Fado Bevo
un sorso, poi poso il bicchiere e pizzico le corde per controllare che la
chitarra sia accordata. Allento e poi tendo un po’ la sesta corda e sono a
posto. Direi
che si può incominciare. Guardo il gruppo di clienti, i soliti che si siedono
più vicino a me per cantare o anche solo per ascoltare meglio: Mário, Eusébio, Fernão, il Branco e qualche altro. Attacco
con Cansaço. Le conversazioni nella sala scendono
di tono, come sempre succede quando si incomincia a suonare e cantare. Non
c’è silenzio completo, no, non avviene mai qui, solo nella sala sotto, agli
spettacoli del venerdì, ma lì la gente viene per ascoltare. Gli altri giorni
si chiacchiera, si ascolta musica, si canta. Mi piace l’atmosfera del Janela, mi piace suonare così, per gente che non
canta per professione, ma per tirare fuori qualche cosa che si porta dentro.
Suonare con cantanti professionisti è molto stimolante e lo faccio volentieri
negli spettacoli del venerdì e in qualche altra occasione. Ma quest’ambiente
tranquillo, in cui la musica è un modo di esprimersi e non uno spettacolo o
un lavoro, mi è congeniale. Mário e Eusébio
hanno riconosciuto l’attacco di Cansaço e si
guardano: tutti e due amano questo pezzo. Eusébio
fa cenno a Mário, perché incominci lui. Ha una
bella voce, Mário, ricca, pastosa. Mário esita un momento, ma poi si lancia. Por trás do espelho quem está De olhos fixados nos meus? Quando
ha finito, mi guardo intorno. Di solito propongo io il primo pezzo, ma poi
lascio che mi dicano che cosa vogliono cantare. Ogni tanto suono senza che
nessuno canti. Il Branco mi chiede se ho voglia di suonargli Fadista Louco. Ha
una voce perfettamente intonata, senza una sbavatura, ma fredda: mi verrebbe
da dire che non canta con l’anima, ma solo con la bocca. Il fado non è una
musica che puoi cantare senza metterci il cuore. La
serata procede tranquilla, come tutte le altre. Siamo verso la fine, quando
attacco No Teu Poema. Fernão inizia a cantare, ma si ferma dopo
pochi versi: E, aberta, uma varanda
para o mundo… Scuote
la testa sorridendo: non è in grado di continuare, non ricorda le parole. Io
continuo a suonare, ma intanto li sfido. Possibile che nessuno conosca le
parole? Non è certo una canzone sconosciuta. Alibio
le saprebbe, ma questa sera non c’è. -
Allora, nessuno prosegue? Scuotono
la testa. Il Branco dice: -
Lui la sa. Indica
uno di cui non conosco il nome, ma che vedo spesso. Viene diverse volte la
settimana e si siede sempre abbastanza vicino, anche se mai al mio fianco.
Viene per seguire le canzoni, ma non canta. Beve due bicchieri, non parla
quasi mai con gli altri e verso mezzanotte se ne va. Qualche volta gli
luccicano gli occhi. Gli
sorrido e gli chiedo: -
Allora la sai? Lui
annuisce, incerto. Sorrido, mentre gli dico: -
Allora devi cantarla, tutta. La
riprendo da capo. Lui non apre bocca, ma vedo che ha solo bisogno di farsi
coraggio. Incomincio di nuovo e questa volta anche lui prende a cantare. No teu poema Existe um verso em branco e sem medida Um corpo que
respira, um céu aberto Janela debruçada
para a vida La
voce esce incerta, ma già al secondo verso si afferma, sicura. Sento un
brivido corrermi lungo la schiena. Non è la potenza a stupirmi, è la
profondità, l’intensità: nella sua voce vibra l’anima. Alzo
la testa e lo fisso. Non mi guarda, non guarda nessuno nella sala. Guarda
lontano, qualche cosa che noi non possiamo vedere. E anche la sua voce viene
da lontano, dal luogo in cui si trova ora, che non è questo locale in una
stradina di Lisbona. Lui
continua a cantare, indifferente a tutto quello che gli sta intorno, perso
nel suo mondo e io sento i brividi, come mi capita solo di fronte a
esibizioni di assoluto valore. Il
brusio nella sala cessa completamente. Si crea un silenzio. Tutti stanno
ascoltando questa voce, che li domina. L’uomo
conosce tutte le parole, ma non le canta, le tira fuori da dentro. Infine
conclude: No teu poema Existe a esperança acesa atrás do muro Existe tudo o mais que ainda escapa E um verso em branco à espera de futuro. Le
mie dita si fermano. Mi sfugge un – Cazzo!, che nessuno sente nel fragore
degli applausi. Lui si scuote e d’improvviso vedo che si vergogna, che
vorrebbe nascondersi. È tornato nella sala e ha scoperto di essere al centro
dell’attenzione di tutti. Mi guarda, smarrito. Gli faccio segno di
avvicinarsi. Eusébio si alza per cedergli il posto.
