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La svolta
Mansur interviene: - E allora? Non so che
cosa ci sia di vero in queste chiacchiere da vecchie comari, ma se anche
fosse così? Omar si risente e il tono
della sua risposta tradisce la sua irritazione. - Un uomo non se lo prende
in culo. - Ce lo siamo presi tutto
in culo, Omar. E ci piaceva anche. È vero. Nel quartiere dove
siamo nati e vissuti c’è una delle più grandi caserme del Paese e i soldati
di stanza cercano i ragazzi. Vanno spesso a caccia nella nostra zona, perché
qui la gente è povera e loro sanno che possono trovare più facilmente
qualcuno che ci sta. Noi non ci facevamo pregare troppo: era bello essere
cercati e desiderati, ricevere due carezze e non solo gli schiaffi che ci
davano a casa, magari un regalino ogni tanto. Da ragazzi ci siamo stati
tutti, o quasi, anche Omar. Qui vengono a caccia anche
i turisti: sono soprattutto spagnoli e francesi, ma anche inglesi, italiani,
americani e tedeschi. Pure loro cercano i ragazzi, alcuni perfino i bambini,
e molti vanno con loro per guadagnare due soldi. Io da ragazzo non sono mai
andato con i turisti, ma con un soldato sì. Khaled era dolce, stavo bene con
lui. Ed è vero che mi piaceva quando mi prendeva, anche se adesso che sono un
uomo preferisco dimenticarlo, come tutti. Omar non demorde: - Ma eravamo ragazzi. - Ci piaceva. E se a Qais piace ancora, saranno cazzi suoi, no? Karim annuisce e commenta: - Sì, Mansur ha ragione.
Che faccia quello che gli pare. Il culo è il suo. Omar alza le spalle. Non è
convinto, ma sa che è inutile insistere. Se Mansur non fosse intervenuto,
probabilmente gli altri gli avrebbero dato ragione, da noi è considerato
inaccettabile che un uomo si faccia penetrare. Ma non hanno voluto
contraddire Mansur. Lui ha molto ascendente su tutti noi. È un amico fedele,
leale, generoso, su cui sappiamo di poter sempre contare. Ed è uno spirito
libero, che ragiona con la sua testa. Karim si stiracchia e si
alza. - Io mi faccio un altro
bagno. Lo imitiamo tutti, tranne
Omar, che però si unisce a noi quando si accorge che rimarrebbe da solo. Il
fiume non è profondo, ma l’acqua offre refrigerio ed è piacevole sguazzare un
po’. Torniamo a riva. Omar non
ha ancora digerito la critica di Mansur e riprende il discorso con una
battuta: - Avevi anche tu un
soldato che ti stava dietro, Mansur? Non avrei detto. La battuta non è bonaria.
I tratti del viso di Mansur sono molto irregolari e l’ampia cicatrice di
un’ustione si estende su tutta la parte sinistra, dalla tempia fino al mento.
Anche sul corpo, ricoperto da un fitto vello, ci sono le tracce di
bruciature. Mansur
non se la prende. Risponde tranquillo: - Una ventina d’anni fa
non ero sfigurato e non avevo tanto pelo. Non ne avevo quasi niente. Non ero
uno scimmione come adesso. A prendersela è invece
Ahmed: - Sai come Mansur si è
procurato quelle cicatrici, Omar. Lui può vantarsene. E’ vero, delle sue
cicatrici Mansur può essere orgoglioso, anche se lo sfigurano. L’episodio risale a una decina
di anni fa, ma è ben vivo nella memoria di tutti noi. Mansur aveva
ventiquattro anni quando scoppiò un grosso incendio in una casa del
quartiere. Un bambino di tre anni rimase intrappolato in una stanza e gridava
disperato, ma nessuno se la sentiva di affrontare il muro di fiamme che
sbarrava l’ingresso. Mansur si lanciò nel fuoco, riuscì a raggiungere il
piccolo, lo afferrò e cercò di portarlo in salvo. Gli crollò addosso una
trave, ma lui riuscì a riparare il bambino e a portarlo fuori, prima di cadere
a terra privo di sensi, l’abito in fiamme. Si salvò soltanto perché, proprio
mentre crollava al suolo, arrivarono due uomini con i secchi per spegnare
l’incendio. I due ebbero la prontezza di rovesciargli l’acqua addosso, prima
che il fuoco lo uccidesse. Rimase comunque due mesi in ospedale e il padrone
dell’officina in cui lavorava lo licenziò.
