Recita a Scampia

 

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- Voi non ci venite alla partita?

- E che, a vedere Maradona che ingrassa? Dicono pure che sniffi.

- Ma figurati, un calciatore!? Fanno i controlli, per il doping. Con lui vinciamo di nuovo il campionato.

- Se non ci facciamo fregare dal Milan, come due anni fa.

- Secondo me qualcuno si è venduto. Non è possibile perdere quattro partite su cinque dopo essere stati al primo posto per tutta la stagione.

La discussione continua, Salvatore e Tano si scaldano. Fabrizio ascolta senza lasciarsi coinvolgere: il calcio non gli interessa.

Quando gli amici tifosi se ne vanno, rimangono solo Vincenzo e Mimmo. È allora che Vincenzo propone:

- Visto che il calcio non vi tenta, che ne diresti di venire a Scampia ad ascoltare il Giulio Cesare in napoletano?

Fabrizio lo guarda, sbalordito:

- Il Giulio Cesare in napoletano? Shakespeare a Scampia? Ci pigli per il culo?

- È una compagnia di attori giovani. Portano il teatro classico nei quartieri degradati, recitano in napoletano per avvicinarsi alla gente che vive lì.

Fabrizio è perplesso. Vincenzo insiste:

- Guarda che sono bravissimi. La regia è di Basile: tu sei stato via due anni, ma qui Basile si è fatto un nome.

Fabrizio ha già sentito quel nome. Dove? Non può aver visto niente, qui a Napoli: quando tornava era solo per qualche giorno. Intanto interviene anche Mimmo:

- Sì, è vero. Dicono che sono proprio bravi. Ne vale la pena, di sicuro.

- Tu vieni?

- Non posso, sono di corvée con mio padre, domani sera. Ma ci verrei molto volentieri.

- Allora, Fabrizio, ti decidi?

- E va bene, vengo. Magari non ci capirò niente. Dopo due anni a Milano, ormai…

- E figurati: il dialetto non si scorda mai!

 

Lo spettacolo si svolge nella palestra di una scuola. Hanno costruito un palcoscenico di fortuna, fatto di cubi di legno. Le sedie sono state prese dalle classi: sono rovinate e molte sono piene di scritte. Sono stati montati tre riflettori e non c’è nessuna scenografia.

Fabrizio è alquanto scettico: in queste condizioni, che razza di recita sarà?

Si ricrede molto in fretta. Il dramma di Shakespeare lo prende completamente: il ritmo dell’azione è sostenuto, gli attori bravissimi e in questa palestra con i muri scrostati e i neon che lampeggiano le parole del dialetto sembrano ancora più forti. Fabrizio è completamente catturato da questa storia di lotta per il potere e di ideali, dai personaggi potenti. A colpirlo più di tutti è l’attore che interpreta Bruto, Antonio Basile, che è anche il regista di questa compagnia di giovani. Ha una faccia nota. Anche la voce. Infine Fabrizio si ricorda: lo ha visto a Milano, in Filumena Marturano. Solo che allora era truccato in modo da sembrare un uomo maturo, qui ha la sua faccia giovane, deve avere sì e no trent’anni.

Il dramma procede e si giunge alla conclusione. Si sente gridare, dietro le quinte:

- Fujte, fujte, fujte!

Uno dei personaggi esorta Bruto a fuggire insieme a loro. Bruto dice che li seguirà e tutti fuggono. Rimangono Bruto e un giovane, Stratone.

- Te prec, Strato', riman add' ammè: tu si' guaglion e' core. Piglia 'sta spada e cuogliem. U' vuo' fa', Strato'?

- Rateme primma a' man. Addie Signo'.

- Addie Stratone o' bbuon. Cesare, mo' arreposate 'n pace. I' nun t'agg' accis accussì cco piacer ccomm m'accir i'.

L’attore che interpreta Stratone immerge la spada nel corpo di Bruto, mentre lo abbraccia. Sul viso di Bruto appare una smorfia di dolore. L’altro attore stringe Bruto e sembra affondare ancora di più la spada nel corpo inerte. Bruto crolla, con un sorriso sul volto.

Fabrizio sussulta. Quell’attore è davvero bravissimo. Ma la scena violenta ha avuto un altro effetto, imprevisto: un’improvvisa erezione. Gli capita spesso, anche nei momenti più impensati: d’altronde Fabrizio ha ventidue anni e non ha rapporti. Il contatto tra i due corpi sulla scena e la spada che si immerge nel corpo di Bruto-Basile hanno acceso una vampata di desiderio.