Il Branco e Fernão gli fanno i complimenti. António
mi sussurra: -
Non ho mai sentito nessuno cantare questo pezzo così. È
vero. Eusébio lo sta trascinando quasi di peso e lo
forza a sedersi vicino a me. Gli applausi si smorzano, la gente riprende a
parlare, ma molti chiedono un bis, un altro pezzo. Io li ignoro. L’uomo è a
disagio e voglio invece che si rilassi. Bevo un sorso e gli chiedo: -
Come ti chiami? -
José. Il
nome più comune che esista, in questo paese cattolico fino al midollo. E
anche la sua faccia è una faccia ordinaria. Ma la sua voce no, quella è
un’altra cosa. -
Sei bravissimo, José. Come mai non ti sei mai fatto avanti a cantare, prima
di ora? È tanto che vieni qui. Alza
le spalle, imbarazzato. Io lo guardo. Ha più o meno la mia età, poco oltre i
trenta, un viso aperto, da bravo ragazzo.
- Ti
va di bere un bicchiere di bianco? Annuisce.
-
Grazie. Faccio
segno a Amália, la cameriera (che non si chiama
così, ma si è scelto questo nome perché le sembrava adatto a un locale in cui
si suona e canta il fado). Quando si avvicina le dico di portarci due
bicchieri di bianco. Poi
mi rivolgo a José e gli chiedo: -
Come mai conosci così bene No Teu Poema? - Mi
piace molto il fado. Ne conosco tante, di canzoni. -
Adesso ne canti un’altra. Scegli tu che cosa. Amália ci ha portato il vino. José
mi guarda. È smarrito. -
No, mi vergogno. - Canti
benissimo e mi farebbe piacere sentirti ancora. Sorseggio
e poi gli dico -
Quale canzone preferisci? Esita
ancora. Gli sorrido, cercando di tranquillizzarlo. Infine risponde: - Job Mi
dico che l’ha scelta perché è breve, ma non voglio forzarlo. Finiamo di bere
i nostri bicchieri, suono un momento la chitarra per segnalare che stiamo per
incominciare e poi mi lancio su Job. Questa
volta parte sicuro e dal primo verso sento i brividi. Sinto na minha alma o frio La
canta in un modo diverso da No teu poema.
No, non la canta, la vive in un modo diverso. La vive e ci getta in faccia le
parole, dalle profondità in cui si è calato. Non vede più nulla di ciò che
c’è intorno, gli sguardi ammirati rivolti verso di lui, la gente che si
sporge per osservarlo. Non si accorge del silenzio totale che è calato nella
sala. Dà voce a un’angoscia senza fine che mi prende alla gola. Vorrei
smettere di suonare e limitarmi a sentirlo, sentire questa voce che mi
trascina via. Conclude: De
tanta esperança perdida. C’è
un attimo di silenzio e poi un boato, un applauso. Mi guardo intorno. Vedo
occhi in cui brillano le lacrime. Tutti lo stanno guardando, mentre
applaudono, e lui vorrebbe scomparire sotto terra. Poso
la chitarra dietro la sedia. È un segnale preciso: significa che non suonerò
più nella serata, tutti i clienti abituali lo sanno. Voglio parlare un
momento con José: per tranquillizzarlo, per conoscerlo meglio, per
assicurarmi che continui a venire, perché voglio sentirlo cantare ancora. -
Per questa sera non ti chiedo altro. Ti emoziona cantare davanti a un
pubblico? Non ci sei abituato? Scuote
la testa. -
No, non mi capita mai. Canto solo per me. -
Con la voce che hai, i vicini ti sentiranno. - La
signora del piano di sopra è completamente sorda, l’appartamento del piano di
sotto è vuoto. Non disturbo nessuno. E poi canto solo ogni tanto. - Mi
spiace per la signora del piano di sopra: non sa che cosa si perde. Lui
sorride, di nuovo imbarazzato. Cambio argomento: -
Che lavoro fai? -
Sono impiegato alle poste. Con
una voce così, impiegato alle poste! -
Non hai mai pensato di fare il cantante? -
Scherzi? Sembra
stupito, la mia idea gli appare davvero assurda. -
No, non scherzo. Ma forse è presto per dirlo. Prima voglio sentirti cantare
altro. Parliamo
ancora un po’. Gli chiedo da dove viene. È nato a Castelo
de Vide, ma è venuto a Lisbona da ragazzo, con la madre. Vive da solo. Gli
parlo un po’ di me, della mia infanzia a Lisbona. Ora è a suo agio e avrei
voglia di chiedergli di cantare ancora, perché vorrei che la sua voce mi
portasse via, ma lui guarda l’orologio e dice che deve andare. Io mi assicuro
che sia intenzionato a ritornare e gli dico che voglio sentirlo ancora. La
sera seguente Fernando, il proprietario del Janela,
mi chiede di questo bravissimo cantante di cui gli hanno parlato. Ieri sera
lui ha dovuto assentarsi prima che José cantasse, per cui non ha potuto
ascoltarlo. Gli dico che José è eccezionale e che quando lo sentirà non potrà
darmi torto. Però
José non si fa vedere. Non viene tutte le sere, ma mi preoccupo ugualmente
della sua assenza. Non
c’è neppure il mercoledì e a questo punto mi do dello stupido per non avergli
chiesto l’indirizzo. Forse ho fatto male a dirgli che volevo sentirlo cantare
ancora. Sono irritato con me stesso, ma a un certo punto lo vedo entrare, più
tardi del solito. Meno male. Non si viene a sedere vicino e io non lo chiamo.
