Estate alla fattoria
La fattoria di mio padre, Albertus Waal, era grande e la
terra fertile, per cui vivevamo bene. I miei avevano avuto cinque figli, ma
le mie due sorelle e mio fratello Luan si erano sposati e non vivevano più
con noi. Con i nostri genitori eravamo rimasti Friedrich, il maggiore dei miei
fratelli, che avrebbe ereditato la proprietà, e io, che avevo appena compiuto
sedici anni. Quell’estate mia madre era partita
poco dopo la fine delle scuole, per andare ad assistere una zia malata. Credo
che in realtà avesse deciso di allontanarsi, perché i rapporti con mio padre
non erano buoni, anche se entrambi volevano salvare le apparenze. Così nella
casa padronale eravamo rimasti tre maschi. Friedrich si sarebbe sposato in
autunno, ma la moglie sarebbe venuta a stare da noi. Le scuole erano finite. Anche se i
braccianti neri erano sufficienti per svolgere tutti i lavori, mio padre voleva
che imparassi a occuparmi anch’io della fattoria, per cui di solito la
mattina ero impegnato. Io non cercavo di sottrarmi a questi compiti: mi
piacevano i lavori manuali e mi ci dedicavo volentieri, anche perché a
dirigere le attività era Arno, il sovrintendente, con cui avevo un bel
rapporto. Era un omaccione corpulento, il classico orso, che aveva vent’anni
più di me, ma mi capiva assai più di mio padre e di mio fratello. Con lui
avevo una grande confidenza e preferivo rivolgermi a lui quando avevo qualche
problema. Il mattino lavoravo e nel pomeriggio
ero libero. Passavo il mio tempo all’aria aperta, cavalcando, bagnandomi nel
fiume che scorreva non lontano dalla fattoria, trovandomi ogni tanto con gli
altri ragazzi che vivevano nella zona. Al fiume eravamo spesso sette o otto
a bagnarci. Alcuni avevano due o tre anni in più e spesso si vantavano delle
loro conquiste e delle loro imprese a letto, non so quanto reali e quanto
inventate. Quando si finiva sull’argomento, era tutto un parlare di cazzi e
fiche, tette e culi, pompini e chiavate, puttane e negre. Non era raro che
questi discorsi finissero in una sega collettiva o anche in una gara a chi
veniva più in fretta. Io non avevo mai scopato, come anche gli altri più
giovani, ma seguivo volentieri questi discorsi e soprattutto mi piaceva
quando ci facevamo una sega e guardavo i cazzi degli altri tendersi e infine
lo sborro schizzare fuori. Poi ci lavavamo e tornavamo a casa,
dove naturalmente nessuno di noi usava certe parole. Nel tardo pomeriggio, dopo ore
trascorse all’aria aperta, a volte mi rintanavo nel soppalco del deposito,
l'unico luogo chiuso in cui rimanessi volentieri a lungo. Era il mio rifugio
segreto, dove nelle giornate di pioggia passavo ore a fantasticare, a sognare
avventure e qualche volta a farmi le seghe. Un giorno, incuriosito da un rumore di
acqua che scorreva, scoprii che da un'apertura tra le travi della parete si
vedeva una doccia installata in una rientranza, tra il deposito e il fienile:
vi si accedeva da un passaggio, che aveva una curva, per cui la doccia non
era visibile dall’esterno. Era il posto dove si lavava Jabu,
un magnifico nero che doveva avere una trentina d’anni. Lavorava nella
fattoria, ma occupava una posizione privilegiata rispetto agli altri
inservienti, perché non era un bracciante. Lui e Rosie dipendevano
direttamente da mio padre e non da Arno, il sovrintendente, e si occupavano
di ciò che riguardava la nostra casa: Rosie cucinava, lavava e faceva le
pulizie, Jabu tagliava la legna, eseguiva le
riparazioni necessarie e svolgeva tutti i lavori pesanti. Solo in alcuni
momenti particolari dell’anno, quando la richiesta di manodopera era
maggiore, si univa ai braccianti. Non dormiva con gli altri dipendenti, ma in
un locale adiacente alla casa padronale. L’apertura mi permetteva di vederlo
bene. Osservai il suo corpo vigoroso, attratto dalle spalle ampie, dalle
braccia robuste, dai fianchi stretti e dal grosso cazzo. Mi capitava di
vedere i miei coetanei nudi, quando ci bagnavamo al fiume e quando ci
facevamo le seghe, ma non avevo modo di osservarli a mio agio, perché mi
sarei attirato le loro battute. E soprattutto erano ragazzi, magari un po’
più grandi di me, non uomini come Jabu. Nessuno di
loro era dotato come lui. Un forte turbamento mi prese, senza
che riuscissi a spiegarmelo. Guardavo il nero lavarsi con gesti rapidi e
decisi e sentivo un'eccitazione crescente. Quando Jabu
se ne fu andato, mi feci una bella sega pensando a lui, immaginando che
scopasse una ragazza nera. Tornai ad osservarlo nei giorni successivi. Veniva
sempre alla stessa ora, un po’ prima che ci mettessimo a tavola. Neanche una settimana dopo che avevo incominciato a
spiare Jabu, alla fattoria si presentò Andries, che cercava lavoro per l’estate. Era un bianco,
ma uno di quelli che mio padre e gli altri proprietari chiamavano “cani
randagi”. Aveva venticinque anni, capelli e barba di un biondo scuro e
diversi tatuaggi sulle braccia. Mio padre non vedeva di buon occhio questi bianchi
che non avevano un lavoro stabile e che si offrivano come braccianti,
mettendosi alla pari dei negri: li disprezzava e riteneva che in qualche modo
il loro fallimento fosse una macchia per tutti noi. Mio padre, come buona
parte degli altri proprietari, considerava i negri esseri inferiori, una via
di mezzo tra gli uomini (bianchi) e gli animali. Era nato e vissuto in
un’epoca in cui il potere era completamente nelle mani dei bianchi e non
riusciva ad adattarsi alla situazione nuova che si era creata con la fine
dell’apartheid. Anche i tatuaggi non gli piacevano. Non capii perché decise di assumerlo per l’estate: mi
dissi che forse era perché nell’inverno due neri che lavoravano per lui si erano
trasferiti a Johannesburg o perché gli dava fastidio l’idea che un bianco
andasse in giro a cercare lavoro nelle fattorie. Nessuna delle due
