Fiume

 

 

Giravite in mano, pinze in tasca, a tracolla una borsa di tela con gli attrezzi di uso più comune per girare orgoglioso tra le macchine di legno e metallo, allegre e rumorose come le donne che le controllano e le guidano per trasformare i pesanti rocchetti colorati in tessuti morbidi e fantasiosi, che diventeranno poi gli abiti seri o sgargianti che altre donne indosseranno. Le spolette vanno e vengono fischiando veloci, i telai vibrano sussultando instancabili, e io mi sento sicuro e potente quando una tessitrice mi chiama spazientita per risolvere un problema e far ripartire la sua macchina bloccata o ingarbugliata. Mi faccio largo svelto negli stretti corridoi, la raggiungo, risolvo il problema e mi allontano trionfante seguito dagli sguardi ammiccanti e maliziosi delle signorine del reparto. Certo non posso pensare di riparare da solo i guasti più gravi: io sto ancora imparandolo il mestiere e ci vuole tanto tempo e tanta pazienza per diventare bravo come Sandro, che questo mestiere lo faceva già da cinque anni quando il padrone mi ha chiesto di aiutarlo perché, oramai, non ce la faceva più da solo con il reparto nuovo che da poco era stato aggiunto al primo; dove lui comunque è rimasto fisso, perché i telai sono più vecchi e logori e occorre essere davvero bravi, come lui, per intervenire e sistemare subito i problemi più gravi evitando che un fermo troppo lungo possa fare grossi danni alla produzione. Dopo tre anni passati da ragazzo al magazzino, a spostare pezze rocchetti e matasse, quando sono rientrato dal militare sono stato felice della possibilità che mi è stata offerta per imparare un mestiere importante, e sono felice di avere Sandro come maestro, così calmo tranquillo e simpatico e sempre disponibile per insegnarmi. Passiamo insieme tutto il tempo che riusciamo, lui cerca di trasmettermi tutti i trucchi del mestiere, ci tiene che io impari alla svelta perché anche lui si può sentire più tranquillo se io divento quasi bravo quanto lui. Bell’uomo, Sandro, capelli castani e occhi fondi e scuri da bravo ragazzo, ben messo, accidenti se lo è..! Ha almeno sei o sette anni più di me, ormai si avvicina ai trenta e non è ancora fidanzato. Le donne ai telai gli chiedono spesso “Ma allora bello quando ti sposi, che ti aspetti?..” e ridono maliziose ma se lo mangiano con gli occhi. Anche lui ride con loro, ma risponde che non può farlo perché sarebbe come tradire tutte loro, e lui vuole bene davvero a tutte, non può fare a nessuna questo torto!.. Sarà. Anch’io me lo mangio con gli occhi. Lui non c’è andato, ma io a militare ho imparato… sì… a stare con gli uomini, prima non ci avevo mai pensato ma…