Gli applausi sono fragorosi. Fabrizio si spella le mani. Esce dalla sala con Vincenzo.

- Proprio bravi. Grazie, Vincenzo.

- Vedi che valeva la pena di venire in questi postacci?

- Direi proprio di sì. Ma sono davvero postacci?

Il quartiere non ha una bella fama, Fabrizio lo sa benissimo, ma Vincenzo ci vive e forse ha una visione diversa.

- Certo che lo sono. Ci vedi cose… Se vuoi ti faccio fare un giro turistico, uno di questi pomeriggi.

- Non è che mi sparano, se vedono un poliziotto?

- Non vieni certo in divisa e se giri con me, non c’è problema.

- Allora, perché no? Raccolgo la sfida.

- Quando sei libero?

- Facciamo martedì pomeriggio. Ti va bene?

- Certo. Ti faccio conoscere un mondo che manco sospetti.

Tutti a Napoli sanno e sospettano molto e Fabrizio, in quanto poliziotto, sa e sospetta ancora di più, ma forse scoprirà qualche cosa di nuovo.

Poi Vincenzo aggiunge:

- Adesso ti accompagno alla fermata dell’autobus.

- Non ti disturbare.

- No, è meglio che tu non vada da solo. Difficile che qualcuno ti riconosca come poliziotto, ma in ogni caso uno di fuori è meglio che non giri per il quartiere da solo.

“Uno di fuori”: manco Fabrizio fosse un turista inglese. Comunque Fabrizio ritiene più saggio accettare l’offerta di Vincenzo.

 

A casa, steso sul letto, Fabrizio ritorna con la mente alla scena della morte di Bruto. Rivede l’attore, Basile, che chiede all’altro di ucciderlo, Stratone che lo abbraccia e gli immerge la spada nel corpo. Anche questa volta l’effetto è immediato, dirompente. Lo stringersi di quei corpi, in un abbraccio d’amore e di morte, lo eccita.

Fabrizio allontana il lenzuolo e si toglie le mutande. Rimane nudo, steso sul letto. Con la mano lentamente si accarezza il cazzo. Si inumidisce le dita e stuzzica la cappella, mentre pensa a Stratone che uccide Bruto. Nella sua mente Bruto, che ha sempre il viso di Antonio Basile, bacia Stratone, che ora ha il volto di Fabrizio stesso. A Fabrizio pare di sentire il calore della labbra di Basile sulle sue, la pressione del corpo dell’attore, il cazzo teso che preme contro il suo. Nella scena che scorre nella sua testa la mano di Basile gli prende il cazzo e lo stringe, poi si muove vigorosamente. Fabrizio pensa di essere Stratone, che tra poco immergerà la spada nel corpo di Bruto, ma prima Bruto gli fa una sega. Fabrizio mormora:

- Datti da fare, troia.

E non sa se lo sta dicendo a Bruto o a se stesso.

La mano di Bruto, la mano di Fabrizio, il cazzo di Stratone, il cazzo di Fabrizio, le loro bocche che si uniscono in un bacio appassionato. E quando infine Fabrizio sente l’onda del piacere travolgerlo, immerge la spada nel corpo di Bruto e mormora:

- Addio.

Il seme si spande sul ventre. Fabrizio rimane a lungo immobile, negli occhi l’immagine di Antonio Basile che crolla al suolo, poi prende un fazzoletto di carta e si pulisce.

Posa il fazzoletto sul comodino e si dice che è proprio fuori di testa.

 

*

 

- Tu sei amico mio e sei venuto a trovarmi. Non ti guardi troppo in giro, non fai commenti. Zitto e muto. Vieni con me e basta. Non fissare nessuno.

Fabrizio sorride:

- Come devo rispondere? “Obbedisco”?

- Puoi anche non rispondere, ma se non vuoi ficcare nei guai te e me, fai quello che ti dico.

- Fidati di me, Vincenzo. Non sono proprio coglione.

Vincenzo ha un sorriso ironico.

- Se lo dici tu…

Poi aggiunge, serio:

- Lo so, Fabrizio, altrimenti sarei proprio una testa di cazzo a mettere in pericolo tutti e due per…

Non completa la frase.

Vincenzo ha uno zainetto. Prima entrano in una casa. Dalla scala che porta in cantina sale un greve odore di piscio. Salgono a piedi al quarto piano, perché l’ascensore non funziona. Sui muri ci sono scritte e sui gradini sporco di vario genere. Sul pianerottolo del terzo piano scavalcano il corpo di un ragazzo steso a terra. Fabrizio non dice nulla.

