Mare
Come rovinarci la vacanza..
Siamo qui solo da tre giorni, tutto è cominciato con del fumo che saliva
nell’azzurro dalle parti del paese più vicino, dietro la collina di mirto
prima che cominci il bosco. Quasi nessuno ci ha fatto caso, naturalmente,
tutti siamo rimasti in spiaggia a spalmarci di creme per arrostirci senza
bruciarci troppo. Cena come al solito, ma verso la fine il maitre di sala
ha girato per i tavoli spiegando che era scoppiato uno dei tanti incendi
estivi che il caldo il vento e qualche sventato con la sigaretta accesa
provocano regolarmente ogni anno: - Nessun
problema.. i vigili del fuoco sono già in azione.. vi terremo costantemente
informati.. Dopo cena siamo rimasti
sulla terrazza davanti al mare, a far chiacchiere con altre coppie ospitate
in albergo. Qualche signora cominciava a dar segni di insofferenza verso il
vento e di preoccupazione verso l’incendio, sopratutto
per l’odore di legna e di resine bruciate che ci investiva a folate ampie che
ci abbracciavano in un alito caldo. In effetti la colonna di fumo si era
molto estesa e pareva essersi avvicinata verso l’unica strada che dal paese
arriva alla splendida baia di sabbia bianca dove sorge l’albergo e, più in
là, un residence. Nemmeno troppo lontano sentiamo a intervalli regolari il
passaggio di uno o più aerei, evidentemente già stanno recuperando acqua in
mare per aiutare a circoscrivere il fuoco. Più lontano, i suoni acuti delle
sirene ci confermano che i pompieri si stanno ben dando da fare per evitare
pericoli. Si va a dormire. Un senso come di inquietudine pervade la notte e
ci impedisce di dormire tranquilli: forse il vento, o la pelle un poco
bruciata dal sole che si fa sentire nonostante le lozioni rinfrescanti, ci
giriamo e rigiriamo nel letto fino a che tento un approccio ma lei si scosta
decisa, niente sesso, non stasera quanto meno. Mi addormento col pensiero
fisso a tutti quei pompieri che per noi stanno magari rischiando la pelle,
mentre la nostra unica preoccupazione è quella di abbronzarcela. Quattro del mattino o poco
più, tutto l’albergo viene svegliato di soprassalto dalla sirena
dell’impianto antincendio e da un annuncio della radio di emergenza che in
ogni camera e in ogni corridoio ripete di stare tranquilli, che non c’è alcun
pericolo, ma che i pompieri per precauzione chiedono di portarsi sulla
spiaggia anche se non c’è alcuna necessità di evacuare la zona. Usciamo,
l’aria della notte è sufficientemente fresca per non farci rimpiangere l’aria
condizionata della camera. Ci troviamo tutti in spiaggia tra gli ombrelloni
chiusi, gli inservienti cominciano a sistemare delle sedie e piazzano dei
lettini dove subito, chi può, si sdraia sbadigliando nel tentativo di
riprendere il sonno interrotto. Ma non è facile: il fumo si leva rossastro da
quasi tutto l’orizzonte terrestre dietro l’albergo, tenuto a luci ormai
spente per ragioni di sicurezza e scuro davanti ai bagliori del fuoco, ormai
visibile sulla cresta della bassa collina da dove proviene l’unica strada di
accesso, su cui sosta un’autopompa con i lampeggianti azzurri accesi a non
più di due-trecento metri da noi. I pompieri vanno e vengono nell’evidente
tentativo di contenere le fiamme per tenerle lontane il più possibile dalle
costruzioni che compongono l’albergo, costruito in muratura ma con molte
parti in legno o in materiale infiammabile, come le palizzate di contenimento
o le vaste tettoie che coprono le terrazze e i parcheggi con le travi a vista
unite da ampi e leggeri tendaggi a fare ombra; per non parlare dei molti
alberi e arbusti rinsecchiti che circondano la costruzione principale e che
penetrano nei molti piccoli patii tra una camera e l’altra, nella parte
allungata verso la collina. Anche le auto potrebbero non solo essere a
rischio, ma addirittura amplificare il pericolo con gli pneumatici e i
serbatoi di carburante pronti ad alimentare il grande falò. Il fronte del
fuoco è ancora lontano qualche centinaio di metri dall’area dell’albergo, ma
è solo un problema di tempo, di ore forse. Restiamo lì a guardare,
attoniti, qualche signora invece siede con la faccia verso il mare, come per