spiegazioni mi sembrava convincente, ma non ci pensai più di tanto. Più tardi
seppi che Andries aveva lavorato presso il
proprietario di una grande scuderia e conclusi che mio padre doveva averlo
assunto per dare una mano al vecchio Patrick, che si occupava dei cavalli. In
effetti lavorava spesso nella scuderia. Pochi giorni dopo l'arrivo di Andries,
mi trovavo a spiare dall'apertura, in attesa di Jabu,
quando vidi arrivare proprio Andries, che si
spogliò e cominciò a lavarsi. Era il primo adulto bianco che vedevo nudo e
benché il suo corpo non fosse imponente come quello di Jabu,
lo guardai con attenzione. Non avevo mai visto un uomo con tanti tatuaggi:
allora dalle nostre parti non si usavano. Le braccia erano quasi
completamente ricoperte e anche la parte superiore del petto: tra la peluria
spiccava un ampio disegno che arrivava fin sotto i capezzoli. Sotto c’era
ancora una croce rovesciata e sul fianco sinistro un disegno che interpretai
come un coltello, ma che avrebbe potuto essere altro. Ero sicuro che se mio
padre avesse visto quella croce, non avrebbe mai assunto Andries:
non era religioso, ma non tollerava nessuna mancanza di rispetto nei
confronti della religione e sicuramente avrebbe preso la croce rovesciata per
un simbolo blasfemo. Poco dopo arrivò Jabu. Andries non si mostrò sorpreso: probabilmente sapeva benissimo
che il nero si lavava lì. Jabu fece per andarsene,
ma Andries gli sorrise e gli disse: - Rimani, ho quasi finito. Comincia pure a
spogliarti. Jabu rimase perplesso e
aspettò che Andries finisse di lavarsi, senza
togliersi i vestiti. Solo quando Andries si fu
rivestito e se ne fu andato, si spogliò e fece la doccia. Il giorno seguente ritornai al mio punto di
osservazione, curioso di vedere che cosa sarebbe successo: Andries sarebbe nuovamente venuto? Jabu arrivò alla solita
ora, vide che non c'era nessuno e cominciò a lavarsi. Aveva appena
incominciato quando arrivò Andries. - Non ti spiace se mi faccio la doccia con te,
vero? Senza aspettare una risposta, si spogliò. Jabu rimase interdetto, ma era tutto insaponato e non
poteva certamente andarsene così. Andries gli
disse: - Dammi la spugna. Ti do una mano a lavarti. Gli prese la spugna di mano, la immerse nel secchio
e cominciò a passarla sul corpo del nero, togliendo il sapone. Gliela passò
prima sulla schiena, poi sui fianchi, sulle gambe. Io lo guardavo stupito e Jabu appariva ancora più sconcertato. Poi Andries immerse
nuovamente la spugna nell'acqua e cominciò a passarla sul torace di Jabu e sul ventre. Indugiò a lungo tra i peli del pube,
poi scese sul cazzo, la passò tra i coglioni. Sempre tenendo la spugna nella
destra, prese il cazzo nella sinistra. - Bello grosso, eh! In confronto il mio fa ridere.
Senti! Gettò la spugna nell'acqua, prese la mano di Jabu nella sua e la portò fino al proprio cazzo. Il nero
reagì ritirando la mano di scatto. - Che c'è? Non ti va? Jabu non disse nulla. Si
limitò a guardare Andries, diffidente. - Hai un bel cazzo, Jabu.
Non l'hai mai messo in culo ad un bianco? Jabu lo guardò stupito, ma
non reagì quando Andries cominciò ad accarezzargli
il cazzo. - Mica male, come idea, vero? In culo ad un padrone
bianco. - Tu non sei un padrone, Andries. Il tu rivelava un cambiamento netto nei modi di Jabu. - Tutti i bianchi sono padroni. Poi Andries si mise in
ginocchio e cominciò a succhiare. Quando a Jabu
venne duro, fu lui stesso a sollevare Andries e
voltarlo. Andries si appoggiò con le mani contro la
parete di legno e Jabu lo infilzò, senza nessun
riguardo. Vidi una smorfia di dolore sul viso di Andries,
mentre Jabu lo penetrava. Il nero prese a spingere
con decisione. Guardavo il suo grosso cazzo nero che entrava e usciva dal
culo di Andries. Mi mancava il fiato e ce l’avevo
duro come una roccia. Quando Jabu venne,
estrasse il cazzo e se lo lavò con cura. Andries si
era alzato, il cazzo ancora duro, e lo guardava. Il nero si asciugò e se ne
andò senza dire una parola. Andries incominciò a
masturbarsi e io lo imitai. La scena a cui avevo assistito mi ritornò in mente in modo ossessivo
per tutta la serata. A cena Friedrich mi chiese che cosa avevo, visto che per
due volte non avevo neanche sentito una domanda che mi aveva fatto. Non avevo mai visto nessuno scopare. Sapevo che gli uomini potevano
scopare con altri uomini: al fiume se ne parlava ogni tanto. Ma era qualche
cosa che aveva la consistenza delle chiacchiere che facevamo distesi
sull’erba, non una realtà. Altrettanto sconvolgente era che un bianco se lo
facesse mettere in culo da un nero. Era il rovesciamento dei rapporti che
nelle terre dove vivevamo noi erano la norma: i bianchi avevano una posizione
superiore, i neri (i “negri”, come venivano universalmente chiamati) erano
subordinati. Un bianco che si lasciava inculare da un negro era come un re
che si faceva fottere da uno schiavo. Il giorno dopo ritornai nel soppalco. Jabu
arrivò per primo. Andries poco dopo. Questa volta
non dissero nulla. Andries si spogliò, succhiò il
cazzo a Jabu finché non gli venne duro, poi si mise
a quattro zampe e lasciò che il nero lo infilzasse con il suo bel cazzo. Io
mi feci un’altra sega. Il giovedì andai al fiume, dove noi ragazzi ci eravamo dati
appuntamento. Ci bagnammo e poi, stesi nudi sull’erba, chiacchierammo. Paul mi chiese: - C’è un bianco che lavora da voi, Piet? - Sì, si chiama Andries. - Ma perché tuo padre lo ha preso? Detesta i cani randagi. - Non so che dirti, Paul. Non me lo spiego neanch’io. Forse perché è
boero. Non dicemmo altro. Io non intendevo certo raccontare quello che
avevo visto, anche se mi sarebbe piaciuto confidarmi con qualcuno: si sarebbe
sicuramente risaputo e non volevo che se ne parlasse in giro. Non sapevo come
avrebbe reagito mio padre. Cercai però di portare il discorso su quello che mi interessava.