Ci fu anche una raccolta
di fondi, lanciata da un giornale locale, che ottenne una bella somma per
“permettere all’eroico giovane di ricostruire il viso sfigurato”. Mansur prese i soldi, ma
non gli passò neanche per la testa di farsi un’operazione di chirurgia
plastica: li diede a uno dei suoi fratelli, perché potesse andare in Francia
e avviare un’attività. Quelli del giornale rimasero delusi: speravano di poter
mostrare “l’eroico giovane” prima e dopo l’intervento, ma fu comunque
l’occasione per un secondo servizio su di lui. Guardo Mansur, steso al
sole. No, non si può proprio dire che sia attraente. Il naso aquilino e la grossa
cicatrice danno al suo viso un’aria truce, accentuata dalla barba nerissima,
che nasconde la parte inferiore dello sfregio, e dalle sopracciglia spesse e
scure che si congiungono sopra il naso. Il corpo, forte e massiccio, non è
certamente elegante e una fitta peluria nera ricopre il petto, il ventre e
gli arti. A vederlo così sembrerebbe l’orco cattivo delle fiabe, ma è invece
la persona più buona e generosa che io abbia mai incontrato. Lo conosco bene, perché da
dieci anni lavoriamo insieme, nell’officina di Sayyid
Abbas. Fui io a convincere Sayyid Abbas ad
assumerlo, quando il suo padrone lo licenziò. Sayyid
Abbas non si è mai pentito di quella scelta, che gli ha portato diversi
clienti. Io lavoro volentieri con
Mansur. È molto in gamba: sa tutto sui motori e mi ha insegnato un sacco di
cose. Non è uno di quelli che tengono per sé ciò che sanno. È ormai ora di andare. Il
nostro giorno di riposo è finito. Domani si riprende a lavorare. Quelli che
sono venuti con Omar salgono sulla sua macchina. Io inforco la bici, mentre
Mansur si allontana sulla sua motoretta, vecchia e consunta, ma perfettamente
funzionante: non potrebbe essere altrimenti, perché la tiene con grande cura. Mentre torno a casa, mi
sento infelice. La sera dei giorni festivi è spesso così. La stanza che
affitto da Fatima mi sembra triste e squallida, ma so bene che il problema
non è la stanza. Sono io a essere insoddisfatto. Ho trentaquattro anni,
come Mansur, e mi sembra di non sapere bene che cosa fare della mia vita. Ho
un lavoro, pagato una miseria, ma che mi permette di sopravvivere, senza
prospettive di miglioramento. Non ho nessuno. Anche
Mansur vive da solo, in una camera in affitto, ma ha una madre e due sorelle
qui, oltre ai fratelli in Francia. Io non ho contatti con i pochi parenti che
mi sono rimasti: non ho fratelli, mia madre è morta quando ero bambino, mio
padre si è sbarazzato subito di me, lasciandomi in carico a una sorella che
mi considerava solo un peso. Ho alcuni amici, ma nessuno a cui sia davvero
legato, a parte Mansur. Guardo i muri della
camera, spogli e scrostati. Quando mi sono trasferito qui ho cercato di
rendere la stanza più accogliente: ho appeso alla parete due manifesti che mi
aveva regalato un amico e ho messo una coperta colorata sul letto, ma non è
servito a nulla. Ho rinunciato ad apportare altri miglioramenti. Mi guardo intorno e tutto
mi appare desolato. Mi sento un animale in gabbia. Non reggo a stare qui
dentro. So come farmi passare
questa tristezza o almeno scordarla per un po’. Esco e mi dirigo verso il
centro della città, non alla Medina, dove a quest’ora ci sono pochi
stranieri, ma nelle vie eleganti, dove è facile incontrare qualche europeo o
americano. Lo faccio due o tre volte al mese. I turisti che mi interessano
non sono quelli che vengono per i ragazzi e i bambini e che di solito li
cercano in altri quartieri. Sono quelli che amano essere prede, non
cacciatori. Quando incrocio uno
straniero, lo guardo. Non in modo insistente, solo un momento, fino a che i
nostri sguardi s’incrociano, poi proseguo, fingendo indifferenza. Se il tizio
è interessato, lo sguardo è sufficiente. Si avvicina con qualche scusa. Mi
chiede se parlo la sua lingua ed io gli rispondo come posso: me la cavo bene
con il francese, poco con lo spagnolo e l’italiano, ancor meno con l’inglese
e niente con il tedesco. Ma non è necessario conoscere la lingua, spesso
basta un sorriso. Qualcuno mi dice il nome di una moschea o di un edificio
che vorrebbe vedere, un pretesto per agganciarmi, ed io gli dico che posso
accompagnarlo. Di rado qualcuno mi chiede direttamente: “Quanto?” e io allora
scuoto la testa e gli dico, in arabo, che si è sbagliato. Cerco il piacere, è
vero. E cerco anche una gratificazione, che di solito è un po’ di denaro, ma
quando si pongono così, mi fanno sentire una puttana. Se insistono, gli dico
dove possono trovare quello che cercano. Questa sera incrocio un
francese. E’ un uomo sui cinquanta, che risponde al mio sguardo con un ampio
sorriso. Si avvicina e mi dice: - Parli francese? - Sì, abbastanza. - Hai voglia di tenermi un
po’ compagnia? Possiamo prendere qualche cosa al caffè e scambiare due
chiacchiere. L’approccio non mi
dispiace. Preferisce farsi un’idea di me prima di portarmi da lui e anche a
me va bene conoscerlo un po’. Ogni tanto capita di incontrare persone fuori
di testa. Una volta un tedesco voleva legarmi al letto e al mio rifiuto è
diventato molto aggressivo. Quando gli ho detto che me ne andavo, ha
minacciato di denunciarmi, poi si è messo a gridare frasi in tedesco, che io
non capivo. Non è stata una situazione piacevole. Entriamo in un caffè e
beviamo tè alla menta, io verde e lui nero. Si presenta come Adrien Dubois. Chiacchieriamo del più e del meno, del paese e
dei turisti, del mio lavoro e del suo: dice di fare il tour operator e di essere
venuto in vacanza per un mese. Dopo una mezz’ora, mi chiede: - Andiamo da me? Non c’è stato nessun
riferimento a ciò che faremo, ma è chiaro a entrambi. Accetto e raggiungiamo
la casa che ha affittato. È un bell’appartamento, arredato in stile tradizionale,
ma dotato di tutto il necessario: è chiaramente pensato per turisti
facoltosi, che vogliono il colore locale, senza rinunciare alla comodità. Due
divani bassi, un grande tappeto berbero a motivi geometrici e diversi cuscini
sono disposti intorno a un tavolino rettangolare e costituiscono un ambiente
accogliente. Le tende alla finestra isolano dal mondo esterno, creando uno
spazio raccolto, illuminato da una lanterna in ferro battuto. Sui ripiani di
una libreria in legno vi sono diversi libri illustrati e alcuni oggetti
artigianali. Ho visto altri appartamenti simili a questo, affittati da
qualche agenzia a turisti stranieri facoltosi. Magari la stessa agenzia per
tutti. Adrien si mette davanti a
me e mi guarda. Sorride. - Sei bello. Da ragazzino me lo sono
sentito dire molte volte, dai soldati e dai turisti. Adesso i soldati di rado
mi guardano, loro cercano i ragazzini, ma i turisti mostrano di apprezzarmi.