Al quarto piano Vincenzo bussa alla porta. Il campanello è staccato dal muro, non c’è la targhetta con il nome.

Apre una donna sui quaranta, sfatta.

- Sei tu, Vincenzo! Luca non c’è.

E intanto la donna guarda sospettosa Fabrizio.

- Volevo solo restituirgli questo.

Vincenzo prende dallo zainetto un CD e lo dà alla signora.

Vincenzo e Fabrizio scendono. Quando si sono allontanati dalla casa, Fabrizio dice:

- Cazzo! Che bella casa!

- Niente male, vero?

- Come si fa a vivere in un posto del genere?

Fabrizio sa benissimo che la gente che vive in case di quel tipo non può permettersi altro. Ma si chiede che razza di vita sia.

Vincenzo alza le spalle.

- C’è di peggio.

Passano anche in una delle Vele. Anche lì Vincenzo ha da restituire una cosa, una maglia dimenticata da un amico: si è organizzato bene, in modo che i suoi giri con Fabrizio appaiano la cosa più naturale del mondo.

Fabrizio ha sentito parlare molto delle Vele, ma non ci è mai stato. Da fuori sono belle, ma dentro si rivelano squallide, come tutto il quartiere.

- Adesso vieni, saliamo qui.

Entrano in un’altra casa. Salgono, di nuovo a piedi, fino all’ultimo piano, ed escono su un grande terrazzo. Ci sono rifiuti vari e Fabrizio può vedere alcune siringhe.

Vincenzo si guarda intorno e, appurato che non c’è nessuno, si avvicina alla ringhiera.

- Di qua si vede un bel pezzo di città.

Vincenzo incomincia a raccontare. Non sono cose belle quelle che racconta. Un omicidio avvenuto nella casa di fronte. I ragazzi che vengono a bucarsi sul terrazzo. I bambini che si vedono per la strada usati come spacciatori o come corrieri. La madre che prostituisce la figlia dodicenne.

Fabrizio ascolta. In fondo sono tutte cose che già sa. Guarda Vincenzo e si chiede che fine farà il suo amico. Era commesso in un negozio, ma è stato licenziato. Adesso non ha un lavoro. Suo padre è morto, due anni fa. Sua madre è disoccupata. Ci sono tre fratelli, uno solo porta a casa uno stipendio. Vincenzo riuscirà a non farsi inghiottire anche lui dal pozzo nero?

Fabrizio vorrebbe dirgli qualche cosa, ma non sa trovare le parole. Che cosa si può dire? “Mi dispiace”?

Vincenzo ha finito. Sorride. Un sorriso amaro.

- Adesso conosci un po’ meglio la tua bella Napoli.

- Spero che tu riesca ad andartene di qui, Vincenzo.

Vincenzo lo fissa negli occhi. Sembra sul punto di dire qualche cosa, ma scrolla le spalle.

Un ragazzino sale. Si mette in un angolo e tira fuori una siringa. Non ha più di quindici anni. Fabrizio vorrebbe dirgli di non farlo, ma Vincenzo lo blocca con lo sguardo. Gli fa cenno di seguirlo e si dirige verso le scale.

Prima di lasciare il terrazzo, Fabrizio si volta. Il ragazzino sta preparando la dose.

Fabrizio chiude gli occhi.

Per strada Fabrizio tiene gli occhi bassi. Anche Vincenzo tace. Poi dice:

- Ti piace Scampia?

- Non è facile vivere qui.

- Non è facile vivere. Qui è ancora peggio.

C’è di nuovo un silenzio. Camminano fino alla casa di Vincenzo.

C’è un’auto parcheggiata davanti alla casa vicina, una Ferrari.

Vincenzo ha un mezzo sorriso.

- Se siamo fortunati, adesso ti faccio vedere una cosa, Fabrizio. Ma fa’ attenzione, non aprire bocca.

Vincenzo entra in casa, ma invece di salire al suo appartamento, scende in cantina. Al fondo di un corridoio Vincenzo apre con la chiave la porta di una stanzetta bassa, in cui possono stare appena in piedi. C’è un’unica apertura, subito sotto il soffitto, ma è bloccata da scuri, per cui il locale è quasi completamente buio: solo un po’ di luce filtra dai bordi della finestrella e da alcuni buchi nelle tavole di legno che la sbarrano. La stanza è spoglia: c’è solo un vecchio materasso a terra.