Ridacchiando dissi: - Ho visto uno dei negri che gli guardava il culo, mentre si era
piegato in avanti a raccogliere non so che cosa. Sembrava volesse farselo. Mi
è venuto da ridere. - Meglio che quella testa di cazzo del negro non si faccia venire
strane idee. Gli tagliamo l’uccello. Diversi risero. Hendrik incominciò a
raccontare: gli piaceva essere al centro dell’attenzione e narrava spesso
storie, reali o inventate. Era quello che in città aveva sempre avventure
favolose, vantando incontri con splendide donne che gliela davano o con
puttane che lo adoravano per le sue prestazioni. Sapevamo tutti che sui suoi
racconti bisognava fare la tara. - C’era un ragazzo di Pretoria, che era venuto in estate a lavorare
in una delle fattorie, uno di quelli a cui piacevano i cazzi dei negri. Si
faceva fottere da un bracciante, un negro. Qualcuno si mostrò curioso, chiedendo di saperne di più. Io non
dissi nulla: sapevo che la storia sarebbe andata avanti e all’occorrenza
avrei potuto fare una domanda, se Hendrik si fosse
fermato. - No, non è possibile. - Era un inglese, un cane randagio. - Non ci credo. - Li beccarono e li portarono alla palude. Castrarono il negro e gli
misero cazzo e coglioni in bocca, poi si misero a fottere il ragazzo, in culo
e in bocca. Andarono avanti per ore, finché furono sazi. Allora gli
infilarono la canna di una pistola in culo e svuotarono il caricatore.
Lasciarono agli avvoltoi i due, il negro ancora agonizzante, il bianco morto. Diversi misero in dubbio la storia. Anche nella regione dove
abitavamo noi c’erano stati in passato scoppi di violenza, ma nessuno aveva
mai sentito parlare di questa storia. - No, dai, non ci credo. - È vero, te lo assicuro. L’ho sentito raccontare da mio zio. Lo zio di Hendrix era stato uno dei capoccia negli anni più
violenti. Questo però non significava nulla: Paul sapeva che nessuno di noi
sarebbe andato a chiedergli se era vero. Altri espressero i loro dubbi e a quel punto Hendrix si rivolse a
me: - C’era anche tuo padre, Piet. Puoi
chiederglielo. Non avrei potuto chiedere una cosa del genere a mio padre, che non
parlava mai di quegli anni. Da mezze frasi e vaghe allusioni, sospettavo che
anche lui avesse partecipato ad alcune azioni in quel periodo, ma non mi
avrebbe risposto e mi avrebbe trattato malamente. Quella sera però provai a parlarne con Friedrich: ci separavano
sedici anni, ma con lui avevo maggiore confidenza: con mio padre non ce n’era
proprio. Entrai in camera sua mentre si stava cambiando: contava di andare a
trovare la fidanzata. - Senti, Friedrich, oggi al torrente raccontavano storie del
periodo… di quando facevano le spedizioni contro i negri che alzavano la
testa. Friedrich si annodò la cravatta, senza dire nulla: aspettava che io
gli ponessi la domanda che avevo in testa, perché mi conosceva abbastanza da
sapere che, se ero venuto a parlargli mentre si preparava per uscire, volevo
chiedergli qualche cosa. - Sai se papà ha mai partecipato a quelle spedizioni? Hendrix dice
di sì. Friedrich voltò la testa a guardarmi, mentre valutava se era il caso
di raccontarmi ciò che sapeva. Si limitò a dire: - Non è certo stato uno di quelli che organizzavano le spedizioni
punitive, ma quando c’era da fare la sua parte, non si tirava indietro. Si infilò la giacca e prima di lasciare la stanza aggiunse: - Lascia perdere quello che è successo allora. È meglio per tutti se
ce ne dimentichiamo. Friedrich uscì. Era chiaro che non mi avrebbe raccontato. C’era
un’unica persona a cui forse avrei potuto chiedere: Arno. Il sovrintendente
era affezionato a me ed era sempre pronto a soddisfare le mie curiosità, ma
poiché in questo caso si trattava di mio padre, dubitavo che mi avrebbe
risposto. Avrei potuto non fare nessun riferimento a mio padre e chiedergli
dell’episodio che Hendrix aveva narrato, ma mi sarei sentito in imbarazzo ad affrontare
con lui l’argomento. Gli avevo posto domande sulla sessualità, a cui aveva
sempre risposto molto direttamente, ma non avevamo mai parlato di
omosessualità. Arno aveva studiato agraria a Johannesburg ed aveva una
mentalità molto più aperta di mio padre e dei proprietari, ma non me la
sentivo di affrontare il tema. Decisi di non dire nulla. Juba e Andries scopavano ogni giorno. Non
c’era tra loro nessun gesto, anche minimo, di tenerezza e Juba non si
preoccupava in nessun modo di far godere Andries:
lo fotteva come un animale e quando aveva finito si lavava, si rivestiva e se
ne andava senza nemmeno salutarlo. Era chiaro che lo disprezzava. Io li spiavo e lo spettacolo che mi offrivano mi turbava
profondamente. Decisi due volte che non sarei più tornato a guardarli, ma mi
infilavo sempre nel soppalco all’ora in cui sapevo che sarebbero venuti. Ero
ogni giorno più confuso. Mio padre non se ne accorse, Friedrich forse sì, ma
non disse nulla. Fu Arno a parlarmi: mi voleva troppo bene per non cogliere
il mio turbamento. Avevamo concluso i lavori del mattino e tornavamo insieme alla
fattoria. - Che c’è, Piet? Da qualche giorno mi
sembri molto turbato. Lo guardai. Non osavo parlargli di Juba e Andries,
ma mi decisi a citargli l’episodio che avevo sentito narrare al fiume, senza
citare la partecipazione di mio padre. - Hendrik ha raccontato di un ragazzo che…
che… insomma, aveva una storia con un negro. Dice che alcuni dei proprietari
lo scoprirono e li ammazzarono tutti e due. - Non ne ho mai sentito parlare, ma magari è successo quando ero
piccolo: altri tempi, altra mentalità. Non ti fidare troppo di quello che
racconta Hendrik, è un contaballe. E anche quando
racconta qualche cosa di vero, esagera sempre. Annuii. Avrei voluto chiedere altro, ma non osavo. Mi sentivo a
disagio e mi pentii di aver risposto alla domanda di Arno. Ma non era così
facile depistarlo. Mi guardò diritto negli occhi e mi disse: - Che cos’altro c’è, Piet? Perché c’è
altro, di questo sono sicuro, qualche cosa di cui vorresti parlare, ma esiti. Non potevo dire di no: avrebbe capito immediatamente che mentivo.