Tutto è cambiato in quel periodo. Non ero mai stato lontano da casa, e lì, invece, lontano non so neppure quanto: un viaggio in treno che è durato quasi due giorni, lunghissimo. Non mi ero mai spogliato completamente davanti a nessuno, prima, e lì invece eri nudo per le visite mediche, in fila con altri cinquanta ragazzi nudi come te; nudo per le docce in comune dove ti strofinavi col sapone ruvido davanti alla fila degli altri cinquanta ragazzi nudi che aspettavano il loro turno e facevano commenti salaci sulle parti intime di tutti quelli già sotto la doccia, e non so quali altre considerazioni e battute e inviti a fare certe cose di cui neppure supponevo l’esistenza, prima. Mi vergognavo da morire, le prime volte, ma i ragazzi più sfacciati insistevano proprio con chi era meno sfacciato e più timido. Finché poi ci ho fatto l’abitudine a stare nudo in mezzo a tutti gli altri, e ho cominciato anch’io ad osservare con un po’ di curiosità i corpi nudi degli altri ragazzi e a giudicarli non solo per le diversità tipiche della regione di origine: chi più alto chi più basso, chi più chiaro o più scuro di pelle e di capelli… ma anche in base alla bellezza e alla prestanza fisica: chi più muscoloso, chi più peloso, qualche pescatore del sud con la pelle più scura abbronzata senza neppure il segno del costume, e infine chi… chi con i testicoli a penzoloni o belli pieni e sodi e chi quasi invisibili, chi con il membro più piccolo o più grande, più sottile o più tozzo, dritto e regolare o lievemente deviato, i più con la pelle a ricoprire tutta la punta ma qualcuno invece con la punta rosata completamente scoperta, e mi hanno detto che era una stranezza tipica degli ebrei. E con le immagini avevo anche imparato il loro nome nei vari dialetti e modi di dire, da uccello a bigolo, a passerotto, a cazzo, a minchia e via dicendo. La vita sempre in comune soltanto con maschi aveva fatto crescere spontanea una strana intimità fra tutti noi, e nelle camerate era diventato naturale scherzare anche dandosi grandi pacche sul sedere, o toccandosi l’un l’altro in mezzo alle gambe con una mossa svelta per colpire le parti molli, o aggredire per finta in gruppo uno solo, immobilizzandolo e toccandolo dappertutto finendo poi tutti insieme a terra ridendo come matti… Poi, durante la notte, mi era più volte capitato di svegliarmi e scoprire uno strano andirivieni a coppie dal bagno e mi immaginavo cosa potessero fare, insieme, scoprendo con un po’ di spavento che mi eccitavo a pensarli in un gabinetto a toccarsi e a fare quello che è proibito dai preti dalla legge e riprovato di solito da tutti quanti, e mi toccavo il membro durissimo che in pochi attimi mi inondava di liquido caldo e appiccicoso liberandomi dall’eccitazione con un lungo istante che sembrava ucciderti.

Dopo quasi quattro mesi il sergente mi prese da parte e mi chiese se volevo anticipare il mio rientro a casa (che era previsto non prima dei sei mesi). Mi illuminai, sorridendo e gridandogli un eccitato “signorsì” scattando immediatamente sull’attenti. Eravamo nel suo ufficio, era già sera e non c’era in giro nessuno. Sorrise anche lui, si slacciò i pantaloni e tirò fuori il suo membro già mezzo duro, dicendomi: - Allora, comincia a succhiarti questo qua che poi ci penso io… - Restai lì impietrito per qualche lungo istante, come paralizzato, non avrei mai immaginato una situazione simile. Sempre sorridendo si avvicinò e cominciò a toccarmi piano carezzandomi i capelli, la faccia, le labbra, poi mi abbracciò dolcemente toccandomi in mezzo alle gambe, dove anch’io cominciavo a sentire, non so perché, qualcosa che si muoveva e che poi si indurì improvvisamente quando passò le labbra sulle mie e lentamente mi infilò in bocca la sua lingua calda, morbida e umida di saliva. Nel giro di due settimane avevo imparato a toccarglielo e a succhiarlo fino a farlo a venire, e lui era anche riuscito a prendermi da dietro e a venire dentro di me. Ero sconcertato, non volevo pensare mai assolutamente a quello che facevo con lui la sera nel suo ufficio, ma comunque mi eccitavo e poi anche lui mi toccava e mi succhiava fino a farmi venire. La licenza arrivò prestissimo, tornai a casa felice ma già sul treno verso casa mi colpì violento il desiderio di stare invece sul pavimento di legno nell’ufficio del sergente.