Vincenzo chiude la porta dall’interno, si avvicina alla finestra e guarda attraverso una delle aperture. Si volta verso Fabrizio e mormora:

- Guarda, Fabrizio, ma fa’ attenzione a non farti scorgere. E non dire nulla.

Fabrizio accosta l’occhio a un’altra fessura. Nel cortile c’è un uomo con un bambino, che avrà sette-otto anni, non di più.

 

*

 

- Spara!

Angelo guarda suo padre Salvatore. Esita. Gli sembra che la pistola sia pesantissima, ma è un modello diverso. Una pistola da uomini, ha detto suo padre, non una roba da bambini come quella che hanno usato le altre volte.

- E spara, muoviti!

Angelo punta la pistola al petto di suo padre, respira a fondo e preme il grilletto. La denotazione lo assorda. Salvatore Scibone si porta le mani al cuore, come se fosse stato colpito a morte, barcolla e si affloscia al suolo.

Angelo lo guarda, un mezzo sorriso sulle labbra. Sa bene che suo padre sta scherzando, ma non è tranquillo. Salvatore giace immobile, riverso al suolo.

- Papà, papà…

L’uomo non risponde. Angelo è inquieto. Si avvicina.

- Papà, papà.

Salvatore rimane muto, sembra davvero morto. Ma quando Angelo si china su di lui, si solleva di scatto, gli blocca la mano con la pistola in una morsa e ghigna:

- Pensavi davvero di avermi ammazzato, eh, stronzetto? Ma ci vuole ben altro per ammazzare Salvatore Scibone.

Angelo ride. Non ha davvero creduto allo scherzo del padre, ma ora si sente sollevato.

Salvatore gli molla la mano e si alza. Si toglie il giubbotto antiproiettile e lo passa al figlio.

- Mettitelo tu, ora.

Angelo annuisce e dà al padre la pistola. Il giubbotto è molto grande per lui: Angelo ha appena otto anni, ma Salvatore Scibone vuole che suo figlio impari presto ad affrontare i pericoli e a diventare un capo.

Angelo ha indossato il giubbotto. Salvatore stringe la pistola e sorride, poi gliela punta tra gli occhi. Angelo lo guarda, ma non mostra paura: sa benissimo che suo padre non intende ammazzarlo, ma solo provare il suo coraggio. Salvatore abbassa la pistola e la punta allo stomaco di Angelo. Preme il grilletto.

Angelo si sente sbattere indietro e cade a terra. Non si aspettava che l’impatto del proiettile fosse tanto violento, le altre volte non è stato così. Il dolore allo stomaco è forte: nonostante il giubbotto ha avvertito chiaramente il colpo. Angelo si rialza.

Salvatore annuisce.

- La prossima volta non devi farti sbattere a terra. In piedi devi rimanere.

Angelo dice:

- Riproviamo.

Salvatore esita un attimo: i colpi lasciano il segno e non vuole che Angelo abbia troppi lividi. Ma gli piace l’idea che il guaglione voglia riprovare. Sorride.

- Va bene.

Angelo è immobile. Aspetta il colpo.

Salvatore mira al ventre. Spara.

Angelo si piega in due per il colpo, ma si raddrizza subito, controllando la smorfia di dolore che gli è apparsa sulla faccia. Questa volta non è caduto.

Salvatore si avvicina e gli passa una mano sulla testa.

- Bravo, Angelo. Così va bene. Ti verranno fuori i lividi. Alla mamma non dire niente.

Salvatore è soddisfatto di suo figlio. Angelo è contento della prova che ha superato. Non ha deluso suo padre.

 

*

 

Fabrizio guarda Vincenzo, senza dire niente, ma nel suo sguardo c’è una domanda.

- Vengono qui a quest’ora, ogni tanto. Sei stato fortunato che sono venuti oggi.

- Ma che cosa fanno? Non ho capito.

- Lui abitua il figlio a usare una pistola vera e a sparare. Si mette il giubbotto antiproiettile e il figlio gli spara. Poi lo passa al bambino e spara a lui.

- Ma è proprio un bambino. Non avrà neanche dieci anni.

- No, ma sai chi è l’uomo?

Fabrizio scuote la testa.

- Salvatore Scibone.

- Cazzo!

Salvatore Scibone è uno degli esponenti del clan degli Scibone, uno dei figli del capo, Agatino.

- Per quello è meglio non farsi vedere da lui.

- Ci credo! E tu come l’hai scoperto?

- Una volta ero qui. Sentivo i colpi, ma non capivo. Allora ho guardato fuori e ho visto quei due. Usavano un’altra pistola, calibro più piccolo.

