Ciliegie

 

 

Mi sono spinto lungo i corsi d’acqua che si perdono verso sud nelle piatte campagne lombarde, è pomeriggio di un sabato quasi estivo, io e la mia bicicletta a macinare chilometri sotto un cielo che le nuvole continuano a modificare, ed è un sollievo ogni volta che una nuvola torna a coprire il sole per qualche minuto. Il vento della corsa mi corre incontro sulla poderale asfaltata che corre a fianco di un largo e basso canale, con il fondale coperto di verdi erbe allungate che ondeggiano allo scorrere dell’acqua, magari un po’ inquinata ma limpida. Rari gli incontri, per lo più altri ciclisti, o qualche agricoltore. A breve distanza dalla poderale, ritmicamente le cascine segnalano che c’è sempre qualcuno che riesce a vivere lontano dalla città, certamente in un modo più umano anche se forse un poco meno comodamente. Mi piace a volte fermarmi in una di queste cascine e chiedere se hanno uova o della verdura da vendere, frutta magari. Rammento che in questa zona un paio di mesi fa avevo visto dei ciliegi in fiore, i frutti dovrebbero giusto essere maturi, adesso, perché non provare a chiedere? La poderale scorre tra il canale e un fosso parallelo, anche questo pieno d’acqua, che si perde in una fitta rete di canali e cunicoli che conducono l’acqua a irrigare ogni campo. Sorpasso un contadino di spalle che con una vanga sistema le sponde del fossato, nel punto in cui si incrocia con un fosso d’irrigazione più piccolo. Lavora a torso nudo, addosso ha solo un paio di calzoncini blu, le gambe nude che s’infilano nella larga imboccatura di un paio di stivali in gomma verde. Automaticamente freno e torno verso di lui: - Mi scusi... scusi..! – Si ferma e si gira di tre quarti verso di me: - Che c’è? – dice semplicemente, con un bel sorriso simpatico. – Oh.. non è che da queste parti qualcuno venda un po’ di ciliegie..? -  Appoggia le braccia sulla sommità del manico in legno della vanga, affondata in una zolla erbosa sopra l’incastro di pietra dove l’acqua fugge rumorosamente. Sarà sui quarantacinque o poco più, barba di tre giorni, un bel torace peloso sporco d’erba e terriccio incollati dal sudore. Tutta la mia fatica in palestra non vale certo quanto il suo lavoro: i miei pettorali e addominali sembrano falsi a confronto dei suoi, muscolosi e scattanti anche nell’immobilità del respiro, leggermente affannato per lo sforzo fin qui fatto. Noto ogni singola goccia di sudore che gli s’insinua tra i peli scendendo sempre di più fino all’orlo del pantaloncini, che mostrano sfacciate macchie di umido.

Ciliegie? sì, se vuole ne ho ancora, ma stanno finendo... Ma quante ne vuole..? – Mi accorgo che anche il viso è piuttosto bello, ma finora ero troppo impegnato a guardargli il resto. Capelli corti, ciocche biondo scuro incollate dal sudore. – Oh, un po’, così... solo per me e per qualche amico... però oggi sono in bici, non riesco a portarne... posso venire domenica prossima... – Scaccia una mosca dal naso, ma forse è solo un gesto per nascondere un sorriso ironico verso il solito cittadino ignaro. – Di domenica va bene perché ho un po’ più di tempo, ma sono così mature che fra una settimana non ne trova più... passeri e merli hanno fame!.. e se poi dovesse piovere un po’, tutte marce!.. No, se le vuole deve tornare domani mattina, le cogliamo insieme!.. La mia cascina è quella là avanti: trova un ponticello, lo attraversa, e deve solo seguire la strada. – Non me la sento di replicare. – Va bene. A domani, allora... – Un cenno di saluto ed è già al lavoro, spingendo col piede sopra il bordo della vanga per affondarla meglio nel terreno da rivoltare.

Domattina! A dire il vero ho già un impegno con Mario, dovrò chiamarlo inventandomi qualcosa, mi manderà all’inferno, lo so, ma...