Finita la leva sono tornato, il padrone si era comprata una bellissima Ardea nuova fiammante e fui felice quando un giorno mi ci fece fare un giro e mi propose il nuovo lavoro. E ora eccomi qua, senza poter dire a nessuno delle cose fatte di nascosto con il sergente e anche con qualcuno dei compagni, scendendo di notte dalla branda per chiudersi mezz’ora in un cesso a regalarsi l’un l’altro il proprio piacere. Neanche a Sandro posso dirlo, naturalmente, anche se in segreto nutro il pensiero fisso che anche lui è così, forse perché non ha ancora la fidanzata, forse perché quando mi incontra mi sorride con tanto calore e ogni tanto mi chiede se io ce l’ho la fidanzata, ma subito arrossisce e abbassa gli occhi ridacchiando. Mi piace, ma non so come fare, è troppo pericoloso approcciarlo così, sul lavoro, potrei finire licenziato e rischiare anche la vergogna di tutta la fabbrica e di tutto il paese, che farei dopo? E poi lui il militare non l’ha fatto, era diventato l’unico sostegno della famiglia dopo la morte improvvisa del padre, quindi non può neppure avere avuto la possibilità di imparare certe cose…

Caldo. Il solito caldo umido e opprimente della pianura senza vento. L’agitarsi delle macchine nella filanda caccia un caldo che appiccica alla pelle delle operaie la stoffa leggera dei grembiuli. La sera, dopo cena, faccio un giro in bici fino alla fornace che lavora sempre, giorno e notte, e dove sempre, estate e inverno, chi ci lavora dentro si asciuga e cuoce insieme ai mattoni con un calore insopportabile. Anche d’inverno, con la neve, ci vedi gli operai sempre svestiti, con indosso solo un paio di mutande succinte. Vanno e vengono dentro e fuori, escono con i carrelli a prendere il carbone da ardere o la creta da impastare o ammucchiano sotto la tettoia i mattoni già cotti. Seminudi, se ne stanno sotto la neve come fossero sotto il sole d’agosto, così con questo caldo quando tornano a casa devono coprirsi con una maglia di lana perché sentono freddo. Io invece sudo copiosamente quando li vedo e certo non è solo per il caldo. Anche Sandro è sempre sudato e la sua camicia chiazzata si apre sul davanti a mostrare dei ciuffi di peli scuri che fanno capolino tra i due lembi odorosi. Nella pausa mangiamo insieme, seduti per terra all’ombra, in cortile, prendendo il cibo con la forchetta dalla gavetta di alluminio che mi ricorda ogni volta le marce faticose, la vita da militare, i compagni di leva, il sergente e tutto il resto. – Che caldo… - fa svogliato Sandro, ma almeno mi distoglie dal pensiero. – Già… - gli faccio di rimando dando un’occhiata obliqua alla camicia aperta. Poi riprende: – Sai che facciamo? domenica andiamo al fiume a fare il bagno! Ci vieni?.. -  Sudo freddo al pensiero di vederlo spogliato. – Oh… ma certo! Che idea grandiosa..! ma.. come ci andiamo..? – rispondo stupidamente. – Con la bici..! e come se no?

Domenica mattina partiamo sul presto per non prenderci tutto il caldo, i chilometri sono più di dieci dal paese al fiume ma la strada è una bella provinciale, la terra battuta non ha troppe buche e sono poche le automobili che passano a riempirci di polvere. Pedaliamo di lena chiacchierando allegri, abbiamo voglia di buttarci finalmente nell’acqua fresca corrente. Ci siamo portati da mangiare per tutta la giornata, ne avremo di tempo per stare insieme a nuotare e a prendere il sole. Non oso pensare al suo corpo che vedrò tra poco seminudo, il suo torace peloso visto per la prima volta, le sue gambe e i suoi piedi, la sporgenza sotto la stoffa del costume… Quasi come fosse un’anticipazione, dopo qualche chilometro si è tolto la camicia rimanendo con la canottiera, facendomi avvampare. Siamo arrivati, passiamo sopra un ponte a doppio arco che attraversa il fiume, molto ridotto nella stagione calda, ma sempre sufficiente per bagnarsi e anche sempre pericoloso e traditore nei punti più profondi dove la corrente tira di brutto e rischia di trascinarti lontano e a fondo. Sandro prende a destra, tra i faggi e le querce, una stradina che lo costeggia controcorrente, poi la lascia per imboccare uno stretto sentiero dove il bosco si fa più fitto prima di diradarsi, quasi un chilometro più a monte, in uno slargo sassoso dove radi cespugli senza ombra non offrono più alcun riparo al sole già alto e bruciante. Scendiamo e proseguiamo a piedi, fino ad arrivare a una specie di conca sabbiosa dove un’ansa del fiume scorre più lentamente lasciando scorgere, al di là di un’isoletta ricoperta da una scarsa vegetazione, la corrente più forte del ramo principale. Nessuno, intorno. Chi viene al fiume si ferma prima del ponte, dove c’è una larga piana sassosa che offre ampio spazio, anche per qualche famigliola che si spinge con la Giardinetta o la Topolino fin quasi al greto del fiume. Sandro ha scoperto invece questo posto segreto, c’è venuto qualche volta e non ci ha mai visto nessuno, salvo qualche rara barchetta di pescatori, snella e appuntita, a scivolare leggera sull’acqua o a sfregare con rumore metallico nei punti dove il fiume diventa una lama di acqua sottile sopra un letto di ghiaia.

