La leggenda dell’uomo dai dieci capezzoli C’erano una volta, tanto
tempo fa, in un regno lontano lontano un re e una regina. I due vivevano
felici in grazia e letizia e la gioia della loro unione fu completa quando ricevettero
notizia dell’arrivo di un figlio. Allorché il tempo della
nascita fu prossimo, il re, ansioso di sapere se la sua sposa gli avrebbe
partorito un degno erede, si recò a consultare una nota e temuta veggente che
aveva dimora tra le Montagne Oscure, ai confini del regno, negli anfratti di
una grotta ove di rado uomo o donna aveva osato addentrarsi a disturbarla. Si
diceva, però, che prima della nascita del re, il re suo padre si fosse recato
a interrogarla, come pure il padre di suo padre prima di lui. La veggente
viveva là da sempre, da che gli uomini serbavano memoria. Anche questo re,
che era un impavido e valoroso condottiero, si spinse sino al suo antro e,
lasciati ai piedi del dirupo gli uomini della sua scorta armata, s’inerpicò
sulle rocce e penetrò sin nella bocca cava della montagna. La veggente sedeva accanto
al fuoco, ammantata di nero. Quando il re entrò, lo fissò con occhi oscuri e
indecifrabili. Né giovane, né vecchia, con un volto senza età e senza tempo,
né brutta, né bella, ma incoronata di un’aura di maestà e di reverenziale
timore. Apostrofò l’uomo minacciosa, chiedendo cosa portasse il sovrano più
ricco e potente di quelle terre a sfidare le asperità di quel luogo desolato
per presentarsi al suo cospetto. Il re, senza paura, la fissò negli occhi e
le pose la sua domanda. -Quale prole mi partorirà
la mia amata regina? Sarà un maschio? Quale destino lo attenderà? Si rivelerà
un principe valoroso e degno del mio nome, capace di proseguire la mia stirpe
e di reggere il mio trono?-. -Davvero vuoi sfidare il
velo che nasconde il destino ai mortali?- domandò l’incantatrice -Perché è
necessario tu sappia che nessun uomo né donna, pur conoscendolo, potrà mai
eludere il dettato della sorte!- -Io voglio sapere!-
sentenziò imperturbabile il prode. -In tal caso, potente re,
preparati a inchinarti di fronte al volere del Fato! E prega tutti i tuoi dèi
che l’ardire con cui ti accosti alla conoscenza non si rivolti contro di te o
contro l’innocente creatura che ancora non è venuta al mondo!-. -Io voglio sapere!- replicò
l’uomo. -E sia!- La donna sollevò una
manciata di erbe da una ciotola e le gettò sul braciere. La fiamma divampò
tingendosi di cremisi e di scarlatto e sollevando un acre profumo di legni
magici. Il bagliore si rifletté sul viso della strega e nelle voragini dei
suoi occhi scuri, tingendoli di fuoco ardente. Poi ella levò il viso, i suoi
occhi si fecero vacui e scuri, abissi di nulla, la bocca s’inarcò a coppa e
la voce riecheggiò altera e spettrale nell’antro, non sembrava più nemmeno la
sua. -La tua sposa partorirà un
maschio, un erede degno del tuo sangue! Egli erediterà la forza di suo padre
e la bellezza di sua madre, crescerà in grazia e potenza, acuta e intrepida
sarà la sua mente, sapiente la sua bocca, grande il suo cuore! E più che mai
sarà meritevole del tuo trono!-. A quelle parole il cuore
del re si allargò di gioia. -Ma ascolta, oh re!- lo
richiamò brusca l’indovina -Un infausto destino penderà sulla sua testa!- Il volto del re scolorì:
-Quale male osa minacciare mio figlio? Parla, donna!- -Te lo dirò!- sentenziò lei
-Quando il tuo pargolo berrà latte dal seno di un uomo, colui che lo avrà
nutrito, e costui soltanto, poco dopo lo ucciderà, strappandogli il cuore dal
petto, lasciando la tua stirpe senza un erede e il tuo regno senza un re!- -Latte? Dal seno… di un maschio?- chiese il re corrucciato e
perplesso. Non sapeva se la vecchia sragionasse, se parlasse per enigmi o se
si stesse soltanto facendo beffe di lui. Ma a quelle parole gli
occhi vacui della strega lo fissarono con uno sguardo che fece gelare il
sangue persino a un uomo impavido come lui. Poi l’espressione umana tornò sul
suo viso. -Questa è la parola del
Fato!- sentenziò con una voce che pareva di nuovo quella di una donna. E
infine tacque. A quelle parole il cuore
del re si alleggerì. E dalla sua bocca risuonò una fragorosa risata,
riecheggiando nell’antro, nella gola rocciosa e tra le montagne tutte. Un
solo senso potevano avere quelle parole: il seno di nessun uomo è in grado di
allattare, dunque nessun uomo avrebbe mai ucciso suo figlio, quel futuro
valoroso re. Ridendo di gioia, uscì dalla caverna, balzò in groppa al suo
destriero e corse fiero e felice giù dalla montagna. Seguito dai suoi uomini,
galoppò a spron battuto per monti e valli sino alla
reggia. Prima ancora che entrasse a palazzo, fu accolto dagli araldi di
corte, che gli corsero incontro annunciandogli che la regina aveva partorito
un maschio bello e sano. Il re corse nella stanza della sua bella sposa che,
raggiante di gioia, ordinò alle fantesche di mostrare al padre il nuovo nato.
Il re lo strinse tra le braccia. Era davvero bellissimo, una sottile peluria
dorata gli adornava già la testina e aveva ereditato i meravigliosi occhi
cerulei della regina. Esultante di gioia, il padre lo sollevò al cielo
proclamando che quello era il suo erede, che avrebbe avuto una vita lunga e
gloriosa e sarebbe stato un invitto condottiero e un grande re. Gli anni trascorsero e il
principe crebbe in grazia, bellezza e forza. Nessun uomo era in grado di
eguagliare la sua abilità con le armi, né di batterlo in duello e, da quando
iniziò a radersi la prima bionda peluria dalle guance, non ci fu donna in
tutto il regno che non sognasse i suoi occhi azzurri e i suoi capelli d’oro.
La sua mente era curiosa e pronta ad apprendere ogni sapere. I migliori
precettori del mondo conosciuto furono chiamati a corte per istruirlo.
Straordinariamente abile nell’oratoria si dimostrava la sua bocca, dote
essenziale a ogni generale per arringare i suoi soldati e a ogni re per farsi
amare dai propri sudditi. Ormai si apprestava all’età adulta, presto sarebbe
stato pronto a sedere sul trono ed era giunta per lui l’età giusta per
prendere moglie. Il re e la regina iniziarono a proporgli numerose possibili
spose, belle e virtuose principesse dei regni vicini, che di certo sarebbero
state lusingate dalla proposta di nozze di un principe tanto nobile e bello.
Ma il principe non si curava di tali questioni e preferiva dilettarsi
piuttosto della compagnia dei suoi cavalieri. Con loro s’intratteneva in
tornei e in lunghe partite di caccia tra le montagne e i boschi e trascorreva
serate di gioco e di canti nelle magioni e nei numerosi castelli di cui suo
padre gli aveva fatto dono. La sua mente curiosa e
saggia nutriva inoltre un’innata curiosità per le terre lontane e le creature
rare. In uno dei suoi castelli fra i monti aveva allestito una meravigliosa
collezione di animali e piante esotici e prodigiosi. Un’enorme manticora
impagliata si stagliava al centro di una grande sala, con faccia umana, corpo
di leone, gigantesche ali di drago spiegate e una coda di scorpione tesa, da
cui un tempo, si diceva, la bestia aveva scagliato veri aculei ai malcapitati
che le capitavano a tiro. Pareva fosse stato il dono di un prode cacciatore
che l’aveva presa viva negli altipiani delle Indie. Vi era poi un grande
corno d’argento, staccato, a detta del principe, dalla fronte di un liocorno
catturato in Persia e le zanne di uno dei
giganteschi elefanti su cui, si diceva, cavalcavano i selvaggi nei torridi
deserti del sud. E ancora tre grosse uova di drago, pesanti come pietre,
ricoperte di scaglie e scintillanti come gemme preziose. Si narrava fossero
state deposte da uno degli ultimi esemplari di quella razza, prima che il
Grande Diluvio li sterminasse tutti. Vi erano poi animali vivi,
quali un rarissimo esemplare di araba fenicie, le cui penne di fuoco
gareggiavano in lucentezza con l’oro zecchino della gabbia in cui era
rinchiusa, altri uccelli esotici dai fantasmagorici piumaggi di tutti i
colori dell’arcobaleno e miracolosi pappagalli del Katai
in grado di imitare alla perfezione la voce umana. Nel giardino del palazzo
sorgeva una misteriosa serra, dove il figlio del re aveva fatto coltivare
piante rare, come il loto egizio, l’estratto dei cui petali dava gioia al
cuore degli uomini, facendo loro dimenticare ogni sofferenza, e la
mandragola, le cui radici avevano forma umana e, si diceva, virtù
afrodisiache. I maligni sussurravano che il principe stesso ne consumasse
durante banchetti segreti assieme ai migliori tra i suoi guerrieri. E non mancavano alla
collezione creature che agli occhi
di molti apparivano incredibilmente simili agli umani, a cominciare
dalle scimmie che il principe allevava nel suo giardino o a un’intera
comunità di nani, per cui era stato costruito un villaggio in miniatura e che
spesso erano preposti a fungere da buffoni per intrattenere gli ospiti. Vi
erano stati anche due grossi esemplari di negri maschi catturati nelle terre
dell’estremo sud che il principe adorava esibire nei suoi banchetti.
Presentavano un’innata e straordinaria somiglianza con gli esseri umani, ma
il principe non perdeva occasione per sbeffeggiare la stupidità di chiunque
glielo facesse notare. I loro membri virili, dalle dimensioni quasi equine,
avevano sempre sollazzato la curiosità dei commensali. Ma presto il principe
si era stancato di quell’attrattiva ormai desueta e li aveva fatti vendere.
In compenso però continuava a interessarsi all’esistenza di nuove specie rare
e adorava intrattenersi con viaggiatori provenienti da terre lontane e
ascoltare i loro racconti. Un giorno giunse alla sua
corte un cavaliere errante che aveva viaggiato nelle terre desolate
dell’Occidente, dove di solito anche gli uomini più temerari evitavano di avventurarsi.
Il principe non perse occasione di invitarlo a banchetto con sé e i suoi
compagni e là, dopo che si furono intrattenuti con gustosa cacciagione, buon
vino e spettacoli di nani mascherati, il sovrano invitò l’ospite a narrare le
proprie avventure. E l’uomo, ormai non più giovane ma ancora forte e
vigoroso, dal volto barbuto ancora energico e volitivo, segnato
dall’esperienza e dalla conoscenza, narrò di montagne impervie e altipiani
desolati dove mai anima umana aveva messo piede, di ghiacciai vicini al tetto
del cielo ove la neve non si era mai sciolta e di villaggi di povera gente
che non incontrava altri esseri umani da secoli. Questi a loro volta gli
avevano narrato di creature misteriose che dimoravano tra quei monti:
ippogrifi alati, giganti con un occhio solo che nessuno da secoli aveva più
visto, ma che si favoleggiava dimorassero ancora tra quelle caverne, feroci
Amazzoni pronte ad ammazzare qualunque maschio capitasse loro a tiro e altre
creature ancor più strane. E narrò di uno strano popolo che si favoleggiava
dimorasse tra le montagne di Mammel. Un gruppo di
selvaggi, soli maschi a quanto si diceva, poiché nessuno aveva mai visto le
loro donne. Uomini grandi e possenti, dai corpi villosi. Sul petto avevano
enormi capezzoli che, si diceva, erano in grado di allattare come quelli
delle femmine. Alcuni ne avevano anche più di due, arrivando a ostentarne
quattro, sei o persino otto lungo il torace e il ventre. A quanto pareva
nelle loro tribù erano gli uomini stessi ad allattare i propri piccoli e,
stando alle leggende, il latte dei loro seni era più delizioso del nettare
degli dèi e aveva addirittura virtù afrodisiache. Non a caso quei selvaggi
avevano fama di godere di appetiti sessuali voraci e insaziabili. I commensali risero
divertiti a quel racconto, ma il viaggiatore replicò che c’era ben poco da
ridere, che tutte le genti dei villaggi vicini ne erano terrorizzate. Un
giorno essi avevano fatto incursione in un piccolo paese in cui l’uomo era
ospite e tutti gli abitanti, avvistatili a
distanza, erano fuggiti disperati, mettendo al riparo i fanciulli, maschi e
femmine, non sapendo chi le voglie di quei bruti avrebbero prediletto. Era
rimasta soltanto parte del bestiame, quei greggi che nessuno aveva fatto in
tempo a mettere al riparo. E al loro ritorno gli uomini poterono costatare
che i selvaggi si erano sollazzati con pecore e capre. -Davvero esiste un popolo
del genere?- chiese scettico uno dei cavalieri. -Mai sentito menzionare! A
quale razza apparterrebbero?- -Nessuno sa quale sia il
loro nome!- rispose serio il viaggiatore -Le genti a loro vicine li
chiamano... i Popputi! Tutti risero divertiti, non
sapendo se l’uomo scherzasse per divertirli o se si stesse facendo beffe di
loro. -E senza donne come fanno a
riprodursi? Defecano i loro infanti dal retto?- chiese un nobiluomo ironico. -Questo è un mistero che
nessuno è mai riuscito a svelare!- rispose quello serio e impassibile. -Ne avete mai visto almeno
uno?- chiese diffidente uno dei compagni prediletti del principe. -Sì, un Popputo!- gli fecero eco gli altri. -A distanza, poiché,
nonostante la mia ormai non più giovane età, i miei ospiti mi convinsero a
mettermi al riparo. -Beh, non dubito che un
uomo ancora in forma e di bell’aspetto come Voi potesse essere in pericolo!-
lo riprese cortese il principe, senza alcun cenno di incredulità né di ironia
nella voce –Ma ditemi, che aspetto aveva il selvaggio?- soggiunse con reale
curiosità. -Più alto di almeno una
testa di Voi, Maestà, che pure siete uomo di rara prestanza. Muscoloso come un
toro, peloso come un orso e con lo sguardo ancor più feroce. E dovete
credermi se vi dico che, se a prima vista le protuberanze del suo petto non
sembravano dissimili dai muscoli di un uomo vigoroso, in mezzo alla peluria
gli svettavano due capezzoli più grossi e più rossi della fragola che siete
intento a mangiare giusto in questo momento!- Il principe si scostò dalle
labbra l’enorme fragolone intinto in dolce glassa bianca che stava
succhiando: era la fragola più grossa del vassoio, che non a caso aveva
scelto per sé. -Ed è vero ciò che si dice
del siero che stilla da essi?- soggiunse il giovane signore leccando doviziosamente la glassa prima di infilare in bocca il
frutto. -Beh! Ne era rimasto sparso
qualcosa sulle povere bestie malcapitate! Confesso di averne assaggiato una
goccia e... in effetti non ricordo di aver mai degustato sapore altrettanto
dolce... Sulle altre virtù... beh, non credo di poter rispondere io
stesso...- soggiunse con un sorrisetto sghembo. Tutti risero. Tranne il
principe, che applaudì estasiato al suo racconto. Terminata la cena ordinò
che fosse approntato per l’ospite il miglior alloggio del castello e si offrì
di accompagnarvelo lui stesso prima di coricarsi. Il giorno seguente, lo
straniero ripartì di buon’ora, senza esimersi dal profondersi in inchini e
ringraziamenti per la generosissima ospitalità ricevuta. Quando fu di nuovo in
compagnia dei propri cavalieri, il principe prese a decantare la gioia che
gli avrebbe procurato aggiungere alla sua collezione uno di quei Popputi dai
molti capezzoli e dal delizioso latte. Tutti i compagni risero ossequiosi e
divertiti a quello scherzo. Ma il tempo passò e il
principe si rabbuiò. Sempre triste e irascibile, se ne stava per conto
proprio, nelle sue stanze, disdegnando i giochi e la compagnia degli amici.
