Notturno - Sergente, non sono in
grado di darle nessun uomo. - Signor
capitano, non posso portare a termine questa missione da solo. Il generale Arcos… Il capitano Coves lo interruppe bruscamente. - Il generale Arcos mi ordina di darle tutto l’aiuto possibile perché
lei possa raggiungere la fortezza del Cuervo e
farla saltare in aria. Non mi dice di affiancarle un uomo. Siamo rimasti in
venti, qui. Non posso sacrificare un uomo in una missione suicida, che
sicuramente fallirà. Vede anche lei in che condizioni siamo. Quei fottuti
banditi hanno fatto saltare perfino la linea elettrica. Dobbiamo usare le
lampade a olio. E io non posso perdere altri uomini. Il sergente attese che il
capitano finisse. Era un suo superiore e non poteva interromperlo. Guardò il
viso del capitano, che la fioca luce della lampada lasciava nell’ombra. - Il generale Arcos intendeva… Coves non lo lasciò finire neanche questa
volta: - Me ne fotto,
sergente. È chiaro? Me ne fotto. Lei si è offerto
per questa missione suicida, il generale Arcos le
attribuirà una medaglia alla memoria, ma io non posso perdere un uomo in
questa situazione. Non bastiamo neppure a sorvegliare la postazione. Avremmo
piuttosto bisogno di ricevere rinforzi, noi, invece di perdere uomini in
missioni eroiche. Può dire questo al generale Arcos,
visto che lo conosce bene… C’era una chiara ironia
nella voce del capitano, ma il sergente la ignorò. Rimase in silenzio. Che
cosa avrebbe potuto dire? Niente. Il capitano era un coglione: se avessero
fatto saltare in aria la fortezza, sarebbe stato un successo importante, che
valeva non uno, ma centinaia di uomini e avrebbe
segnato la definitiva sconfitta dei guerriglieri, quei banditi che stavano
seminando morte e distruzione. Avrebbe anche eliminato ogni problema per la
postazione di Coves, come per tutte le altre
dell’area: l’avanzata dei guerriglieri sarebbe stata bloccata e i superstiti
avrebbero dovuto ritirarsi nella regione di Selva de Ríos,
da cui provenivano e dove la guerriglia aveva attecchito da tempo. Era
l’unico modo per fermare quei fottuti bastardi e impedire che mettessero
radici anche lì. Già tutte le province del Nord erano perse, ora queste altre
bande, ancora peggiori delle altre, si erano installate nel Sud. Lui aveva
combattuto tre anni al Nord e ora che poteva contribuire a sferrare un colpo
mortale alla guerriglia qui nel Sud, questo coglione si rifiutava di
collaborare. Il capitano riteneva
impossibile un successo, ma il sergente era sicuro di farcela. Per riuscirci
però occorreva essere in due, altrimenti davvero il rischio di fallire era
troppo forte: non avrebbe neppure potuto portare tutto l’esplosivo
necessario, da solo, e qualche guerrigliero avrebbe potuto
sfuggirgli. Ma Coves
non intendeva dargli un uomo. Il sergente guardò l’ufficiale, che si era
alzato in piedi e passeggiava nervoso, proiettando la usa ombra sulla parete.
Sembrava solo attendere una sua replica per riprendere a dargli addosso. Il sergente pensava
all’impresa di tre militari che, dieci anni prima, erano riusciti a far
saltare in aria il forte di Puerta de la Haz: quell’azione eroica
aveva permesso al Paese di vincere la guerra. E il capitano non voleva dargli
un uomo per eliminare la guerriglia dall’area! Non aveva molto tempo per
convincerlo: c’erano almeno otto ore di marcia per raggiungere la base di San
Ignacio al Monte e doveva esserci prima dell’alba.
Il sole era già calato da un pezzo e stava perdendo tempo prezioso. Vedendolo silenzioso, il
capitano si sedette e proseguì: - Dia retta a me,
sergente: lasci perdere questa missione. - No, andrò fino in fondo,
signor capitano. Sapeva benissimo che
avrebbe dovuto rinunciare, se non avesse ottenuto un uomo, ma non riusciva ad
accettare l’idea che il piano andasse a monte per un fottuto ufficiale che
non capiva. - Lei ha la testa dura, ma
le pallottole sono più dure. Il sergente tacque. Il
capitano riprese: - Nell’ultimo attacco dei
guerriglieri abbiamo perso otto uomini: quei fottuti bastardi ci hanno teso
un’imboscata e poco ci è mancato che non crepassimo tutti. E questa mattina
un soldato ha ucciso il tenente Huerta. Lo fuciliamo domani, quel bastardo. Dieci uomini in meno e
lei mi chiede di perderne un altro. Coves scosse la testa, come se la richiesta
del sergente fosse davvero incredibile e non rientrasse nei normali rischi di
una guerra. Ma quell’uomo non aveva la più pallida idea di come si affrontano
i guerriglieri. Se era caduto in un’imboscata, vuole dire che era un
coglione. Probabilmente mandato lì, in quella regione sperduta, perché era un
incapace. E adesso che c’erano i banditi, lui pensava solo a salvarsi la
pelle. Sarebbe finito ammazzato dai guerriglieri o da uno dei suoi uomini… L’idea venne a Patricio di colpo. Era assurda, del tutto assurda. Ma c’era un’altra possibilità? - Perché quel soldato ha
ucciso il tenente? - Non ha voluto dirlo. - È un bravo soldato?