Non me la sentivo di parlare. Lo guardai, senza dire nulla. Lui proseguì: - Riguarda per caso Andries? Rimasi a bocca aperta e lui mi lesse in faccia la conferma di quanto
aveva indovinato. - Andries e Juba. È questo il problema,
vero? Annuii, poi chiesi: - Come lo sai? - Juba fa sempre la doccia alla stessa ora. E a quell’ora vedo Andries infilarsi nel passaggio che porta alla doccia. E
tu sei sempre nel soppalco. Suppongo che di lì tu riesca a vedere la doccia. Non riuscivo a parlare. Di nuovo annuii. - Piet, tu devi andare a lavarti e
mangiare, se arrivi tardi tuo padre si incazza. Se hai piacere che ne
parliamo, possiamo vederci nel tardo pomeriggio o, se non vuoi perdere la
replica dello spettacolo, dopo cena. Mi sentii avvampare. Arno rise, una risata dolce, affettuosa. - Ho avuto anch’io sedici anni, Piet. Va
benissimo così. Non è un problema, anche se alcuni direbbero che lo è.
Facciamo dopo cena? Magari facciamo due passi e chiacchieriamo camminando. Ci
sarà luna piena, questa notte, e sorge presto. - Va bene, grazie, Arno. - Ti aspetto in cortile. L’idea che avrei parlato con Arno mi rese euforico. Non sapevo che
cosa ci saremmo detti, ma ero sicuro che mi avrebbe capito e aiutato.
Trascorsi il pomeriggio in giro, ritornai per assistere alla doccia e alla
scopata di Juba e Andries e dopo cena uscii in
cortile. Arno era seduto di fronte alla sua abitazione, all’estremità di un
lungo edificio dove dormivano i lavoranti fissi e nel periodo del raccolto
anche gli stagionali. Il sovrintendente aveva un appartamento, i lavoranti
fissi una camera e gli stagionali dormivano in camerate. Quando mi vide, Arno si alzò e mi disse: - Facciamo due passi, così siamo più tranquilli. In effetti se fossimo rimasti lì, qualcuno dalla casa avrebbe potuto
sentirci. Attraversammo l’ampio cortile e raggiungemmo il recinto dei cavalli.
Ci appoggiamo allo steccato. Mi guardai intorno. La luna era sorta e
illuminava la campagna. La casa e gli alberi erano macchie scure, ma i campi
sembravano splendere. Io non dicevo nulla. Non sapevo come incominciare, ma non mi
preoccupavo: ci avrebbe pensato Arno. E infatti fu lui a dire: - Allora, Piet, hai scoperto che Juba e Andries scopano sotto la doccia. - Sì… ho sentito il rumore dell’acqua una volta e attraverso una
fessura ho visto che Juba si lavava lì. Non lo sapevo. - Ma l’hai osservato. È un bell’uomo ed è alquanto dotato. Mi sentii in imbarazzo, perché Arno aveva capito benissimo che lo
avevo spiato, ma sapevo che mi capiva, per cui gli chiesi, un po’ beffardo: - E tu come lo sai? Arno rise, una risata leggera, molto diversa da quella specie di
ruggito che erano le sue grandi risate. - Lavora con noi da sei anni e anche lui piscia, come tutti noi. Gliel’ho
visto fuori più di una volta, come lui ha visto il mio. Duro no, non gliel’ho
mai visto. Si faceva una sega sotto la doccia? - No, no. Faceva la doccia e basta. Fino a quando… è arrivato Andries. - Juba non se l’aspettava? O hai avuto l’impressione che si fossero
dati appuntamento? - No, non se l’aspettava proprio. La prima volta, quando è arrivato
e ha visto Andries che si lavava, ha aspettato che
finisse e se ne andasse, prima di spogliarsi. Ma la volta dopo… Andries è arrivato mentre lui si lavava. - Certo. Così non poteva scappargli facilmente. - Andries si è fatto avanti e… e… - E Juba gliel’ha messo in culo. O mi sbaglio? - No, non ti sbagli. È così, tutte le volte. Prima di… di mettersi a
quattro zampe però glielo… glielo prende in bocca. - Servizio completo. Non mi stupisce. Ci fu un momento di silenzio. Quello che avevo raccontato non mi
riguardava direttamente, non dipendeva da me. Andare oltre mi era più
difficile. Ma potevo contare su Arno. - Va bene, Piet. Tu hai osservato, senza
perderti un solo dettaglio. E lo spettacolo ti è piaciuto, scommetterei la
testa che ti sei fatto delle belle seghe. Chinai il capo, leggermente imbarazzato, ma non più di tanto. Arno
parlava tranquillamente, non c’era nessuna condanna. - Tutto questo però ti ha turbato. Perché non hai visto un uomo che
scopava una donna, ma un uomo che scopava un altro uomo. È così? Riflettei un momento. Mi chiesi se sarei stato altrettanto turbato
se Juba avesse scopato una donna. Forse no. - Credo di sì. - Vediamo di capire perché questo ti ha turbato tanto. È un peccato,
ma tu non sei molto religioso, per non dire che non lo sei per niente, come
tuo padre e tutti i maschi della famiglia. Andate a messa perché così si deve