Gli faccio solo un cenno di saluto e lascio che la serata scorra come le
altre. Quando però concludo, vado io a sedermi al suo tavolo. - Pensavo
che avessi rinunciato a venire. -
No, non so stare lontano da qui… È solo che… Non
conclude la frase. Finisco io per lui. -
Avevi paura che io ti facessi cantare. Sorride
e annuisce. Proprio
ora arriva Mário, che si rivolge a me e dice: -
Stai convincendolo a cantare? Io non me ne vado, se non canta qualche cosa. Sorrido
e dico a José: -
Come vedi, sei molto apprezzato. Mário continua a dire che José deve cantare,
non vuole sentire ragioni. Io mi chiedo se faccio bene a lasciarlo insistere,
ma ho l’impressione che José abbia voglia di cantare, anche se si vergogna: è
combattuto tra la timidezza e il desiderio di esprimere quello che ha dentro.
E allora do man forte a Mário. Non è facile
convincere José: credo che ceda solo perché continuare a dire di no a me e a Mário lo metterebbe ancora più in soggezione. C’è
un brusio quando mi vedono tornare al mio posto con José. Chi c’era lunedì si
ricorda benissimo di lui e dice agli altri di tacere. In un attimo si crea il
silenzio. Questa volta si lancia in Antigamente
e, anche se sono preparato, anche se so come canta, rimango ancora sorpreso.
Mi sembra impossibile che sia davvero come lo ricordavo, ma lo è. E mentre le
mie dita suonano, la sua voce mi trascina via, in quel mondo lontano da cui
prende forza. Il miracolo si ripete. Gli
abbiamo detto che ci saremmo accontentati di un solo pezzo, ma gli altri non
sono certo d’accordo con noi. Ne vogliono un secondo. E allora José ci regala
ancora Faia. Ovviamente
il pubblico pretende altro, ma non voglio forzare José, per cui metto via la
chitarra, ignorando le proteste. Alcuni però si avvicinano e inizia una
trattativa. Mi accorgo che ora José è meno preoccupato e alla fine lascio che
gli estorcano un terzo pezzo. Di nuovo Job, come l'altra sera. E poi
chiacchiero con lui e mi faccio raccontare qualche cosa di più della sua
vita. Parla volentieri della sua infanzia in paese, della sua vita a Lisbona
dice poco, ma mi sembra che ci sia una grande solitudine. Alla fine della
serata gli chiedo dove abita e lui me lo dice. Non mi scapperà. Quando
se ne va, si avvicina Fernando. -
Per santa Isabella e sant'Amália! È la sua esclamazione preferita che mescola sacro e profano:
sant'Isabella è la santa nazionale, la principessa d’Aragona che sposò Dinis, re di Portogallo; sant'Amália
è ovviamente Amália Rodriguez, anche lei nazionale,
non ancora canonizzata, ma comunque per un amante del fado santa pure lei. Fernando
prosegue: -
Non mi sono avvicinato perché ho visto che lo “curavi”, ma mi ha lasciato
senza parole. È
solo un modo di dire: lasciare senza parole Fernando quando si tratta di fado
è impossibile. E infatti incomincia ad analizzare il modo in cui José ha
cantato: è in grado di ricostruire con assoluta precisione tutta
l'esecuzione, saprebbe anche dire quando José ha preso fiato in ognuno dei
tre pezzi. Conclude una lunga disamina, in cui io mi limito a fargli da
spalla, dicendo: -
Pazzesco. Davvero pazzesco. Questo José è incredibile. Prima o poi dobbiamo
fargli fare uno spettacolo per noi il venerdì. Una decisione
del genere dopo aver sentito in tutto e per tutto tre pezzi sarebbe davvero
azzardata in qualsiasi altro caso. Le serate del venerdì hanno sempre e