Con la ypsilon sulla poderale di ieri, oggi il cielo è quasi completamente sgombro e il sole si fa ben sentire, ma mi pare meno afoso di ieri. Ecco il ponte, attraverso il canale e sono in cascina. E’ piccola, più un cascinello, direi. Vivrà solo? Soliti cani che abbaiano ed eccolo che esce da un fienile, mi viene incontro e mi saluta tendendomi la mano: - Ciao, mi chiamo Giovanni. – Chissà perché è passato senza preavviso a un tu così confidenziale. – Ciao, come stai? Piacere, io Roberto. – Peccato, è molto più vestito, oggi: jeans e una camicia di flanella leggera sul blu con motivi scozzesi. Ha in mano un canestro e un paio di cestini più piccoli, si avvia subito verso un lato della casa. – Hai fatto bene a venire presto, ci vuole tempo e pazienza per le ciliegie... – Sorride voltandosi a guardarmi, ricambio volentieri il sorriso, naturalmente. Un raggruppamento di alberi dalle foglie appuntite ci accoglie invitante, qualche ciliegia spiaccicata rossa a terra, sul prato. Nei rami si sente una confusione di ali e di trilli quando Giovanni ci infila una lunga scala ed un’altra, più corta, dove mi invita a salire porgendomi un cestello, con un gancio saldamente legato al manico. Con un gesto rapido si toglie contemporaneamente scarpe e camicia, resta a piedi nudi e a torace nudo, chi pensa più alle ciliegie? ma è lui a riportarmi alla realtà: - Sali, non avere paura! Tieniti le scarpe, però ti consiglio di levare la maglietta, sennò te la sporchi tutta... – Un duro tronco di legno mi si erge d’improvviso di tra le gambe, credo di arrossire mentre  gli rispondo che ho paura di graffiarmi la pelle, non importa se si sporca, è una cosa vecchia...

Comincio a salire, lui è già avanti un pezzo ma mi tiene sotto controllo per timore che mi faccia male: - Tutto bene? – Sta già riponendo le rosse e succose ciliegie nel cestino. – Muoviti adagio, stai sempre afferrato con una mano alla scala o a un ramo, il ciliegio è un legno forte, non si spezza... Ah, e mangia tutte le ciliegie che vuoi: quelle che mangi non si pagano!...

Mi tuffo dal di sotto in un nuovo mondo di verdi foglie fruscianti dal bordo seghettato, di bonbon rossi e succosi appesi a un peduncolo morbidamente oscillante, di rami forti che si moltiplicano affusolandosi in rami sempre diversi che occupano tutto lo spazio tridimensionale. Un mondo che scopro subito abitato non solo da uccellini cinguettanti, ma da una quantità incredibile di insetti diversi che subito mi mettono in apprensione, abituato come sono ad un asettico appartamento cittadino. Fili di ragnatele invisibili mi segnano il viso e le braccia mentre mi muovo, piccoli insetti neri profittano del mio corpo per un passaggio verso l’alto... moscerini farfalle e coccinelle mi svolazzano sul naso e sulla prima ciliegia che tento di cogliere scovo un ragnetto grigio spaventato che scappa rapido lasciandosi cadere verso il basso. Guardo Giovanni, poco più su, a proprio agio con il suo corpo seminudo a contatto diretto con questo mondo vegetale e animale che conosco solo da troppo lontano. Mi faccio coraggio, comincio a raccogliere i frutti ma torno a guardarlo restando a fissare il già desiderabile gonfiore tra le sue gambe, sotto i jeans. D’un tratto il gonfiore si accentua e si sposta un poco, mentre Giovanni ridacchia compiaciuto: - Ci sono altre ciliegie, lì sotto..! ma si gustano in un altro modo..!

Credo di essere arrossito violentemente, e per togliermi dal visibile imbarazzo non trovo di meglio che sfilarmi la t-shirt e ricominciare sveltamente la raccolta, incrociando ogni tanto, senza volerlo, il suo sguardo sorridente e sornione. Ora anche il mio torace entra in contatto con l’albero e quanto gli sta sopra. Dopo i primi brividi di fastidiosa sensibilità comincio ad abituarmi a sentire tutto quello che sfioro o che mi sfiora: le foglie che mi frusciano addosso regalando alla pelle la sensazione di sottilissimi tagli superficiali, peli che si piegano al camminare di minuscole zampette, fili invisibili di morbide ma resistenti ragnatele, ciliegie vellutate, cortecce di rami e ramoscelli che si intersecano per rallentare il mio passaggio, persino aguzzi spuntoni di rami spezzati che mi accoltellano tra le costole, tutto diventa un sensuale massaggio che mi accende e mi eccita ancora di più. – Devo salire più su – dice Giovanni – in alto sono più grosse e più buone... Devo arrampicarmi sui rami, ma non temere, sono di casa quassù!.. Solo mi tolgo i pantaloni per muovermi meglio...