Fabrizio annuisce. Si guarda intorno.

- Te ne stavi qui? A fare che?

Non è precisamente il posto in cui uno può venire a rilassarsi. Vincenzo sorride.

- Potrei dirti che qui sto più tranquillo che a casa mia, con i miei fratelli. Ma non ci vengo per starmene in pace.

- E allora, perché ci vieni?

- Questo è meglio che non te lo racconti.

Fabrizio scherza:

- Hai paura che ti arresti?

Vincenzo ghigna e guarda Fabrizio, ironico.

- Non è reato. Ma non so se è il caso che te lo racconti. Sei un ragazzo per bene… O no?

C’è ironia nella voce di Vincenzo, nel suo sguardo. C’è anche qualche cos’altro e Fabrizio sa benissimo che farebbe meglio a fermarsi, a non chiedere. Ma risponde:

- Sono un poliziotto. Ma non sono mica un ragazzo per bene…

Sorride anche lui, ma è un sorriso falso, che copre male la nuova tensione che avverte. Nella penombra della stanza, tutto diventa indefinito. Fuori, nella luce smagliante del sole di settembre, le parole hanno contorni netti, ma qui, in quest’ombra, il loro senso sfuma. 

- Diciamo che mi capita di venirci qualche volta con un amico…

- Un amico? E a fare che?

Fabrizio sa che strada sta prendendo, anche se non se l’è detto. Non sta solo curiosando. Sta provocando Vincenzo.

- Cose che un ragazzo per bene non farebbe mai…

- Ma qui di ragazzi per bene non ce ne sono.

Vincenzo incrocia le braccia e dice a Fabrizio:

- Vediamo. Spogliati, poliziotto.

Fabrizio è disorientato. Il passaggio dalle provocazioni di prima all’invito diretto lo spiazza.

- Non ce le hai le palle, eh, poliziotto?

Il tono di Vincenzo è aggressivo. C’è rabbia. Fabrizio china la testa.

- Scusa, Vincenzo, non volevo…

Vincenzo si avvicina. Ghigna.

- Non volevo, volevo, voglio, non voglio…

Vincenzo è vicinissimo, i loro visi sono a una spanna l’uno dall’altro. Fabrizio guarda negli occhi il suo amico. La rabbia è svanita.

- Forse sei davvero un bravo ragazzo, tu.

Ma mentre lo dice, Vincenzo sbottona la camicia di Fabrizio, che non reagisce, disorientato.

- Forse…

La camicia cade a terra e Fabrizio rimane a torso nudo. Vincenzo si toglie la maglietta. Passa le mani sul torace di Fabrizio, lo accarezza. Fabrizio non ricambia, ma non si sottrae. La mano di Vincenzo scende e afferra il cazzo di Fabrizio, che al contatto acquista rapidamente consistenza. Nello sguardo di Vincenzo c’è una sfida. Fabrizio alza le mani e accarezza il petto di Vincenzo. Vorrebbe baciarlo, ma forse è meglio di no.

Vincenzo sorride, lascia la presa e si stacca. Si toglie le scarpe e si sfila pantaloni e slip. Poi, senza dire nulla, si mette a quattro zampe sul materasso.

Fabrizio finisce di spogliarsi. È frastornato, ma la visione del culo di Vincenzo che gli si offre cancella ogni altro pensiero.

Fabrizio si mette dietro a Vincenzo. Guarda il culo di Vincenzo, le cosce quasi glabre, l’apertura appena visibile. Posa le mani sulla natiche, stringe la carne.

- Inumidiscilo un po’, altrimenti fa troppo male.

Fabrizio annuisce. Si sputa sulle dita e bagna la cappella, che svetta, rosseggiante. Poi sputa di nuovo e inumidisce l’apertura. Mentre passa le dita intorno al buco, ha la sensazione che lo stomaco gli si contragga. Spinge un dito dentro, poi lo toglie, lo inumidisce e lo infila di nuovo.

Fabrizio si stende su Vincenzo, passa le mani intorno al corpo dell’amico e avvicina il cazzo all’apertura. Vorrebbe baciare Vincenzo, ma è incerto e non lo fa. Spinge il culo in avanti e preme con la cappella contro il solco.

- Più sotto, più sotto.

Fabrizio si sposta un po’, trova la posizione giusta e, cercando di muoversi con molta cautela, affonda il cazzo nel culo di Vincenzo. Sente il guizzo del corpo. Lo stringe e le sue mani percorrono il torace di Vincenzo, in una carezza ruvida. Il cazzo scivola lentamente in avanti, fino in fondo.