Un giorno il suo compagno prediletto si recò a fargli visita. Lo trovò solo,
intento a sfogliare un tomo nella sua biblioteca, mentre fissava l’orizzonte
lontano da una larga vetrata, verso il sole che s’inabissava a occidente, tingendo
il crepuscolo di porpora. L’amico chiese al suo signore che cosa avesse.
Quello rispose che era giunto per lui il momento di pensare ai propri doveri.
I suoi augusti genitori insistevano ché desse al suo regno una regina e lui
avrebbe dovuto farlo. Il cavaliere chiese se la cosa lo rattristasse. Il
principe rispose malinconico che la sua giovinezza era finita, assieme al
tempo dei giochi e della spensieratezza. Il cavaliere gli chiese se avesse
potuto lenire la sua tristezza, si offrì di suonare per lui, dote in cui era
straordinariamente portato. Il principe lo lasciò fare e, mentre quello
pizzicava le corde della sua arpa d’oro e intonava con voce calda e stentorea
una melodia triste, che si accordasse agli umori del suo sovrano, questi si
accasciò su un sofà. Il suo pensiero si perse nel vuoto, verso orizzonti
lontani, e calde lacrime inumidirono i suoi occhi color del cielo e rigarono
le sue belle e diafane guance. Fissò il suo cantore, era davvero bello il suo
amico, il più bello e forte tra tutti i suoi cavalieri, secondo per prestanza
solo a lui stesso. Lunghe chiome color bronzo incorniciavano il suo viso, dai
tratti nobili e dolci ma virili e fieri, e, mentre gli ultimi raggi del
crepuscolo scomparivano e le torce venivano accese per la notte, il colore
dei suoi occhi danzava nella luce soffusa, oscurandosi dal verde dei boschi
al grigio del mare in tempesta. La sua voce era profonda e viva, dolce nel
canto quant’era possente e spaventosa nel grido di guerra, e le sue labbra,
che si muovevano ad articolare la melodia, erano simili a petali di rosa,
aggraziate e belle quanto quelle di una dama. Il cavaliere lo guardò con uno
dei suoi sorrisi limpidi, che il principe sapeva fin troppo bene essere colmi
di un affetto sincero. -Non potremo più divertirci
assieme come un tempo!- sussurrò con un sorriso amaro. -Tu sarai il nostro re!-
rispose il cavaliere –Potrai far tutto ciò che vorrai!- -Son cosa gravosa i doveri
di un re! Non sarà più lo stesso in ogni caso!- -Vorrei fare qualcosa per
lenire la tua tristezza, per non vederti più quello sguardo sul viso!- -Beh, forse c’è qualcosa
che potrebbe farmi felice, ma... -Dimmi cosa e lo farò!- -Se solo tu potessi andare
sui monti di Mammel e portarmi un Popputo da tenere
qui nel mio Castello delle Delizie...- rispose il giovane sovrano con un
sorriso sognante. Al cavaliere si allargò il
cuore a vederlo sorridere così, il suo amato signore aveva ancora voglia di
scherzare. Ma per un attimo si chiese se non fosse davvero quella pazzia a far
sognare la sua mente allontanandola dalle sofferenze del presente. Si limitò
a rispondere con una gentile risata. -Se esistessero davvero,
puoi star certo che correrei a catturarne uno e lo trascinerei qui in catene
perché tu possa abbeverarti alle sue poppe. Ma hai sentito tu stesso il
racconto di quell’uomo. Di certo quelle mitiche creature sono solo una
leggenda!- -Già!- replicò il principe
rabbuiandosi in viso –E questo pensiero non fa che acuire la mia tristezza.
Ora smetti di suonare! Puoi andare!- soggiunse congedandolo con un cenno
della mano –Desidero cullare il mio dolore in solitudine!-. Il cavaliere ebbe un tonfo
al cuore, ma chinò il capo e si allontanò, obbedendo ai voleri del suo
principe. Il tempo passò e il
principe rimase cupo. A volte riprese a intrattenersi coi suoi cavalieri, ma
non mostrava più la stessa gioia di vivere di un tempo e soprattutto non
degnava più delle stesse attenzioni il Cavaliere dall’Arpa d’Oro, che fino a
poco tempo prima era stato il suo favorito, né lo mandava più a chiamare
perché suonasse per lui o lo intrattenesse in privato. Presto annunciò che entro
sette giorni si sarebbe recato nella capitale per una sontuosa festa da
ballo, dove avrebbe conosciuto la Principessa di Rocca-del-Cigno,
una damigella di rara bellezza che probabilmente avrebbe scelto come sposa.
Pochi giorni dopo il Cavaliere dall’Arpa d’Oro gli chiese udienza. Il
principe, dopo averlo fatto attendere a lungo, gliela concesse. Ma lo accolse
con estrema freddezza. Il cavaliere gli fece le proprie congratulazioni,
dicendogli che era felice per lui. Il principe lo guardò bieco in silenzio.
Il cavaliere gli chiese se quella decisione avesse portato pace al suo animo
e gli disse che ne avrebbe gioito per lui, pur essendo triste perché aveva la
sensazione che l’affetto che il suo signore gli dimostrava non fosse più
quello di un tempo. Il principe aprì bocca soltanto per rispondergli che
ormai i doveri di erede avrebbero richiamato stabilmente il suo affetto
altrove. Il cuore del cavaliere divenne pesante come un macigno all’udire il
tono di voce del suo signore, ma sopportò il dolore in silenzio, con la
fierezza del combattente che era. Replicò che avrebbe accettato ogni sua
decisione e fatto qualsiasi cosa, se ciò avesse davvero reso felice il suo principe.
-Allora- replicò il
principe sciogliendo improvvisamente il gelo in cui era rinchiuso
–incamminati verso occidente e portami il dono di nozze che ti ho chiesto! Ed
io ti giuro che, anche dopo le mie nozze e una volta che sarò re, il mio
cuore ti sarà debitore per sempre!- Il viso del cavaliere
scolorì al pensiero di quella follia. Ma era un guerriero addestrato alle
armi, forgiato dalla fatica e temprato dalla battaglia e, facendo appello a
tutto il suo indomito coraggio, si disse che non poteva e non voleva tirarsi
indietro. -Se darà felicità al cuore
del mio Signore partirò domani stesso all’alba!- replicò inginocchiandosi. Allora il viso del principe
s’illuminò. Si alzò dal suo trono, invitò il cavaliere ad alzarsi e lo
abbracciò. E il cuore del cavaliere esultò, quasi scoppiando per la gioia. Il principe volle
intrattenersi con lui sino a tardi quella notte. E dopo che ebbero riposato,
il prode si apprestò a partire. Sellato il suo destriero
color della notte, raccolto in una bisaccia il necessario per il viaggio,
cinse la bella armatura di bronzo, imbracciò la fulgente spada d’acciaio,
assicurò alla sella lo scudo e l’arpa d’oro e infine prese congedo dal suo
signore. -Il mio cuore e la mia
speranza saranno con te ogni giorno!- sentenziò il principe –Nessuno
dimenticherà mai ciò che stai facendo per il tuo futuro re!- -I tuoi desideri sono
ordini! La tua felicità è la mia!- replicò il cavaliere. Il principe lo abbracciò
ancora. Si chinò al suo orecchio e gli sussurrò: -Ho ragioni personali per
prestare fede incondizionata alle dicerie sui benefici del latte di quei
selvaggi, miracoloso anche per un uomo che l’abbia solo assaggiato. Portamene
uno qui e potremo goderne entrambi!- Il cuore del cavaliere
accelerò la sua corsa, sorrise al suo signore, s’inchinò, balzò in sella e
partì al galoppo verso occidente. Il principe lo salutò col
cuore impaziente. Già pregustava la grossa ed esclusiva meraviglia che
avrebbe aggiunto alla propria collezione. Ma i giorni e le lune passarono e
il cavaliere non tornava. Il principe sapeva che i Monti Mammel
erano lontani e il cammino lungo, ma era certo che il suo drudo, da prode
qual era, avrebbe catturato la preda e sarebbe tornato da lui in un baleno.
Eppure il cavaliere non tornava. Il principe inviò i propri uomini a
setacciare i confini del regno. Gli dissero che aveva varcato i confini
alcune lune prima ma che poi nessuno lo aveva più avvistato. L'estate sfiorì
lasciando il posto all'autunno. E il cavaliere non tornava. A volte il
principe passava le sue giornate da solo, alla finestra, a contemplare le
foglie che s’indoravano sugli alberi lungo il sentiero che conduceva ai
confini occidentali del regno. Talvolta vedeva l'ombra di un viaggiatore che
arrivava di lontano a cavallo e il suo cuore accelerava la corsa sperando che
fosse il suo cavaliere venuto a consegnargli il bottino. Ma il cavaliere non
tornava. L'autunno lasciò il posto all'inverno. Gli alberi e i monti si
ricoprirono di neve e il principe iniziò a temere che il cavaliere non
tornasse più e con lui neppure il suo premio, e il suo cuore si rattristò.
Forse il suo compagno era morto, nelle lontane terre occidentali, chissà
dove. Il cuore del sovrano s’incupì a quel pensiero, ma poi si disse che se
quell’uomo non era riuscito nell'impresa che gli aveva assegnato, allora era
un debole e nessuno aveva bisogno di lui. Capì che quella delusione avrebbe
indurito il suo cuore e che non avrebbe mai più conosciuto le gioie di un
tempo. I suoi genitori insistevano perché scegliesse una sposa ma lui gettava
via le loro lettere o rispondeva evasivo, rimandando quell'incombenza. Una
notte sognò il cavaliere. Era tornato, era di nuovo là a corte con lui,
suonava per lui, si scusava per aver fallito, per esser ritornato a mani
vuote, ma il principe rispondeva che non importava, che era comunque contento
di riaverlo accanto a sé, che la vera ragione per cui passava le giornate ad
attenderlo alla finestra non era il premio che gli avrebbe riportato, ma
soltanto lui. E il suo cuore era contento. Ma poi si svegliò, solo nel suo
freddo letto regale, in cui ormai da mesi rifiutava la compagnia di
chicchessia. E il cavaliere non tornava. Infine ritornò la primavera. Gli
alberi rifiorirono, la natura sorrise di nuovo, il principe non sorrideva
più. Ma la neve disciolta sulle montagne sembrava aver lavato via gli ultimi
infantili capricci di giovinezza dal suo cuore e infine egli capì che doveva
rinunciare agli stupidi sogni e diventare uomo. Comunicò al re e alla regina
che approntassero i festeggiamenti più sontuosi che si fossero mai visti nel
regno, poiché era pronto a sposare la principessa di Rocca-del-Cigno. L'intero regno festeggiò la
notizia delle imminenti nozze regali. Il bel principe era molto amato da
tutti e il popolo era felice poiché presto sarebbe salito al trono e avrebbe
donato loro un erede. Il re si rallegrò del giudizio mostrato infine dal suo
figliolo, che presto, come lui aveva sempre saputo, sarebbe stato pronto a
prendersi cura del regno al suo posto. La buona regina, felice che il suo
diletto pargolo avesse scelto una consorte tanto bella e virtuosa, si dette
da fare per regalare agli sposi la più bella e memorabile cerimonia che si
fosse mai vista. Tutto era pronto perché le nozze avessero luogo dopo il
Calendimaggio. Ma prima del matrimonio, il principe volle un sontuosissimo
banchetto privato nel suo Castello delle Delizie per festeggiare un'ultima
notte da scapolo con i suoi più amati guerrieri. L'intero castello fu
lustrato, addobbato e decorato e fu imbandito il più ricco e sfarzoso convito
che vi si fosse mai visto. Centinaia di portate si alternavano senza posa:
succulenti timballi, arrosti di montone in salsa di latte, fagiani in salmì,
le varietà più assortite di cacciagione, speziate con raffinati aromi venuti
dall'Oriente. Le danzatrici più esperte del regno saltellavano sulla tavola
vestite di veli, alla luce delle lampade d'oro in cui bruciavano essenze
profumate. I cavalieri discorrevano e scherzavano allegri, mentre nani
abbigliati da giullari trotterellavano attorno alla tavola esponendosi ai
loro lazzi e il vino più prelibato del regno scorreva a fiumi nelle coppe,
mesciuto da begli efebi profumati dai riccioli inanellati d'oro. E quando
furono serviti i dolci e la gustosa frutta candita, i cavalieri fecero
sfilare dinanzi al sovrano i propri doni di nozze al suono di raffinati
inchini e salamelecchi. Spade e scudi d'oro e d'argento forgiati dai migliori
fabbri del regno, cavalli rapidi come il vento e dal candido manto immacolato
provenienti dai deserti dell'Arabia, scattanti levrieri da caccia, vesti e
mantelli di seta finemente damascati in oro, una nuova rarissima specie di
serpente in gabbia, catturato chissà dove, con cui sua altezza avrebbe
adorato giocare, giovani schiavi da letto di entrambi i sessi, bellissimi,
ignudi e profumati. Ma il principe se ne stava accasciato tra i cuscini del
suo scranno d'oro, fissando malinconico e senza interesse quella sfilata di
generosa mercanzia. Né sembravano rallegrarlo i migliori musici del regno,
che, assisi in cerchio in una nicchia, allietavano il convito con suono
d'arpe, flauti e cembali. Forse non era la loro musica che il principe
desiderava. Quando quel teatrino di
opulenza e piaggeria fu terminato, allontanò con un cenno stanco il proprio
piatto e disse ai commensali che continuassero pure a godersi la sua
ospitalità. Lui era stanco e intendeva ritirarsi. Un soffocato mormorio
serpeggiò attorno alla tavola, tra i compagni tristi e delusi al pensiero che
il loro principe abbandonasse da solo la festa in suo onore. Ma
all’improvviso le porte della sala si spalancarono. Una corrente d’aria fece
ondeggiare i drappi di broccato cremisi e oro che decoravano le pareti e la
luce dei lampadari di diamanti tremolò riflessa sugli specchi d’oricalco e
sugli arazzi dai colori infuocati raffiguranti le fatiche di antichi eroi,
possenti e ignudi. Prima ancora che il valletto alla porta, scaraventato a
terra dall’irruenza del nuovo arrivato, facesse in tempo ad annunciarlo, gli
amici del principe trattennero il respiro vedendo entrare colui che tutti, ormai,
credevano non sarebbe più tornato. -Non vorreste prima
accettare anche il mio regalo di
nozze, Vostra Altezza?- esordì con un sorrisino il Cavaliere dell’Arpa d’Oro.