Intendo dire, è coraggioso? - Sì, cazzo! Era uno dei
miei soldati migliori. E adesso mi tocca pure fucilarlo… Il capitano si interruppe.
Doveva avere intuito che cosa aveva in testa il sergente. - Vuole provare con lui?
Gli promette che non sarà fucilato se partecipa alla missione? È questo che
ha in mente, eh? Certo che lei ha proprio la testa
dura, sergente. Non rinuncia mai, eh? Il capitano sembrava
divertito all’idea. Aggiunse: - Quell’uomo ha ucciso un
tenente in mattinata. Può uccidere anche lei, appena
vi sarete allontanati, così può scappare senza rischiare la pelle in una
missione suicida. Il sergente rifletteva. Da
solo portare a termine la missione sarebbe stato impossibile: avrebbe dovuto tornare alla base. In due avevano alcune
possibilità di farcela. Valeva la pena di correre il rischio. Disse: - Mi faccia parlare con
lui, da solo a solo. - Va bene, sergente. Ma mi
ascolti bene: voglio la sua parola che, se per qualche motivo riuscite a
tornare vivi, lei lo ammazza. - Ma non mi ha detto che… Di nuovo il capitano lo
interruppe: - Può promettergli che non
sarà fucilato. Ma lei lo ammazza. Chiaro? Quell’uomo ha ucciso un superiore e
non può tornare vivo. Il sergente annuì. Se
occorreva ingannare il soldato, l’avrebbe fatto: quello che contava era il
successo della missione. Il capitano attendeva un
impegno esplicito e il sergente disse: - Va bene. Se torniamo
vivi, lo ammazzo. Coves prese due chiavi dal cassetto e se le
mise in tasca. Poi si alzò, prese una seconda lampada, l’accese e la porse al
sergente. - Venga con me, sergente. Il sergente seguì il
capitano. Raggiunsero la scala che portava nei sotterranei e scesero. C’era
solo un breve corridoio con due porte. Il capitano fissò il
sergente. - Badi a quello che fa,
sergente. Glielo ripeto: ha ucciso un suo superiore questa mattina. Lo
abbiamo sepolto due ore fa. Non si fidi. Il sergente annuì. Poi
disse: - Mi lasci solo con lui. - Va bene. Questa è la
chiave delle manette. L’ufficiale aprì la porta.
Il sergente sentì l’odore forte, che lo prese alla gola: odore di chiuso, di
sudore, di piscio e di merda. Il capitano entrò nella cella e Patricio lo seguì. Era un locale piccolo, di pochi metri
quadrati, che sembrava privo di aperture. L’odore era quasi insopportabile,
anche se, dopo oltre vent’anni di vita militare e una lunga esperienza di
guerra e di lotta contro la guerriglia, il sergente era abituato a ogni tipo
di odori. L’uomo era seduto a terra,
a torso nudo. Aveva del sangue secco sul viso e diverse escoriazioni:
dovevano averlo menato. Poteva avere venticinque-trent’anni,
non di più. Aveva un corpo vigoroso, con spalle larghe e braccia robuste. - Alzati, stronzo. Il
sergente Belnuevo vuole parlarti. Hai la
possibilità di scampare al plotone di esecuzione. Il sergente non disse
niente sul fatto che il capitano aveva sbagliato il suo nome: non aveva
nessuna importanza. Il soldato si alzò, una smorfia di diffidenza sul suo viso. I pantaloni
gli scivolarono sui fianchi: erano lacerati e senza cintura, per cui
scoprirono il ventre fino ai peli del pube. - La lascio con questo
pezzo di merda, sergente. Veda lei se le può servire. Altrimenti domani lo fuciliamo. Il capitano uscì. Il
sergente attese di sentire svanire il rumore dei passi lungo le scale. Poi posò la lampada a
terra, tirò fuori dalla tasca un sigaro e lo accese. Incominciò a fumare.