Fabrizio geme. Non ha mai posseduto un uomo, non ha mai potuto stringere liberamente un corpo, accarezzarlo.

Le mani di Fabrizio scivolano dal torace al ventre di Vincenzo, si fermano al sesso, gonfio di sangue, stringono con delicatezza i coglioni. Vincenzo solleva il capo ed emette una specie di gemito strozzato.

Fabrizio incomincia a muovere il culo avanti e indietro, con un movimento a stantuffo, spingendo ogni volta il cazzo bene a fondo nel culo di Vincenzo e poi ritraendolo fino a uscire quasi completamente. Fabrizio procede e le sue mani si muovono sul corpo di Vincenzo, lo accarezzano, lo stringono, lo pizzicano, si perdono nei suoi capelli, indugiano sul cazzo, avvolgono i coglioni, afferrano il culo, mentre lo spiedo lavora inesorabile.

Sente la voce di Vincenzo, che lo incoraggia.

- Sì, cazzo, sì! Sfondami. Cazzo!

Accarezza la testa di Vincenzo, senza interrompere il movimento ritmico del culo, assaporando la sensazione di calore che sale dal suo cazzo e il piacere che cresce, che lo avvolge, che lo riempie completamente.

Infine sente che la tensione diviene intollerabile e si scioglie in una serie di spinte frenetiche, ognuna delle quali è un’ondata di piacere che lo travolge. Fabrizio geme e si abbandona su Vincenzo, ma le sue mani scivolano lungo il corpo dell’amico, la destra stringe il cazzo in una morsa e prende a muoversi veloce, la sinistra avvolge i coglioni. E infine Vincenzo emette un urlo e si lascia andare a terra.

Rimangono stesi, storditi dal piacere.

Poi, lentamente, Fabrizio si muove. Esce dal corpo di Vincenzo. Si alza. Guarda l’amico.

Anche Vincenzo si alza, ma tiene gli occhi bassi. Fabrizio non capisce. Vorrebbe abbracciare Vincenzo, baciarlo, ma l’amico si pulisce con un fazzoletto di carta e si riveste, senza guardarlo.

Anche Fabrizio si riveste, ma mentre si infila i pantaloni, chiede:

- Che cosa c’è che non va, Vincenzo?

Vincenzo lo guarda.

- Non mi disprezzi, Fabrizio?

- Perché dovrei?

- Sono un finocchio. Mi piace prendermelo in culo.

Fabrizio pensa che anche lui vorrebbe provare, lo sa benissimo, ma non ha il coraggio di dirlo.

- Ognuno a modo suo, Vincenzo. Che c’è di male?

Vincenzo sorride. Scuote la testa.

- Non sei come gli altri, Fabrizio.

Fabrizio alza le spalle.

- È meglio che andiamo, ora. Si fa sera e i forestieri tornano a casa loro.

Fabrizio si avvicina. Di nuovo vorrebbe baciare Vincenzo, ma anche questa volta si limita ad accarezzarlo.

- Grazie. È stato molto bello.

Vincenzo apre la bocca, ma la richiude senza dire nulla.

Vincenzo accompagna Fabrizio alla fermata dell’autobus.

Fabrizio pensa alla situazione dell’amico. Vorrebbe aiutarlo. Chiede:

- Sempre niente di nuovo per il lavoro?

Vincenzo scrolla le spalle.

- Figurati.

- Che cosa ti piacerebbe fare?

- Qualunque cosa. E il più lontano possibile. Ma so che cosa finirò a fare.

Il tono è cupo. Fabrizio chiede:

- Che cosa?

Ha paura della risposta. Vincenzo fa un cenno del capo, appena percettibile, in direzione degli spacciatori all’angolo.

- No, Vincenzo! Cristo! No!

- Hai qualche cosa da proporre? Mio fratello guadagna poco e non voglio pesare anch’io. Voglio poter dare qualche cosa alla mia famiglia.

- Non in quel giro. Non a vendere merda… No!

- Ecco il tuo autobus, Fabrizio.

- Vincenzo, aspetta. Ti aiuterò a cercare un lavoro.

- Che cosa vuoi che trovi? Di ragionieri disoccupati ce ne sono infiniti.

L’autobus arriva e si ferma, ma Fabrizio non sale.

- Vai, Fabrizio.

Fabrizio non si muove, l’autista impreca e riparte.

- Vincenzo, dammi un po’ di tempo.

- Grazie, Fabrizio. Non sei davvero come gli altri, ma…

Fabrizio lo interrompe.