fare, ma secondo me domenica scorsa tu pensavi a Juba e Andries
mentre cantavi gli inni. Fu il mio turno di ridere. - Non proprio, ma è vero che… non mi importa molto della religione. - A turbarti potrebbe essere stato il fatto di vedere un nero, un
negro, come dice tuo padre, inculare un bianco. Questo è inaccettabile per la
maggior parte dei bianchi della regione, direi di tutto il Sud-Africa. Ma ho
il sospetto che la faccenda, anche se ti stupisce, non ti scandalizzi più di
tanto. - No, è vero. Non me l’aspettavo, mi ha lasciato di sasso, ma… se
gli piace. - Come pensavo. Allora il problema è un altro. Non è che tu abbia
scoperto l’esistenza del sesso a sedici anni: hai spesso occasione di vedere
gli accoppiamenti degli animali, al fiume con quella banda di mezzi
delinquenti – qui Arno rise di nuovo – credo che parliate di sesso due volte
su tre, per non dire tre su due. E sono sicuro che spesso non vi limitate a
parlarne. Rimasi sorpreso. - Come lo sai? Arno rise, questa volta la sua risata tonante. - Cazzo, Piet! Pensi che non abbia avuto
sedici anni anch’io? - Anche tu… - Come tutti i ragazzi della mia età. Tante parole e qualche sega. Immaginare Arno che al fiume si faceva una sega insieme ad altri
ragazzi mi turbò molto. Arno non se ne accorse o decise di ignorarlo. Riprese
a parlare. - Potrei pensare che tutta la faccenda ti ha turbato perché ti ha
messo di fronte a desideri di cui non ti rendevi conto. Non risposi. Sapevo che Arno aveva detto la verità, ma era una
verità che accettavo a fatica. Era evidente che le cose stavano come diceva
lui. Ripensando al passato, nelle fantasie che accompagnavano le mie seghe
comparivano sempre degli uomini, magari intenti a scopare una donna. Al fiume
il vedere gli altri con il cazzo duro mi eccitava. E vedere Juba che scopava Andries mi sembrava molto più interessante che vederlo
fottere una ragazza. Arno riprese, con molta dolcezza. - Ti piacciono gli uomini. Magari anche le donne. Forse è solo un
periodo e tra qualche tempo non ti interesseranno più. In ogni caso non c’è
niente di male. Credo che ognuno sia libero di fare quello che vuole. Qui
alla fattoria ci sono uomini che scopano con altri uomini, perché non hanno
una donna o perché è quello che farebbero in ogni caso... Lo interruppi: - Ma… chi? - Piet! Fu l’unico momento nella serata in cui avvertii una nota di rimprovero
nella sua voce. Riprese, cambiando tono: - Sono faccende private e di certo non racconterò a te ciò che sono
venuto casualmente a sapere. - Scusa, Arno, hai ragione. Scusami. - Non ti preoccupare. La tua curiosità è comprensibile. Soddisfarla
da parte mia non lo sarebbe. Comunque non è questo il punto. - No, anche se mi chiedo come fai a saperlo. - Questo te lo posso dire. Sono il sovrintendente e perciò ficco il
naso ovunque, perché voglio tenere tutto sotto controllo. Cerco di capire
perché le persone fanno cose strane. Controllo che nessuno stia rubando o
facendo danni. Se vedo due che scopano, mi ritiro cercando di non farmi
vedere: sono cazzi loro. E non vado a raccontarlo. Se vedo due che rubano,
devo intervenire. - Papà dice sempre che sei il miglior sovrintendente che abbia mai
avuto. Arno rise di nuovo, la risata che era appena una carezza sulla
pelle. - Magari se sapesse che così in qualche modo sorveglio anche lui,
non sarebbe così contento. Rimasi esterrefatto. - Lo sorvegli? - No, certamente. Non mi fraintendere. Non mi occupo di che cosa fa,
figurati! Ma tenendo sotto controllo la situazione alla fattoria, finisce che
spesso so anche che cosa fa lui. Ma questo non c’entra. Torniamo a noi. Pensai che Arno doveva sapere anche quello che facevo io e in
effetti me l’aveva già detto: sapeva che andavo nel soppalco del deposito e
che spiavo Juba e Andries. Arno riprese: - Molti direbbero che due uomini che scopano meritano l’inferno, la
fustigazione o la morte. Mi sembrano cazzate. In ogni caso il giorno in cui
decidessi di provare, devi essere prudente e attento a non farti scoprire da
nessuno. - Neanche da te. La risata di Arno fu il solito tuono, la sberla amichevole che ti
stordisce. - Può darsi che io lo scopra, ma nessuno lo saprà mai da me. Dopo un attimo di pausa, riprese: - Può darsi che invece tu decida che in fondo non ti interessa. È
una scelta tua. Con chi scoperai riguarda solo te e l’altra persona con cui
lo farai, a meno che tu non intenda passare la vita a farti le seghe. Avrei voluto chiedere ad Arno se scopava, ma non era possibile.