L’odore del sigaro copriva un po’ il lezzo della cella. Il soldato rimaneva in
silenzio. Aspettava. - Come ti chiami? - Fernando. Non aveva detto il suo
cognome, non lo aveva nemmeno chiamato con il grado: si era limitato a
rispondere come avrebbe risposto a un altro soldato
o a un civile. Ma non aveva nessuna importanza. - Perché hai ammazzato il
tenente? - Cazzi miei. Il sergente annuì, aspirò
un po’ di fumo e lo soffiò fuori. - Vuoi evitare di essere
fucilato tra poche ore? - Chi non lo vorrebbe? - Allora, senti… Non sarai fucilato se accetti di partecipare a una
missione molto rischiosa. - Morire combattendo
invece di morire fucilato? Bella scelta. - Non è meglio essere
ammazzato dai nemici che farsi fucilare dai propri compagni? Per il sergente sarebbe
stato davvero diverso, ma per quell’uomo? Per uno così, avrebbe fatto qualche
differenza? Il soldato alzò le spalle,
un ghigno ironico in faccia. - Se lo dice lei… Poi aggiunse: - In che cosa consiste la
missione? - Dobbiamo far saltare in
aria la fortezza del Cuervo e sterminare quei
fottuti banditi. - Cazzo! Dici poco! - Non è un’impresa facile,
ma è l’unico modo per evitare la fucilazione. Il soldato lo guardò,
pensieroso. - E come pensi di
riuscirci? Il soldato era passato al tu. Inutile rilevarlo. Non contava. - Voglio mettere
dell’esplosivo alla base delle quattro torri. Dopo lo scoppio, ci appostiamo
fuori e spariamo a tutti quelli che cercano di scappare. - Per fare una cosa del
genere ci vogliono i coglioni. Tu li hai? Il sergente guardò il
soldato senza rispondere, fumando il suo sigaro. Poi disse: - Questa è la missione. Te
la senti? Non fingere di accettare per cercare di scappare, perché ti
garantisco che ti ammazzo come un cane. Il soldato ribadì: - Non mi hai detto se hai
i coglioni. Il sergente digrignò i
denti. Il comportamento del soldato incominciava a dargli sui nervi. - Io li ho. - Vediamo. Aprimi le
manette. Il sergente prese la
chiave e passò dietro il soldato. Infilò la chiave e fece scattare il fermo,
liberando le mani dell’uomo. Tornò davanti a lui, sempre fumando il sigaro.
Che avrebbe fatto il prigioniero? Gli sarebbe saltato addosso? Il soldato era
di certo molto forte, ma il sergente sapeva di essere un toro e il
prigioniero non sarebbe riuscito a impossessarsi della sua pistola. Il sergente non disse
nulla. A braccia conserte, attese. Il soldato si massaggiò i polsi un buon
momento, poi disse: - Ora dammi la tua
pistola. Il sergente ebbe un gesto
di sorpresa. Dargli la pistola? Quel bastardo aveva ucciso un altro sergente
poche ore prima. Avrebbe potuto uccidere anche lui e poi cercare di scappare.
Non aveva niente da perdere. Guardò l’uomo negli occhi: alla luce della
lampada posata a terra il viso del soldato aveva un’apparenza spettrale. La voce del soldato
risuonò beffarda: - Non hai i coglioni per
farlo, eh, sergente? - Dammi la tua parola che
non la userai per cercare di fuggire. - Non lo farò, sergente,
questa è una faccenda tra me e te, per vedere chi è davvero un uomo. Il sergente prese la pistola dalla fondina e la diede al soldato. Erano a una spanna uno
dall’altro. Il prigioniero impugnò l’arma e premette la canna contro il
ventre del sergente. - E ora, sergente dei miei
coglioni, usa quel fottuto sigaro per marchiarmi a fuoco. Il sergente fissò il
soldato negli occhi. Annuì. Quella era la sfida: spegnere un sigaro sulla pelle
di un uomo che ti punta una pistola contro e che può spararti. L’avrebbe
fatto. Aspirò ancora un po’ di
fumo, lo soffiò fuori, poi scosse la cenere e avvicinò la punta incandescente
al ventre del soldato, tra i peli. Premette con decisione. Vide la tensione
sul viso del soldato, mentre teneva premuto il sigaro. L’odore dei peli e
della carne bruciata si aggiunse al fetore della cella. Goccioline di sudore
scorrevano sulla fronte dell’uomo, perdendosi tra la barba di qualche giorno.