Indossava ancora l’armatura e il mantello da viaggio, le lunghe chiome scure
erano scomposte sugli omeri, ma aveva lo stesso aspetto fiero ed eroico con
cui tutti lo ricordavano. D’improvviso il volto del
principe s’illuminò. -Sei tornato!- sospirò
ancora incredulo sporgendosi in avanti sul suo trono. -Mai e poi mai sarei mancato
all’ultima notte di bagordi del mio Signore!- -E la sola tua presenza è
il più grande dono che tu potessi portarmi!- -Aspettate di vedere l’altro mio dono!- rispose il cavaliere
con un sorriso sghembo sul viso. -Vieni avanti, Capezzolone!- Fece un piccolo gesto con
la mano, dando un leggero strattone a una catena d’oro che pendeva da essa e,
attraverso la porta, sotto gli occhi increduli di tutti gli astanti, fece il
suo ingresso una gigantesca e quanto mai singolare creatura. Dall’aspetto lo
si sarebbe definito simile a un uomo, ma era più alto di almeno una testa di
tutti gli uomini presenti in quella sala e aveva una corporatura
mastodontico. Era vestito di una pelle animale non conciata, allacciata sulle
spalle, che lasciava a nudo le braccia tornite di giganteschi muscoli
d’acciaio, le ginocchia, i polpacci altrettanto solidi e un paio di
ragguardevoli piedoni. Lunghe chiome nere gli cadevano ispide e scarmigliate
sulle spalle, una folta barba nera gli ricopriva le guance. Il suo volto dai
tratti feroci e fieri e i suoi profondi occhi neri fecero tremare tutti gli
astanti. La sua sola vista avrebbe potuto incutere terrore. Ma egli, con un
innocente e ingenuo sorriso da bimbo, fissava sereno il cavaliere che lo
conduceva ed avanzava placido e composto dietro di lui. Attorno al collo
portava un grande anello d’oro cui era attaccata l’altra estremità della
catena che il suo signore teneva in mano ed egli si lasciava guidare senza
colpo ferire. Quando il cavaliere si fu fermato sotto il seggio del principe,
strattonò appena la catena. Prontamente il colosso si inginocchiò accanto a
lui e si prosternò a baciargli i piedi. -Onora il mio Signore, non
me!- sentenziò il cavaliere. Il bruto prontamente si volse verso il principe
e si prostrò. Quello per un attimo, all’avvicinarsi dell’enorme bestione,
ebbe un fremito ma, constatando la sua mansuetudine, lasciò che si
genuflettesse e baciasse i suoi piedi. Poi lo invitò ad alzarsi. -Obbedisci al principe!- lo
invitò il cavaliere. Quello prontamente si alzò
e levò lo sguardo verso il suo nuovo signore che, dall’alto della pedana su
cui sorgeva il trono, poteva fissarlo appena diritto negli occhi. -Incredibile! Lo hai fatto
davvero?- ansimò incredulo il principe al suo drudo. -Desiderate scartare il
regalo, Maestà?- gli chiese il cavaliere compiaciuto. Il principe ebbe una
scintilla negli occhi. Il cavaliere si accostò con assoluta tranquillità alle
spalle del suo prigioniero, afferrò la pelle che lo rivestiva e gliela sfilò
di dosso lasciandolo ignudo di fronte agli occhi increduli degli astanti. Un corpo colossale e forte,
due spalle enormi, un torace immenso e villoso e un paio di pettorali robusti
e sporgenti su cui svettavano, in mezzo alla peluria nera, due ragguardevoli
fragolone rosee ancora morbide ma ugualmente appuntite e protese all'infuori.
E, spettacolo incredibile a vedersi, seminascoste dal pelo, due file di altri
capezzoli di dimensioni progressivamente decrescenti gli discendevano lungo
il petto e giù sul ventre muscoloso e tornito. Agli astanti sembrò di poterne
contare almeno cinque per lato. La peluria scendeva poi in una striscia sotto
l'inguine, dove pendeva un membro maschio di notevoli proporzioni. Il cavaliere gli passò le
mani attorno al dorso. Il bestione si lasciò toccare, per nulla contrariato.
Il giovane gli allungò le mani sul petto e gli prese le poppe da dietro, le
sue dita affondavano come nei seni di una dama. -Ammirate che sizze, Maestà!- fece con un sorriso malizioso, sollevando
da sotto le due tette e lasciando che si gonfiassero tra le sue mani, facendo
sporgere le due grosse areole semierette che, da rosee che erano, si andavano
colorendo di un regale porpora acceso. Il principe non resistendo
si avvicinò a occhi sgranati. -Toccate pure, mio
Signore!- lo incoraggiò divertito il cavaliere. Il selvaggio aveva sul
volto un sorriso smagliante. Facendosi coraggio, il sovrano allungò una mano
a tastare una poppa villosa, la sollevò, la strinse nel palmo. Poi prese
l’altra. Riempivano le mani, generose come i seni di una donna ma solide e
tornite come i pettorali di un uomo. Carezzò il grosso capezzolo, lo strinse
tra due dita, la punta grossa e rotonda si eresse. Il selvaggio contrasse il
viso in un'espressione che pareva di gradimento. Il sovrano discese a
palpeggiare gli altri capezzoli, come per assicurarsi che fossero veri. -Incredibile!- sussurrò
-Come sei riuscito a portarlo sin qui e a renderlo tanto mansueto?- -Non voglio essere io
stesso a vantare le mie prodezze, Vostra Altezza. Ma potrà dirvelo lui. Non è
vero, Capezzolone?- soggiunse mollando una gentile
pacca sulla spalla dell’omone. Il principe guardò in viso
la creatura che pareva sorridere. -Tu parli la nostra
lingua?- -Poco, Vostra Altezza!-
replicò la creatura con una voce cavernosa e roboante che fece sussultare tutti
i convitati, benché il suo tono fosse tanto dimesso. Un brusio di incredulità
serpeggiò in tutta la sala quando udirono quel bestione parlare. -Cavaliere insegnato me!-
soggiunse. Aveva uno spiccato accento barbaro, ma si esprimeva nella lingua
del regno in maniera ben intellegibile. -Donde vieni straniero?- -Da tribù di Figli di Zizzon! In Monti che voi chiamare Mammel,
verso dove muore Sole- si ergeva fiero e interloquiva sereno e a proprio
agio, incurante della propria totale nudità. -E dimmi- soggiunse il
principe divertito -Perché hai seguito il mio amico sin qui?- -Io suo schiavo- replicò il
bruto -Lui Padrone. Lui ordinare, io seguire-. -Dimmi come ha fatto a fare
di te il suo schiavo- sentenziò il principe. -Venuto nostra terra, lottatore
forte e instancabile, sottomesso me con grande e potente spada di acciaio.
Intero mio popolo ceduto a suo volere. Io suo schiavo!- Tutti i presenti
trasecolarono per l’ammirazione, immaginando la strenua prodezza del
guerriero, solo di fronte a un’intera tribù di enormi giganti. -I miei sinceri
complimenti!- gli fece il principe con un sorriso, riallontanandosi verso la
pedana del suo trono. -Maestà- lo trattenne il
cavaliere suadente, stringendo in mano una poppa del buon selvaggio e
giocherellando con il capezzolo -Avete gustato i cibi e i vini più prelibati
del regno! Non desiderate assaggiare il mio dessert?-. Gli astanti guardarono,
trattenendo il fiato. Il principe sembrava a disagio, pareva che tutto
l'ardente coraggio di quel guerriero si fosse spento alla vista del feroce
bestione. Qualcosa di strano fluttuò nella sua testa. -Ogni sovrano ha un
assaggiatore che provi i suoi cibi prima di lui!- sentenziò. -Oh! Su questo posso
garantire personalmente, Maestà!- replicò il cavaliere con un sorriso. Il principe si riassise sul trono e lo fissò circospetto. -Siete miei ospiti!- esordì
poi con un sorriso, allargando le braccia a tutti gli astanti -Gustate la mia
primizia e ditemi quanto merita. Per me terrò l'ultimo sorso!- -Come desiderate!- replicò
il Cavaliere dell’Arpa d’Oro con una riverenza -Sia lode alla vostra
generosità! Vieni, Capezzolone!- soggiunse poi
saltando d'un balzo sulla tavola imbandita e tendendo la mano al bestione che
lo seguì, facendo tremare piatti e portate con i passi dei suoi gravi piedoni
nudi sulla tovaglia di satin. Il cavaliere gli afferrò di
nuovo le poppe da dietro e prese a giocarci e a martoriargliele. -Coraggio, signori!
Ammirate che capezzoloni! Chi vuole favorire?-
apostrofò i commensali. Gli uomini si guardarono tra loro, tra l'interdetto e
il divertito. Il bestione pareva gradire, aveva un'espressione deliziata in
viso e anche il suo membro pareva essersi ingrossato, ma si sarebbe lasciato
palpeggiare da chiunque con la stessa mansuetudine? -Io!- sentenziò all'improvviso
il Barone di Tor del Mastino, un gigantesco
guerriero dalla testa rasata la cui voce era simile a un rutto e la cui
stazza era superiore a quella della maggior parte degli uomini presenti,
sebbene non eguagliasse quella del selvaggio. -Tutti sanno che esperto
succhiatore di tette tu sia, amico mio!- lo provocò il Cavaliere dell’Arpa
d’Oro. -Sebbene io ammetta di non
averne mai degustate di così pelose!- sentenziò l’altro. Tutti risero. -Non vediamo l'ora di
ammirare la tua abilità!- lo invitò l’altro. Quello montò sul tavolo e
si parò dinanzi al selvaggio. Per un attimo fissò l'energumeno in cagnesco,
ma quello era serafico tra le braccia del suo aguzzino. -Fa' assaggiare le zizze a questi bei
cavalieri!- gli sussurrò quello all'orecchio. Il Barone di Tor del Mastino con un impeto di coraggio allungò una
mano e gli afferrò una tetta, la strinse, la manipolò un po' facendo sfuggire
un gemito al bestione, poi si chinò e se la infilò in bocca, come fosse stata
quella di una donna. Iniziò a succhiare avidamente. L'omone nudo parve
emettere un gemito. -Qualcun altro desidera
mostrarci quello che sa fare?- fece frattanto il Cavaliere dell’Arpa d’Oro
sfiorando con le mani l'altra poppa e altri capezzoli sotto di essa -Come
vedete, c'è posto per tutti!- Si fece avanti il Conte di
Volpe Rossa, un elegante gentiluomo dal viso sornione e dalle lunghe chiome
fulve, con baffi e barbetta ben coltivati. Il cavaliere gli fece cenno di
accomodarsi. Quello si chinò sull'altro pettorale dell'omone, tirò fuori la lingua
e iniziò a lavare il capezzolone roseo. Quando fu
completamente eretto, lo addentò cavando al bestione un grido soffocato.
Faceva uno strano effetto vedere un uomo barbuto succhiare il seno villoso di
un altro maschio. Ad alcuni dei presenti veniva da ridere, ad altri sortiva
una reazione di genere differente. -Oh sì! Bravo Capezzolone!- gli sussurrò il Cavaliere dell’Arpa d’Oro. -Ma è asciutta! Dove
sarebbe quel leggendario latte?- fece il Barone di Tor
del Mastino staccandosi dalla poppa e sollevando interdetto il suo testone. -Sii paziente, amico mio!-
rispose il cavaliere stringendo uno dei capezzoli sul ventre e torcendolo tra
le dita -Queste fragole sono come il membro di un uomo. Devi condurle
all’apice del godimento perché ne esca il latte!- -Oh beh, in tal caso!-
replicò fiero l'altro -Le femmine gridano impazzite quando lavoro le loro
bocce!- e si chinò a slinguare il contorno
dell'areola per poi tornare sulla superficie del capezzolo. Frattanto altri uomini, incuriositi
dallo spettacolo e rassicurati dalla condiscendenza del bestione, si stavano
arrampicando sul tavolo. -Facciamo i signori!-
esordì il Barone di Tor del Mastino -Il dessert va
degustato con le posate!-. Ridendo prese una forchetta d'oro dal tavolo. Vi
sfiorò un capezzolo ancora morbido e liscio, poi lo pizzicò con le punte. -Aaah!- gemette Capezzolone
con voce cavernosa. Per un attimo il barone
temette di averlo fatto arrabbiare, ma quando capì che erano gemiti di
godimento e vide il capezzolone arrossarsi e farsi
coriaceo, non resistette e riprese a punzecchiarlo e infilzarlo, giocando a
imprigionarne la punta tra i denti della posata e a vedere quanto riusciva a
farlo indurire. -Potremmo annaffiare il
dolce con del buon vino!- propose il conte sollevando una bottiglia di
delizioso rosso e versandolo sulle poppe per poi chinarsi a succhiarlo.
Rivoli di vino colarono sul torace e sul ventre, stillando su tutti i
capezzoli turgidi, mentre altri cavalieri si chinavano a rincorrerli con la
lingua. Il selvaggio pareva davvero
eccitato, il volto e il torace arrossati ansimavano, il grosso fallo svettava
ormai completamente eretto. Uno degli uomini lo prese in pugno e cominciò a
menarselo in mano. -Attento!- lo trattenne il
Cavaliere dell’Arpa d’Oro. -Lo faccio eccitare!-
replicò quello. -Ma attenzione a non far
eiaculare il membro prima che ci abbia saziati tutti con il latte dei seni!-
lo avvertì lui. Il principe guardava lo
spettacolo dal suo trono, sempre più entusiasta ed incuriosito. Quell'enorme
energumeno in ginocchio sulla sua tavola, in mezzo ai suoi uomini. Erano in
dieci, adesso, chini a suggere un capezzolone
ciascuno. E il suo cavaliere prediletto lo teneva tra le braccia da dietro e
gli mormorava sconcezze nell'orecchio. -Ti piace, Capezzolone?- -Sì!- ansimò il bruto con
un sorrisone. Le sue manone calarono sulle teste
dei due uomini intenti a ciucciargli le poppe. Quelli per un attimo sudarono
freddo ma poi si resero conto che erano solo carezze, che il bestione se li
stringeva al petto invitandoli a degustare con più ardore. La bocca del cavaliere calò
a baciare il collo taurino dell'omone. Quello divenne paonazzo. Poi iniziò a
gemere e gli uomini che erano su di lui dettero come l'impressione di
accelerare il ritmo della poppata. Quando il primo di loro si staccò, il
principe vide che aveva la bocca sporca di una patina bianca e che un getto
candido zampillava ritmicamente fuori dalla punta del capezzolone
eretto. -Mmmmm!! È il nettare più delizioso che abbia
mai assaggiato!- sentenziò il Barone di Tor del
Mastino staccandosi con la bocca ancora grondante. -Né uomo né donna ha mai
secreto umore tanto sublime!- gli fece eco il conte leccandosi i baffi.
Avevano i volti arrossati e gli occhi stravolti come fossero stati ebbri di
vino. Continuarono a poppare
avidamente sinché non furono saturi, poi si scansarono per far posto agli
altri compagni. I capezzoloni eretti continuavano a
eiaculare fiotti di liquido bianco, simili a fontanelle o a piccoli membri
virili in orgasmo. Il cavaliere accostò ad uno una coppa di cristallo e
lasciò che la secrezione del capezzolo la riempisse. Poi la sollevò
sorridendo in direzione del suo sovrano. -Volete favorire, Maestà?- Il principe incuriosito
fece cenno a un coppiere che gliela portasse. La accostò alle labbra e
assaggiò. Appena tiepido e dolcemente zuccherato. Altro che umore di uomo o
di donna, neppure il miele o il vino aveva mai avuto sapore tanto dolce. Lo
tracannò tutto d'un fiato, lasciando che gli infuocasse la gola e gli salisse
alle guance. Ma era un fuoco diverso da quello del vino o dell'idromele.
Guardò i suoi uomini eccitati e divertiti che si abbeveravano a quel nuovo giocattolone, il suo cavaliere prediletto che lo fissava
sorridendo. Guardò lo scimmione in estasi tra quelle braccia, il suo largo
torace villoso, i capezzoli eretti e stillanti dolce siero e una voglia
insana si impossessò di lui. -Fai assaggiare anche a me,
Capezzolone?- lo invitò con un sorriso e un cenno
della mano. Il volto del bestione si
illuminò. -Coraggio!- lo sospinse il
cavaliere con una carezza sulla spalla. Gli uomini del principe si scansarono
rispettosamente mentre il bruto avanzava sul tavolo e saliva sulla pedana, di
fronte al trono del suo signore, fissandolo negli occhi. Si sollevò una poppa
in una mano a coppa e la porse a Sua Altezza. Il principe con un sorriso si
chinò, si attaccò e bevve quel dolce nettare di felicita, e di oblio. Succhiò
avidamente, si saziò. Poi affondò la testa nel mezzo del petto muscoloso e
sfoderò appena i denti a marchiarlo del proprio segno, saggiandone la
possanza. Il bestione guaì di piacere stringendo una manona
tra i capelli d'oro, che danzarono slacciati sulla pianura sterminata di quel
torace. Il principe si lasciò imprigionare nel solco villoso tra i pettorali.