Non so che cosa rispondere. Lui prosegue: - Andiamo in camera? - Va bene. Passiamo nella camera,
dove c’è un grande letto matrimoniale accanto a un cassone di legno e a un
comodino. Mi sorride e incomincia a
spogliarmi. Lo lascio fare. In breve rimango nudo davanti a lui. Mi guarda e
ripete: - Sei bello. Poi aggiunge: - Spogliami. Gli tolgo gli abiti, senza
fretta. Ha un corpo snello e ben tornito, scurito dal sole, il corpo di un
uomo che si prende cura di sé. Sicuramente va in palestra, frequenta spiagge
nudiste (anche il ventre e i fianchi sono color miele) o si abbronza sotto la
lampada. Che cosa sarò io a cinquant’anni? Domanda oziosa. Quando ho finito di
spogliarlo, si inginocchia davanti a me e mi prende in bocca il cazzo. Lo
succhia un po’ e quando è diventato duro, si alza, tira fuori dal cassetto un
preservativo e me lo mette. Poi si stende supino sul letto e allarga le
gambe. Io sono pronto e mi metto al lavoro. Rientro. La tristezza non
si è dileguata completamente, ma sono più sereno e la banconota che sento in
tasca mi sembra un passo verso un futuro migliore. Mi dico che con quei soldi
un giorno cambierò vita. Magari mi comprerò un’officina tutta mia. Poi rido:
mi ci vorrebbero almeno altri quarant’anni per mettere da parte di che
realizzare questo sogno. Il giorno dopo in officina
ritrovo Mansur. Scambiano le solite chiacchiere e lavoriamo sodo, come
sempre. Durante la pausa per il pranzo, mentre consumiamo una bissara, Mansur mi chiede: - Usciamo questa sera,
Adam? La proposta mi fa molto
piacere. Sono sempre contento di trovarmi con Mansur, di poter trascorrere un
po’ di tempo chiacchierando liberamente con lui. In officina siamo troppo
indaffarati per riuscire a conversare a lungo, - Volentieri. Combiniamo e la sera,
subito dopo cena, ci ritroviamo. Abbiamo fatto pochi passi,
quando Mansur mi dice: - In questi giorni mi
sembri triste, Adam. C’è qualche problema? Questo è Mansur: ha colto
la mia insoddisfazione e cerca di venirmi in aiuto. Sempre sensibile e
generoso. - No, nessun problema. È
che… a volte mi chiedo che senso ha la vita che faccio. Sgobbo tutta la settimana
per una paga miserabile e poi… Mansur annuisce. - Sì, capisco quello che
intendi. Il lavoro non basta. Soprattutto quando non dà molte soddisfazioni. Credo che abbia ragione,
il lavoro non basta. Rispondo con un generico: - È vero. E poi gli dico: - Tu mi sembri sereno. Mansur alza le spalle. - Sì, lo sono. Il lavoro
mi piace, posso aiutare mia madre e le mie sorelle. Magari un giorno sul
lavoro le cose cambieranno. Altri grandi cambiamenti non me li aspetto. Non
conto di sposarmi. Ho la faccia che ho, Adam, e lo so. Non posso pretendere
di sedurre, ma qualche forestiero con cui scopare lo trovo. Va bene così. So che anche Mansur ogni
tanto va con gli stranieri: ne abbiamo parlato più di una volta. Mansur non è
uno che si nasconde. Vorrei dirgli che, anche se non è bello, molti gli
vogliono bene, ma mi sento in imbarazzo e poi Mansur non parlava di voler
bene. Preferisco ritornare all’argomento del lavoro. - Perché pensi che un
giorno le cose cambieranno sul lavoro? - Abbiamo esperienza, i clienti
sono soddisfatti di noi, magari troveremo un posto migliore. Oppure
convinceremo Sayyid Abbas a pagarci di più. - Non mi sembra probabile. - No, neanche a me, ma
prima o poi ci sarà una svolta. Le cose cambieranno. Qualche idea in testa ce
l’ho. Per il momento però non voglio anticipare niente. L’ottimismo di Mansur mi
contagia. Lui ha un grande ascendente su di me e se non vede il futuro nero,
anche per me è più semplice immaginarlo migliore; spero davvero in una
svolta, anche se non riesco a immaginarmi quale. Una settimana dopo usciamo
di nuovo. Mentre camminiamo per strada, si avvicina uno straniero. - Mansur! Sono contento di
vederti. Parla bene l’arabo,
probabilmente è uno di quelli che vivono qui una parte dell’anno o magari si
è stabilito permanentemente. Una volta erano soprattutto pensionati che
venivano a vivere qui, ma adesso ci sono molti che abitano qui e lavorano da
casa grazie a Internet. Questo è troppo giovane per essere un pensionato:
deve avere una quarantina d’anni. Mansur ricambia il saluto.
Il tizio dice: - Vieni da me, Mansur. - No, questa sera sono a
spasso con il mio amico Adam. - Il tuo amico è un bel
ragazzo, potrebbe venire anche lui. Ho capito benissimo le
intenzioni di questo tizio. Prima che Mansur abbia avuto il tempo di
replicare, l’uomo si rivolge direttamente a me: - Hai voglia di venire con
Mansur a casa mia, Adam? Ci divertiamo un po’. Mansur si volta verso di
me e mi dice: - Adam, tu hai capito che
cosa vuole monsieur Roque, vero? - Sì, per me va bene
andarci con te. Mansur è chiaramente
stupito della mia risposta. In realtà lo sono anch’io. Non ho riflettuto, ho
risposto impulsivamente. Mi chiedo che cosa mi ha spinto ad accettare.