L’uomo annuì. Gli porse la pistola. Il sergente la prese. Solo allora il sergente si
rese conto della propria erezione. Il pericolo gli faceva spesso questo
effetto. - Sono con te, sergente,
vengo con te. Se ci fottono, è finita. Ma se torniamo vivi, io me ne posso
andare. Sono queste le condizioni? Il sergente annuì. Stava
mentendo, ma l’importante era la missione. E comunque in quell’impresa era
facile che morissero entrambi. - Andiamo. Il sergente salì
nell’ufficio del capitano. Coves non disse nulla.
Ordinò a uno dei suoi uomini di portare una camicia e una cintura per il
soldato e lasciò che partissero. Il sergente aveva le armi e tutto
l’occorrente per entrambi. Porse a Fernando uno zaino, un mitra, una pistola
e un coltello e prese l’altro zaino e le armi per sé. - Nello zaino c’è
l’esplosivo. Fa’ attenzione a come ti muovi. Il soldato annuì. Camminarono in silenzio,
salendo lungo un sentiero che a tratti sembrava scomparire. Non usarono le
torce elettriche: quello era ancora territorio controllato dal loro esercito,
ma di certo c’era qualche fottuto indio pronto a fare la spia per i
guerriglieri. Nessuno doveva sapere che due uomini si stavano dirigendo verso
la fortezza del Cuervo. La piazzaforte era a meno
di due giorni di marcia. In realtà, a meno di due notti: avrebbero dovuto
muoversi solo con il buio, per non essere avvistati. Scesero e poi risalirono
lungo il fianco di una montagna. La luna sorse presto, ma il cielo era velato
e a tratti l’oscurità era fitta: quando le nuvole davanti alla luna erano più
spesse, dovevano muoversi con molta cautela, perché vedevano molto poco. Più tardi il cielo si scoprì e riuscirono a
camminare più spediti. Era quasi mattina quando
arrivarono a San Ignacio al Monte. Il paese era
stato un tempo fiorente, ma era declinato quando la miniera si era esaurita.
Una trentina d’anni prima, era stato raso al suolo in una delle guerre che il
Paese aveva combattuto con i suoi potenti vicini. Nessuno era tornato ad abitarvi,
ma, nei sotterranei di quello che era stato il municipio, l’esercito aveva
allestito una piccola base segreta, che sarebbe dovuta
servire in caso di una nuova guerra. Quando i guerriglieri si erano stabiliti
sulle montagne, la base era stata rimessa in funzione e usata da alcune spie
per controllare i movimenti di quei fottuti bastardi. Il sergente condusse il
soldato all’ingresso, nascosto tra le rovine della chiesa. Rimuovendo una
tavola, scesero in un tunnel. Dopo aver rimesso a
posto la tavola, il sergente accese una torcia elettrica e percorsero il
passaggio fino a raggiungere la sala. Il sergente accese una
lampada, che illuminò l’ambiente. Era un locale spoglio, senza nessuna
apertura: anche se qualche spia nemica si fosse trovata nelle vicinanze,
dall’esterno non avrebbe potuto vedere nessuna luce. C’erano tre pagliericci
su un lato, un tavolo, tre sedie e uno scaffale con alcune scatole e
bottiglioni d’acqua. In un angolo una tenda nascondeva il cesso e di fianco
c’era un piccolo lavandino. Dall’altra parte una stazione radio. I genieri
avevano fatto un ottimo lavoro. Il soldato si guardava
intorno. Non conosceva l’esistenza della base, che era tenuta segreta: non
che fosse una base di grande importanza, ma se i guerriglieri o il nemico
l’avessero scoperta, non sarebbe più stato possibile utilizzarla. Il sergente
pensò che era una ragione in più per uccidere il
soldato, nel caso fossero riusciti a compiere la missione e tornare vivi. - Passeremo qui la
giornata. Cerchiamo di dormire: dovremo camminare di nuovo per buona parte
della notte di domani. Il soldato annuì. Mangiarono alcune delle
loro provviste e bevvero l’acqua dei bottiglioni. Quella del lavandino era
collegata a una sorgente, ma quando aprirono il rubinetto videro
che era sporca di terra. Dopo aver mangiato, si
spogliarono e si coricarono. Il sergente guardò il corpo del soldato, che gli
dava la schiena. Aveva un gran bel culo, muscoloso e armonioso. Era davvero
un bell’uomo. Quando il soldato si voltò dalla sua parte, il sergente vide il
segno della bruciatura, sopra la peluria fitta che copriva il basso ventre.