Proseguì: - Ho parlato sempre io, troppo. Adesso però vorrei sentire che cosa
hai da dire. - Grazie, Arno. Adesso non ho nulla da chiedere, ho bisogno di
riflettere, ma credo che ti chiederò di poter parlare ancora con te. - Quando vuoi, in qualsiasi momento. Prima di lasciarci, un’ultima
cosa. Tu non hai molte occasioni di andare in città. Era vero: ci volevano oltre due ore di auto per arrivare a un centro
di medie dimensioni e quattro per una grande città. Era il motivo per cui nel
periodo scolastico rientravo a casa solo il venerdì pomeriggio, per ripartire
la domenica sera. Non capivo però che cosa c’entrasse questo con il discorso
fatto. Arno mi porse una busta. La presi, perplesso. - Che cos’è? - Preservativi. Lo guardai, stupito. - C’è l’AIDS. Noi viviamo isolati, ma questo non significa niente. Uno
come Andries potrebbe essere ammalato. Se decidi di
scopare, usali, Piet, con chiunque. A meno che tu
non sia assolutamente sicuro che per l’altra persona è la prima volta. Annuii, tenendo la busta in mano, confuso. - E ora buona notte, Piet. Se hai bisogno
di qualche cosa, sai dove trovarmi. - Grazie. Lo guardai dirigersi verso il cortile. Rimasi fermo, appoggiato allo
steccato. Sarei dovuto rientrare in camera mia: era già piuttosto tardi, ma
non avevo voglia di rinchiudermi in casa. Tenevo in mano la busta. Dentro
c’era una confezione di preservativi. Ce n’erano cinque. Avrei avuto
l’occasione di utilizzarli? Quando si sarebbe presentata? O… forse avrei
dovuto crearla io? Come? Con chi? Ripensai a Andries
e Jabu, ai miei amici al fiume. Scossi la testa e
decisi di rientrare. Il lungo dialogo con Arno mi aveva chiarito diversi dubbi, ma aveva
fatto nascere altre domande. Era ormai ora di coricarmi, per cui mi misi a letto, ma per un po’
rimasi sveglio a pensare. La domanda che continuava a ritornarmi in mente era
sempre la stessa: con chi avrei scopato volentieri? Andries non mi dispiaceva. Mi sarei fatto
prendere da lui? L’idea non mi entusiasmava. Potevo pensare di prenderlo io,
come faceva Jabu? No, non lo desideravo davvero. Jabu era un bell’uomo, mi piaceva il suo
corpo forte e virile, ma prendeva Andries come una
bestia, facendogli male e sicuramente avrebbe fatto male anche a me, anche se
avesse cercato di essere meno brutale. Tra i ragazzi che vedevo al fiume Hans era un bel maschio. Lui
forse… In realtà erano solo fantasie. Nessuno di loro destava davvero il
mio desiderio. Quando ci ritrovammo al fiume, osservai con cura gli altri. Sì, Hans
mi piaceva, probabilmente perché era quello che ormai era un uomo e infatti,
pur studiando all’università, d’estate lavorava nella fattoria del padre e
veniva solo ogni tanto al fiume. Aveva ventidue anni, la barba e una peluria
bionda sul petto e sul ventre. Un bel maschio, davvero. Mi sarei offerto a
lui? Mi rendevo conto che, per quanto l’idea mi stuzzicasse, non lo
desideravo realmente. Tornando alla fattoria mi dissi che se mi fossi guardato un po’ di
più intorno, magari avrei scoperto anch’io chi scopava con altri uomini. Come
figlio del proprietario, potevo entrare dappertutto, a parte le camere dei
servitori. Bastava che mi inventassi qualche scusa, nel caso mi fossi
imbattuto in mio padre, in Friedrich o in Arno. Gli altri non si sarebbero
sentiti in diritto di chiedermi nulla. Ero curioso e per qualche giorno mi
aggirai nella fattoria, infilandomi nelle stalle, nella scuderia, nei
magazzini, nel fienile e girando nell’area intorno alla fattoria, dovunque
potessi sperare di sorprendere qualcuno intento a scopare. Non sorpresi nessuno e mi resi conto abbastanza presto che era
un’idea stupida. Arno conosceva perfettamente il compito di ogni servitore e
sapeva dove ognuno doveva essere a una qualunque ora del giorno: coglieva
immediatamente un’anomalia. Io giravo a vuoto. Lasciai perdere i miei
tentativi. Passarono altri giorni senza che succedesse nulla di nuovo, ma
sentivo la tensione dentro di me salire. Andries e Juba scopavano ogni giorno,
sempre allo stesso modo, e ciò che inizialmente mi aveva affascinato stava
perdendo ogni interesse. Mi sembrava quasi triste vedere Andries
offrirsi e Juba prenderlo come lo stallone fotteva le cavalle. Due volte mi
capitò di arrivare troppo tardi nel soppalco e mi dissi che andava bene così.
Non smisi completamente di spiarli, ma diradai le mie visite. Ogni tanto
aprivo il cassetto dove avevo messo i preservativi, nascondendoli in una
camicia, e li guardavo. Con chi avrei voluto scopare? A volte la notte mi
facevo una sega davanti allo specchio del mobile della mia camera. Un giorno al fiume incominciammo a parlare di dimensioni. Chi ce
l’aveva più grosso, se Bull Jack, un colosso che lavorava come mandriano per
i Vorster, o Ed, un bracciante della tenuta dei Lenz. Si fecero diversi altri nomi, tutti di neri. Io non
avevo mai visto nessuno di questi uomini nudi o almeno con il cazzo fuori,
per cui mi limitavo a seguire, senza intervenire. Mi chiedevo se Juba
l’avesse più o meno grosso di quelli che venivano citati. Era ben dotato, ma
non mi sembrava eccezionale. Non è che la faccenda mi interessasse molto.
Ormai sapevo che mi interessavano gli uomini, ma non cercavo qualcuno con il
cazzo grosso. Che cosa cercavo? E mentre i miei amici continuavano a parlare
di cazzi, mi resi conto di una cosa che non avevo capito fino ad allora: non
volevo solo scopare. Volevo farlo con qualcuno che mi piaceva veramente. Non
volevo una scopata come quelle tra Juba e Andries,
come il toro che monta la vacca. Volevo un po’ di dolcezza, di tenerezza. E
allora mi fu chiaro perché non mi interessavano Juba, Andries
o gli stalloni di cui parlavano i miei amici. Chi mi piaceva realmente, chi
era in grado di darmi ciò che cercavo? E mentre me lo chiedevo, Deon chiese: - E tra i bianchi? - Siamo mal messi, mi sa. - Siamo uomini, mica bestie come i negri, noi. Horst disse: - Uno che ce l’ha grosso è Visser,
l’intendente dei Waal. Tu l’hai mai visto, Piet? Visser era il cognome di Arno, ovviamente.