Curiosità, forse? Non ho mai scopato in tre. È questo? No. Mansur dice al signor Roque: - Ve bene, se Adam è
d’accordo, per me va bene. E mentre lo guardo,
capisco perché ho risposto così: voglio vedere Mansur scopare, questa è la
verità. Il signor Roque abita ai margini della Medina, in una bella casa,
ampia, con un cortile interno. Entriamo. L’interno è arredato con molto
gusto, in modo personale: si vede che i mobili e gli oggetti sono stati
scelti con cura da qualcuno che voleva creare un ambiente confortevole e
originale, non da un arredatore che lavora per un’agenzia. Roque chiede: - Mansur prende un succo
di arancia con qualche biscotto. Tu che cosa vuoi, Adam? Ti va bene un
bicchiere di Mahia o anche tu non ami gli alcolici?
- Il succo va bene. Sono sempre un po’
diffidente quando mi offrono da bere in queste situazioni: temo che qualcuno
possa aver messo dentro il bicchiere qualche sostanza, un sonnifero o una
droga. Mansur però conosce il tipo, per cui non mi preoccupo. Il mio amico interviene
sorridendo. - Anche i biscotti gli
vanno bene. Adam è un goloso. È vero. Bevo il succo che Roque mi offre, fresco e molto buono. Anche i chebakia sono eccellenti. Roque sorride e dice: - Questa è la mia sera
fortunata. Passiamo poi in camera e Roque accende una lampada, che diffonde una luce
rossastra. Qui l’arredamento è del tutto diverso: niente a che vedere con i
mobili tradizionali. Ci sono grandi specchi disposti su tre pareti e davanti
alla finestra una spessa tenda. Un tavolo basso con un cassetto e un
pagliericcio costituiscono gli unici mobili. A un gancio su una parete sono
appese alcune corde e a un altro una frusta. Osservo la stanza, perplesso. Roque prende dal cassetto una confezione di
preservativi e la posa sul tavolo. Poi sorride e si mette
davanti a Mansur. Mansur gli afferra il
mento con due dita. C’è un ghigno malefico sulla sua faccia, che l’ampia
cicatrice rende davvero inquietante. Non l’ho mai visto con un ghigno del
genere. - Bene, maiale, adesso ti
facciamo vedere qualche cosa… Roque sembra spaventato. Parla, articolando a
fatica le parole, perché Mansur gli stringe la mandibola. - No, per favore… Ti
prego… Lo schiaffo mi sorprende:
non me l’aspettavo. Mansur ha tolto la destra e con la sinistra ha colpito la
guancia di Roque. Non un colpo violento, ma mi ha
fatto sussultare. La sua voce è dura. - Non pregare. Tanto non
cambia nulla. Spogliati. Roque annuisce e si spoglia. - Metti le mani dietro la
schiena. Roque obbedisce. Ansima. Mansur prende una corda e
gli lega i polsi. - Ecco, ora sei pronto. Il
maiale è pronto per essere infilzato. Mansur fa un passo
indietro e incomincia a spogliarsi. Con un cenno del capo m’invita a fare lo
stesso. Ho visto Mansur nudo
diverse volte: nell’officina ci sono le docce e al termine di una giornata di
lavoro, prima di rimettere i nostri abiti, ci laviamo. A volte uno dei due
sta ancora lavorando mentre l’altro fa la doccia, ma capita spesso che la
facciamo insieme. Adesso però, in questa situazione del tutto nuova, il
vederlo nudo mi eccita. Il cazzo gli si è già
irrigidito. Non gliel’avevo mai visto duro. Il suo cazzo a riposo è come il
mio, ma quando è pronto per l’uso, cresce parecchio ed è davvero molto
grosso. - Piegati in avanti,
maiale. Roque annuisce e piega il busto in avanti.
Sembra spaventato, ma il cazzo gli si è riempito di sangue. Mansur si mette
dietro di lui e mi fa cenno di passare davanti. - Succhiaglielo! È un ordine e Roque obbedisce senza esitare. Me lo prende in bocca e si
dà da fare. È una sensazione molto piacevole. Sono eccitato, come di rado mi
è capitato, e so che il principale motivo della mia eccitazione è Mansur, che
si appresta a inculare il padrone di casa. Apre la bustina di un
preservativo e se lo mette, poi prende un po’ di crema da un tubetto che non
avevo notato, la sparge sul preservativo e tra le natiche di Roque e infine lo incula con una spinta decisa. Roque sussulta. Nonostante la crema, deve avergli fatto
un male cane. Mansur si rivela
formidabile: va avanti molto a lungo. Io sono troppo eccitato e dopo pochi
minuti vengo. Roque beve tutto e me lo succhia
ancora, fino a che allontano la sua testa, perché non reggo più il contatto
con la sua lingua. Infine, dopo un tempo
interminabile, Mansur viene ed esce. Roque scivola in ginocchio e chiude gli occhi.