Fissò il sesso vigoroso del soldato. Si accorse che l’uomo lo stava guardando
e che il proprio cazzo si stava riempiendo di sangue. Il sergente distolse
subito lo sguardo. Mise la torcia elettrica di fianco al pagliericcio, poi spense la
lampada. La stanza piombò nel buio più assoluto. Nel locale faceva caldo e
mancava l’aria. Il sergente si chiese che
cosa avrebbe fatto il soldato. Se voleva ammazzarlo, era il momento giusto. Ma
avrebbe già potuto farlo, sparandogli alla schiena durante la marcia di
avvicinamento. Dopo un po’ sentì il
respiro pesante del soldato e si lasciò andare al sonno. Dormì a lungo: non
aveva mai avuto problemi di insonnia, riusciva ad addormentarsi in qualsiasi
situazione. Quando si svegliò, il
sergente accese la torcia e guardò l’ora: erano le quattro del pomeriggio.
Dovevano attendere ancora tre ore prima di uscire. Il soldato era sdraiato e
gli dava la schiena. Il sergente si alzò e andò
a pisciare. Quando tornò verso il pagliericcio, il soldato chiese: - Ora di andare? - No, abbiamo ancora
tempo. Possiamo fare una colazione-cena, la nostra ultima, probabilmente. Mentre il soldato andava
anche lui a pisciare, il sergente accese la lampada, ma non si alzò. C’era
tempo anche per la colazione. Il soldato tornò a
stendersi e si voltò verso il muro opposto. Non dormiva, ma rimaneva in
silenzio. Il sergente fissava quel culo forte e la schiena diritta. Gli stava
ritornando duro. La faccenda gli scocciava. In quel momento il soldato si
voltò verso di lui. Il sergente vide che aveva
anche lui il cazzo duro. Il soldato ghignò, ma non disse nulla. Senza alzarsi, il soldato passò sul pagliericcio del sergente.
Protese la mano destra, che sfiorò il cazzo del sergente, poi lo strinse con
vigore, mentre la sinistra scivolava sul suo petto. Il sergente lo lasciò
fare, senza parlare. Il tocco di quelle mani calde lo stordiva e da troppo
tempo non scopava. Il soldato avvicinò la
bocca al cazzo del sergente. Ci sapeva fare a succhiare
cazzi, il tizio. La sua lingua accarezzava e stuzzicava, ora la cappella, ora
l’asta tesa, scendeva fino ai coglioni, leccava anche quelli, poi la bocca li
avvolgeva e li risputava fuori, le labbra risalivano lungo l’asta, i denti
mordicchiavano leggermente, la lingua avviluppava. Ora però il sergente
voleva gustare il culo del soldato. Non sapeva se lui sarebbe stato d’accordo
o no, ma non aveva importanza: era molto più forte. Il soldato non oppose
resistenza quando il sergente lo prese per la nuca e lo forzò a mettersi sul
pagliericcio, a pancia in giù. Il soldato si mise a quattro zampe e il
sergente gli poggiò le mani sul culo e gli divaricò le natiche. Guardò
sorridendo l’apertura, poi sputò sul buco e spinse avanti il cazzo, fino a che
sentì il calore del culo che stava per fottere. Grugnì di soddisfazione e,
senza interrompere il movimento, penetrò tra i fianchi. Sentì il calore e la
consistenza di quel culo, tanto sodo da sembrare vergine. Avanzò fino in
fondo e si fermò, con un nuovo grugnito di piacere. Poi si ritrasse e prese a
spingere vigorosamente, avanti e indietro. Di fianco a lui la lanterna
proiettava le loro ombre sulla parete. Il sergente le guardava muoversi, come
se fossero due creature fantastiche, del tutto indipendenti da lui e dal
soldato. Erano grandi le ombre, tanto da raggiungere il soffitto. Guardandole
gli pareva che a fottere fossero due giganti. Nessuno dei due parlava, ma a
tratti il soldato gemeva e il sergente emetteva una specie di grugnito. Le
ombre ondeggiavano con un ritmo costante e le loro teste a tratti si
sollevavano e si abbassavano. Le ombre erano silenziose, mentre i due corpi
avvinghiati emettevano suoni che parevano versi animali. Il sergente proseguiva
nella sua opera, rallentando il ritmo ogni qual volta il piacere rischiava di
debordare: voleva farlo durare il più possibile. Era l’ultima scopata della
sua vita, nel buio di quella stanza dove la luce della lanterna esaltava il