soltanto cantanti di alto livello, anche se magari poco noti. La sala, al
piano di sotto del Janela, ma a cui si
accede anche dalla strada, ha una solida fama, che Fernando ha costruito
negli anni con scelte sempre azzeccate. Sono pochi i grandi nomi del fado che
non sono passati di qui negli ultimi vent'anni, magari all'inizio della loro
carriera. Dire di aver cantato al Janela (la
sala ha lo stesso nome del locale) è un biglietto da visita importante. Si
sono esibiti molti sconosciuti, ma erano persone che Fernando aveva
selezionato con cura e molti di loro si sono imposti poi. Gli
spiego che José è un insicuro e che è meglio aspettare a chiederglielo:
potrebbe spaventarsi e scappare. Tornando a casa ripenso a José. Mi fa
tenerezza, così timido e goffo. Giovedì
è la mia serata libera e abitualmente vado a caccia, spesso al Toiro Louco, a volte
altrove. Da quando la storia con Ricardo è finita, ho ripreso a cacciare. Una
volta mi piaceva, molto. Mi stuzzicava l'incertezza che accompagna la
ricerca, il gioco di sguardi e gesti ben calibrati, il battito del cuore che
accelera quando si stabilisce il contatto, la scoperta di un nuovo corpo, le
sue sorprese e la sua unicità. Poi ci sono stati tre anni con Ricardo e
quando è finita, ho scoperto di aver perso il gusto per la caccia. Vado
perché ho trentaquattro anni, il mio corpo ha le sue esigenze e non intendo
vivere come un monaco, né farmi le seghe. Ma non mi diverto più, di rado
ritrovo un barlume di ciò che provavo prima. Sono come quei cantanti di fado
che non sentono più quello che cantano e sostituiscono la tecnica all'anima:
quando cantano, avverto che qualche cosa suona a vuoto, anche se la loro
esecuzione è tecnicamente impeccabile. Adesso faccio quello che serve per
ottenere ciò che desidero: un'ora o forse una notte in cui il mio corpo ne
trova un altro e l'incontro mi dona il piacere. Quando eravamo insieme,
Ricardo andava ogni tanto a caccia: per lui una relazione fissa non
richiedeva fedeltà reciproca. Io in teoria ero d'accordo con lui, ma in
realtà non avvertivo l'esigenza di altro. Il
locale è pieno, come sempre a quest'ora. Qualcuno mi riconosce e mi saluta. A
volte c'è anche qualche avventore del Janela:
il locale di Fernando è il migliore per il fado ed è conosciuto in tutta la
città. Questa sera c'è Sebastião, che viene spesso
al Janela. Subito si avvicina e mi chiede di
questo bravissimo nuovo cantante di cui ha sentito parlare. Conta di venire
sabato ad ascoltarlo. Gli dico che non è detto che José ci sia e che canti,
ma lui è intenzionato a provare: vuole sentirlo a ogni costo, perché gli
hanno detto che è incredibile. Gli dico che lo è, davvero. Sebastião è un bel ragazzo e altri si uniscono a noi, con
la scusa di parlare del fado. Fanno il filo a lui, non a me. A un certo punto
sento una mano sulla spalla. Mi volto e vedo Ricardo. Ci
siamo ritrovati altre volte qui, al Toiro Louco. Di solito ci scambiamo un cenno di saluto e
basta: ci vediamo spesso anche al Janela,
lui è uno dei clienti abituali, spesso canta. Quando mi ha visto qui per la
prima volta ha deciso che voleva portarsi a letto il chitarrista del Janela, per vedere com'era. Ne è nata una storia
che mi ha dato molto. Molta
gioia, perché è stato bello avere qualcuno a fianco, anche se non abitavamo
insieme. Mi piaceva lo sguardo di complicità che ci scambiavamo al Janela. Mi piaceva sapere che lui era il mio uomo.