Appoggiamo le bici a un cespuglio un po' più grande e ci spogliamo svelti, ricoprendo le ruote con gli abiti per riparare dal sole le gomme. Ci guardiamo ed è un lampo, corriamo verso il fiume e ci buttiamo in una specie di pozza larga e profonda di acqua quasi ferma, lavando via di colpo la fatica della pedalata, la polvere e il sudore. Giochiamo a inseguirci a nuoto, a rovesciarci in faccia manate d’acqua fresca, a rincorrerci a mezza costa o ad afferrarci i piedi sott’acqua. Usciamo ansanti, camminando a fatica sui sassi, lisci ma che ti massacrano la pianta dei piedi nudi, fino a raggiungere una lingua di sabbia dove ci buttiamo bagnati a cuocerci al sole. Sandro ha gli occhi chiusi, lo guardo davvero per la prima volta seguendo un percorso ideale dalla testa al torace (il respiro ancora ansante muove su e giù i peli scuri che brillano di mille goccioline d’acqua) e dal torace alle gambe forti e pelose, fino ai piedi dove la sabbia si è appiccicata sul bagnato a formare quasi dei calzini granulosi. Mi soffermo a metà, sotto il suo ombelico i peli si fanno più fitti, una striscia scura che si perde sotto il bordo del suo costume sgambato di lana rosso scuro, dove una protuberanza di forma allungata solleva la stoffa che, bagnata, perde di consistenza e aderisce lasciva, evidenziando più che nascondere. Il cuore batte forte forte e l’eccitazione gonfia il mio costume più misero, delle semplici mutande bianche di cotone che bagnandosi aderiscono accennando persino a qualche trasparenza. Sandro sembra addormentato. In silenzio mi sfilo le mutande, resto nudo a sentirmi bruciare dal sole anche il triangolo di pelle rimasto ancora umido sotto la stoffa. Mi giro sul fianco verso di lui, lo guardo e non posso fare a meno di toccarmi il bastone duro che mi pulsa tra le dita reclamando soddisfazione. Sandro apre gli occhi, ci mette qualche istante prima di capire che sono nudo e me lo sto menando davanti a lui. Di scatto si mette a sedere, arretra esterrefatto e tenta di allontanarsi all’indietro a quattro mani. Io ci metto molto meno tempo per capire che ormai sono compromesso ai suoi occhi e che se perdo questa occasione non potrò mai più tentare alcun approccio, mi avvento su di lui bloccandolo alle gambe e risalendo svelto sul suo corpo fino a trovarmi viso a viso sopra di lui che tenta di divincolarsi mentre io gli serro una gamba tra le ginocchia e porto tutto il mio peso sulle braccia a tenere le sue che tentano di allontanarmi. Tutto si svolge in un rapidissimo istante, vedo nel suo sguardo il terrore di chi capisce di non avere scampo non perché non possa ma perché non vuole fuggire, il mio membro duro gli appoggia sulla pelle nuda del fianco e lui lo sente e lo desidera, è vinto, si divincola ancora troppo, troppo debolmente mentre lentamente piego i gomiti avvicinandomi al suo viso, avvicinando la mia alla sua bocca, il mio al suo desiderio. Lascia ormai che la mia lingua esplori avidamente ogni angolo della sua bocca, fino a risvegliare piano la sua lingua che si affaccia timida alle mie labbra, poi più disinvolta, poi più appassionata. Restiamo stretti avvinghiati, la sabbia imprigionata tra il mio e il suo torace riga la pelle