rifiutarsi di guardare il problema lasciandoselo alle spalle, irritata più
che altro per essere stata impedita di rendersi presentabile prima di uscire
dalla camera. La mia compagna, previdente, si è portata il beauty con le
creme solari: la giornata sarà lunga, se si dovrà passarla tutta in spiaggia
sotto il sole a picco. Mentre la luce del sole
vince velocemente il chiarore rossastro del fuoco, il personale dell’albergo
continua a darsi da fare riuscendo a organizzare qualche tavolo con frutta e
cibarie per la prima colazione, con molta acqua e succhi di frutta che ci
raccomandano di bere per prepararci a una giornata arida di sole e di vento e
non rischiare la disidratazione o un colpo di calore. Prigionieri tra la
macchia mediterranea e il bagnasciuga, ci dedichiamo meticolosamente alla
colazione guardando i pompieri che senza riposo, da ieri ormai, son lì per
evitarci di finire arrosto, arrostendo loro stessi dentro le pesanti uniformi
ignifughe che li ingoffano e li appesantiscono ma li proteggono. Mi viene da
pensare a quello che starà succedendo là sotto quelle uniformi: muscoli
surriscaldati dal calore, sudore che erutta dalla pelle tra i peli neri e
ispidi formando rivoli liquidi che scivolano giù per il torace fino a
inzuppare le mutande bagnando e dilavando l’uccello i coglioni e scorrendo in
un vertiginoso canyon tra le natiche pelose fino a perdersi giù per i calzoni
fin dentro le pesanti calzature di protezione a macerare la pelle tra le dita
dei piedi.. Sono troppo nudo per continuare ad osservarli in questo modo, il
cazzo è diventato duro e sporgente, troppo visibile se togliessi le mani
incrociate a bella posta davanti al cavallo dei pantaloncini da bagno. Mi
allontano di qualche metro, a sufficienza per poter liberare le mani e
scavalcare la lingua di roccia che chiude l’insenatura davanti all’albergo,
separandola da una parte di spiaggia che va a perdersi verso un’altra lingua
rocciosa più lontana che chiude la baia da questo lato. Cammino sul
bagnasciuga, girando il capo ogni poco verso il vai e vieni di erotici
caschetti gialli, senza più il bisogno frustrante di coprirmi l’erezione.
Anzi, posso infilare la mano dentro i calzoncini e cominciare a toccarmi e a
masturbarmi fino a sentire l’orgasmo che monta dentro per uscire, liquido,
fuori da me, a bagnare la mano, la pelle, la stoffa, mentre continuo a
camminare ingobbendomi leggermente. Poi entro in mare e mi lavo. Mangiamo,
abbastanza bene e abbastanza comodi nonostante le necessità di
improvvisazione logistica del personale. Mi siedo con le spalle al mare,
continuo a guardare la lotta tra la furia del fuoco, da una parte, e la
costanza e la determinazione dell’uomo, dall’altra. A volte sembra avanzare
l’uno, a volte sembra prevalere l’altro, ma già a metà pomeriggio si delinea
vincitore l’uomo, almeno per questa volta: anche perché il vento ha cambiato
direzione e spinge i frammenti d’arbusto infuocati verso una zona dove la
materia prima da bruciare è fortunatamente scarsa. Ma solo al tramonto si
avrà la certezza dell’imminente ritorno alla normalità, con il diradarsi
delle colonne di fumo e solo pochi focolai a rilucere sparsi sulla piana
annerita, con il contemporaneo rallentare dell’attività dei pompieri ormai
stremati ma vincitori. Il sole fatica a scendere, quasi non volesse perdersi
lo spettacolo delle ultime attività: è sopraggiunta un’altra unità di vigili
del fuoco, non tanto per dare una mano quanto perché avevano evidentemente
terminato il compito loro assegnato altrove; aiutano i compagni a raccogliere
le attrezzature, le accette, allungano le manichette per svuotarle dall’acqua
e le riavvolgono sui rulli un po' frettolosamente perché le metteranno poi
stese, in caserma, ad asciugare per bene. Tutti hanno tolto il pesante
giaccone della tuta restando con una maglietta marrone a maniche corte,
qualcuno è a torace nudo. Anche se ora è caduto il divieto di avvicinarsi
alla zona delle operazioni non oso avvicinarmi a loro, se non di poco, fino
al limite interno della spiaggia: sarebbe imbarazzante avvicinarmi di più con
addosso sempre i soliti calzoncini di tessuto troppo leggero a nascondere il