Ha il cazzo ancora duro. Mi dico che abbiamo
concluso, ma non è finita. Mansur si toglie il
preservativo e lo getta in un cestino che non avevo notato, a fianco del
tavolino. Poi dice: - Voltati, stronzo. Adesso
mi pulisci! Roque si gira, rimanendo in ginocchio. Guarda
il cazzo di Mansur e scuote la testa, come se non volesse. Mansur lo afferra
per i capelli, forzandolo ad avvicinare la testa al suo cazzo. Roque mormora: - No, no! - Muoviti, stronzo. Mansur gli afferra la gola
e stringe. Roque apre la bocca e lecca con cura il
cazzo, pulendolo da uno sporco immaginario. Quando ha finito, Mansur
gli dice: - E adesso bevi. Mansur incomincia a
pisciargli in bocca. Roque beve, non oppone
resistenza, non cerca di sottrarsi. Un po’ di piscio gli cola dal mento. Quando
Mansur ha finito, mi guida in uno dei bagni, dove ci facciamo la doccia prima
di rivestirci. Anche Roque si fa una doccia, in un
altro bagno, e si veste. Ci
sediamo un momento in salotto e scambiamo due chiacchiere tranquillamente,
come se avessimo finito di mangiare insieme o di guardare un film alla
televisione, finché Mansur osserva che ormai è tardi e domani dobbiamo
lavorare. Mansur va un momento in
bagno. Roque si rivolge a me e dice: - Tienitelo stretto,
Mansur. Un altro come lui non lo trovi, non esiste proprio. Sei fortunato. So che sono fortunato ad
avere Mansur come amico, ma sospetto che Roque sia
convinto che scopiamo insieme. Non è così. Quando stiamo uscendo, Roque ci porge due buste e dice: - Amici, prendetevi un
caffè alla mia salute. Le banconote contenute
nelle buste sono sufficienti per diversi pasti in un buon ristorante, uno di
quelli per turisti, in cui non mi capita mai di andare, a meno che qualche
europeo o americano non mi offra una cena: talvolta succede. È tardi, ma Mansur mi
chiede: - Hai voglia se parliamo
ancora un po’, Adam? Annuisco. Parlo sempre
volentieri con Mansur, sto bene insieme a lui. E non mi va di separarmi da
lui adesso, senza aver discusso con lui di quello che è successo. Sono
frastornato. Mansur va subito al
dunque: non è uno di quelli che mena il can per l’aia. - Spero che non ti abbia
dato fastidio. Mi hai preso di sorpresa dicendo di sì, non mi aspettavo che
tu accettassi. Dovrei dirgli che non me
l’aspettavo neanch’io. - Abbiamo parlato diverse
volte di questi… incontri. - Non ti ha turbato? Io mi
sono sentito un po’ a disagio a scopare davanti a te. Anch’io mi sono sentito a
disagio, ma la curiosità e poi l’eccitazione erano molto più forti. - Un po’ anch’io, è vero.
Ma… non so, il tizio mi sembrava gentile e allora mi sono detto: perché no?
Ho parlato senza riflettere. - Monsieur Roque è una persona per bene. Credo che Mansur abbia
ragione, anche se molti non la penserebbero così. - Sì, credo anch’io, anche
se… boh, fa quello che vuole. Tu sapevi che cosa dovevi fare. - Monsieur Roque ha gusti ben precisi e segue sempre lo stesso
copione. Sempre o quasi sempre. Io lo assecondo volentieri. C’è un momento di pausa,
poi Mansur aggiunge: - Quello che facciamo
insieme non mi dispiace. Per me è un modo per soddisfare un bisogno, oltre
che per guadagnare qualche cosa. Non ho molte possibilità di sedurre, io. Non
so perché, ma non mi trovano bello. Si vede che gli altri non hanno buon
gusto. Sorride, mentre lo dice. Scuoto la testa. Vorrei
dirgli che è bellissimo, ma mi vergogno. Se ripenso a quello che abbiamo fatto
e me lo vedo nudo con il cazzo in tiro, mi viene duro. Sorrido e dico: - Il buon gusto è raro. I giorni passano. Io sento
Mansur molto vicino a me. Sto bene con lui, sono sempre stato bene, ma ora è
diverso. Il nostro legame è diventato più forte: la serata con Roque ci ha ulteriormente avvicinati. Mi rendo però conto
che nel nostro rapporto si è insinuato anche un elemento nuovo o forse non
nuovo, ma di cui non avevo coscienza: ora so di essere attratto da lui, anche
a livello fisico. Questo corpo, che non è bello, né elegante, mi tenta.
Adesso quando ci facciamo la doccia insieme evito di guardarlo a lungo,
perché mi accorgo che mi viene duro. Andiamo altre due volte da
Roque e la scena si ripete con poche variazioni,
tra cui un uso moderato della frusta da parte di Mansur. * La svolta avviene davvero, in un modo del
tutto inatteso, con una notizia che arriva come un fulmine a ciel sereno: Sayyid Abbas è stato ucciso da un marito che l’ha trovato
nel letto della moglie. Ha sparato a entrambi, uccidendo Abbas e ferendo la
donna. È Mansur a comunicarmi la
notizia. È sconvolto. Ci chiediamo che conseguenze avrà questo sul nostro
lavoro e sulla nostra vita. Io ho le chiavi
dell’officina e decidiamo di aprirla ugualmente, anche se il padrone è morto:
dobbiamo finire i lavori che stiamo facendo e rendere le auto ai clienti. Quando vedono che
l’officina è aperta, i vicini vengono a curiosare e ci pongono domande, ma
noi non sappiamo assolutamente nulla: Sayyid Abbas
non raccontava certo a noi i suoi affari. Passano anche alcuni
clienti, preoccupati per le loro auto. Vedendo che l’officina è in funzione,
sono alquanto sollevati. Un cliente ritira l’auto, che abbiamo già sistemato.