gioco dei loro corpi. Infine la tensione divenne
troppo forte e si sciolse in una serie di spinte selvagge, tanto violente che
il soldato fu spinto a terra. Il sergente continuò a spingere, mentre
riempiva il culo del suo sborro, grugnendo. Poi esclamò: - Merda! Fu l’unica parola
pronunciata. Il sergente rimase immobile
sul corpo in cui ancora teneva infilzata l’arma. Ora si rendeva conto del
calore insopportabile del locale, del sudore che gli scorreva sul viso,
dell’odore intenso di entrambi. Non sapeva se il soldato
fosse venuto o meno. Non aveva importanza. Dopo un po’ il sergente
fece scivolare il cazzo fuori dal culo del soldato. Gli dispiacque lasciare
quel culo caldo e accogliente, ma doveva andare a morire. Si alzarono. Mangiarono
quanto era necessario per essere in forze senza appesantirsi troppo. Durante
il pasto non dissero nulla. Nessun ammiccamento, nessun
sorriso. Al sergente andava bene così. Quello che c’era stato non li aveva
avvicinati: erano sempre un sergente e un soldato. Un sergente che doveva
ammazzare il soldato se riuscivano a tornare vivi, e
un soldato condannato a morte, che non doveva sapere che sarebbe stato
giustiziato in ogni caso. Dopo aver mangiato si
rivestirono. Si misero gli zaini in spalla, imbracciarono i mitra, si
infilarono nel tunnel e uscirono. Era notte ormai. Il cielo era di nuovo
coperto, ma il sergente pensò che era meglio così:
stavano per entrare in territorio controllato dai guerriglieri, dove ci
sarebbero state sentinelle e ogni uomo poteva essere una spia. Verso le tre giunsero
nella valle dove sorgeva la fortezza del Cuervo. Le
nuvole si erano diradate, perciò percorsero l’ultimo tratto muovendosi tra
gli alberi e le rocce, sperando di non essere sorpresi da qualche sentinella.
Tra gli alberi l’oscurità era completa e li avvolgeva, proteggendoli, ma
rendeva più difficile muoversi. Erano ormai le quattro
quando giunsero alla base dei guerriglieri: avevano ancora due ore di buio,
per portare a termine la loro missione. La fortezza del Cuervo
controllava l’unica strada che percorreva la valle, dall’alto di uno sperone
roccioso. Per quanto fosse stata danneggiata in una delle ultime guerre, era
ancora un edificio imponente, dalle alte mura. I cambiamenti di confine le
avevano tolto ogni valore strategico, per cui era stata a lungo usata come
una base militare secondaria, finché i guerriglieri con un colpo di mano
avevano sorpreso la guarnigione e l’avevano massacrata: nessuno si aspettava
che quei figli di puttana scendessero dalla Selva de Ríos
fino a quella valle. La fortezza era diventata
la loro principale roccaforte e per riconquistarla l’esercito avrebbe dovuto
lanciare un’offensiva in grande stile, ma le priorità degli alti comandi
erano altre: la guerriglia nella Selva de Ríos, le
tensioni ai confini orientali, i conflitti interni che avevano portato
all’ultimo colpo di stato. Di fronte alla fortezza,
il soldato aprì bocca per la prima volta. Sibilò: - E come cazzo pensi di entrare, sergente? Il sergente rispose in un
sussurro: - Non occorre entrare. Seguimi. Il sergente iniziò ad
arrampicarsi sullo sperone roccioso, seguendo un canalino tra i massi. Il
terreno era in forte pendenza e, anche se c’erano numerosi appigli, non era
facile muoversi alla fioca luce delle stelle. Ma il sergente sapeva che si
poteva salire da quella parte: era la via migliore, visto che la pista che
conduceva all’ingresso era sicuramente sorvegliata. Raggiunsero infine la
cima dello sperone. La fortezza incombeva su di loro. Il sergente si spostò
tra le rocce, fino a raggiungere la base della torre. Sistemò metà delle
cariche di dinamite che aveva nello zaino, accese una miccia lunga e si
allontanò, seguito dal soldato. Misero le cariche esplosive alle basi di
tutte e quattro le torri. Probabilmente in cima alle mura c’erano delle
sentinelle, ma, anche se non dormivano, non erano in grado di vederli nel
buio. Ogni carica aveva una