Quasi vi soffocò. Poi risalì a ciucciare
avidamente l'altra sizza sinché non fu ebbro e
dissetato. -Divino!- sentenziò con un
sorriso al cavaliere. -E non sapete cosa sa fare
la sua bocca ai capezzoli di un altro uomo!- rispose quello ammiccando. -Vuoi dire...- balbettò il
sovrano. -Forse voi non vorrete
esibirvi qui dinanzi a tutti,- replicò l'altro -ma...- Non aveva ancora finito di
parlare, che il principe, alzatosi in piedi, già s’era strappato di dosso giustacuore,
camicia e farsetto ostentando con fierezza il proprio scultoreo torso nudo. -Allora, Capezzolone- lo apostrofò il cavaliere -ti piace il
principe?- -Bellissimo!- ansimò il
selvaggio estasiato. Aveva la pelle diafana e liscia di un efebo ma la
muscolatura soda e guizzante era quella di un guerriero allenato, due
capezzoli rosei come fiori di pesco spiccavano contro il candore del torace,
rivolti verso il basso per la possanza dei pettorali. Il bestione si chinò a
sfiorargli il collo con le sue labbra generose con una delicatezza
inaspettata, discese poi al centro del petto, si avventurò su un capezzolo.
Un'espressione di abbandono si dipinse sul volto del principe, che strinse a
sé la testa di quel bestione, lo afferrò per le chiome e se lo serrò contro
il petto. Con una mano il bruto prese l'altro capezzolo e cominciò a
titillarlo tra due dita. Il principe gettò all'indietro la testa lasciando
fluttuare nel vuoto la chioma d'oro e i suoi occhi si offuscarono di lacrime.
Il bestione gli leccò il torace passando, con ansimante desiderio, da un
capezzolo all’altro, come un cucciolo affamato. Il principe iniziò a gemere
soavemente. Una mano del bestione s’accostò appena alla patta dei calzoni
regali senza neppure sfiorarli. Istantaneamente i gemiti si fecero più
serrati, ripetuti fremiti scossero la schiena ignuda del principe mentre le
sue mani strattonavano isteriche le chiome del bestione. Continuò ad
ansimare, sinché il bestione non si staccò sorridendo. Il principe restò
immobile, gli occhi vacui, e si lasciò cadere tramortito sul trono, come
fluttuasse nel vuoto. Il suo volto candido era divenuto infuocato e agli
occhi attenti sembrava che una vasta marea umida avesse impregnato il satin
azzurro e argenteo su un lato delle sue brache a palloncino. -Mai provato niente di
simile!- sospirò. Fece cenno ai suoi uomini che si riaccostarono prontamente
al bestione. Alcuni ripresero a succhiare il latte che ancora stillava dai
capezzoli e che stimolato dalle loro bocche prese a zampillare in getti di
nuovo più violenti. Trascinato da loro il Popputo si sdraiò sulla tavola
lasciando che si chinassero ad abbeverarsi, mentre appoggiava la testa sulle
ginocchia del Cavaliere dell’Arpa d’Oro, accovacciatosi dietro di lui. Ormai infuocati da quel
dolce nettare e accaldati dalla foga, alcuni di loro avevano preso a
denudarsi. -Vuoi succhiare anche le
mie sizze?- lo incitò uno strappandosi la camicia. Il Popputo lo guardò di
sottecchi, mentre era intento a baciare e contemporaneamente a slacciare
voglioso la patta dei calzoni del Cavaliere dell’Arpa d’Oro. -O forse ti piace succhiare
anche altro!- ammiccò un altro calandosi le brache e restando ignudo. Il selvaggio sorrise,
rizzandosi all'improvviso in ginocchio con la lingua di fuori. -Oppure potresti farmelo
infilare qui in mezzo!- soggiunse un terzo sollevandogli le poppe tra le mani
e passando un dito nel solco tra di esse -E alla fine vediamo se, uno vicino
all'altro, il mio seme è più bianco del tuo latte!- Buona parte degli uomini
iniziarono a gettarglisi addosso e l'energumeno
pareva deliziato. Alcuni restavano invece ai propri posti, limitandosi a dar
gioia ai propri occhi, godendo dello spettacolo e della reciproca compagnia.
Ed altri traevano ispirazione dalla scena mentre stringevano a sé una
danzatrice o un giovane coppiere. -Lascia
che si divertano e vieni con me!- Il Cavaliere dell’Arpa d’Oro alzò gli occhi
e vide il principe, sopraggiunto alle sue spalle -Sarai stanco e teso dopo
tutti questi mesi di viaggio! Nessuno aveva mai fatto tanto per me, lascia
che ti esprima tutta la mia riconoscenza!- Gli strinse una spalla e poi si
allontanò nel turbinio del suo manto blu. -Devo
andare Capezzolone!- sussurrò lui all'orecchio del
selvaggio -Divertiti e falli divertire tutti!- soggiunse vedendo l'estasi dipinta
sul viso del ragazzone mentre si allontanava dal baccano di quella colossale
orgia. La
luna era già alta nel cielo mentre, nella tranquillità delle stanze del
principe, il sovrano e il suo cavaliere lenivano la fatica in un bagno
ristoratore. Cascate d’acqua tiepida danzavano fuori da conchiglie e bocche
di pesci di pietra smaltata sorretti da statue di efebi nudi e scrosciavano
nella larga vasca di marmo dove, immersi placidamente sino alle spalle, i due
uomini sorseggiavano vino dorato da calici di cristallo. -Spero di poterti prima o
poi dimostrare tutta la mia gratitudine!- fece il principe sorridendo al suo
prediletto che, sul lato opposto della vasca, si ristorava dalle pene del
viaggio sotto la carezza di un getto d’acqua. -La mia felicità è aver
reso felice te, mio Signore-. -Intanto stiamo rendendo
felici i nostri amici!- sghignazzò il principe -Il tuo omone sembrava ben
contento di darsi da fare!- -Oh, lo è! La fama degli
appetiti sessuali dei Popputi è assolutamente ben meritata e non c'è schiavo
migliore nel dar gioia al proprio Padrone di quello che gioisce lui stesso
nel farlo!- -Inizio a chiedermi come tu
abbia fatto ad ammaestrarlo così bene! È bastata davvero la sola minaccia
della tua spada alla gola?- -In un certo senso!-
rispose il cavaliere con un sorriso evasivo. -Che vorrebbe dire? A me
puoi raccontare la verità! So quanto tu sia prode e valoroso, ma hai davvero
messo in ginocchio da solo un'intera orda di bruti inferociti?- -Ciò che ha detto Capezzolone è tutto vero, anche se... non esattamente nel
senso che si potrebbe credere...- -Cosa?- fece l’altro
divertito. -A te non voglio mentire,
mio principe. Ma prometti di non ridere di me!- -In nome della gioia che provo
nel riaverti qui e del meraviglioso regalo che mi hai fatto, potresti dirmi
qualsiasi cosa e ti onorerei comunque. Narrami dunque!- -D’accordo!- sentenziò il
cavaliere -Ti dirò tutto per filo e per segno! Dopo essermi congedato da
te, cavalcai instancabile, per giorni e notti, ritto sulla sella, collo
sguardo volto a occidente. Quando ero stanco fermavo la cavalcatura e
riposavo nei boschi o a volte sostavo presso le città e i villaggi che
trovavo sul mio cammino. A volte gli abitanti mi offrivano da bere e da
mangiare ed io, grato, li ricompensavo con monete d’oro. Continuai a
cavalcare per settimane, sinché i luoghi abitati non si fecero sempre più
radi e attorno a me non vi furono che boschi e pianure incontaminate. Infine
si profilarono all’orizzonte le sagome delle immense montagne dell’Occidente
che sfidano il tetto del cielo. Ebbi un tuffo al cuore al pensiero di dovermi
arrampicare su quei dirupi impervi, ma raccolsi le forze e spronai il
destriero. Avanzai per giorni nella natura desolata, sinché,
ai piedi delle montagne, non mi imbattei in un remoto villaggio di pastori.
Erano gente semplice e non parlavano la nostra lingua, ma si mostrarono
ugualmente cordiali e accoglienti. Parlando a gesti chiesi loro come giungere
ai Monti Mammel. Quelli mi guardarono terrorizzati
e cercarono di dissuadermi, provarono a farmi capire quali feroci e potenti
uomini selvaggi avrebbero tentato di uccidermi, ma io insistetti sinché un
vecchio non mi disegnò una mappa. Guardandola compresi: avrei dovuto inerpicarmi
sino alla cima del monte più alto, al di là della vetta, vi era un
lussureggiante altopiano che conduceva alla Foresta Oscura e oltre quella vi
erano i Monti Mammel. Il mio viso scolorì a quel
pensiero e al vedere il terrore sul volto dei miei ospiti. Mi chiesero perché
lo facevo: io pensai alla tristezza che avrebbe oscurato il tuo volto, mio
Signore, se fossi tornato a mani vuote e risposi a gesti, portandomi le mani
al cuore. Gli stranieri compresero. Mi rifocillarono e mi offrirono scorte di
cibo, acqua e vino rosso perché potessi scaldarmi nel gelo dei monti. Io
avevo finito le monete, ma loro indicarono la mia arpa e fecero cenno che li
ricompensassi con una canzone. Iniziai a suonare, ripensai alla nostra terra
e a te, mio Signore, e intonai un canto triste. Tutti i presenti piansero. La mattina seguente
ripartii. Mi inerpicai sugli aspri pendii dei monti. Quando il gelido vento
del nord mi fece battere i denti, mi ricoprii con una calda pelliccia
offertami dagli stranieri, arrancai sulle distese di neve e ghiaccio, infine
guadagnai la vetta del monte più alto. Oltre vi era la discesa e poi un
altopiano sterminato. Prati e boschi lo tappezzavano e oltre ancora vi era
un’altra catena montuosa, distante giorni e giorni di cammino. Non v’era
traccia alcuna d’anima umana. Sentii la terra vacillare sotto i miei piedi
per il senso di desolazione. Ma raccolsi le forze e continuai ad avanzare.
Raggiunsi la Foresta Oscura e spronai il cavallo tra l’intrico dei rami.
Avanzai per giorni e giorni, seguendo l’ombra dei Monti che intravedevo
laddove le chiome degli alberi si diradavano. Ben presto persi il conto del
tempo e la percezione dello spazio. Il bosco si infittiva e a me non restava
più cognizione alcuna della strada. Vagai disperato per giorni. Infine il mio
cavallo era esausto, così decisi di accamparmi ai piedi di una vecchia
quercia e accesi un fuoco. Tutt'attorno v’era solo muta oscurità. Non
sopportando più quella solitudine, presi l'arpa e riempii il silenzio con una
melodia malinconica, la stessa che avevo cantato l’ultima volta per te, mio
Signore. Tanti ricordi risorgevano alla mia mente. Poi, non sapendo che altro
fare, pregai. Pregai tutti i miei dèi e tutti gli altri che conoscevo e primo
fra tutti il dio dell’Amore, che sino ad allora mi aveva dato la forza e
aveva guidato il mio cammino. Ma attorno a me vi erano solo le ombre del
bosco, i suoi inquietanti e minacciosi rumori e il buio. Guardai il bagliore
delle fiamme e ripensai a te, mio Signore, ai tuoi occhi azzurri, ai tuoi
capelli d’oro, e -che gli dèi tutti e tu, mio principe, vogliate perdonarmi-
mi chiesi come ciò che era nato come un passatempo, come un gioco tra uomini
fosse diventato qualcosa di tanto colmo di devozione, tanto forte e tanto
crudele. M’ero spinto in capo al mondo, e compresi che non sarei mai più
tornato indietro, né vivo, né morto. Ma ad un tratto un’ombra si
fece strada tra gli alberi, un viandante, un altro essere umano che
s’aggirava in quella desolazione. Indossava un manto scuro, e un ampio
cappello piumato gli ombreggiava il viso. Attonito e incredulo quanto felice
di vederlo, lo salutai. Il viandante mi sorrise, ricambiando il saluto. Mi
chiese se potevo offrirgli ospitalità presso il mio fuoco e io fui ben
contento di fargli spazio. Mi chiese chi fossi e cosa facessi in quel luogo
desolato. Io ero talmente felice di parlare con un altro essere umano che gli
offrii di dividere il mio vino e gli narrai tutta la mia storia, gli dissi
come ero partito da ormai svariate lune per raggiungere i Monti Mammel, che ero in cerca dei Popputi, che ne avrei dovuto
catturare uno e portarlo in dono di nozze al mio signore, ma che avevo
smarrito il cammino ed esaurito i viveri e che presto sarei morto. Lo
straniero mi guardò, in silenzio, con quello che pareva un misto di stupore e
ammirazione, e chiese cosa mi spingesse a un’impresa tanto ardua. Io ripensai
all’ultima notte in cui ti avevo visto, mio Signore, alla gran gioia che mi
avevi espresso alla promessa di quel dono di nozze e la risposta mi sorse
spontanea: <<Amore!>> E lo straniero sorrise:
<<Amore... la forza più potente dell’universo intero! In tal caso...
prendete il sentiero dietro quell’albero di mirto e procedete sempre diritto.
Tra due giorni la strada inizierà a inerpicarsi in salita, sinché non
giungerete a un valico. Quelli sono i Monti Mammel!
Superate il passo e sarete nel territorio dei Popputi.>> <<E come li
troverò?>> chiesi frastornato. <<Se entrate nella
loro terra, saranno loro a trovare voi. Ma prima di passare il valico
sotterrate la spada e proseguite disarmato: in seguito ai presagi nefasti dei
loro dèi, gli uomini dai grossi capezzoli uccidono all’istante qualunque
straniero osi varcare i loro confini con le armi in pugno. E non provate ad
opporre resistenza ai loro attacchi: sarebbe uno scontro perso in
partenza!>> Improvvisamente mi sentii
totalmente stordito, forse dal vino o forse da quella conversazione surreale,
in quel luogo ai confini del mondo conosciuto. Avvertii il sonno sopraffarmi. <<Grazie!>>
replicai <<Come sapete tutto questo? Chi siete? Non so neppure il
vostro nome!>> Lo straniero sorrise:
<<Con molti nomi diversi mi chiamano uomini e donne di questa e di
altre terre.- rispose -Ma io sono noto al cuore di ognuno di loro, in ogni
tempo e in ogni luogo, in questo e in altri mondi!>> Lo guardai senza capire, mi
chiesi se non stessi vaneggiando in preda ai fumi del vino. Intorpidito dal
sonno e dal freddo mi sdraiai nel manto di pelliccia. <<Allora, uomo dai
molti nomi, non avete freddo?>> gli chiesi <<Desiderate
condividere il mio giaciglio e il calore delle mie coltri?>> Lo straniero sorrise, si
avvicinò, lasciò cadere il cappello e il manto e mi guardò con due occhi
colmi d’amore, di innocenza, ma anche di infantile malizia e di somma
saggezza al tempo stesso. Era completamente nudo sotto il mantello.
Incredibilmente giovane, poco più di un ragazzo, e bellissimo. Un volto roseo
incorniciato di riccioli d’oro, il volto più incantevole che avessi mai
visto. Si chinò su di me e mi baciò le labbra. <<Io accorro sempre
da chi mi evoca con animo sincero!>> sussurrò. Si infilò sotto la pelliccia,
il contatto di quel corpo nudo e caldo, della sua pelle morbida fece
avvampare in me il desiderio, con lo stesso ardore del fuoco, che, poco più
in là, si ravvivò all’improvviso sulle braci e scacciò ogni gelo dalle nostre
membra. <<Sei pronto a
seguire l’amore sin dove ti condurrà?>> mi sussurrò il giovane nudo.
Somigliava a te, mio principe, eppure era così diverso. <<Sì>> risposi
d’istinto stringendolo a me. <<L’amore sarà con
te, ti assisterà e ti darà la forza di affrontare ogni ostacolo. Ma fa
attenzione: l’amore è imprevedibile. Nessun mortale può governarlo davvero! E
potrebbe condurre il tuo cammino a mete del tutto diverse da quelle che ti
aspetti! Sei davvero pronto a seguirlo?>> Ebbi un fremito a quelle
parole, ma ripensai ancora a te, mio Signore, e all'immensa devozione che ti
porto: <<Sono
pronto!>> replicai. Il giovane sorrise e mi
baciò di nuovo le labbra. Il sonno calò sulle mie palpebre. Il mattino dopo mi svegliai
da solo accanto ai resti del fuoco. Il sole era già alto oltre gli alberi,
avevo ancora la testa dolorante e mi sentivo stordito. Mi chiesi se quello
della notte prima non fosse stato un sogno ingenerato dai fumi del vino, ma
poi vidi una piuma di pavone accanto al mio giaciglio. Riconobbi che era
caduta dal cappello dello straniero e trasalii. Era accaduto davvero?