Non posso crederci, è nudo. E già sale sui rami, abbandonata la scala, fantastico e libero animale che volteggia agile sui rami. Salgo più su, fino agli ultimi pioli, tenendomi abbracciato ai rami più grossi, lo aspetto. Ridiscende poco dopo, il cestino traboccante che aggancia disinvoltamente ad un ramo fermandosi vicinissimo a me: - Ehi, sta’ attento, come sei salito in alto!.. – ride – Cercavi queste..? - e con un sorriso malizioso stacca velocissimo dei grappolini di due o tre ciliege che aggancia subito alle mie e alle sue orecchie, come orecchini invitanti e maliziosi, rosse perle che ci trasformano subito in complici teneri e audaci. Si sporge brevemente, mi stringe forte un braccio per assicurarsi che non possa cadere, mi bacia, scambiandoci l’un l’altro il sapore delle ultime ciliegie masticate. Cerco e mi aggrappo al ramo del suo cazzo libero, duro, le due ciliege appese a dondolarsi pigramente in attesa della mia mano che le soppesa, le contiene, le stringe delicatamente. Mugola piano, godendosi i movimenti della mano che lo sta tastando. Con precauzione mi fa sedere a cavalcioni sul ramo grosso lì a fianco, la schiena contro il tronco ruvido e graffiante, e si mette anche lui a cavalcioni verso di me, contro di me, mi bacia e mi preme il torace contro il torace, peli foglie ciliegie capezzoli forse insetti si sfregano contro mentre le lingue si cercano umide scivolando l’una nella bocca dell’altro e le mani dimenticano la prudenza degli appigli, per cercare cosce ginocchia natiche schiene da premere strofinare palpare. Una pausa, ci guardiamo, ridendo, ci imbocchiamo ciliegie sputando lontano i nocciolini. Succo rossastro cola indifferente dalle sue labbra e inizia a succhiarmi i capezzoli tingendoli di violaceo che cola in lunghe righe appiccicose. Monta l’esigenza di segarmi lentamente, ogni poro del mio corpo è simultaneamente attaccato da differenti sensazioni nuove ed esuberanti, non potrò reggere a lungo un’eccitazione così violenta. Giovanni ha un culo magnifico, ho voglia di farmelo: - Scendiamo? – propongo. Sorride e mi schiaccia sul torace, sulle cosce, sulle braccia una manciata di ciliegie mature che tingono larghe chiazze rossastre. Scendiamo e ci sdraiamo sull’erba, uno sull’altro, uno cercando di sopraffare l’altro nel tentativo di trovare un buco umido, bocca o culo non importa, dove infilare il cazzo per cominciare finalmente a sfregarne ogni millimetro in un tunnel caldo e accogliente, ma nessuno vuole cedere per primo al desiderio dell’altro. Ci rotoliamo e lottiamo quasi violentemente, a fiato corto, finché finalmente riesco a schiacciarlo sul prato, faccia in giù sotto di me. Tento sveltamente di infilarglielo tra le natiche ma d’improvviso inarca la schiena con violenza facendomi perdere l’equilibrio, cado a terra rotolando un po’ stordito e cerco di alzarmi rapido in piedi ma lui è due volte più svelto di me, con uno scatto mi gira di spalle mandandomi a sbattere di fronte al tronco e neanche mi rendo conto, ma lui è già passato dall’altra parte, mi strattona e avvicina le mani legandomele assieme in una frazione di secondo con una funicella raccolta chissà dove. Mi ritrovo in piedi, strettamente abbracciato al tronco e immobilizzato. Senza l’accenno di un sorriso ci fissiamo ansanti, muti, non abbiamo più spiccicato neanche una parola da quando siamo scesi a terra. Ora si muove lentamente, senza fretta. Recupera la scaletta più corta, la appoggia a terra per il lungo infilandola tra le mie gambe e il tronco. Non so, non capisco che vuol fare, ma non mi ribello, come un animale ferito che cede, vinto, al suo predatore, senza neppure tentare di sfruttare le residue energie per un tentativo impossibile di fuga. Recupera un altro spezzone di fune, mi lega una caviglia ad un piolo, stretta, poi mi allarga a forza le