Scossi la testa, paralizzato. Ero incapace di parlare. Non c’era nulla di
sconvolgente nel fatto che Arno potesse avere un grosso cazzo, visto che era
alto e massiccio, ma il sentirlo citare in quel contesto, mentre in testa mi
chiedevo chi davvero mi piaceva, fu uno di quei colpi che ti mandano a gambe
all’aria, ti fanno fare una doppia capriola all’indietro e ti lasciano steso
a terra incapace di rialzarti. Non credo di aver detto più una parola, quel pomeriggio. Lasciai gli
altri molto presto e tornai a casa. Non andai nel soppalco, ma mi rifugiai in
camera. Non avevo voglia di vedere Juba e Andries
scopare. Non avevo voglia di niente. Avevo trovato la risposta alla domanda che mi ponevo da giorni, ma
era una risposta che mi spaventava. Forse non avrei detto niente, ma il giorno dopo, mentre tornavamo
dal lavoro mattutino, Arno mi disse: - Piet, vorrei parlarti. - Dimmi, Arno. - Non qui, non ora. Voglio parlarti con calma. Sei completamente
fuori. Non ne hai azzeccata una, oggi. Se fossimo al tempo della schiavitù,
credo che ti saresti beccato almeno una ventina di frustate. Sorrideva, ma vedevo che era preoccupato. Chinai il capo. Parlargli
mi spaventava. Arno era troppo sensibile per non capire: anche se non gli
avessi detto ciò che provavo, l’avrebbe colto in fretta. Certamente non mi
avrebbe condannato o criticato. Ma avevo paura della sua reazione, una paura
che mi paralizzava. - Facciamo questa sera, Piet? - Va bene, Arno. Il pomeriggio fu un delirio. Desideravo che fosse sera e desideravo
che la sera non arrivasse mai. La paura cresceva a ogni ora. Mi sentivo il
condannato a morte che attende il momento dell’esecuzione. Mi dicevo che Arno
avrebbe capito, che mi avrebbe aiutato, ma ero spaventato. Mi dissi che non
mi sarei fatto vedere, ma era ridicolo. Potevo sfuggirgli quella sera, ma
l’indomani me lo sarei ritrovato di fronte. C’erano ancora quindici giorni di
vacanza, non potevo pensare di sottrarmi sempre. E allora tanto valeva
parlargli. Ci furono dei momenti in cui fui sul punto di piangere, anche se era
una cosa che non mi capitava più da tempo. Non mi passò per la testa nemmeno per
un secondo di andare nel soppalco: Juba e Andries
potevano andare a farsi fottere (cosa che Andries
faceva, in effetti). Dopo cena uscii. Arno era seduto davanti alla sua abitazione, come
la volta precedente. - Facciamo due passi, Piet? O entriamo da
me? - Andiamo dentro. Non volevo che altri mi vedessero, se fossi scoppiato a piangere.
Magari Arno mi avrebbe abbracciato, per calmare la mia sofferenza. Forse
speravo in un bacio: era il massimo che potevo sperare, un bacio sulla
fronte, per lenire un po’ il dolore. Entrammo e ci sedemmo nel salottino, una piccola stanza con due
sedie, una poltrona e una sedia a dondolo. Mi fece segno di sedermi sulla
poltrona e io mi accomodai. Fece per accendere la luce, ma io gli dissi: - No, non è ancora buio. Capì benissimo che preferivo la penombra in cui si trovava la
stanza: mi rendeva più facile parlare o almeno nascondere il mio imbarazzo.
Dalla finestra entrava abbastanza luce da permettere di vederci. Si mise sulla sedia a dondolo, fissandomi. - Piet, che cosa è successo? - Niente. - Niente? - Niente di… non è successo niente. - Nessuno ti ha fatto niente? Non hai fatto tu qualche cosa che
vorresti non aver fatto? - No, niente. Tenevo il capo chinato. Sapevo che Arno mi avrebbe comunque tirato
fuori la verità, ma non riuscivo a parlare. - Il problema è dentro di te, Piet? - Sì. - Eppure quando ci siamo parlati non sembravi così agitato all’idea
che ti piacessero gli uomini. Turbato sì, ma non angosciato. Adesso sembri
sconvolto. Hai visto qualche cosa…? - No, niente. - È la verità, Piet? Guardai Arno, un po’ stupito. Non aveva mai insinuato che potessi
mentire. - Sì, è la verità. Che cosa avrei potuto vedere? Capì che dicevo la verità e passò oltre, senza rispondere alla
domanda. - Allora qual è il problema, Piet? Non
puoi accettare che ti piacciano gli uomini? - No, non è questo. Arno mi fissò un buon momento senza dire nulla. Mi stavano salendo
le lacrime agli occhi. - Sei innamorato, Piet? Mi mancò il fiato. Io non l’avevo formulato in questi termini. Mi
ero detto che Arno mi piaceva, che avrei voluto scopare con lui, non che ero
innamorato di lui. Ma questa era la verità, me ne rendevo conto. Incominciai
a piangere. Arno si alzò, si avvicinò. Mi passò una mano tra i capelli, in una
carezza che provocò una vera crisi di pianto e di singhiozzi. Allora mi fece
alzare e mi abbracciò stretto. Avvolto dalle sue braccia, stretto contro il
suo corpo, singhiozzai ancora un momento, poi mi calmai. Mi sembrava di
essere in paradiso. Lo abbracciai anch’io, vincendo le mie paure. Avrei
voluto rimanere per sempre così. Man mano che mi calmavo, il desiderio
cresceva: lo stretto contatto tra i nostri corpi lo accendeva e rendeva
impossibile nasconderlo. Arno aveva già capito e la mia erezione fu solo una conferma. Io
avvertii la sua eccitazione e mi sembrò di non riuscire a reggermi in piedi. - Ti ho sempre voluto bene, Piet. Negli
ultimi tempi l’affetto che provavo per te è diventato qualche cos’altro. Lo strinsi di più, incapace di parlare. - Che cosa vuoi che facciamo, Piet? Non fu facile dirlo e la voce mi uscì roca: - Prendimi, Arno. - Sei sicuro, Piet? Sei assolutamente
sicuro? - Sì. Ne ero sicuro. Lo desideravo con tutto me stesso. Arno si sciolse dall’abbraccio, mi mise una mano sotto il mento e mi
sollevò il viso. Ormai era buio e anche se i nostri occhi si erano abituati
all’oscurità che era andata crescendo, ci vedevamo appena. Annuì. - Andiamo in camera. Arno accese la luce nel salotto. Sul momento non capii perché, poi,
riflettendo, mi resi conto che se qualcuno ci aveva visto entrare, vedendo la
casa rimanere al buio o, peggio, la luce nella camera da letto, avrebbe
potuto sospettare. Passammo nella stanza a fianco. La luce che veniva dal salotto era
sufficiente per vederci. Arno si voltò verso di me e mi sorrise. Mi avvicinai a lui. Le mani mi tremavano mentre incominciai a
spogliarlo. Non aveva molti indumenti: era gennaio ed eravamo in piena
estate. Gli sbottonai la camicia e gliela sfilai. La lasciò scivolare a
terra. Lo avevo già visto a torso nudo diverse volte, durante i lavori.