Sembrava assurdo, ma tutto quel viaggio e l’avventura in cui mi ero imbarcato
lo erano. Decisi di seguire le sue istruzioni, tanto ormai non avevo nulla da
perdere. Avventuratomi dietro
l’albero di mirto che era poco più in là, scovai davvero, occultato dagli
arbusti, un sentiero. Alzai gli occhi al cielo ringraziando il misterioso
forestiero e seguii il viottolo. Continuai a procedere sempre diritto. A
giudicare dal muschio sul lato delle cortecce rivolto a nord, mi sembrò di
essere diretto a occidente. Avanzai per due giorni finché la strada non
iniziò a inerpicarsi in salita. Continuai per un altro giorno, nel folto
della boscaglia, sinché gli alberi non si diradarono appena e non mi resi
conto di essere giunto a un valico tra due pareti montane. Le guardai. Due
alture boscose dalla forma rotondeggiante, ciascuna delle quali aveva una
erta roccia isolata a forma di pinnacolo sulla vetta. <<I Monti Mammel!>> trasecolai tra me e me. Il sentiero boscoso passava
nella valle tra le due mammelle. Ero davvero sul sentiero giusto. Ricordai le
parole del bel giovane. Presi la spada, compagna inseparabile di tante battaglie,
dono del mio valoroso padre, pace alla sua anima d’eroe. Rimirai la lama
d’acciaio scintillante, l’elsa riccamente istoriata, non me n’ero mai
separato. Ma poi pensai agli avvertimenti dello straniero e alla gioia che
avrei visto sul tuo volto, mio Signore, se fossi tornato vittorioso. La
infissi ai piedi di un albero e feci rotolare un masso a coprirla, sarei
tornato a prenderla al mio ritorno. Se mai fossi tornato. Levai una preghiera a tutti
gli dèi e le dee che conoscevo e al dio Amore per primo. Poi feci appello a
tutto il coraggio che avevo e, disarmato, attraversai il valico e ridiscesi
nel pendio boscoso. Ero nel territorio dei Popputi. Dopo poco che avanzavo
nella boscaglia, mi resi conto, col sesto senso del guerriero addestrato alla
caccia e alla guerra di imboscata, che qualcuno, da qualche parte, mi stava
seguendo. La paura vibrò nel mio stomaco e mi fece tremare le ginocchia, ma
ho imparato sin troppo bene ad affrontare il pericolo. Mi feci forza e
avanzai. Se mi seguivano avrebbero avuto ciò che volevano. Ero disarmato, ma
ero pur sempre un guerriero, addestrato al corpo a corpo. Poi udii un fischio
nell’aria. Mi gettai a terra appena in tempo per vedere un enorme bastone
andare ad abbattersi su un albero. Mi voltai di scatto e lo vidi. Capelli
neri, barba nera, occhi neri colmi di una ferocia animalesca che mi fece
contrarre i visceri. Un gigante dal corpo smisurato, la cui testa sfiorava i
rami frondosi delle alte querce. Urlò con una voce cavernosa e terribile che
scosse gli alberi come una tempesta e poi si lanciò verso di me come una
furia. Quasi per riflesso condizionato feci una capriola rotolando via sulla
schiena e lasciai che il bestione si abbattesse d'impeto a terra. Si alzò.
Ebbi appena il tempo di squadrarlo. Aveva un fisico colossale e forte,
braccia possenti come tronchi, una pelle animale allacciata su una sola
spalla che lasciava scoperta metà del petto villoso e.... in mezzo alla
peluria nera lo vidi: un grosso capezzolo roseo largo quanto una noce e
leggermente sporgente. Ma non feci in tempo ad accertarmi di averlo visto
davvero che il selvaggio mi fu addosso con un balzo ancor più rapido. Mani
smisurate e forti mi sbatterono addosso ad un albero serrandomi in una
stretta più dura del ferro. Il bestione, come hai potuto vedere, era davvero
enorme e dotato di forza smisurata, ma io indossavo un’armatura, oltre ad
essere ben addestrato ed enormemente più agile. L’energumeno mi afferrò e mi
gettò a terra avvinghiandomi in una stretta sotto il suo peso smisurato. Io
lo agguantai a mia volta cercando di mozzargli il respiro. Avvertii il suo
odore dilatarmi le nari, forte e selvatico ma limpido e non sgradevole.
Rotolammo nel sottobosco nel tentativo di prendere uno il sopravvento
sull’altro. Io sollevai un ginocchio e gli assestai un calcio nel ventre.
Svelto il selvaggio balzò in piedi sottraendosi alla mia stretta. Io rotolai
su me stesso e mi allontanai. Nella lotta gli avevo strappato di dosso parte
della sua veste rudimentale. Ora era ignudo sino alla cintura: aveva davvero
due grosse ciliegie sporgenti sui pettorali villosi e... benché seminascoste
dal pelo due file di altri capezzoli gli discendevano lungo il petto e giù
sul ventre. Con sommo stupore, mi sembrò di poterne contare dieci! Ma mentre
ero rimasto immobile e incredulo, a bocca sbarrata, vidi le file di capezzoli
danzare e marciare nell’alternarsi di luci e ombre e, un attimo dopo, quella
montagna di muscoli pelosi mi fu addosso e mi serrò sollevandomi di peso e
stritolandomi come fossi stato un fuscello. Mi sentii mancare l’aria. Non
sapendo che fare reagii d’istinto afferrando i due capezzoli più grossi,
quelli sulle tette e li torsi a sangue. Sentii all’istante le areole
contrarsi e indurirsi, le punte scattare sull’attenti e dalla bocca della
bestia scoppiò un urlo animalesco e selvaggio. Per un attimo non capii se
urlasse di dolore o di piacere, mentre percepivo qualcosa di duro che si
gonfiava inequivocabilmente sotto la pelle conciata che ancora gli restava
attorcigliata ai fianchi. Come impazzito, continuai a strattonare e a
scuotere l’intero corpo del bestione tenendolo per le punte delle poppe.
Quello continuò a strillare. Infine mollò la presa su di me e io, benché
stravolto e senza più fiato, m'allontanai con un rapido balzo. Ma ecco che all’improvviso,
forse richiamati dall’urlo, altri bestioni balzarono fuori dagli alberi,
altri giganteschi selvaggi barbuti, cinti di pelli, accorsero in aiuto del
compagno. Mi circondarono. Ma io, col mio stupido orgoglio da guerriero, non
mi piegai-. Il principe sembrava
vivamente eccitato dal racconto di tanta prodezza. -Ad uno ad uno mi
attaccarono- continuò il cavaliere -ed uno ad uno li fronteggiai a mani nude.
Mi vennero addosso due alla volta ed io, abbassando rapidamente la testa,
lasciai che si colpissero tra loro. Continuammo così finché il sole non calò
oltre le chiome degli alberi e le ombre del bosco non si infittirono. Infine
caddi a terra esanime. Le bestie mi furono addosso e mi seviziarono-. E il principe,
improvvisamente rattristato, si lasciò cadere sul bordo della vasca. -Giacevo immobile. I loro
occhi feroci si posarono tutti su di me. Mi chiesi se m'avrebbero ammazzato.
Invece uno di loro, dietro di me, mi agguantò trascinandomi in piedi. Poi in
due mi afferrarono l’armatura e me la strapparono. Subito dopo mi
stracciarono la tunica, lasciandomi completamente ignudo. Emisero una serie
di rantoli che ricordavano qualcosa di simile a una risata e confesso che mi
sentii avvampare di vergogna. Sono sempre andato fiero del mio corpo,
temprato dall’esercizio e dalle battaglie, che mai sino ad allora aveva
suscitato scherno ma soltanto ammirazione, nei gentiluomini quanto nelle
dame!- -Hai tutte le ragioni per
esserne orgoglioso!- replicò il principe riempiendosi nuovamente il calice,
mentre squadrava da un lato all'altro della vasca il fisico muscoloso e
abbronzato dell'amico. -Eppure di fronte a quel
consesso di giganti nerboruti e villosi mi sentii come un pupo inerme dalla
pelle diafana e glabra. D’istinto abbassai le mani a proteggere le vergogne.
Ma il selvaggio che era dietro di me mi afferrò i capezzoli, li strizzò, li
torse e disse qualcosa ridendo. Sono abituato a sopportare dolori ben
peggiori, eppure non riuscii a trattenere un grido. Poi mi gettarono di nuovo
a terra. Il selvaggio dai dieci capezzoli
tirò fuori il membro virile di sotto la pelle che gli cingeva i fianchi. Era
sorprendentemente grosso. Gli altri lo imitarono. E all’improvviso capii
quale sorte mi attendeva. Le mani dei selvaggi mi furono addosso e mi
immobilizzarono. Iniziai a divincolarmi e a scalciare, avrei voluto alzarmi
in piedi e battermi ancora, ma ero nudo, malconcio e le mani forti dei
popputi non mi lasciavano possibilità di ribellione. Mi rivoltarono prono e
poi il primo di loro mi disonorò. Se solo avessi avuto la forza di
difendermi...- il cavaliere si interruppe, pallido come la morte. -Lo capisco, amico mio, non
avevi scelta! Sono commosso al pensiero che la tua devozione per me sia
giunta sino a tanto!- lo rassicurò il principe. -Potete immaginare cosa
accadde dopo...- -Sì! Ma raccontamelo!
Voglio sapere...- chiese il suo signore. La storia stava prendendo una piega
inaspettata ma, a quanto pareva, cominciava ad eccitarlo di nuovo. -Fu un colpo secco e
profondo- riprese inespressivo il cavaliere -e il dolore fu superiore alla
vergogna. Ripensai agli stupri dei prigionieri sotto le tende dell’esercito e
capii che stavolta toccava a me. Alzando la testa, vidi gli altri popputi che
si tenevano il cazzo in mano e ci giocavano in attesa del proprio turno. Uno
ridendo me lo sbatté in faccia, gli altri lo imitarono. Volsi la testa
disgustato da quei membri selvatici e sconvolto dal dolore al retto. Non
riuscii più a trattenermi e urlai. Loro risero. Alzando lo sguardo vidi il
volto feroce e selvaggio del mio primo aggressore. La crudeltà animalesca sul
suo viso, il fuoco della furia nei suoi occhi. Torreggiava sopra di me, dal
basso vedevo le punte rosee di tutti i dieci capezzoli eretti sporgere dal
petto e dall’addome e, sotto, il grosso membro che svettava mentre se lo menava
in mano. Pensai disperato al dolore che quell’enorme protuberanza mi avrebbe
inferto. Infine sentii il selvaggio dietro di me rantolare con violenza
urlando e scaricarmi su per le viscere. Poi mi girarono supino. Un altro mi
sollevò le gambe e prese il posto del primo. Urlai di nuovo per il dolore.
Uno di loro mi schiaffeggiò con violenza la faccia. Aprii la bocca per urlare
più forte e quello si prese il membro e me lo ficcò in bocca a forza.
Rischiava di soffocarmi, ma incurante iniziò a violentarmi la bocca a colpi
di bacino. Accanto a lui c’era quello coi dieci capezzoli, a torso nudo.
L’altro selvaggio gli prese in mano un capezzolone
eretto e prese a titillarlo, poi si chinò sul suo petto e lo succhiò. Quello
sembrò gradire, gli prese la testa e se la strinse al petto mentre continuava
con l’altra mano a menarsi l’uccello. Un altro alla sua sinistra imitò e
prese a succhiargli un altra mammella più in basso, sul ventre. Frattanto
quello dai dieci capezzoli strappò la veste di pelle dal petto del suo vicino
gli accarezzò una poppa dal capezzolo eretto e prese a tormentarglielo tra
due dita. Li guardai sconvolto e inquietato e vidi che anche gli altri, sopra
di me, si univano al gioco. Si denudarono completamente e iniziarono a
toccarsi e suggersi le tette gli uni gli altri mentre continuavano a
sollazzarsi i membri nelle mie viscere, nella mia bocca e su tutto il mio
corpo. All’improvviso quello che mi stava sodomizzando iniziò a emettere un
rozzo gemito. Altri due gli stavano succhiando le sise,
uno a destra, l’altro a sinistra, e mi parve che improvvisamente
accelerassero il ritmo della poppata mentre quello con foga isterica
continuava a gemere e se li stringeva ai seni. Infine mi sborrò nel culo con
violenza. Gli altri due si staccarono dal suo petto. Alla luce che filtrava
tra gli alberi sembrava che sia sul petto dell'uno, sia sulle barbe degli
altri due luccicasse una strana patina bianca. Quello che mi stava penetrando
uscì, ma un altro prese il suo posto rinnovando la mia agonia. Frattanto mi resi
conto che dal petto di un altro stava iniziando a stillare uno strano
nettare. Un suo compagno lo succhiava dal seno sinistro, ma gli altri
capezzoli schizzavano liberamente un liquido bianco come se stessero
eiaculando. E poi anche quello ritto sulla mia testa ebbe la stessa reazione
e tutti i suoi dieci capezzoloni iniziarono a far
zampillare latte come fontane. Ben tre compagni si chinarono a succhiare
avidamente tutte le sue tette ma alcune gocce si riversarono sulla mia povera
faccia. Contrassi il viso cercando di scansarmi, ma ero immobilizzato e
sentii alcune gocce, liquide e calde scivolarmi sin sulle labbra. D’istinto
le inghiottii. Rimasi incredulo. Mi sarei
aspettato che avessero un sapore selvatico e disgustoso come quei selvaggi,
invece avevano un gusto dolce e intenso allo stesso tempo. Più dolci del
miele e più inebrianti del vino. E d’improvviso, come uscito dal mio corpo,
guardai interdetto la scena. Alla pallida luce del calar
della sera, in mezzo a una tribù di uomini nudi, ebbi un ricordo di banchetti
notturni, alla luce azzurra delle lampade all’oppio, nelle sale segrete di
questo Castello delle Delizie-. Ammiccò con la testa al suo
principe. -Eppure quelli che mi
circondavano erano bruti pelosi e disgustosi, più simili a bestie che a
uomini. Quello dai dieci capezzoli mi fissava. I suoi lineamenti non
sarebbero stati brutti se non fossero stati deformati da quel ghigno animale.