gambe, allontana i piedi l’uno dall’altro legandomi saldamente anche il secondo a tre pioli di distanza dal primo. Sono principalmente attivo nel sesso, non ho mai amato farmi penetrare e dopo qualche prova non l’ho più ripetuto, ma ora so che mi tocca, lui forse non lo sa ma è come se fossi vergine, sarà uno stupro vero e proprio. Non so perché, ma al pensiero il cazzo torna a farsi duro e risento la necessità di sfregarlo contro qualcosa, il tronco è lì pronto a mia disposizione, anche se ruvido e irregolare va bene, va bene. Si ferma ad osservare il mio lento e costante movimento di avanti e indietro, si eccita a guardarmi e comincia a masturbarsi. L’eccitazione dell’uno aumenta con quella dell’altro, finché senza fretta mi viene dietro e mi si appoggia contro fino a farmi sentire tra le chiappe il suo tronco caldo che mi spinge contro il tronco dalla rugosa corteccia dell’albero. Sempre in silenzio appoggia la punta al mio buco e spinge lentamente, delicatamente, inesorabilmente. Sento che è entrata la cappella, muove adagio fuori e dentro per fare spazio, allargare la via per quello che viene dopo. Mi lascio fare, inerte, senza ribellarmi e neppure senza favorire il suo lento ma costante lavorio, che arriva presto ad allargare a sufficienza per infilare adagio tutto quanto il suo uccello. Rimane così, immobile, dentro di me, forse per consolidare l’allargamento del canale ma anche per farmi sentire il suo potere, la sua vittoria animale su di me, naturale come quella di due maschi che lottano per il dominio del branco e il possesso delle femmine, e chi perde non odia l’altro ma lo rispetta e si rimette a lui abbandonandosi al suo volere, riconoscendogli il diritto del più forte. Ancora muti, lui comincia a muoversi dentro di me, sento il suo duro pezzo di carne pulsante che scivola un po’ a fatica, lentamente, avanti e indietro nelle mie viscere che si infuocano man mano al suo passaggio non lubrificato. E’ ancora fermo, spinto fino in fondo a comprimermi l’intestino con un’insopportabile sensazione di pieno che mi fa contorcere, spasimare dolorante, ma forse è solo un modo diverso di sentire il piacere e cerco di impararlo, di capirlo. Il suo fiato sul collo è caldo, ansimante, le sue mani mi brancicano i fianchi, le spalle o le braccia per puntarsi, per prepararsi a fare forza, conosco troppo bene la tecnica e so che ora mi aspetta l’impeto della scopata violenta, la aspetto, ma lo stesso mi coglie impreparato la brutalità dei suoi colpi, che affondano dentro di me con violenza ad un ritmo veloce, sempre più veloce. Mi sento umiliato come l’animale maschio che ha perso e deve subire la dominazione del maschio vincente, ma insieme mi cresce l’orgoglio della femmina che nel branco viene prescelta per raccogliere e trasmettere nel tempo il seme del vincente. La durezza della scopata contrasta incredibilmente con la morbida tenerezza della sua bocca e della sua lingua che mi lecca adagio sul collo, le spalle, infilandomi lingua e saliva nelle orecchie. Il mio cazzo scoppia, ho urgenza di sfogarmi con una sega lunga e veloce ma le mani restano bloccate oltre il tronco, allora sfrutto il ritmo della sua scopata per sfregare il mio cazzo contro il tronco, pelle contro corteccia. Il suo ritmo accelera sempre più violento e mi aiuta ad avvicinarmi all’orgasmo che non lascio esplodere in un urlo liberatorio ma tengo soffocato in un prolungato mugolio strozzato mentre il caldo della sborra schizza a bagnare il mio ventre e l’albero che sto abbracciando. Il mio orgasmo è la scintilla che innesca anche quello di Giovanni, che mi viene dentro mentre continua a scoparmi violentemente, ancora ancora e ancora mentre sento tra le gambe colare la mia sborra e la sua sborra che scendono tra i peli cercandosi fino a incontrarsi per mescolarsi e seccarsi insieme.