Mansur dice il costo della riparazione. Il cliente esita un momento:
probabilmente pensava di poter ritirare l’auto senza pagare. - Dovrei pagare al vostro
padrone. - E lui dovrebbe pagarci
lo stipendio del mese. Se per ritirare l’auto vuole aspettare il nuovo
proprietario, va bene. Sperando che la polizia non metta i sigilli all’officina. Il senso del discorso di
Mansur è chiarissimo, anche se non credo che la polizia possa mettere i
sigilli: il delitto non è avvenuto qui e non riguarda l’officina. Il cliente
capisce, mugugna e paga. Mi dico che è proprio squallido che uno pensi di approfittare
della morte del proprietario per non pagare un lavoro che ha richiesto. Nei giorni seguenti
riusciamo a farci un quadro della situazione. Sayyid
Abbas non ha parenti stretti: solo un cugino che vive in Francia ed erediterà
le sue proprietà, essenzialmente l’officina e l’appartamento sovrastante. Noi continuiamo a
lavorare, sistemando le auto e riconsegnandole ai clienti. Sapendo che
l’officina è aperta, diversi continuano a portarci l’auto. Non sappiamo per
quanto tempo potremo continuare, ma per il momento va bene così: i soldi che
incassiamo compensano ampiamente lo stipendio del mese che di sicuro nessuno
ci pagherà. Una settimana dopo,
arrivando in officina, abbiamo una sorpresa: qualcuno ha cercato di forzare
la serratura. Non c’è riuscito, probabilmente è stato disturbato, ma le
tracce sono inequivocabili. Ne parliamo un momento,
poi Mansur dice: - Da stanotte io dormo
qui. Mi chiedo perché Mansur si
preoccupa tanto. È vero che se rubano gli attrezzi non potremo più lavorare,
ma tanto non sarà possibile andare avanti a lungo in questa situazione. Il
passaggio di proprietà sarà presto concluso e noi ci ritroveremo a spasso. Lo
dico a Mansur, ma lui non demorde. La sera stessa porta una brandina e si
mette a dormire nell’officina. Qualche giorno dopo arriva
un poliziotto, che porta la sua auto per un problema al carburatore. Al
momento di ritirarla, dice: - Voi non potete
continuare a lavorare qui, non siete i proprietari. L’officina andrebbe
chiusa. Il messaggio è chiaro:
vuole dei soldi per “chiudere un occhio” sull’apertura irregolare
dell’officina. Mansur risponde: - Vuole che scontentiamo i
clienti? Il giudice Khattab e il colonnello Faruq
non sarebbero contenti se gli dicessimo che non possiamo riparargli l’auto
come abbiamo sempre fatto. Mansur ha citato due nomi
importanti e il poliziotto coglie immediatamente il senso della risposta: se
fa storie, ci rivolgeremo al giudice o al colonnello e lui rischia di avere
delle grane. Non dice più nulla e
Mansur non gli fa pagare la riparazione. Infine giunge la notizia
che aspettavamo. Le pratiche relative all’eredità di Sayyid
Abbas sono state completate e l’officina verrà messa in vendita per conto del
cugino. Mi chiedo che ne sarà di noi. Me lo sono chiesto più volte in questo
periodo, anche se spesso riuscivo a non pensarci: siamo andati avanti per
oltre due mesi senza problemi. - E adesso, Mansur? - Compriamo noi l’officina - E dove li troviamo i
soldi? - Io ho quelli del
giornale, di quando c’è stato l’incidente. Guardo Mansur allibito: ha
sempre detto di averli dati al fratello e Mansur non è tipo da mentire. - Non li hai dati a tuo
fratello? Lui ride. - Certo, ma dieci anni fa.
Lui in Francia si è sistemato, lo sai, e me li ha restituiti. - Non lo sapevo. E mentre lo dico, penso
che non c’era davvero motivo perché Mansur lo raccontasse in giro. - Io non ho molto. Di
sicuro non basta a coprire la metà, neanche un quarto, temo. - Non ha importanza. Credo
di averne abbastanza. - Allora comprala tu. - No. Non voglio che tu
sia alle mie dipendenze. Il cugino di Sayyid Abbas ha delegato un conoscente, che si occuperà
di vendere l’officina e l’appartamento. Quando passa per vedere la proprietà,
Mansur gli dice che noi siamo disposti a comprarla, pagando in contanti, e fa
un’offerta. Aggiunge che non possiamo dare di più. L’affare viene concluso in
fretta: Mansur ha offerto una cifra che è certamente inferiore al valore
dell’officina e dell’appartamento al piano di sopra, ma paga subito e
l’intermediario non deve mettersi a cercare, perdendo tempo in contrattazioni
infinite, che magari non porterebbero a nessun risultato. Il cugino francese
è ben contento di incassare subito una bella somma, che non si aspettava
certo di ricevere, e non perde tempo a informarsi dell’effettivo valore che
può avere l’edificio con le attrezzature. Qualche problema l’abbiamo
invece io e Mansur per la divisione della proprietà, perché io non voglio
nulla in più di quello che pago. Alla fine arriviamo a un accordo. Mansur
sarà proprietario all’80% e io al 20%, ma finché lavoreremo entrambi
nell’officina, i guadagni saranno divisi al 50%. Com’è inevitabile,
parliamo molto del futuro. La clientela c’è ed è soddisfatta del nostro
lavoro, ma l’acquisto è comunque un salto nel vuoto. Mi viene in mente
l’appartamento sopra l’officina, che non abbiamo mai visto: Sayyid Abbas di certo non ci faceva entrare. - Che facciamo
dell’appartamento? - Ci stabiliamo noi. Che
senso ha pagare l’affitto se siamo proprietari di un appartamento? - Non l’abbiamo mai visto. - Non sarà peggio delle
nostre camere. Questo è vero. L’idea di vivere con
Mansur mi sembra bellissima, anche se, ora che so di essere attratto da lui,
mi spaventa un po’: gli incontri con Roque mi hanno
aperto gli occhi e adesso, quando usciamo insieme, spero sempre che qualcuno
ci chieda di scopare in tre. Fantastico anche che uno straniero ci dica che
vuole vedere me e Mansur fare qualche cosa insieme. Poi mi dico che sono
sciocchezze: che cosa potrebbe chiederci? Mansur non accetterebbe certo di
succhiarmelo o di farsi inculare. Io forse potrei farlo, in realtà so che
vorrei provare, ma ho paura che Mansur mi disprezzi. Il giorno della consegna
delle chiavi, l’intermediario sale a controllare l’appartamento, dove è già
passato una volta. Ci va da solo: sicuramente vuole prendere ciò che vale la
pena di portare via. Scende dopo mezz’ora, visibilmente soddisfatto, con un
borsone: probabilmente ha trovato, oltre a un po’ di soldi, qualche oggetto
di valore. Sorride e dice: - Ho preso un po’ di cose
per il proprietario. Sappiamo tutti e tre che
il proprietario non vedrà neanche l’ombra del contenuto di quel borsone, ma
Mansur annuisce, come se ci credesse. Ci dà le chiavi. - Ora è tutto per voi. Siamo tutti e due curiosi
di vedere l’appartamento, ma adesso abbiamo da fare, per cui lavoriamo in
officina tutto il giorno e solo la sera, dopo aver chiuso, saliamo a vederlo.