- Prometti che mi lasci provare? Che non ti metti con quelli?

Vincenzo sorride.

- Ti lascio un mese, Fabrizio, non di più. Ma se in questo mese vuoi venirmi a trovare per… fare un giro turistico alla stanza là sotto, per me va bene.

Fabrizio sorride e annuisce.

- Verrò, Vincenzo. E in qualche modo un lavoro onesto te lo trovo.

 

Tornando a casa Fabrizio cerca di riflettere. È stato un pomeriggio molto diverso da quello che si aspettava, non per Scampia: il quartiere corrisponde a ciò che, come napoletano e come poliziotto, già sapeva benissimo. È stato duro vederlo direttamente, ma la situazione è quella. Quello che è successo nello scantinato è stato del tutto inatteso. Fabrizio non se l’immaginava. L’avesse sospettato, si sarebbe almeno portato dietro un preservativo. Vincenzo ha già avuto rapporti con altri e Fabrizio si dice che è stato una testa di cazzo a non pensare alle precauzioni. Ma in quel momento proprio non gli è neanche passato per la testa. E altri pensieri affiorano: Fabrizio vorrebbe scambiare le parti; che cosa si prova a prenderselo in culo?

E poi i pensieri tornano a Vincenzo, alla vita che fa. Deve aiutarlo a trovare un lavoro, lontano da Scampia, lontano da Napoli. Ci deve riuscire.

 

Fabrizio sa essere ostinato. Ci prova con tutti, con una faccia tosta che non avrebbe per sé: parenti (e Dio solo sa quanti sono), amici (un buon numero: Fabrizio è socievole), colleghi. La risposta classica è del tipo: “Lo farei volentieri, ma non so dove sbattere la testa neanche per mio figlio/mio marito/mio fratello che cerca da un anno/da due anni/da tre anni”.

Fabrizio telefona anche ai colleghi di Milano, compreso Mauro. A lui dice qualche cosa di più, accenna ai rischi che corre Vincenzo rimanendo a Napoli. È più facile aprirsi, con Mauro.

È proprio Mauro a telefonargli, qualche giorno dopo, per dirgli che ci sarebbe una possibilità in una ditta vicino a Milano. La paga non è alta, ma lo prenderebbero per tre mesi, con la possibilità di un contratto a tempo indeterminato se sono soddisfatti.

Come sia riuscito a trovare quella possibilità, Mauro non glielo dice. Fabrizio è felice. Telefona subito a Vincenzo, che quasi non ci crede.

- Non mi stai pigliando per il culo?

- No, anche se non mi spiacerebbe. In senso letterale.

Vincenzo ignora la provocazione.

- ‘Sto tizio è una persona seria, come te?

Fabrizio sorride. Mauro è troppo serio.

- Più di me, molto di più.

- Non è possibile.

- Ti dico che è vero.

- No, non è possibile che sia più serio di te.

- Lo dici perché non lo conosci.

Vincenzo ritorna all’argomento della telefonata.

- Tra tre giorni, dici?

- Sì, colloquio tra tre giorni. Devi confermare al telefono. Mauro ti ospita a casa sua. Dormi su una brandina.

- Pretenderà un compenso?

- Che cosa?

- In qualche modo devo ripagarlo?

- In qualche modo? Che cos’hai in testa, maiale?

- Quello che hai in testa tu, porco.

Fabrizio ride.

- Ti piacerebbe, Mauro è uno da leccarsi i baffi.

- Anche tu non fai mica schifo.

- Dopo aver visto Mauro, dirai che faccio schifo.

- Allora è meglio che tu venga qui, così facciamo un’ultima seduta nella camera prima che ti trovi bruttissimo.

Fabrizio sorride.

- Domani sono libero nel pomeriggio sul tardi, dopo le cinque.

- Ti aspetto alla fermata dell’autobus dalle sei in avanti. Non arrivare prima.

- Va bene.

- Grazie, Fabrizio.

- Speriamo che funzioni. Comunque Mauro non lo devi ripagare. Non in quel modo.

- Se lui è come dici tu, peccato.

 

Fabrizio scende dalla fermata alle sei e dieci. Vincenzo non c’è. Poco più in là c’è un capannello di gente intorno ad un’auto. Fabrizio si guarda intorno. Si sente inquieto. Si stupisce che Vincenzo non ci sia. Guarda le persone riunite e si chiede se non sia successo qualche cosa a Vincenzo. Si dirige verso il gruppo, con il cuore che batte più forte.