Molto
piacere, perché Ricardo è bravo a letto e con lui ho passato alcune notti
roventi. Molta
sofferenza, perché tendo ad attaccarmi alle persone e non avrei voluto che la
nostra storia finisse. Ricardo
mi passa un braccio intorno alla vita, prendendo possesso di me davanti agli
altri. Mi stupisco, perché non corrisponde al suo modo di fare: ormai non
stiamo più insieme da sei mesi, perché si fa avanti in questo modo? Gli altri
pensano che noi due stiamo insieme e mettono sotto pressione Sebastião. Ricardo non mi molla e mi dice: -
Che ne dici? Adesso che siamo tutti e due liberi, potremmo combinare qualche
cosa di interessante. Ho a casa il dolce di castagne per ritemprarci dopo il
primo round. In
effetti più di una volta abbiamo fatto uno spuntino notturno tra il primo e
il secondo tempo e il dolce di castagne è il mio preferito. Ma la proposta mi
spiazza. Che senso ha, dopo sei mesi, scopare di nuovo? Forse lo stesso senso
che avrebbe farlo con uno sconosciuto. Mi dico che va bene così. - Va
bene. Ma solo per il dolce di castagne. In
fondo con uno che già conosci, che è stato il tuo uomo per tre anni, tutto è
più semplice: sai che cosa gli piace, sai che cosa puoi aspettarti e che cosa
lui si aspetta da te. Ed è
così, in effetti. Una gran bella scopata. E un ottimo dolce di castagne:
Ricardo è un buongustaio. Ma
dopo, steso sul letto, guardando il soffitto di questa stanza, che conosco
perfettamente, mi chiedo se ho fatto bene ad accettare la proposta di
Ricardo. Questa notte ha risvegliato mille cose. Ho trovato il piacere che
cercavo, ma anche ricordi di una vita condivisa, sogni, speranze, sofferenze.
È
stata una cazzata. Assurdo riaprire finestre che sono state sbarrate. José
viene regolarmente, si siede di fianco a me e ormai ogni sera canta tre o
quattro pezzi. E a ogni canzone il miracolo si rinnova. Alla fine della
serata chiacchieriamo io e lui, a volte con qualcun altro. Ma mi accorgo che
se ci sono altri amici intorno, la conversazione ruota intorno al fado,
mentre se siamo solo noi due, parliamo anche delle nostre vite. Una sera gli
chiedo se i suoi colleghi di lavoro sanno che lui canta, ma lui mi dice di
no. Ha pochi rapporti con loro. Chiedo di più, a costo di essere indiscreto:
José è molto riservato. Scopro che è finito in un ambiente poco gradevole,
con forti tensioni interne, in cui vive male. A Lisbona è molto solo. Parliamo
più a lungo del solito e lui se ne va più tardi. Il locale si sta svuotando.
Fernando mi dice che deve parlarmi e mi chiede se posso fermarmi fino alla
chiusura. Non c'è nessun problema, ma quando gli ultimi clienti se ne vanno,
è Amália ad affrontarlo. - Io
non ce la faccio più, Fernando. Non riesco a stare dietro a tutti. Devi
assumere un'altra persona che mi dia una mano, almeno nelle sere in cui c'è
José. Rimango
un attimo spiazzato. Non capisco. Ma Amália si
rivolge proprio a me: -
Diglielo anche tu, António. Il locale è pieno all'inverosimile. Ora
che lo dice me ne rendo conto anch'io. Non è solo che la gente si accalca
intorno a José, è che la sala è sempre più affollata. Non ci sono più serate
morte, ogni giorno della settimana c'è il pienone. È così, anche se non ci
avevo badato, preso da altro: le serate hanno preso un ritmo diverso per me,
da quando c'è José. Mi occupo poco di ciò che succede. Accompagno chi canta e
poi parlo con José. Lo "curo", come dice Fernando. Ma in realtà mi
fa piacere stare con lui. Amália prosegue: - Se
mezza Lisbona viene a sentire José, ci vuole qualcun altro che mi aiuti a
servire in sala. Con mio
stupore, Fernando cede. Non è tirchio, sa essere anche molto generoso se uno
ha bisogno, ma non ama lo spreco. Evidentemente Amália
ha ragione. Ma a questo punto Fernando si rivolge a me e mi dice: -
Era proprio quello di cui ti volevo parlare. José deve fare uno spettacolo.
Il mese prossimo, direi il terzo venerdì. -
Non sarà facile convincerlo, Fernando. È timido, si vergogna quando canta
nella sala. Non lo faccio mai cantare due pezzi di seguito per lasciargli un
po' di tempo per riprendersi. Per lui essere al centro dell'attenzione è uno
stress. Amália sorride e dice: - Tu
riesci di sicuro a convincerlo. Se glielo chiedi tu, lo fa. Secondo me è un
po' innamorato di te. Amália ha il potere di spiazzarmi
completamente. La guardo e mi chiedo quanto sa o almeno ha intuito di me. Che
abbia parlato con Ricardo? Mi sembra difficile. E che idea si è fatta di
José? Perché di questo si tratta. Non ho mai pensato che José possa essere
gay, non mi sono posto il problema. -
Non dire stronzate. -
Non canta perché glielo chiedono gli altri. Canta perché glielo chiedi tu. - E
che vuol dire? Amália alza le spalle e sorride. -
Chiediglielo e vedrai che lo fa. Non
sono così sicuro di farcela. La
sera dopo chiedo a José se si può fermare un momento dopo che ho finito di suonare.