di minuscoli graffi acutizzando le nostre sensazioni sempre più simili. Abbasso la mano a cercare il suo costume per sfilarglielo riuscendoci solo in parte, ma è lui a sfilarselo fino alle ginocchia alzandosi sul bacino e ora i nostri due bastoni si cercano si premono si schiacciano contro i nostri corpi infuocati da un calore ben più forte del sole, più ancora della fornace ardente che cuoce migliaia di mattoni ogni giorno arrostendo i maschi seminudi che ci lavorano e certamente si baciano si toccano si amano lascivi come noi due stiamo facendo. Infilo la mano tra i nostri due ventri e arraffo i due bastoni sfregandoli insieme con un movimento sempre più veloce che aumenta la velocità del nostro respiro l’uno nella bocca dell’altro l’uno nella saliva dell’altro fino all’esplosione di uno, due gridi che risuonano soffocati dentro un’altra bocca mentre uno, due fiotti caldi si insinuano bagnando i due ventri uniti e ansanti in un respiro affannato. Mi lascio andare sfinito restando su di lui come a volerlo schiacciare con tutto il peso del mio corpo, scivolando poi lentamente su di un fianco ma restando allacciati insieme. Lievi e lenti movimenti delle mani accarezzano l’un l’altro il corpo, la testa, le braccia, i fianchi, brevi e rallentati e soffici baci a labbra socchiuse si appoggiano senza peso sul viso dell’uno o dell’altro, gli occhi semichiusi, i muscoli rilassati, le labbra dischiuse in un lieve sorriso involontario e pacificato. – Ci facciamo un tuffo? – sono le sue prime parole, serene e tranquille. Quello che è successo ha cambiato per sempre la nostra vita, non potremo mai far finta che nulla sia successo, qui, oggi, e che ancora succederà, e anche se forse sono io ad avere avuto maggiori esperienze, abbiamo ancora tanto da imparare, insieme. Ma altro e diverso sarà il sorriso che da oggi ci scambieremo incrociandoci tra le macchine della filanda, sguardi obliqui e complici che non dovranno, non potranno mai tradirci con gli altri inconsapevoli e ignari, all’oscuro di quali vette e di quali abissi possano celarsi nell’incontro proibito di due fiumi in piena che si scontrano rompendo gli argini e allagando le regioni intorno. Ci basterà sfiorarci per accenderci di desiderio pur mostrando il nostro solito e abituale comportamento di normali compagni di lavoro, amici, certo, ma nessuno mai dovrà capire, intuire, supporre, malignare. La paura di essere scoperti ci farà attenti, prudenti, abili a nascondere sentimenti ed emozioni che potranno erompere più forti e violenti nei pochi momenti che potremo condividere e che cercheremo di moltiplicare in una gita al fiume, o nei campi più vicini al paese, e d’inverno aspettando pazienti le rare possibilità in casa dell’uno o dell’altro, se i familiari si allontanano lasciandoci soli, o in un solaio, o forse presso la fornace, dove tra le pile di mattoni ancora caldi ci si può nascondere in anfratti riparati e tiepidi per un rapido momento di intima unione. Forse sarà la paura a guidare le nostre azioni nei prossimi anni, ma oggi le nostre paure se le è portate via il fiume.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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