Sono una dozzina di persone, tra cui diversi bambini. Sono muti, intorno a un’auto. Dentro c’è un uomo reclinato sui sedili, la camicia bianca imbrattata di sangue, i fori dei proiettili. Fabrizio non può vederne bene il viso, ma non è Vincenzo. La portiera dalla parte del guidatore, dove l’uomo era seduto quando è stato colpito, è aperta e Fabrizio può vedere il rigonfio dei pantaloni. L’uomo è morto con il cazzo duro. Forse gli è venuto duro per effetto dei colpi, Fabrizio ha sentito dire che può succedere, ma non sa se sia vero.

- Vieni via.

La voce di Vincenzo è appena un sussurro, ma lo fa sussultare.

Fabrizio si volta verso l’amico e fa un cenno di assenso. Questa è una faccenda per la polizia, già si sente una sirena in lontananza. È bene che non lo trovino lì, se qualcuno dei suoi colleghi lo riconoscesse, tutti saprebbero che Vincenzo frequenta un poliziotto.

Non passano nell’appartamento di Vincenzo. Scendono direttamente in cantina, in silenzio. Poi Fabrizio chiede:

- Chi era?

- Uno della famiglia dei Santagata. Devono averlo fatto fuori gli Scibone.

- L’hanno ammazzato poco fa?

- Subito prima che tu arrivassi. Ti turba? Sarai abituato ai morti ammazzati, no?

- Non mi occupo spesso di omicidi. Però ci sono abituato, sì.

- Io non so quanti ne ho visti, in questi ultimi anni, da quando abitiamo in questo quartiere di merda. Non mi fanno più nessun effetto. Ti abitui a tutto. Ti chiedi se finirai anche tu così.

- Tu non finirai in quel modo.

- Forse. Forse proprio grazie a te. Grazie, Fabrizio. Ho telefonato, mi hanno confermato l’appuntamento. Ho parlato anche con Mauro, mi ha detto che mi ospita volentieri per qualche giorno. Dice che la ditta è seria, che è del padre di un collega, uno a cui lui ha salvato la pelle, mi sembra di aver capito. Ha una bella voce.

Vincenzo ha chiuso la porta.

- Forse è l’ultima volta, Fabrizio.

Fabrizio annuisce, ma è contento che sia così, per quanto possa dispiacergli che Vincenzo se ne vada. Vincenzo se ne deve andare.

Vincenzo controlla dai fori che in cortile non ci sia nessuno. Mentre guarda fuori, Fabrizio gli si avvicina, si appoggia su di lui, lo stringe tra le braccia.

- Mi mancherai, Vincenzo.

- Di’ pure che ti mancherà il mio culo.

- Che stronzo che sei! Sai che non è solo quello.

Non si amano, lo sanno entrambi benissimo. Nel 2012 si direbbe che sono due scopamici, ma nel 1991 il termine non esiste ancora. Però si vogliono bene.

Fabrizio solleva la felpa di Vincenzo, sempre rimanendo dietro di lui. Poi gli sfila la maglietta. Accarezza il petto di Vincenzo, stuzzica un po’ i capezzoli, scivola in basso e infila una mano nei pantaloni, fino a trovare il pesce, che già guizza, ansioso di arrivare in superficie.

Vincenzo arretra il culo, lo struscia contro il cazzo di Fabrizio, teso e smanioso.

Fabrizio slaccia la cintura e cala pantaloni e slip all’amico. Vincenzo si libera delle scarpe e poi dei pantaloni. Con le mani cerca di raggiungere la fibbia della cintura di Fabrizio e armeggia per slacciarla. Non è facilissimo, perché il corpo di Fabrizio preme contro il suo e Vincenzo non può vedere, ma solo sentire al tatto, ma con qualche manovra ci riesce, mentre Fabrizio lo accarezza e lo stuzzica.

Vincenzo divarica bene le gambe.

- Prendimi così, Fabrizio.

Fabrizio prende dai pantaloni la bustina con il preservativo – dopo la prima volta si è sempre attrezzato – e se la infila.

Si china. Mordicchia le natiche di Vincenzo, inumidisce con le dita l’apertura, poi si rialza e avanza lo sperone, fino a trovare l’ingresso. Si apre la strada, sicuro di sé, ed entra, spingendosi fino in fondo.

- Cazzo! Quanto mi mancherai, Fabrizio!

- Di’ pure che ti mancherà il mio cazzo.

Vincenzo ride e dice:

- Puoi dirlo forte. Non troppo però, che non ci sentano.

 

2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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