C’era forza nel suo viso, come nelle sue membra possenti. Il fuoco nei suoi
occhi mi turbava, eppure non riuscivo a smettere di fissarlo. Mi chiesi
ancora se mi avrebbe fatto male quando fosse toccato a lui. E, che gli dèi mi
perdonino, mi chiesi se quel latte avrebbe avuto lo stesso sapore succhiato
direttamente da quelle fragole succose. Lui mi appoggiò con forza il membro
sulle labbra, ne sentii il gusto acre e selvatico come una scossa nelle
viscere e quasi per riflesso condizionato non potei fare a meno di
infilarmene in bocca quanto più me ne entrava e di succhiare voracemente
giocando con labbra e lingua nel disperato tentativo di ingoiarlo tutto. Un
altro selvaggio mi penetrò e iniziò a cavalcarmi con rapidi colpi di reni, ma
il fondo del dolore era quasi piacevole e io assecondai la cavalcata danzando
con il bacino. Rividi il volto del giovane biondo che avevo incontrato nel
bosco. “L’amore sarà con te, ti
assisterà e ti darà la forza di affrontare ogni ostacolo!”. Per un attimo un’amara
nostalgia mi invase il petto e poi –che io sia dannato!- ci fu solo una
scarica di cieco e brutale desiderio. Mi vergogno a raccontarlo, ma iniziai a
succhiare e farmi sodomizzare con foga, eccitato come mai prima dallo
spettacolo dei bruti che si succhiavano le poppe sopra di me, abbeverandosi
l’uno del latte dell’altro. Pervaso da una foia animalesca e isterica, afferrai
quanti più piselli potevo e mi alternai a masturbarli tutti. Riuscii a
infilarmene in bocca due e a lavorarli con la lingua sotto i loro occhi
esterrefatti, mentre segavo a turno gli altri e lasciavo che uno ad uno
regalassero piacere alle profondità dei miei visceri per poi inondarne di
lava bollente il segreto. Sborrarono tutti. Di alcuni degustai il seme caldo
e dal sapore selvaggio, lasciai che quello di altri impregnasse il mio corpo
e che altri ancora si liberassero dentro di me. Infine fu quello dai dieci
capezzoli a incularmi supino. Aveva mostrato una sorprendente resistenza. Le
sue mammelle continuavano a stillare di latte. E, con mia somma vergogna...
bastarono pochi colpi perché fossi io a sentire il piacere riecheggiare nelle
mie viscere e raggiungere la punta del mio cazzo che eiaculò con serrati
colpi liberatori. Con un moto istintivo e isterico gli afferrai i due
capezzoli più grossi, sui pettorali, e li strattonai. Il bruto sussultò,
subito dopo mi schiaffeggiò in faccia. Evidentemente non gradiva che fossi io
a toccargli le tette, ma immediatamente iniziò a prorompere in grida selvagge
e lo sentii eruttare a fiotti nel mio retto-. Mentre narrava, il bel viso
del cavaliere s'era fatto rosso, per l'imbarazzo forse, sebbene dal fervore
con cui riportava i dettagli si sarebbe detto che a quei ricordi una foga
tutt'altro che spiacevole ancora lo pervadesse. -Quando uscì da me, mi
sentii improvvisamente esausto, svuotato e squarciato dal dolore. Ripensai a
ciò che avevo fatto, guardai i selvaggi ignudi che mi fissavano con aria di
scherno e d’un tratto mi sentii annichilire per la vergogna. Chiusi gli occhi, ma sentii
uno di loro che si avvicinava. Era quello dai dieci capezzoli, lo riconobbi
dall’afrore della sua carne, muschiato e intenso. Mi sollevò e mi caricò in
spalla come un peso morto. Non avevo più la forza di reagire. Mezzi nudi come
erano, i bruti si incamminarono nel bosco assieme alla loro preda e io mi
lasciai trasportare, in bilico tra la vita e la morte. La testa mi pulsava
con violenza, le mie membra erano duramente provate dalla battaglia e da
quanto era seguito. Persino l’immagine del tuo viso, mio Signore, s’andava
via via sfocando nella tenebra che mi calava sulle palpebre. Sentivo solo la forza
brutale di quel corpaccione che mi stringeva e
l’odore selvatico dell’uomo e del bosco che parevano una cosa sola. Non mi
resi ben conto della strada che avevamo seguito. Il sole era calato e a un
tratto avvertii la luce di un grande fuoco che illuminava la strada. Udii
altre voci che si levavano unendosi a quelle dei miei assalitori.
Somigliavano a voci umane ma il tono, come i suoni che articolavano,
ricordavano più i ruggiti di fiere selvagge. Fui gettato a terra. Alzai la
testa e mi resi conto di essere giunto a destinazione. Gli alberi si diradavano.
Eravamo in una radura a cielo aperto adesso, nell'ora del crepuscolo. C'era
un grande falò e attorno centinaia di selvaggi simili a quelli che mi avevano
catturato. Alcuni se ne stavano in piedi, altri assisi su tronchi di legno.
Avevano tutti corpi robusti e muscolosi, più o meno villosi, capelli e barbe
più o meno lunghi. Indossavano rozze pelli di animali non conciate. Alcuni
erano a torso nudo, altri avevano la veste allacciata su una spalla sola, che
lasciava scoperta metà del torace. E non potei fare a meno di notare che sul
petto avevano tutti grosse paia di capezzoli. Alcuni ne avevano solo due più
o meno al centro dei monumentali pettorali, altri ne ostentavano altre coppie
più basse lungo il torace e l’addome, si arrivavano a contarne quattro, sei o
otto, ma nessuno ne aveva tanti quanti quello che mi aveva catturato e...
fatto godere. Al pensiero avvampai di nuovo e desiderai discendere
sottoterra. Alcuni uomini stringevano al petto dei bimbi piccoli o li
tenevano appesi al collo in guaine di pelle, li tenevano in braccio e li
cullavano con affetto quasi materno. Notai che non c’era neppure una donna. Frattanto alcuni di quelli
che mi avevano catturato nel bosco mi afferrarono per i capelli e, strattonandomi
brutalmente, mi trascinarono attraverso la radura, oltre il falò, verso un
alto scranno di tronchi d’albero su cui sedeva un selvaggio imponente. Si
gingillava spaparanzato in una postura rilassata, ma il suo volto aveva
un’aria feroce e severa. Immaginai si trattasse del capo della tribù. Aveva
la barba e lunghe c Uno dei miei aguzzini,
dietro di me, mi afferrò trascinandomi in piedi, rantolò qualche suono
cavernoso. Poi mi afferrò i capezzoli da dietro e li pizzicò di nuovo
strattonandoli con forza brutale. Scoppiò in uno scroscio di ansiti che
pareva simile a una risata e l’intera tribù lo imitò. Io mi sentii avvampare
di vergogna. Poi mi gettarono di nuovo a terra. Il capo con voce profonda e
stentorea rispose qualcosa. Poi mi guardò e mi rivolse la parola. Ovviamente
non capii nulla. Il capo, irritato, ripeté a voce più alta, ma io non
comprendevo il senso di quella sequenza di grugniti e avevo la testa talmente
in fiamme che difficilmente avrei compreso anche la mia lingua. I selvaggi
parvero infuriarsi. Con un improvviso impeto di
coraggio venutomi non so da dove, mi alzai in piedi, nudo e malconcio
com’ero, reggendomi a fatica sulle ginocchia, e cercai di parlare all’uomo
sul trono: <<Salve, tu sei il
capo della tribù? Io vengo in pace. C’è qualcuno che parla la mia
lingua?>> Sentii un accavallarsi di
voci dietro di me che si alternavano nel loro strano idioma gutturale. Ma
istantaneamente uno dei miei aguzzini dietro di me mi afferrò per i capelli e
mi scosse, forse irritato dal mio intervento. Frattanto un altro selvaggio si
avvicinò al trono del capo. Sembrava un uomo di mezza età, non troppo alto,
aveva barba corta, capelli rasati corti e solo due capezzoli sui grandi seni
villosi e nudi. Fuori di là lo si sarebbe scambiato per un uomo normale,
benché piuttosto peloso e dal petto un po’ prominente. Disse qualcosa al
capotribù. Quello replicò nella loro stessa lingua confusa. Poi l’uomo ai
piedi del trono mi apostrofò: <<Uomo dai seni
piccoli, perché tu, estraneo, in nostra terra?>> <<Io... >> mi
arrangiai confuso vedendo una fiera ostilità sul suo come su tutti gli altri
volti <<.. vengo in pace! Desidero conoscere la vostra tribù in
amicizia. Credo che avremmo molto da imparare gli uni dagli altri!>>
mentre mi guardavo attorno sentii l'uomo che ripeteva qualcosa agli altri,
traducendo in quella loro strana lingua. Vidi il colosso dai dieci capezzoli
dietro di me e vidi un guizzo di curiosità nel suo sguardo, i suoi occhi si
abbassarono su di me e improvvisamente ebbi un fremito ricordandomi di essere
nudo. Con uno sforzo cercai di rivolgergli un’espressione amichevole,
chiedendomi cosa davvero quella bestia sarebbe stata curiosa di imparare da
me. Il capo replicò qualcosa
con viso ostile. Il selvaggio che parlava la nostra lingua si rivolse a me: <<Questa, terra di
Figli di Zizzon da secoli!>> sentenziò
indicando orgoglioso il proprio capo <<No stranieri qui!>>
concluse. <<Vengo in
amicizia!>> replicai <<Menzogna!>>
mi zittì brutalmente l'interprete. Il capo sentenziò a voce
grossa qualcos’altro. <<Oracolo avvertito
noi!>> ripeté compito il selvaggio ai suoi piedi <<Uomo dai seni
piccoli venire da dove nascere Sole, armato di grande spada infilzare più e
più volte ultimo capo figlio di Zizzon e... estinguere
seme di sua stirpe! E tribù senza capo!>> Io li guardai attonito e
perplesso, un brivido mi corse lungo la schiena. <<No stranieri! E no
loro armi in nostra terra!>> <<Non ho
armi!>> sentenziai, sollevando le mani e lasciando momentaneamente scoperte
le pudenda <<Vengo in pace, disarmato! Avevo solo i miei vestiti ma mi
avete tolto anche quelli!>> accennai alla mia imbarazzante nudità. L'interprete ripeté
qualcosa al capo. Dietro di me un altro selvaggio, innervosito, brontolò a
voce grossa. <<Arma!>>
replicò l’interprete con un cenno. Mi voltai e vidi uno di quelli che mi
trattenevano brandire in mano la mia arpa d’oro. <<No! Non è
un’arma!>> replicai di getto <<Quella crea musica!>>. Feci
un cenno per mostrare come le mani avrebbero dovuto flettersi sulle corde.
Poi d’istinto mi alzai e feci per prendere lo strumento dalle mani di
quell'aguzzino. Ma quello reagì infuriato colpendomi in faccia e
scaraventandomi a terra. Provò a sfiorare le corde, ma le sue rozze dita non
cavarono alcun suono. Rantolò qualche cosa. <<No musica!>>
fece l’interprete perplesso <<Posso mostrarvi
come si fa...>> proposi preoccupato. L’interprete mi guardò
storto e tradusse qualcosa con disapprovazione. Un coro generale di protesta
si sollevò. <<Tu ingannare noi!>> sentenziò l’interprete. Il
giovane popputo con dieci capezzoli disse qualcosa, strappò lo strumento
dalle mani del compagno e toccò le corde con appena un tocco di delicatezza
in più. Effettivamente ne uscì qualche suono. Tutti ammutolirono. Era strano
vedere quell’essere dal volto tanto rude e crudele suonare uno strumento a
corde. Ma poi il selvaggio si confuse, le dita scivolarono e fissò lo
strumento perplesso. Disse qualcosa. Gli altri selvaggi scoppiarono a ridere.
Poi lui afferrò l’arpa con sguardo feroce e la sbatté con veemenza su una
pietra. Le corde si spezzarono, il fragile strumento si piegò. <<Nooooo!>>
strillai disperato. Ma un selvaggio mi colpì con violenza in testa. Gli altri
dettero segni di approvazione soddisfatti. Il capo levò la testa, richiamò
l’attenzione con un grido gutturale e tutti zittirono e si volsero verso di
lui. Quello sentenziò qualcosa. Gli altri chinarono il capo. L’interprete
alzò la testa e mi guardò, nudo e malconcio a terra. <<Uomo dai seni
piccoli>> sentenziò <<tua gente no pace. Io in vostra terra, voi
crudeli! Pestare e incatenare me! Gente crudele. Ora... tu morire!>>
sentenziò. Cercai di replicare
qualcosa in segno di comprensione, ma all’improvviso uno di quelli che mi
avevano catturato si fece avanti e sollevando i pugni al cielo urlò qualcosa.
Il capo rispose nella loro strana lingua. Poi un altro dei compagni di caccia
avanzò e urlò qualcos’altro che sembrò irritare il primo. Quello rispose con
un grido ancor più forte, i due sembravano disputare tra loro, emettendo
ruggiti sempre più veementi, mentre gli altri si facevano da parte e
restavano a guardare la scena. Ne sembravano quasi eccitati. I due bestioni
presero a battersi selvaggiamente dando uno spettacolo animalesco,
terrificante a vedersi e conturbante al tempo stesso. Io rimasi a terra,
improvvisamente dimenticato da tutti. L’interprete mi guardò e sogghignò: <<Fortunato! No
morire. Loro catturato te, ora appartenere! Loro combattere!>>
sentenziò divertito. Lo guardai intontito senza capire. <<...Per
te!>> soggiunse. Ebbi un improvvisa fitta di terrore allo stomaco. Mi
voltai a guardare la tribù che cominciava ad acclamare infervorata,
arringando il combattimento. Al pensiero di ciò che mi aspettava mi sentii
morire, ma sono un combattente e non mi arrendo mai. Ero arrivato dove volevo
e sapevo cosa dovevo fare. E poi vidi dietro di me il popputo dai dieci
capezzoli, quello che rassomigliava al capo, che guardava la scena in
silenzio, con aria quasi perplessa. Quando mi vide voltarmi abbassò gli occhi
su di me. Lessi una strana curiosità su quel viso che mi scrutava spietato e
imperioso e avvertii un improvviso guizzo selvaggio nel petto. Lo fissai, era
ancora a torso nudo. Le mie labbra si mossero appena in un sorrisetto mentre
il mio sguardo discendeva a contemplare la duplice schiera di capezzoloni eretti e vogliosi in mezzo al pelo. Mi posai
sul ragguardevole rigonfiamento nascosto sotto la pelle d'orso che gli
cingeva i fianchi. Poi risollevai lo sguardo, fissandolo sfrontato negli
occhi e ripercorsi con il ricordo il piacere selvaggio che inaspettatamente
ci eravamo regalati l’un l’altro. D’un tratto il selvaggio
emise un grido più stentoreo e profondo di tutti gli altri e avanzò al centro
della radura, in quella che era divenuta la loro arena. Gli altri, pur
sembrando intimoriti, lo affrontarono e iniziò uno scontro senza quartiere. I
corpaccioni sudati e seminudi si afferravano, i
grossi muscoli bronzei si contraevano, i petti possenti si fronteggiavano
tanto vicini che il vello nero dell’uno si confondeva con quello dell’altro,
le gole profonde risuonavano di urla cavernose e selvagge. Uno cadde stremato
arrendendosi. Gli altri due continuarono a battersi senza posa. Guardai il
viso di quello dai dieci capezzoli, paonazzo e contratto dalla strenua furia
della lotta. Non così dissimile da come lo avevo visto poco prima, nella foia
del godimento. Mi sentii di nuovo annichilire a quel ricordo. Qualcosa di
strano e inusitato contrasse le mie viscere, fissai quel viso e dentro di me
seppi che avrebbe vinto. Era un pensiero terrificante: essere alla mercé di
quell’animale, carne da macello nelle sue mani. Sfinito, vidi il baratro che
mi attendeva e mi arresi, non potendo far altro che annegare in quella
tenebra senza uscita. La stessa tenebra che regnava in quegli occhi neri e
colmi di furia mentre afferrava l’avversario e lo scaraventava a terra con
rabbia animalesca, mentre esultava guardando il vecchio capo che gli
sorrideva orgoglioso, mentre avanzava verso di me, la sua umile preda, mi
sollevava di peso e mi portava via, all’interno di una caverna buia. Mi
sbatteva prono su una pelle malconcia distesa sulla roccia e, senza attendere
ancora, mi afferrava per i fianchi e mi inculava a colpo secco, ancora e
ancora e ancora. Stavolta non fu piacevole. Sopraffatto dallo sfinimento e
dalla sofferenza, desiderai solo morire. Ma sopportai il dolore con la
strenua disciplina di un soldato e lasciai che sfogasse al meglio tutto il
desiderio che aveva in corpo. Infine si liberò rantolando e, ormai svuotato,
si abbandonò sopra di me a peso morto e prese placidamente a ronfare. Io restai immobile,
esanime, ormai incapace di dire o fare alcunché, mentre un vortice di
sensazioni violente e contrastanti mi fluttuava nello stomaco. Ero arrivato
dove desideravo. Ma probabilmente quella ricerca mi aveva condotto in una
trappola senza uscita, in un baratro senza fondo, mentre, incapace di
pensare, mi sentivo oppresso da quel corpo mastodontico che mi schiacciava.
Infine la stanchezza ebbe la meglio su ogni altro pensiero e mi addormentai. Sognai di te, mio Signore,
la ragione per cui ero finito là, ai confini del mondo e della natura umana.