fuoco che divampa sotto. Sono rimasto solo in spiaggia, il personale
dell’albergo ha ripreso la propria normale attività e tutti gli ospiti sono
rientrati nelle camere finalmente raggiungibili per una doccia o una
pennichella prima di cena. I pompieri se ne vanno, prima un’autopompa, poi
l’altra. Resta solo una camionetta e due pompieri che raccattano gli ultimi
attrezzi e verificano che nulla sia rimasto abbandonato. Entrambi a torace
nudo, li vedo trafficare con caschi gialli, attrezzi da portare sulle spalle,
verificano che tutto sia a posto parlottando fra di loro, finché si fermano come
per riposare un istante e guardano il mare. Cenni di intesa, un braccio a indicare una direzione. Si
allontanano della camionetta e si avvicinano alla spiaggia, dall’altra parte
oltre la prima lingua di roccia che divide il territorio dell’albergo dalla
terra di nessuno. Mi avvicino alle rocce e salgo a guardarli, ormai sono
vicini, alla luce rossastra del tramonto vedo i loro muscoli lucidi di sudore
e neri di fumo, non solo di peli. Tolgono rapidi i pantaloni della tuta e gli
slip, entrano nudi in mare a lavarsi e a riprendere forza e freschezza
dall’acqua salata. Ho il sangue alla testa, senza riflettere mi levo i
calzoni da bagno prima di scendere dalle rocce per avvicinarmi ancora. Mi
vedono, non possono non vedere anche la mia erezione in loro onore, ma non
reagiscono. Non subito, almeno. Stando dove l’acqua arriva poco sopra le
ginocchia si avvicinano fra loro e cominciano a lavarsi l’un l’altro
raccogliendo l’acqua salata con le mani per bagnare e sfregare il corpo del
compagno: il collo, la schiena, il torace, le natiche e davanti tra le gambe.
Non aspetto altri segnali: mi avvicino e anch’io comincio a lavarli per
toccarli sfacciato subito lì dove i loro cazzi subito duri esibiscono
sfrontati la voglia di sciogliere la tensione della lotta con il fuoco e di
venire ricompensati di tutta la fatica della notte e della lunga giornata
trascorsa. Nessuna parola tra di noi, mi chino e comincio a leccare due aste
lucide e dure come le lance metalliche di due idranti pronti a spararti
addosso potenti getti di liquido antifiamma. Non c’è più traccia di sudore
nel sapore che sento in bocca, solo il gusto del sale che si mescola a un
sentore ancora di fumo e ai primi filamenti di liquido appiccicoso e dolce.
Uno dei due maschi prevale sull’altro, mi prende la testa tra le mani e
spinge il suo cazzo ad appiccarmi il fuoco fino in fondo alla gola mentre
l’altro mi prende i fianchi a tenaglia con due mani d’acciaio e lento mi
entra dentro a infuocarmi il percorso fino al ventre. Mi trovo prigioniero,
bloccato davanti e dal dietro da quattro braccia forti e potenti al servizio
di due cazzi altrettanto forti e selvaggi che si fanno strada veloci e sicuri
tra le mie fiamme: non so più neppure chi sono e dove sono, sono solo
diventato due buchi da scopare che stanno svolgendo al meglio la loro
funzione e in quei due buchi c’è tutto me stesso, braccia gambe torace cazzo
e cervello esistono solo perché stanno attorno a quei due buchi che esistono
solo per venire irrorati dai getti caldi e forti dei due idranti che ardono e
pulsano dentro di me. Intravedo sopra la mia schiena le due bocche che si
cercano per esplorarsi e penetrarsi mentre le due lance liberano gli ultimi
grumi liquidi e densi. Si ritraggono, raccolgono i pochi indumenti e se ne
vanno senza una parola, solo: - Domani
torniamo presto a controllare i focolai, fatti trovare qui. Mi sono lasciato cadere
sdraiato su un fianco negli ultimi centimetri di acqua, che con il suo lento
e tranquillo va e vieni è solo un pallido fantasma di quello ben più
selvaggio che ho da poco subito. Ricompongo i miei pezzi all’esterno dei due
buchi, sento la sabbia ruvida e bagnata sotto la mia pelle, sento il richiamo
prepotente del mio cazzo fin qui dimenticato. La mia mano lo soppesa
lentamente, lo preme, lo accompagna in un ritmo dapprima lento mentre l’acqua
del mare mi accarezza lasciva e indifferente seguendo la mia mano che sempre
più veloce accompagna il mio respiro al respiro del mare. |