miccia diversa. L’ultima che avevano messo aveva la
miccia più breve. Avrebbero dovuto esplodere più o meno contemporaneamente,
anche se il sergente sapeva benissimo che ci sarebbe stato un momento tra
un’esplosione e l’altra. Il sergente indicò al
soldato il punto in cui doveva appostarsi e si mise più avanti, dall’altra
parte della pista. Da entrambe le postazioni controllavano l’ingresso della
fortezza. Rimasero in attesa. Il
sergente si sentiva calmo: aveva messo con cura le quattro cariche, non li
avevano visti e non avrebbero fatto in tempo a disinnescarle. Anche se una
delle cariche non fosse esplosa, le altre sarebbero state sufficienti a
demolire gran parte della fortezza. Non l’avrebbero distrutta completamente,
ma i guerriglieri non avrebbero più potuto servirsene. Il sergente teneva il dito
sul grilletto del mitragliatore. Appena fossero avvenuti gli scoppi, i
banditi sopravvissuti sarebbero corsi fuori: lui e il soldato li avrebbero
falcidiati, finché qualcuno di loro non li avesse ammazzati. Era molto
difficile che riuscissero a ucciderli tutti, se erano tanti come pareva che
fossero. Il pensiero della battaglia e del rischio mortale lo eccitava. La deflagrazione lo fece
sussultare: una delle due torri più lontane era esplosa. Sentì le urla e il
fragore delle pietre che rotolavano a valle. Seguirono due altri scoppi, a
brevissima distanza. Ora la fortezza ardeva e solo una delle torri era ancora
in piedi. Stavano aprendo la porta. Ora. Le fiamme illuminavano in
pieno gli uomini nudi che ora correvano fuori. Alcuni avevano il viso
annerito dal fumo, qualcuno era ferito, pochi avevano un’arma in mano. Il
sergente sorrise, mentre il sangue affluiva impetuoso al cazzo. Incominciò a
falciare gli uomini, disorientati e intontiti dagli scoppi. Qualcuno degli
uomini si voltò, cercando di ritornare nella fortezza, ma la quarta torre
esplose in quel momento. Il sergente e il soldato continuavano a sparare. I
guerriglieri cadevano come birilli. Alcuni cercarono di rispondere ai colpi,
ma i loro proiettili non raggiunsero il bersaglio. Presto l’area davanti alla
fortezza distrutta fu ricoperta da cadaveri e agonizzanti. Si sentivano
lamenti e imprecazioni, ma più nessuno degli uomini era ancora in piedi. Il sergente attese un
momento, poi si guardò intorno, si alzò e si avvicinò ai corpi distesi a
terra. Riprese a sparare, spegnendo le ultime grida di dolore, ridendo delle
bestemmie e degli insulti che qualcuno gli lanciava prima di morire. Rideva e
sparava, il cazzo tanto teso da fargli pensare che sarebbe venuto in quel
momento. Non c’era più segno di
vita nei corpi stesi. Dovevano essere una ventina.
Altri erano morti nel crollo, probabilmente la maggioranza. Il sergente si
guardava intorno. Avrebbe voluto sparare ancora, sciogliere la tensione
intollerabile nel ventre. Guardò il soldato al suo fianco e pensò che avrebbe
potuto sparare a lui. Ma il soldato impugnava il mitra e forse avrebbe
capito. Lo avrebbe ucciso dopo. E il pensiero aumentò ancora la tensione, insopportabile,
che avvertiva nel cazzo. Il soldato non diceva
niente. Aspettava. Il sergente annuì, come se
il soldato gli avesse chiesto se non era ora di andarsene, e prese a
camminare rapidamente. La fortezza era la base principale, ma di sicuro
c’erano altri guerriglieri nell’area, nei paesi di quei fottuti indios che li
appoggiavano o in qualche accampamento. Non potevano pensare di ammazzarli
tutti loro due. Si allontanarono in
fretta. Man mano che procedevano, il sergente
sentiva la tensione diminuire, ma quando ripensava agli uomini falciati dai
proiettili, nuovamente il desiderio cresceva. Non mancava più molto all’alba e quando il cielo si schiarì, il
sergente decise di fermarsi: di giorno li avrebbero avvistati e qualcuno li
avrebbe di certo spiati e visti raggiungere la base segreta. Si stesero tra
alcuni grandi massi. Non dissero nulla. Dopo un po’ si misero a dormire.