In realtà si ferma sempre, ma voglio sincerarmi che non abbia un impegno o
che non debba rientrare presto proprio questa sera. Poso la chitarra dietro
di me per indicare che non suonerò più, poi chiedo a José se ha voglia di
accompagnarmi di sotto. Lui è un po' stupito, ma accetta subito. C'è una
scala interna che unisce i due locali. José conosce benissimo la sala degli
spettacoli, come la chiamiamo noi: viene spesso anche il venerdì a sentire
chi canta. Accendo una luce e salgo sul palcoscenico, che in realtà è solo un
ripiano alto un metro, e lo invito a sedersi sulla sedia di fianco a me. Mi
sembra un po' perplesso. -
Che sensazione ti dà? Alza
le spalle e sorride. -
Non saprei. -
Adesso mi canti qualche canzone. Solo per me. -
Volentieri. La
mia intenzione è di fargliene cantare due o tre, per vedere come si muove e
capire se la cosa può funzionare. Ma in questa sala immersa nel buio, dove io
e lui siamo soli, l'effetto delle sua voce è ancora più forte. Canta tutti
pezzi che in questi due mesi gli ho sentito cantare di sopra. Canta e io mi
perdo completamente, in questa sala che non è più il solito spazio in cui
suono ogni venerdì, ma un luogo magico, costruito dalla sua voce. Di colpo mi
rendo conto che dev'essere tardissimo. Lui lavora
domani mattina. -
Scusa, José. Non era mia intenzione farti fare così tardi. -
Non importa. Lo
guardo e gli dico: -
Sai perché ho voluto farti cantare qui sotto? -
Credo di sì. Mi hanno chiesto più volte quando avrei cantato qui... - Lo
farai, José? Esita.
Chiede: - Tu
vuoi che lo faccia? - Mi
piacerebbe molto, ma non devi sentirti in obbligo. -
Allora va bene, ma stammi vicino quella sera, perché ho paura già ora. Mi
chiedo se Amália non abbia ragione. Il pensiero mi
disturba. Non voglio far soffrire José. C'è
il cartello con il programma del mese. Il secondo venerdì è il turno di José.
Non ci sono ancora i manifesti: il tipografo ce li porterà domani. C’è una
certa agitazione nel locale. La gente commenta i nomi, come fa sempre, ma
questa sera la discussione sembra più animata. Io non me ne occupo. Mi
metto a suonare e alcuni cantano. José non è mai tra i primi: deve farsi
coraggio. Ma quando i clienti capiscono che lui sta per incominciare, nella
sala cala il silenzio. Alla
fine della serata, Ricardo si avvicina e si siede sulla sedia che Alibio ha appena lasciato libera. - E
così avremo finalmente il piacere di sentire il grande cantante per un’intera
serata. Ricardo
sorride, il classico sorriso seduttore che conosco bene. Ha un bel sorriso,
Ricardo, è un bell’uomo, davvero. Ma questa sera la sua sicurezza mi dà
fastidio, la sua eleganza mi irrita. La
conversazione prosegue. Ricardo si rivolge solo a José, ignorandomi
completamente, anche se invece José cerca di coinvolgermi. Conosco
a sufficienza Ricardo. So che sta facendo la corte a José. La cosa non mi
piace. Perché mi dà fastidio vedere che Ricardo ha puntato José? Con Ricardo
è finita. Non è certo la scopata dell’altra sera che cambia le cose. E
allora? Lui è sempre stato così, non c’è niente di strano: José potrebbe
diventare famoso, è molto apprezzato da chi lo conosce e questo esercita un
certo fascino su Ricardo, anche se José fisicamente non ha nulla di notevole.
Mi importa ancora di lui? Mi illudevo che ci saremmo rimessi insieme, dopo
l’altra sera? No, sono sicuro di no. Eppure quando infine se ne va mi sento
meglio. Gli
ultimi sono usciti. Mi avvicino al banco. Fernando è preoccupato. -
Per santa Isabella e sant'Amália! -
Che succede, Fernando? - È
un casino, António. -
Che c'è? -
Hanno incominciato a chiedermi se si poteva prenotare per venerdì 19. Ho
detto di sì. Cazzo, António, a metà serata i posti erano finiti. -
Cazzo! Non
c'è molto da dire. In fondo avremmo dovuto prevederlo. C'è gente che non
avevamo mai visto e che viene solo per sentire José. La sala è sempre
strapiena. E José non canta mai più di quattro pezzi. Che cos'altro potevamo
aspettarci? Il
telefonino di Fernando squilla. Intuisco dal suo sguardo che cosa gli stanno
chiedendo, prima di sentirgli dire: - Mi
spiace, Castelo, i posti sono tutti prenotati.
