, vero? La Melisenda l’ho sempre difesa io.

– Ad eccezione dell’ultima volta. Cosa ti ha trattenuto?

– Un’informazione falsa. A questo è arrivato Zoran. Per chi naviga spargere false notizie è il peggior crimine possibile.

– Potevi approfittarne per ucciderlo.

– Non mi piace ammazzare. Lo trovo inutile. Tanto si muore lo stesso, prima o poi, no?

– Adesso mi racconti come sei diventato Tulipe Jaune.

– Semplice. Ho incrociato questa nave, quel giorno, mentre pescavo. Non era la prima volta, ma quel giorno avevano bisogno di me. Durante un arrembaggio avevano perso metà dell’equipaggio e stavano cercando carne fresca. Beh, l’hanno trovata. E poco dopo è scoppiata una tempesta. Probabilmente, prendendomi a bordo, mi hanno salvato la vita. Dopo un paio d’anni, c’è stato un ammutinamento e io ho incrociato la spada con il capitano. Aspettavo quel momento da tempo. Avevo già pronta la bandiera e metà dell’equipaggio era dalla mia parte. Gli altri si sono convinti, o li abbiamo buttati in mare. Non è stato difficile. Ho avuto un buon maestro d’arme.

– Anch’io adesso ho bisogno di un buon maestro – disse Filippo, iniziando a spogliare Tulipe.

– E va bene. Se mi dimostri che vale la fatica, magari ti tengo con me...

La bocca di Filippo sulla sua gli impedì di continuare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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