L’appartamento comprende
una camera, un salotto, una cucina e un bagno, tutti locali di grandi
dimensioni e tutti piuttosto sporchi. Non è strano, visto che da due mesi
nessuno pulisce, ma non doveva essere molto pulito neppure prima della morte
di Sayyid Abbas: sul pavimento e sui mobili ci sono
cicche, bottiglie di plastica, lattine
e pacchetti di sigarette vuoti. I vari rifiuti e gli indumenti sporchi
sparsi qui e là non dipendono dai due mesi in cui non c’è stato nessuno. C’è un pessimo odore e
apriamo subito tutte le finestre. Il puzzo proviene soprattutto dalla cucina,
dove alcune cibarie sono ormai ammuffite. Le raccogliamo in un sacco, che
provvediamo a smaltire immediatamente. Poi completiamo il giro. Nella camera una parete è
tappezzata di fotografie di donne nude, in varie posizioni provocanti. Decidiamo di invitare gli
amici per il giorno dopo, anche se l’appartamento è sporco: vogliamo
festeggiare. Facciamo solo una pulizia superficiale: puliremo a fondo dopo
aver eliminato un po’ di cose, adesso gli amici vedranno l’appartamento così
come l’ha lasciato Sayyid Abbas, a parte i rifiuti
e lo sporco più evidente. La sera dopo gli amici
curiosano un po’, poi ci sediamo in salotto e chiacchieriamo. Ibrahim
osserva: - C’è un’unica camera da
letto e voi siete in due. Mansur risponde: - Il divano su cui sei
seduto è un divano-letto: di fatto sono due camere. È inutile che uno di noi
due dorma da un’altra parte, pagando l’affitto. Stiamo comunque più comodi
qui. Ahmed osserva: - Comunque potete anche
dividere il salotto in due: è molto grande e potreste ricavare una seconda
camera, La domenica ci dedichiamo
allo sgombero. Contiamo di tenere solo quello che può servire. Diamo
un’occhiata agli armadi e alle casse, in cucina, nel salotto e nel bagno.
Discutiamo su che cosa tenere, che cosa dare via e che cosa buttare
nell’immondizia, ma senza iniziare la selezione. Poi passiamo nella camera
e controlliamo il vestiario. Tiriamo fuori tutto e ne facciamo tre mucchi:
uno del poco che teniamo; un secondo di ciò che non ci interessa, ma è ancora
utilizzabile e può essere dato a conoscenti o a qualche associazione; il
terzo di ciò che va eliminato. Mansur guarda la parete - Uno svuota il salotto e
la cucina e l’altro provvede a ripulire la parete, togliendo le foto. O vuoi
tenerle? Sorride ed io rido. - No, non mi sembra il
caso. - Che cosa preferisci
fare? - Ti lascio le donne… Mansur incomincia a
togliere le donnine nude dalla parete della camera. Stacca con un coltellino
le puntine, le mette tutte a formare un mucchietto e impila le fotografie una
sull’altra: meticoloso come sempre. Non a caso non ho mai sentito un cliente
lamentarsi di una riparazione fatta da lui. Io mi occupo del salotto e
della cucina, controllando il contenuto degli armadi e mettendo da parte ciò
che ritengo inutile tenere: poi ne parlerò con Mansur e valuteremo insieme. Ho appena finito quando
Mansur compare sulla soglia. - Devo farti vedere una
cosa. Mi precede in camera, dove
indica il comodino. Ci sono quattro pile di biglietti di banca, di altezza
diversa. Sopra sono dollari, ma sotto ci devono essere altre banconote, a
occhio direi euro. Non so quanto sia, ma posso dire che si tratta sicuramente
di una cifra alquanto consistente. - Da dove saltano fuori? - Erano in quest’apertura. Mentre lo dice, Mansur
mostra uno sportellino sulla parete, dietro cui si apre un piccolo vano. - Una specie di
cassaforte, nascosta dietro a una donna con le gambe aperte. - Sayyid
Abbas doveva avere qualche giro d’affari poco pulito. - Sì, lo penso anch’io.
Avevo qualche sospetto, certi clienti che ogni tanto arrivavano, parlavano
solo con lui e lasciavano auto che ritirava qualcun altro, senza che noi le
avessimo toccate… Ora che Mansur lo dice, mi
ricordo che è accaduto due o tre volte, ma non avevo dato peso alla faccenda. Mansur aggiunge: - Non mi sono stupito di
trovarli. Pensavo che potessero esserci da qualche parte: Sayyid
Abbas non amava le banche e preferiva non depositare queste somme guadagnate
con affari poco puliti. Infine conclude: - Sarebbero del cugino, ma
non credo sia il caso di darli all’intermediario: non arriverebbero mai a
destinazione. - Questo è sicuro. Meno male
che non ha trovato il nascondiglio. - Io ho pensato di fare
così: le prime due pile una per me e una per te. La terza per sistemare la
casa; la quarta per l’officina. Ci sono parecchie cose da fare e questi soldi
ci saranno utili. La terza e la quarta pila
sono nettamente più alte delle altre. Devono essere tanti soldi. Penso che
Mansur avrebbe potuto intascare tutta la somma, senza dirmi niente. - Qual è la mia pila? Mansur alza le spalle. - O la prima o la seconda.