Posso metterti in lista d'attesa, ma ti avviso che hai quaranta persone
davanti. Stiamo cercando un'altra soluzione. Un'altra
soluzione? L'unica sarebbe replicare lo spettacolo, ma fissarlo senza sapere come
José reagirà la prima volta sul palcoscenico è un azzardo. Non voglio che si
senta forzato a cantare una seconda volta prima di aver visto che cosa
succede al debutto. -
José deve darci almeno un altro venerdì il mese prossimo. Poi
guarda la lista, scuote la testa e aggiunge: -
Non uno solo, temo. -
Fernando, José lavora alle poste e si alza presto il mattino. Non è mai
salito su un palcoscenico e non credo che lo faccia volentieri. -
António, forse è ora che José si licenzi e faccia ciò per cui è nato. Che
senso ha che uno che canta così lavori alle poste? Devi dirglielo. So
che ha ragione, ma non voglio sconvolgere la vita di José: mi sento
responsabile. Potrei dirglielo, certo, ma se poi le cose andassero male? José
è un timido, potrebbe non reggere la tensione, non riuscire a imporsi. Si
troverebbe ad aver perso un lavoro sicuro e a non sapere come tirare avanti. Fernando
insiste per avere altre due serate con José. Io gli dico che è troppo presto
per parlarne. Infine decidiamo che valuteremo il da farsi dopo lo spettacolo. La
sera successiva Ricardo si siede di fianco a José. Chiacchiera, si sporge in
avanti, sfodera il suo bel sorriso, gli fa i complimenti, gli chiede se non
può dedicargli una canzone. Decisamente
vuole portarselo a letto. La faccenda mi dà fastidio. E continuo a non capire
il perché. Forse vivo José come una proprietà personale perché l’ho
“scoperto” io? Che senso ha? Mi sembra che Ricardo voglia staccarmi da José,
che si metta di mezzo in questa amicizia che è nata e a cui tengo moltissimo,
anche se non ci siamo mai visti fuori dal Janela. Poi mi dico che sono
davvero meschino a volermi mettere di mezzo: se a José non interessa, sarà
lui a dire di no; se gli interessa, è libero di decidere come vivere la sua
vita. Il
fatidico venerdì è arrivato. Non sono tranquillo: José mi ha comunicato la
sua tensione. Non sono preoccupato perché penso che la serata possa essere un
fiasco: non lo sarà. Ma sono in ansia perché lui è in ansia. Non voglio che
stia male. - Ho
paura, António. Gli
appoggio una mano sul braccio e stringo. -
Non devi preoccuparti. Mi
spiace averlo convinto a fare questa serata. Lui era contento di cantare ogni
tanto al piano di sopra, perché l’ho trascinato a esibirsi? Mentre
la gente riempie la sala, José appare sempre più agitato. Di nuovo cerco di
calmarlo stringendogli una mano. -
Andrà tutto benissimo, José. In
realtà non ne sono così sicuro: non vorrei che José avesse un attacco di
panico. Non vedo l’ora di salire sul palco e di incominciare: l’attesa
logora. Una volta che incomincerà a cantare, José si dimenticherà di tutto
quello che c’è attorno. E
così avviene, quando finalmente si incomincia. Sul palco la sua timidezza
appare solo tra una canzone e la successiva, quando gli applausi rimbombano
nella sala. Un tripudio che manderebbe in visibilio qualunque cantante, ma
che mette soltanto in imbarazzo mortale il povero José. La
serata procede bene, in un crescendo di entusiasmo. È chiaramente un trionfo.
Siamo ormai verso la fine dei pezzi concordati. Poi ci saranno i bis, lo so
benissimo: non lo lasceranno andare via tanto facilmente. Vedo
che lui è più sereno, ora. Si
china e sussurra al mio orecchio: - La
musica di As rosas
de meu caminho. Non
avevamo deciso che l’avrebbe cantata, ma ovviamente la conosco e faccio un
cenno con la testa per dirgli che va bene. Incomincio a suonare. Lui
attacca, ma le parole sono del tutto diverse. António
es um amigo
sincero... Questa
non me l'aspettavo. È un'intera canzone dedicata a me. L’ha creata lui, sulle
note di As rosas
de meu caminho. Parla
di me e dice delle cose bellissime, mi attribuisce virtù che non credo di
avere, non almeno come appaiono nella canzone. Mi commuovo per questo gesto
bellissimo. Quando finisce ho le lacrime agli occhi. Nuovi
applausi fragorosi, richieste di bis, a non finire. Non
lo lascerebbero smettere, mai. Ma a un certo punto mi accorgo che non ce la
fa più. E allora mi alzo. Con un gesto chiedo silenzio. Ringrazio il pubblico
e dico che siamo tutti e due stanchi, per cui non ci saranno altri bis, ma
faremo tutto il possibile perché José torni a cantare presto in questa sala. Segue
un delirio di applausi, come di rado mi è capitato di sentire nella mia vita. Alcuni
si avvicinano per fare i complimenti. Pian piano la gente defluisce. Ricardo
si fa avanti. E di colpo mi rendo conto che non lo sopporto, che vorrei
prenderlo a pugni. -
Posso accompagnarti a casa in auto, José? Vedo che sei molto stanco. José
è stanchissimo, lo so benissimo anch’io. Avrebbe davvero bisogno che qualcuno
lo portasse a casa, visto che abita lontano. Ma io non posso accompagnarlo a
casa, non ho l’auto. Abito a dieci minuti a piedi da qui e non avrebbe senso
venire in macchina, tanto più che parcheggiare da queste parti è un casino,
soprattutto il venerdì sera. José
risponde: - Grazie,
ma ho bisogno di parlare un momento con António. - Se
vuoi ti aspetto. - Grazie, non è il caso. Ricardo annuisce. Chiaramente è
contrariato per essere stato liquidato. Io invece sono contento.