Un brivido quando sfila, di colpo, il suo cazzo colante e ancora non del tutto ammosciato. Non ci siamo ancora detti una parola e continua il gioco del silenzio, non ostile ma pesante comunque. Con la coda dell’occhio lo vedo che si siede sul prato dietro di me, poi si abbandona sdraiandosi sull’erba e lasciandomi ancora lì in piedi e immobilizzato. Finita la foia, l’immobilità forzata è diventata insopportabile e la fune mi sta segando polsi e caviglie ma non voglio, non posso chiedergli di liberarmi. Lo sento alzarsi e arrivare alle mie spalle, vicino vicino, e dirigere un getto morbido e caldo di piscio sulle natiche, le cosce, colare sulle gambe, come un cane piscia per segnare un territorio che considera di suo dominio. Poi traffica ancora lì vicino, sento rumore di acqua, un tubo di plastica che si srotola.

Un getto gelido sulla schiena, le cosce, la testa.

In realtà non poi così gelido, solo non me l’aspettavo. Qualche secondo per abituarmi e diventa piacevole sentirsi lavare via stanchezza, sudore, sporco appiccicoso di resina di sborra di sugo di ciliegie e di urina. Mi ha liberato dalle funi, intanto: mi giro e mi appoggio di schiena all’albero cercando di riprendere forza agli arti rattrappiti, mentre lui prosegue a lavarmi dal di fronte cominciando dal torace, poi mi porge il tubo per invitarmi a lavare lui. – Grazie! – mi dice piano, è la prima parola fra noi da molti, troppi minuti. Eccoci puliti, bagnati, freddi sotto il sole caldo, vicini. Un sorriso, un bacio, qualche morbida carezza che sostituisce inutili parole non pronunciate. Vorrei stare con lui in un letto grande e pulito, in una camera ampia e luminosa, lì abbracciati e basta senza parlare. Sono sicuro che la sua camera è così come me la sono figurata, ma il resto del cascinale? Quanti spazi non immaginabili nella rimessa, nella cantina, nella stalla, nel fienile..? Con un brivido mi appare nella mente una stanza segreta con funi e catene, borchie e cuoio nero, fruste, pinze di tortura, candele da fondere brucianti sulla pelle, manette e croci di sant’andrea con dildi giganteschi e sborra a fiumi. – Ma a che stai pensando..? – mi dice. – Ma... nulla... è tardi, devo andare... – raccolgo gli abiti sparsi, mi rivesto.

– Tornerai a trovarmi? – e intanto mi piazza in mano una cassetta dove ha stipato le ciliegie raccolte.

- Tornerai a trovarmi...? – ripete.

- Sì, puoi contarci. – penso al locale delle torture (chissà se ci sarà veramente..?) e al suo letto ampio e morbido pieno di lui e del suo corpo nudo. D’altra parte, le occasioni per venire in campagna non sono poche: cetrioli, zucchine, melanzane, pannocchie di granturco, giusto per citare qualcosa a forma di cazzo; oppure pomodori, patate, latte... il cappone per Natale, le uova per Pasqua... si può sempre trovare una scusa per tornarci, no?

M’infilo nella ypsilon, riparto, a fine mattina fa parecchio caldo. Avanti un pezzo sulla poderale mi fermo e scendo a guardare indietro verso il cascinale lontano. Mi sfilo la maglietta, a torace nudo respiro la brezza attraverso l’epidermide e mi accendo una sigaretta restando lì in piedi a consumarla appoggiato alla lamiera rovente. Risalgo in auto, il contatto della pelle contro il sedile e contro la cintura allacciata è inusuale, per me, non ho mai guidato a torso nudo, ma voglio imparare e proseguire così fino a casa, ho sempre sbirciato con eccitata curiosità i pochi automobilisti che si vedono guidare a torace nudo, voglio suscitare in qualcun altro le stesse sensazioni. Tolgo anche le scarpe e riparto, sento strani i pedali sotto i piedi nudi e sputo dal finestrino aperto i nocciolini delle ciliegie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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