Sono uguali. Duemila dollari e tremila euro. È davvero tantissimo. - Prendo la prima. Prendo metà dei biglietti
della prima fila e li trasferisco nella seconda. - Che cazzo fai? - Mansur, so benissimo che
il grosso della tua pila andrà a tua madre e alle tue sorelle. Così puoi dare
loro quello che vuoi e rimane qualcosa per te. - Ma non spetta mica a te
dare una mano alla mia famiglia. - No, infatti. Do una mano
a te. Non accetterei di comprarmi una djellaba
nuova mentre tu non puoi farlo perché hai dato tutto via. E non mi dire che
non ne hai bisogno, perché quella che ti vedo addosso è in condizioni penose. Mansur ignora la mia
battuta e dice, fermo: - No, Adam. - È così. Altrimenti non
prendo niente. Discutiamo ancora un
momento e quasi litighiamo, ma io sono irremovibile. Gli ricordo che
l’officina e la casa sono sue all’80%. Infine Mansur cede. Con i soldi destinati alla
casa sistemiamo l’impianto elettrico e quello idraulico e rifacciamo il bagno
dell’appartamento e quello dell’officina. Ne rimane di che comprare un po’ di
mobilio e altre cose per rendere la casa più accogliente: nulla di molto
costoso, ma l’appartamento si trasforma. I soldi per l’officina ci
permettono un salto di qualità nel lavoro: compriamo nuove attrezzature, che
però sistemiamo sul retro, in modo da non cambiare l’aspetto dell’ambiente. È
meglio che nessuno si accorga che abbiamo fatto un investimento. Qualcuno
potrebbe porsi domande sull’origine dei soldi che abbiamo speso e soprattutto
qualche poliziotto potrebbe offrirci la sua protezione, che non sarebbe certo
gratuita. A chi entra nell’officina, sembra che poco o nulla sia cambiato, ma
ora abbiamo l’occorrente per svolgere più lavori e per farli meglio. Le nuove
auto, soprattutto quelle dei turisti, richiedono attrezzature più
sofisticate. La madre e le sorelle di
Mansur vengono a fare le pulizie e dopo il loro passaggio nella casa c’è un
bell’odore di pulito. L’appartamento è uno specchio: credo che le tre donne
abbiano messo nel lavoro di pulizia tutto l’affetto che provano per Mansur e
la loro riconoscenza per l’aiuto che lui dà. La sera chiudiamo
l’officina. - Facciamoci la doccia qui
sotto. - Qui sotto? E perché mai,
adesso che l’appartamento è a posto? - Vuoi mica entrare in
casa tutto sporco? La casa è uno specchio e noi siamo lerci. Muoviti, maiale! Ci facciamo la doccia ed
io guardo un momento il corpo forte di Mansur, poi distolgo lo sguardo. Ora
che sono cosciente dell’attrazione che provo, mi sento un po’ a disagio. Da
questa notte dormiremo nello stesso appartamento: fino a ora Mansur ha dormito
sulla brandina ed io nella camera in affitto, che ho lasciato solo questa
mattina. Dopo la doccia mi metto
gli abiti puliti. Quando ho finito Mansur mi afferra, mettendomi un braccio
dietro le ginocchia e l’altro dietro la schiena, e mi solleva, come lo sposo
solleva la sposa per portarla nella nuova casa (un uso che ho scoperto
guardando i film americani). Rimango senza parole. Mi porta sulle braccia
lungo le scale, apre la porta con il piede e prosegue fino alla camera, dove
mi deposita sul letto. Sorrido e gli dico: - Hai deciso che dormo io
nella camera? Non abbiamo deciso nulla
in proposito. Il nostro vestiario è tutto negli armadi della camera. - No, ci dormiamo tutti e
due. È un letto matrimoniale e ci stiamo comodi. La proposta mi sorprende,
ma non mi dispiace per niente. Mansur aggiunge: - Se non ti va… Non lo lascio finire. - Mi va bene. L’ho detto senza pensare,
ma l’idea di dormire accanto a Mansur è bellissima, anche se, riflettendo, mi
preoccupa un po’: non vorrei avere erezioni imbarazzanti. Il mattino dopo, domenica,
mi sveglio prima di Mansur e mi metto a sedere. Abbiamo dormito entrambi
nudi, perché fa caldo, e Mansur ha il cazzo teso, magnifico. Lo fisso,
incapace di distogliere lo sguardo, mentre anche il mio si tende. La voce di Mansur mi fa
sussultare: - E piantala di fissarmi
il cazzo in quel modo, che mi fai venire certe idee… Lo guardo in faccia. Sta
sorridendo. Cercando di nascondere l’agitazione che provo, gli chiedo: - Che idee? Lui solleva un braccio,
mette la destra sulla mia testa ed esercita una leggera pressione. Potrei
oppormi facilmente, ma non lo faccio. Lascio che mi abbassi il capo fino a
che la mia faccia quasi appoggia sul suo ventre e la mia bocca sfiora il suo
cazzo. Mi metto a leccarlo e
succhiarlo, cercando di cancellare ogni altro pensiero, fino a che lui viene.
Allora bevo e di colpo sprofondo in un’angoscia senza fine: ho paura che
Mansur mi disprezzi. Sollevo la testa e torno a
stendermi. Chiudo gli occhi. È la sensazione di calore
e umidità intorno al cazzo a farmeli riaprire. Mansur me lo sta succhiando,
come io ho appena finito di fare a lui. Anche lui lavora con la lingua, i
denti e la bocca finché vengo. Poi si stende, mi prende
la mano e me la stringe. Questo gesto di tenerezza mi fa venire le lacrime
agli occhi. - Grazie, Adam. - Grazie a te. - L’ho sempre desiderato. - Anch’io, ma non me ne
rendevo conto. C’è un momento di
silenzio, poi gli dico la verità: - Mi sono innamorato di
te, Mansur. - Ed io di te. Mi abbraccia. Mi sento
bene, mi pare di non essere mai stato così bene. 2025 |