Prima del tramonto mangiarono le poche provviste che avevano portato con sé e
quando fu abbastanza buio da nascondere i loro movimenti, ripresero la loro
marcia e nella notte raggiunsero la base di San Ignacio
al Monte. Il sergente accese la
lampada. Avrebbe dovuto comunicare al generale Arcos
il successo della sua missione, anche se di certo ormai lo sapeva: anche
l’esercito aveva i suoi informatori in quelle valli e l’esplosione si era di
certo udita a grande distanza. Il generale però non
sapeva se lui era ancora vivo. Guardò l’ora: erano le
quattro. Inutile svegliare il generale a quell’ora, la sua comunicazione non
era urgente. Lo avrebbe cercato dopo. Accese comunque la radio, nel caso i
comandi avessero cercato di contattarlo in quella base da cui lui doveva
passare. Il sergente guardò il
soldato e, senza parlare, entrambi si spogliarono. Il sergente posò la
lampada a terra, accanto al pagliericcio. Il cazzo gli stava ritornando duro
in fretta, mentre davanti ai suoi occhi scorrevano le immagini della strage
alla fortezza. Avrebbe fottuto il soldato e poi lo avrebbe ucciso, mentre
ritornavano al forte. Non era il caso di ucciderlo nella base: avrebbe poi
dovuto trascinare il cadavere lontano e farlo scomparire. Meglio ucciderlo in
un altro punto. Guardò il soldato, che si era steso a quattro zampe sul
pagliericcio, e sorrise. Lo voltò con un movimento brusco, forzandolo a
distendersi sulla schiena. Gli mise le mani sulle ginocchia e le spinse
indietro, fino a che non poggiarono quasi sul petto del soldato. Poi si
inginocchiò, gli sollevò le gambe e si mise i piedi
sulle spalle. Così poteva fotterlo guardandolo in faccia. Voleva vedere in
faccia l’uomo di cui gustava il culo, l’uomo che tra poco avrebbe ammazzato.
Entrò con forza: le immagini della notte precedente accendevano in lui una
sete di violenza e di sangue. Vide con piacere la smorfia di dolore sul viso
del soldato. Un’altra smorfia sarebbe comparsa quando lo avrebbe colpito.
Spinse con foga, penetrando a fondo e poi ritirandosi, tenendo le mani sulle
ginocchia del soldato e guardando il viso contratto in un dolore che non era
scevro da piacere. E mentre lo fotteva con furia, rivedeva i guerriglieri che
la sventagliata di mitra scagliava indietro, risentiva
nelle orecchie le loro urla, che ora si mescolavano con i gemiti del soldato
e con i proprio grugniti, mentre l’odore del sangue e dei proiettili si univa
all’odore di sudore, di piscio e di chiuso che riempiva la stanza. Le sue
dita stringevano le gambe del soldato come prima avevano stretto il fucile e
il suo cazzo gli entrava in culo come i proiettili erano entrati nei corpi
dei guerriglieri. Lo cavalcò senza pietà, come non aveva avuto pietà dei banditi che aveva massacrato. Avrebbe voluto
continuare per sempre, ma il desiderio era incontenibile e sentì l’ondata del
piacere travolgerlo. Venne con una serie di spinte violente. Chiuse gli occhi. Disse: - Merda. Uscì e si lasciò scivolare
sul pagliericcio. Accanto a lui il soldato distese le gambe e chiuse gli
occhi. Aveva il cazzo duro: non era venuto. Il sergente rimase a
guardare il soffitto, mentre nella sua testa rivedeva il massacro alla
fortezza. Venti minuti dopo una voce gracchiante lo fece sussultare. La radio! - Base
dodici. Base dodici. C’è qualcuno? Il sergente si alzò e
raggiunse la radio. Si sedette e parlò al microfono, mentre cercava le cuffie. - Qui base dodici.
Sergente Bolnuovo. La spina delle cuffie era
staccata. Doveva farne a meno. - Qui base tre. La
missione è stata portata a termine? - Sì, la missione è stata
portata a termine come previsto. - Ottimo, sergente. Il
generale mi ha raccomandato di farle i complimenti. - Grazie. - Lascerà la base domani
notte, come previsto? - Sì. - Benissimo. Un’ultima
cosa. Il capitano Coves ha parlato con il generale.
Il generale conferma l’ordine che le ha dato il capitano: deve uccidere il
soldato Torres. Merda! Il sergente non
fece in tempo a voltarsi. Una grande ombra era apparsa sul muro di fronte a
lui. L’ombra aveva un mitra in mano. - Mi ha sentito,
sergente? - Sì. Il sergente chiuse il
collegamento e si voltò. Il soldato aveva il mitra in mano, puntato contro di
lui. Le armi erano in un angolo. Non sarebbe mai riuscito a raggiungerle. Il soldato gli fece cenno
di mettersi contro la parete. Il sergente si alzò e fece due passi verso il
muro. Si voltò e guardò il soldato. Quel bastardo ghignava e aveva il cazzo
duro. Anche al sergente stava tornando duro, come sempre di fronte al
pericolo. Sarebbe crepato con il cazzo duro. Il soldato annuì e si
spostò di lato. Ora il suo corpo copriva la luce della lampada e la sua
grande ombra si proiettava contro la parete, molto più alta di lui. Il soldato puntò il mitra
in basso, verso il cazzo del sergente. Il sergente disse solo: - Merda. Avevano tutti e due il
cazzo duro, ora. Erano pronti. 2012 |