Conoscevo quel petto muscoloso, coperto da una fitta peluria . Gli slacciai la fibbia dei pantaloni e li calai. Lui si sfilò le
scarpe e allontanò i pantaloni con un calcio. Era rimasto in mutande e io
esitai. Guardavo il grosso rigonfio e osservai, sgomento, che qualche cosa si
muoveva e cresceva. Non ebbi il coraggio di andare oltre. Lui sorrise, si avvicinò e mi baciò sulle labbra, poi sentii la sua
lingua premere contro le mie labbra. Aprii la bocca, confuso, e la sua lingua
avanzò fino a incontrare la mia. Sapevo che questo era il bacio “francese”,
ma era la prima volta che lo provavo. Quando ritirò la lingua, spinsi la mia
nella sua bocca. Poi mi sbottonò la camicia e me la tolse, slacciò la cintura
e mi calò i pantaloni. Io ebbi un tremito e Arno si fermò, dicendomi: - Sei sicuro di volerlo, Piet? - Sì. Mi calò le mutande. Mi liberai delle scarpe e dei pantaloni e rimasi
nudo. Il cazzo aveva alzato la testa e Arno sorrise. Si calò lui stesso le
mutande, mettendo in mostra un gran bel cazzo. Era davvero grosso come
dicevano. Arno mi prese per mano e mi condusse al letto. Si stese supino e mi
guidò a stendermi su di lui. Ci baciammo di nuovo, più volte. Intanto le sue mani mi accarezzavano la schiena e scendevano fino al
culo, che stringevano con forza. Due dita scivolarono lungo il solco tra le
natiche e le sentii premere contro il buco. Mi irrigidii, ma le dita
indugiarono soltanto un momento. Ritornarono poco dopo e mi abbandonai alla
sensazione di queste dita che accarezzavano e premevano. Andammo avanti un buon momento a baciarci e abbracciarci. Lasciavo
che fosse Arno a guidare il gioco, a stabilire i tempi. Avevo piena fiducia
in lui e le sue carezze e i suoi baci fugarono i miei timori. Il desiderio
crebbe rapidamente: ero eccitato, come lo era lui, ma Arno non sembrava avere
fretta. Mi strinse tra le braccia e si girò. Ora ero sotto di lui. Lui si
sollevò e incominciò a percorrere il mio corpo con le mani, poi si chinò e
ripeté il movimento con la bocca: mi baciò sugli occhi e sulle labbra, passò
la lingua sul collo, morse i capezzoli e poi li succhiò, scese con la lingua
fino all’ombelico e infine giunse al cazzo, ormai perfettamente teso. Passò la lingua tre volte, scendendo dalla cappella ai coglioni, per
poi risalire, e io sentii che ero sul punto di venire. Le sue mani scivolarono
lungo il petto fino al collo, mi accarezzarono una guancia, mi scompigliarono
i capelli, poi scesero, mi tormentarono i capezzoli e strinsero con
delicatezza i coglioni. Mentre la destra stringeva, la sinistra si appoggiò
sul mio cazzo, lo strinse e si mosse lentamente verso l’alto e verso il basso.
Ondate di piacere mi percorrevano e infine arrivò il momento in cui non potei
più contenerlo. Mi mancò il fiato, mentre mi sembrava che tutto il mio corpo
venisse attraversato da una successione di scariche. Chiusi gli occhi. Arno mi baciò e si stese accanto a me, accarezzandomi dolcemente.
Aveva il cazzo duro, ma sembrava non preoccuparsene. Mi pulì con un
fazzoletto di carta e mi baciò ancora. Allora lo dissi: - Prendimi, Arno. Mi guardò negli occhi. - Sei sicuro, Piet? Ti farò male, per
quanto faccia attenzione. Era la terza volta che me lo chiedeva. - Lo desidero, Arno. Annuì. Mi voltò sulla pancia. Ero un po’ teso, ma non provavo
davvero paura: in Arno avevo fiducia. Sentii la sua lingua scorrere sul
solco. Lo fece più volte ed era bellissimo. Gemetti di piacere. Lui continuò.
Ogni tanto si interrompeva e mi mordicchiava con delicatezza il culo. Poi
riprendeva a far passare la lingua e intanto le sue mani mi accarezzavano,
dalla schiena al culo. Ora la sua lingua indugiava sul buco, pareva volerlo
forzare. Io gemetti di nuovo: era troppo forte, troppo bello. Ci fu una pausa e capii che si stava mettendo il preservativo.
Volevo dirgli di non farlo: ero sicuro che fosse sempre attento nei rapporti.
Ma non mi avrebbe ascoltato. Sentii il suo peso su di me, mi morse con decisione una spalla e,
quasi senza che me ne rendessi conto, fu dentro di me. Non mi fece male, solo
un po’ di fastidio, ma la sensazione era piacevole. Le sue mani mi
accarezzavano la nuca, su cui deponeva dei baci. Poi mi mordicchiò di nuovo la
spalla e prese a muoversi avanti e indietro. Ora che aveva incominciato a
spingere, a tratti era un po’ doloroso, ma era anche bello. Mi piaceva
sentirlo dentro di me, mi piaceva il movimento deciso con cui avanzava e poi
si ritraeva. La stanza non esisteva più, il mondo intero era scomparso. C’era
solo questo corpo forte il cui peso mi schiacciava, questo cazzo magnifico
che scavava dentro di me, che avanzava fino in fondo e poi tornava indietro,
per lanciarsi nuovamente in avanti. Non so per quanto tempo continuò. Arrivò infine il momento in cui
prese a spingere con più vigore, accelerando il ritmo, e infine venne dentro
di me con un gemito. Poi si girò sulla schiena e rimanemmo distesi, lui sotto di me, io
appoggiato su di lui, il suo cazzo ancora in culo. Sussurrò: - Grazie. Rimanemmo così per un tempo che mi parve infinito. Mi dissi che
quello era il paradiso. |