Nel sogno continuavo a giurarti che sarei riuscito a portare a termine la mia
impresa e che ti avrei consegnato ciò che desideravi. Ma poi mi resi conto
che non eri tu quello con cui parlavo. Era il misterioso giovane biondo che
avevo incontrato nel bosco. “L’amore sarà con te” mi ripeteva lui “Ti
assisterà e ti darà la forza di affrontare ogni ostacolo!”. E sentii un
fremito galvanizzante che mi colmava le membra. Quando mi svegliai ebbi la
sensazione che fosse già mattino. Una luce sottile rischiarava l’ombra della
caverna, la luce dell’alba che filtrava da una fessura nella roccia. I primi
raggi del sole disegnavano i contorni dell’enorme corpo muscoloso che giaceva
scomposto e nudo accanto a me, indoravano la superficie della prateria che ne
ammantava il petto come muschio nel seno della solida roccia e danzavano tra
le ombre delle sue chiome fluenti. Ora che dormiva placidamente il suo volto
non appariva più crudele, i suoi tratti alla luce dell’aurora erano regolari
e quasi nobili e la sua espressione placida era quella di un bambino
addormentato sul viso di un uomo barbuto e fiero. Per un attimo mi fece quasi
tenerezza. Il contatto dell’enorme mole del suo corpo mi turbava ancora
mentre giaceva disteso, in parte sopra di me. Sentivo il suo calore, la forza
bestiale, la carezza del vello virile e in mezzo a quello percepii delle sottili
protuberanze che mi solleticavano e mi resi conto che erano capezzoli eretti.
Un fremito improvviso e involontario mi fece battere il cuore e scese a
infiammarmi il ventre. Come travolto da un moto incontrollato allungai la
mano a sfiorarlo e sentii quelle tenere protuberanze coriacee che mi
solleticavano il palmo, salii, toccai le due montagne morbide, sode e villose
che si alzavano e abbassavano nel respiro regolare del sonno e si gonfiavano,
leggermente pendule mentre era sdraiato sul fianco. Cercai di assaporare il
contatto dei due capezzoli più grossi ritti come due piccoli spunzoni di
roccia che parevano supplicare di essere afferrati e assaggiati. Il bestione
fece un improvviso grugnito e mi strinse a sé e sentii un’altra enorme
protuberanza dura contro il basso ventre. A quanto pare anche quelle bestie
godono dell’erezione mattutina. Mi accorsi di averlo anch'io completamente
eretto. Il selvaggio grugnì di nuovo e aprì un occhio, in un attimo si
rivoltò spingendomi supino e rotolando sopra di me. Restai immobile, colto da
una voragine di emozioni contrastanti. Mi si accostò a una guancia e la
leccò, sussurrò qualcosa che non capii. Poi discese con la mano a stringermi
il membro e io sussultai, quello rise e infilò l’altra mano sotto di me a serrarmi
una natica. La sensazione di quella montagna di muscoli pelosi che si muoveva
sopra di me schiacciandomi con tutto il suo peso mi confondeva, sentii tutti
quei capezzoli eretti e duri contro il mio petto e il mio ventre, quei peli
che mi accarezzavano, i pettorali che danzavano morbidi appoggiandosi su di
me. Con un balzo istintivo afferrai quelle sise
ballonzolanti e le strinsi tra le mani come due frutti succosi. Non avevo mai
visto, o palpato, un uomo con sizze simili. Il
selvaggio alzò il busto di scatto. Ora mi ondeggiavano dinanzi alla faccia
con quei capezzoloni eretti che parevano
ammiccarmi. Li afferrai e li titillai. Lui grugnì. Feci istintivamente per
sporgere la bocca verso uno di essi, ma il selvaggio mi schiaffeggiò in pieno
viso, si staccò le mie mani dal petto e mi colpì ancora, ruttando una serie
di improperi che ovviamente non capii. Evidentemente non gradiva essere
toccato là, o meglio non gradiva che io
gliele toccassi. Quindi, afferratomi per i fianchi, mi rivoltò prono e con un
colpo secco mi infilò tutto il membro eretto su per il culo. Guaii per il
folle dolore, il selvaggio per tutta risposta mi schiaffeggiò le natiche.
Quindi ricominciò a scoparmi con spinte secche di bacino abbattendosi a peso
morto su di me. Sentivo i suoi colpi come lacerazioni nelle interiora, mentre
quel petto villoso mi grattava la schiena e quelle dieci protuberanze erette
la solleticavano. Dopo che si fu sollazzato un po’ dentro di me, emise un
grugnito e si lasciò andare riempiendomi le viscere. Mi sentii svuotato. Il
gigante senza scomporsi uscì da me, ruggì qualcosa, quindi, lasciandomi
esanime sul pavimento, afferrò una pelle d'orso stesa a terra, se la cinse
addosso, ancora sporco di seme com'era, e si diresse all’uscita della
caverna. Spostò il mastodontico macigno che la occludeva, uscì e fece rirotolare la pietra al suo posto, rinchiudendomi in
quell’ombra senza uscita. Restai interdetto, ma capii
che avrei dovuto pazientare. La stessa storia si ripeté per svariate notti. A
sera il bestione tornava, si prendeva tutto il suo piacere e poi si
addormentava su di me esausto. Al mattino si svegliava di nuovo voglioso e mi
sodomizzava sino a mandarmi a fuoco il retto per poi lasciarmi esanime nella
grotta e andarsene. La tortura non finiva mai, ogni giorno attendevo
nell’oscurità, fremendo ogni volta che mi pareva di sentir quei passi
ritornare. Sinché una sera non capii
che era giunto il momento di essere uomo e rischiare il tutto per tutto.
Resistendo ai tentativi del selvaggio di gettarmi prono sul giaciglio e
ricominciare la solita routine, restai fermo e ben piantato in ginocchio, gli
presi il membro in mano, lo strinsi voglioso e me lo portai alle labbra. Il
selvaggio emise un grugnito, ma, come incapace di ribellarsi, mi fissò e
all’improvviso vidi guizzare nei suoi occhi una curiosità differente. Ingoiai
quel pezzo di carne caldo e pulsante in un sol boccone. Ripensai a tutto ciò
che avevo imparato tra i soldati, agli anni passati nell’esercito, e poi al
tuo servizio, mio Signore. Lasciai che il bestione si eccitasse, solo per poi
rigettarlo fuori e farlo brancolare in preda al desiderio. Percorsi tutto il
pisellone con labbra e lingua accendendone il desiderio, lavorai lo scroto e
tornai di nuovo sull’asta, mi dedicai a tutto con la massima perizia di cui
sia capace. Il selvaggio era in brodo di giuggiole. Aveva il viso arrossato,
i capezzoloni eretti verso il cielo, a un tratto
prese a toccarseli e io improvvisamente mi eccitai. Lui mi guardò con un
sorriso. Discese con le mani sui miei
piccoli capezzoli e li strinse tra le dita. Sarà stata la perizia con cui
imparavano a farlo tra loro nella tribù, ma giuro che sentii una vibrazione
di piacere mai provata invadermi il petto e un violento fremito contrarmi il
ventre. Mi sentii vulnerabile e in sua balia e la cosa inaspettatamente mi
eccitò. Sollevai gli occhi a fissarlo, accentuando il lavoro di labbra e
lingua con tutta la passione di cui ero capace. Infine lo sentii perdere il
controllo e godere nella mia bocca. Per un attimo mi sovvenne il ricordo del
delizioso nettare che era schizzato dai suoi capezzoli, trattenni
quell'immagine e mi sforzai di accogliere ogni ondata del suo piacere ardente
e saporito. Quando ebbi finito, il bestione mi accarezzò le chiome, si stese
accanto a me e mi sorrise. C’era qualcosa di diverso nel suo sguardo,
qualcosa di invisibile, oltre a ciò che era fin troppo visibile, e gustabile,
era fluttuato tra noi. Così ci addormentammo entrambi. Da quel giorno qualcosa
cambiò. Il selvaggio era diverso, iniziò a sorridermi in modo diverso, a
guardarmi, a toccarmi, a scoparmi in modo diverso. Dal canto mio iniziai a
prodigarmi in tutte le numerose arti amatorie che conoscevo per sollazzare le
sue voglie e il bestione ne parve sempre più compiaciuto. Da aguzzino e prigioniero
che eravamo, sembrava che lui fosse divenuto l’allievo e io il maestro.
Dapprima bastarono i gesti per insegnargli le arti del piacere, ma poi, nel
corso degli amplessi, il popputo iniziò a sbraitare, poi a sussurrare sempre
più di frequente fiumi di parole nella sua lingua. E a forza di condividere
la sua compagnia iniziai a comprendere alcune espressioni di quell’idioma
primitivo. Lo iniziai ai piaceri delle posizioni più svariate, a godere come
bestie ma anche come uomini, guardandoci negli occhi. Gli piaceva molto
penetrarmi tenendomi supino a gambe all’aria, lasciandomi sentire i capezzoli
eretti sotto le cosce. E mentre lo fissavo, negli attimi di estasi, vedevo
nel suo sguardo la furia selvaggia spegnersi, lasciando il posto alla tenera
innocenza di un giovanetto felice, travolto dai piaceri dell’amore in cui si
avventura per la prima volta. Dopo il godimento mi attirava a sé, diceva di
voler che restassi a scaldargli il giaciglio, ma prima di addormentarsi mi
parlava, e sembrava felice quando vedeva che lo comprendevo. <<Dove imparato
uomini dai seni piccoli scopare così?>> parve domandare un giorno nella
sua lingua. Per la prima volta dopo mesi scoppiai a ridere. <<Attività più antica
e naturale del mondo!>> cercai di rispondere colle parole che avevo
appreso <<Ma.... vero... noi imparato migliorare nei secoli. In
Oriente... terre lontane, lontane... dove nasce Sole... uomini saggi scritto
libri. E da noi persone fare questo per mestiere... >> <<Mestiere?>> <<Come per voi...
capo, cacciatore o raccoglitore di frutta... questo è “mestiere”...>> <<E da voi...
scopare, mestiere? ...tu scopatore
per mestiere?>>. Mi venne di nuovo da ridere. <<No! Io no! Ma
uomini... e persone...-non conoscevo la parola che in quella lingua
definiva le donne- ..di mestiere insegnatomi bene.>> <<E da voi tutti
bravi come te?>> <<Io davvero esperto!
Ma anche altri molto molto bravi!>>. Anche il bestione scoppiò a
ridere. In seguito il selvaggio si
decise a lasciarmi uscire e a permettermi di accompagnarlo a cacciare nel
bosco. I bruti uccidevano gli animali a mani nude o talvolta usavano fionde e
bastoni. All’inizio mi faceva uno strano effetto indossare quelle rozze pelli
animali non conciate e girare nel bosco mezzo nudo, ma presto iniziai a farci
l'abitudine e persino ad apprezzare la sensazione che si prova a mimetizzarsi
nella natura selvaggia, sentendosi quasi parte integrante con essa. Quegli
uomini vivevano liberi, senza remore e senza pensieri. Convinsi il mio padrone a
lasciarsi insegnare come sgrossare e acuire la punta del suo bastone da
caccia con una lama di pietra per farne una lancia e come scagliarla per
colpire la preda a distanza. E in seguito a fabbricare una corda dai peli
degli animali e a piegare un ramo di legno per ricavarne un arco. Mi accorsi,
così, di essermi guadagnato non solo il suo rispetto, ma anche quello degli
altri cacciatori cui talvolta ci accompagnavamo. Alcuni di loro mi
guardavano con palese curiosità. Fissavano i capelli fini e serici, il volto
dai tratti armoniosi tipici della nostra razza, il mio fisico longilineo e
glabro, che di certo era una vista insolita per un popolo come il loro, che
per di più non conosceva le donne. Una volta, mentre, dopo la caccia, mi
stavo denudando per lavarmi in una sorgente, un popputo mi si avvicinò
sorridendo e allungò una mano a sfiorarmi il petto. Palpeggiò incuriosito il
torace glabro, poi mi afferrò un capezzolo e lo strinse sorridendo. <<Seni
piccoli!>> sembrò dire nella sua lingua con un sorriso. Non posso dire
che il suo tocco mi infastidisse, ma improvvisamente giunse il mio popputo,
che lo aggredì brutalmente e lo scacciò gridandogli che l’uomo dai seni
piccoli era soltanto suo. Tutti gli altri sembrarono intimoriti dalla sua
autorità e non osarono contraddirlo. Da allora nessun altro osò più toccarmi,
benché non smettessero di fissarmi. A volte, nel mezzo del
bosco, accanto al fuoco, dopo le lunghe cacce, il mio padrone mi conduceva
tra i cespugli e là, da soli nel segreto della foresta, voleva che gli
insegnassi qualcosa di nuovo per poi restare a dormire assieme, liberi in
mezzo all’erba. Un giorno catturai una
tartaruga e chiesi al mio Padrone il permesso di costruirvi uno strumento per
creare musica, come quello che lui mi aveva distrutto. Parve perplesso ma non
era in grado di dire di no ad alcuna richiesta che il suo schiavo gli
rivolgesse mentre gli teneva il pisello in mano, e con un cenno della testa
assentì. Intrecciai delle corde sottilissime con crini di cervo e le ancorai
al bordo del guscio, le tesi sinché non ottenni il suono che desideravo e,
quando lo strumento fu pronto, chiesi al Popputo se voleva che lo suonassi
per lui. Eravamo soli, sdraiati in
una radura dopo la serotina lezione d'arte erotica, gli alberi si diradavano
sopra di noi lasciando libero il cielo, la luna scintillava sui muscoli
sudati. Incuriosito il bruto assentì. Mi alzai a sedere e iniziai a pizzicare
le corde e a intonare un canto dolce che mi sgorgava spontaneamente dalle
labbra. Quelle note pervasero il silenzio della foresta e ripensai all’ultima
volta che avevo suonato qui in patria, per te, mio Signore, alla tristezza
riflessa nei tuoi occhi, alla gioia che li aveva rischiarati alla mia
promessa, pensai al tempo trascorso lontano, agli immensi spazi che ci
separavano, mentre la mia voce si spegneva sulle ultime strofe e i miei occhi
si perdevano nella dolcezza di quelli dell’uomo che li fissava. <<Perché
piangere?>> mi chiese lui con voce innocente. Mi accorsi delle lacrime
che mi rigavano le guance, vidi il bruto sdraiato accanto a me sotto la luna,
la luce argentea riflessa sul membro ancora luccicante di seme, sulla peluria
del petto, sulle spalle possenti e negli occhi, in cui uno sguardo profondo e
umano sembrava aver preso il posto di quello della bestia. <<Niente. Questa
canzone ricordare qualcuno che non vedere più da tanto tempo>.> <<Qualcuno bravo a...
scopare?>> chiese il selvaggio serio. Mi chiesi se nella loro lingua
non ci fosse un termine più appropriato. Risi. <<Sì!>> risposi
<<Anche in quello!>> <<Non piangere! Tua
musica.... bellissima!>> replicò. Lo ringraziai. <<Suonare
ancora?>> <<Sì, certo!>>
risposi e obbedii a quella che in realtà era stata solo una cortese
richiesta. Aveva ragione: non dovevo
piangere. Ero là per una ragione. E io non mi arrendo mai. Fissai quel
bell’omone. Non vi era niente che non avessimo condiviso, niente che non gli
avessi dato e di cui lui non avesse goduto, tranne una cosa. Mi chinai su di
lui, gli appoggiai una mano sul ventre, assaporai il contatto dei muscoli
duri sotto la carne morbida e la soffice peluria. Gli avevo mostrato mille
modi di ottenere piacere, ma lo sguardo mi ricadde sull’immensa foresta
inesplorata del suo petto, le file di capezzoloni
eretti che svettavano come i cappellini di tanti gnomi in marcia nel folto
del bosco, quei tesori che tante volte mi avevano fatto agognare. ma che mai
ancora mi erano stati concessi. Il selvaggio sembrava eccitarsi mentre le mie
carezze si avvicinavano al petto, ma sentii la pesante manona
calare sulla mia e scansarla. Come ogni volta, allorché puntavo a quelle
deliziose tettine mi vedevo sempre respinto, ancora
con decisa fermezza. Impudente lo fissai e sorrisi. <<Ti prego!>>
bisbigliai d’istinto come posseduto. <<No!>> rispose
lui secco. <<Perché no? Solo
assaggiare!>> Soggiunsi socchiudendo la bocca. <<No! Proibito!>>
rispose e si portò le mani al petto a difendere i seni. <<Zizze>>
soggiunse <<solo per fratelli di tribù! Allattare altre genti proibito.