Guardo José, il viso stanco, il sorriso spento. Mi fa pena. E di colpo
capisco perché mi dà fastidio
quando Ricardo gli si avvicina. Avrei dovuto capirlo prima, ma me ne
rendo conto solo ora: mi sono innamorato di José, di questo goffo impiegato
delle poste, che non è neppure bello. Non mi sono innamorato della sua voce,
ma del suo sorriso dolce, della sua timidezza, della sua disponibilità, della
sua umanità. Lo amo. Cazzo! Ricardo è uscito. Non è rimasto nessuno
nella sala. Fernando è tornato sopra, dopo aver fatto i complimenti a José e
avergli detto che deve cantare ancora il mese prossimo, almeno due volte. José si siede sulla sedia. Non mi guarda.
Fissa un punto lontano. Io gli dico: - Grazie per la canzone, José. È
bellissima, anche se non me la merito. Mi guarda. Ha un viso triste. Dopo un
successo come quello di questa sera uno dovrebbe essere al settimo cielo, ma
probabilmente l’emozione e lo sforzo fatto per controllarla l’hanno svuotato.
Ma non è solo stanchezza. È davvero tristezza. Ma perché? Gli passo una mano sul viso, con
delicatezza, in un gesto di un’intimità eccessiva, lo so, ma che mi viene
spontaneo. - Ti abbiamo spremuto come un limone. Mi
spiace, José, vederti così. Non è necessario che tu faccia altre serate, se
non vuoi. Se Fernando mi sentisse, credo che
prenderebbe il suo chitarrista preferito a calci in culo e lo licenzierebbe. José cerca di sorridere. Ma è triste, di
una tristezza sconfinata, che deborda. - Non è questo, scusa… Non riesce a continuare. - Che cosa succede, José? Si alza di scatto e si allontana verso l’uscita.
Io lo seguo, lo raggiungo e lo blocco. Non voglio lasciarlo andare via così.
Quando mi guarda, vedo che ha le lacrime agli occhi. E allora, senza
ragionarci, lo abbraccio, per consolare il dolore che si porta dentro. Il mio abbraccio sembra avere un effetto
opposto a quello che speravo di ottenere: scoppia a piangere a dirotto. Lo stringo a me, gli accarezzo la testa.
Non so cosa dirgli, preferisco cercare di calmarlo con le carezze e la
stretta. Lui si abbandona completamente. Quando infine si calma, si scioglie dal
mio abbraccio. - Scusami, António, non volevo. - Non vuoi dirmi che cosa c’è che non va,
José? Non è solo stanchezza, non è l’emozione
della serata. È un dolore molto più profondo. Mi guarda e dice, mentre le lacrime
rispuntano nei suoi occhi: - Non verrò più qui, António. Mi fa stare
troppo male. Non sono sicuro di capire, ma dico: - Non occorre che tu ti esibisca. Ho
sbagliato a chiedertelo. Lui scuote la testa. - Non qui sotto. Al Janela, intendo. Mi sento smarrito, come se mi avesse
colpito. Non posso perderlo proprio ora che ho capito di amarlo. - Perché? Scuote di nuovo il capo. - José, che cosa è successo? Ho fatto
qualche cosa che non dovevo? Io… Per la terza volta fa segno di no con la
testa, incapace di parlare, ma le lacrime hanno preso a scendere e allora lo
abbraccio ancora, per consolare il dolore infinito che vedo in lui. Ma lui mi posa le mani sul viso, mi
guarda negli occhi e mi bacia sulla bocca. Un attimo, solo un attimo, in cui
il fiato mi manca e capisco tutto. José fa per ritrarsi, mentre avvampa, ma
io non lo lascio. Lo stringo forte e gli dico, trionfante e felice: - Anch’io ti amo, José. 2012 |