Se uomo dai seni piccoli assaggiare latte di fratello, poi dover
morire!>> Mi fermai. Di scatto
ripensai alla nostra prima volta, il giorno in cui mi avevano catturato. Ma
se un fremito di paura contrasse il mio stomaco a quel ricordo, il mio membro
non poté fare a meno di continuare ad ergersi come uno stendardo svettante.
Il selvaggio mi guardò fermo negli occhi, mi sforzai di non abbassare lo
sguardo. Non vi era espressione su quel viso: né sorriso, né rimprovero, né
ira. Eppure guardandolo capii inequivocabilmente che lui sapeva. <<Tranquillo!>>
rispose secco e inespressivo <<Non dire a nessuno! Nostro segreto!>>
Lo guardai impietrito e non risposi. Ma una parte del mio animo trasse un
sospiro di sollievo. <<Fare...
altro?>> soggiunse intanto il popputo ammiccando. <<E che vorresti
fare?>> risposi, ancora perplesso. <<Cosa nuova? Tu sempre insegnare cosa nuova!>>
rispose lui con una curiosità infantile negli occhi. <<Ormai insegnato
proprio tutto>> risposi <<A parte...>> feci appena un cenno
ai capezzoli. Il Popputo sospirò e cambiò discorso. <<Tutto
tutto?>> chiese. Mi venne da sorridere. Mi faceva quasi tenerezza. Lo
guardai negli occhi e con un improvviso moto spontaneo mi sporsi verso il suo
viso. Lo presi per una guancia con una mano a coppa e posai le labbra sulle
sue. Aspirai quella bocca carnosa, assaporai il calore, la carezza ruvida
della barba, e poi gli cercai la lingua con la lingua, sentendola rispondere
prontamente a quella danza appassionata e mi abbandonai nel sapore intenso di
quel bacio. <<Oooooh!>>
sospirò lui ancora attonito quando si staccò. <<Cosa più bella! Tu...
ultima?>> rise guardandomi negli occhi. <<Per molti di noi
prima cosa.- gli dissi -Ma non sempre noi fare,
quando solo insegnare...>> <<E tu... me solo
insegnare?>> rispose lui guardandomi di sottecchi. Parve arrossire.
Capii che dovevo cogliere l’attimo e con un malizioso sorriso feci per
buttarmi di nuovo sui capezzoli ma mi vidi di nuovo fermato dalla manona che mi afferrò il viso. Stavolta si gettò lui
sulla mia bocca divorandola con una foga forse un po’ troppo febbrile ma
tutt’altro che spiacevole. <<Io volere allattare
te>> mi sussurrò con sguardo colmo di desiderio <<ma leggi di
tribù proibire!>> <<Un giorno tu capo,
non potere cambiare leggi?>> gli chiesi io curioso. <<Leggi sacre! Da
tempi di Grande Zizzon. Anche se capo morire e
altro seguire... >> <<Tu un giorno... capo?>> <<Io segno di stirpe
di Zizzon!>> fece lui indicandosi il petto
<<Unico in tribù dieci zizze, come Grande Capo, ma combattere per
essere capo.>> <<Desiderare...
essere capo?>> chiesi io. <<Desiderare?>>
fece lui con sguardo confuso <<Per me destino! Destino già
detto!>> sentenziò <<Segno di stirpe di Zizzon!
Per questo capo paura per me, accanto a uomo dai seni piccoli... forse
ammazzare me! Ma io sapere che tu non fare male...>> sussurrò
carezzandomi il viso e baciandomi di nuovo con occhi languidi. Sprofondai in
quel gioco di lingue chiedendomi quanto la mia missione sarebbe stata
difficile. A quanto pareva l'intera tribù nutriva aspettative su di lui. <<Capo preoccupato
per te?>> feci io curioso <<...tuo padre?>> <<Padre?>> <<Sì, beh...>> cercai
le parole per spiegargli cosa intendessi. <<Zizzon
Grande Padre. Noi tutti figli Grande Tribù! Cresciuti da latte fratelli più
vecchi!>> Lo guardai curioso e
perplesso. <<Come nascere figli
di tribù?>> <<Ssssss!>>
fece lui veemente portandomi una mano alla bocca <<Discorso proibito a
stranieri!>> <<E... >> feci
io dopo una pausa <<nessuno straniero diventare... figlio di Grande
Tribù?>> Lui mi guardò e sorrise:
<<Una sola volta, capo dopo Grande Zizzon
debito di vita e sangue con uomo dai seni piccoli. Salvato in guerra. Allora
fatto fratello e allattato.>> Un guizzo improvviso illuminò il mio
cervello. <<Ma poi mai
più!>> soggiunse lui <<Proibito!>> <<Tante, tante cose
proibite!>> feci io con un sorriso malizioso sfiorandogli di nuovo il
torace con la mano. Lui repentino mi prese e mi rivoltò supino. <<Forse fare io cosa
per te!>> replicò ricambiando il sorriso. Lo guardai confuso. Lui si
chinò a baciarmi il collo, poi discese in mezzo ai muscoli del petto. Leccava
con avidità, ma c’era della dolcezza in quell’ardore infantile e quando
risalì sul pettorale sinistro avvicinandomisi al
capezzolo, non riuscii a trattenere un gemito. Infine raggiunse la mammella e
la divorò sollazzandola con la lingua e suggendo con appetito febbrile. Non
so descrivere ciò che provai. Come un lampo di puro fuoco saettò dalla punta
del capezzolo per vibrare sino al mio cuore, tutto il mio corpo fu percorso
da un brivido. Udii il mondo esultare in un canto di piacere e mi resi conto
che era la mia bocca che non riusciva a smettere di gemere. Mentre succhiava,
il selvaggio prese l’altro capezzolo tra due dita e lo titillò con dolcezza
ma con stuzzicante fermezza sinché la punta non fu dura ed eretta, poi
scivolò con labbra e lingua sul petto, succhiando qua e là con una maggiore
veemenza che lasciava il segno e si attaccò all’altro piccolo capezzolo
turgido. Suggeva con l’a foga di un infante al seno della madre, continuava
ad alternare labbra e lingua, a solleticare coi denti sino a farmi urlare,
rilasciando solo un attimo prima che il piacere divenisse dolore. Mi strinsi
la sua testa al petto e mi abbandonai in quel mare di dolce agonia cantando
tutto il mio godimento. Avevo il membro tesissimo, dolorante e pronto a
esplodere. I capezzoli strillavano e ogni qualvolta uno dei due veniva
abbandonato si tendeva ritto e agognante al cielo smanioso di essere ancora
assaggiato. Nessuno me li aveva mai succhiati così. Mi sembrò di provare
qualcosa di simile all’estasi che avevo visto soltanto dipinta sul volto
delle dame quando ero io a onorare i loro seni. Ma questo era forse ancor più
veemente. Mi sentii posseduto, in balia del grosso energumeno che mi
dominava. Pervaso da una violenta smania in tutto il corpo sollevai le gambe,
e non potei fare a meno di afferrare il membro del bestione e supplicarlo di
penetrarmi subito. Quello sorridendo mi lasciò tribolare ancora un po’,
infine mi sodomizzò con un colpo secco mentre io urlavo di gioia. Continuò a
sbattermi con foga, chinandosi frattanto a suggere prima l’una poi l’altra
tetta. Mi sentii pervaso da un fuoco rosso. Non vidi più nulla, solo fiamme e
urla di gioia, la lava saliva e infine esplodeva come un vulcano eruttando
ancora, ancora e ancora e avvertii il godimento dei miei capezzoli e del mio
membro come fosse diventato una cosa sola. Infine sentii anche lui staccarsi
dal mio petto e urlare tutta la sua gioia esplodendo in un fiume di fuoco
liquido dentro di me. Poi si abbandonò su di me a peso morto. Mi strinsi con
foga febbrile la sua testa contro il petto e giacemmo così, stretti, in
silenzio. «Incredibile» ansimai
infine riprendendomi «Anche tu molto da insegnare me!>> «Questo insegnare in nostra tribù!»
fece lui sollevando la testa e guardandomi con un sorriso. Forse avrei dovuto
chiedergli di ricambiare? Ma sapevo quale sarebbe stata la risposta. Un passo
alla volta. <<Così tuo destino
essere capo!>> gli dissi prendendo il suo faccione tra le mani. Lui
annuì grave. <<Destino già
detto!>> replicò. <<Ma se potessi...
decidere, tu cosa desiderare?>> Il ragazzone mi guardò confuso
concentrandosi: <<Scopare tutto il
giorno>> replicò poi con un sorrisone <<con uno bravo! E poi...
correre insieme, liberi... come vento, verso... lontano!>> <<E vivere per sempre
felici e contenti?>> sospirai io ironico nella mia lingua. <<Sì!>> annuì
lui serio. Non so come, ma aveva compreso. Mi venne da ridere.
Iniziava a piacermi quell'energumeno. <<Ma destino... già
detto!>> sentenziò lui. <<Già
dimenticavo!>> replicai tra me. Per tutta risposta lui
chinò la bocca a baciarmi ancora un capezzolo, facendomi fremere. «Zizze piccole ma
vogliose!» obiettò con un sorriso malizioso, prendendone una tra due dita e
pizzicandola. Erano arrossate e doloranti, ancora erette dopo l’amore. «Ah! Basta! ti supplico!»
mi schermii. Non mi ero mai sentito tanto vulnerabile. Lui sorrise e mi si
accasciò sul petto. Dovevo avere ancora pazienza, mi dissi. E sentii il suo
respiro farsi regolare contro il mio petto e scivolare nel sonno, mentre io
restavo ancora sveglio a fissare il cielo, aspettando che i postumi di quel
fuoco violento defluissero dalle mie membra. Poi
un giorno si recò a caccia d'orsi senza di me. Quando calò la sera non lo
vidi tornare. Uscii dalla caverna -donde ormai m'era consentito entrare e uscire
liberamente- ma quando mi recai nella radura dove si riunivano i popputi, li
vidi tutti raccolti a terra che gridavano infuriati, mentre il capo,
disperato, si batteva il petto. Mi avvicinai. Chiesi a uno di loro cosa
succedesse. Lui mi guardò turbato, in silenzio, infine blaterò nella sua
lingua: <<Grande
Zizzon riprendere lui con sé!>> Mi
avvicinai preoccupato e vidi l'intera tribù raccolta attorno a un uomo
riverso a terra. Dalle proporzioni colossali non faticai a riconoscerlo, mi
precipitai verso di lui, ma gli altri mi osteggiarono, erano i suoi fratelli
e io solo uno schiavo straniero. Era ancora vivo, constatai con sollievo. Ma
giaceva riverso a terra, aveva gli occhi stravolti dal dolore e il suo basso
ventre, poco sotto l'ombelico e sopra l'inguine era squarciato da ampie
ferite roride di sangue. Lo guardai e quando mi vide ebbi la netta sensazione
che il suo volto si rischiarasse e che i suoi occhi cercassero i miei. Chiesi
come fosse successo. <<Orso
infuriato!>> fece lugubre il popputo con cui parlavo. <<E
lui...>> <<Potente
guerriero, ma suo bastone perso tua punta e rotto da orso, lui caduto tra
radici. Noi ammazzato orso ma... troppo tardi! Destino è detto!>> <<No!>>
risposi io secco. Fissai
da lontano la ferita, sembrava profonda ma non mortale. Nell’esercito avevo
assistito alla cura di soldati feriti ben più gravemente. Mi feci strada a
forza tra quei selvaggi infuriati. Gridai, tentando di spiegare nella loro
lingua che non era troppo tardi, che potevo salvarlo. <<Noooo! Via!>> gridò nella sua lingua il capo
infuriato. <<Tu male, portato rovina su Figlio di Zizzon
e su tribù!>> Tentai
di replicare, mentre altri popputi si gettavano su di me pronti a trascinarmi
via. Ma poi vidi che lui farfugliava qualcosa, il capo si chinò col volto
disperato, lui gli sussurrò all’orecchio. Il capo lo guardò con occhi colmi
di tenerezza e di lacrime. In qualunque modo si riproducessero quelle strane
creature, tra quei due c'era un forte legame e il capo non avrebbe saputo
negargli un ultimo desiderio. Si alzò, chinò la testa e mi fece cenno di
avvicinarmi. Mi inginocchiai accanto a lui, l’omone mi prese la mano e lo
vidi chiaramente sorridere. Ricambiai il sorriso passandogli un palmo sulla
fronte. Esaminai la ferita, non era ancora infetta. Mi feci portare
dell'acqua e la lavai. Non c'erano armi di metallo tra loro, ma ordinai che
accendessero un fuoco e scaldassero una pietra. Poi cercai di spiegare a due
di loro di quali erbe avessi bisogno e li mandai a coglierle. <<Tu
vivrai!>> gli dissi perentorio guardandolo negli occhi. Ricambiò lo
sguardo incredulo, ma poi vidi la speranza riaccendersi sul suo viso. Quando
la pietra fu calda, la presi, aiutandomi con un bastone. L'intera tribù prese
a strillare contrariata. <<Vivrà!>>
feci secco nella loro lingua. Lui guardò il capo e quello ordinò agli altri
di lasciarmi fare. Gli detti qualcosa da stringere tra i denti. Poi mi chinai
al suo orecchio: <<Quando
tu scopare me, fare male>> gli sussurrai <<ma io sopportare e
alla fine godere! Così ora fare male, sopporta da guerriero e fare
bene!>> Lui
mi sorrise e annuì. Cauterizzai la ferita con la pietra ardente. Lui deformò
il volto in una smorfia contratta, ma resistette con fierezza senza emettere
neppure un gemito. Quando fui certo che l’escoriazione non fosse più infetta,
mollai. Non appena mi portarono le erbe, ordinai che le mettessero in acqua e
le bollissero sul fuoco in una pietra cava. Infine versai il decotto sulla
ferita, strappai un largo lembo dalla mia veste di pelle e lo fasciai. Aveva
la febbre alta, il suo corpo scottava. Ma sapevo quanto fosse forte. Restai
accanto a lui. Calò la sera, la luna si
levò alta in cielo, i bruti si ritirarono nelle rispettive caverne ma io
restai a vegliare accanto a lui, lo sentii delirare, ma gli tenni stretta la
mano. <<Resta
vivo, bel Capezzolone! resta con me!>> gli
sussurrai. Lo sentii calmarsi e vidi la serenità tornare sul suo volto. La
bruma notturna si levò, avvolgendo la foresta poco prima dell'alba. Lui aprì gli occhi e si
alzò in piedi. <<Devo
andare!>> mi disse. Io continuavo a stringergli la mano, incapace di
lasciarla. Vidi un'ombra delinearsi nella nebbia, sospingeva una barca e vidi
la luna inargentare le onde del grande fiume che scorreva nell’oscurità. <<Grande
Zizzon chiamato a sé!>> fece lui serio
<<Destino è detto!>> Scorsi
altri selvaggi simili a lui sull'altra riva che lo chiamavano, giganti
barbuti dalle generose poppe su quel fiume simile a latte. <<No!>>
replicai io, secco, fissandolo negli occhi <<Tu vivrai!>> Le
sagome dei Popputi scomparvero nella nebbia, solo l'ombra sul fiume si fece
avanti. Ma non era più il barcaiolo esiziale. Prendendo corpo alla luce della
luna, rivelò l'aspetto del bel giovane biondo che ormai mi era familiare. <<L’amore ti darà la
forza di affrontare ogni ostacolo!>> sentenziò fissando il bruto negli
occhi. Poi guardò me <<Ma ricorda!>> soggiunse <<L’amore è
imprevedibile. Nessun mortale può governarlo davvero! E potrebbe condurre il
tuo cammino a mete del tutto diverse da quelle che ti aspetti!>> Mi svegliai di colpo,
ancora seduto accanto al mio popputo, con l'inconfondibile calore della sua manona nella mia. Era sorto il sole. Lui non scottava
più, la febbre era passata, e la ferita pareva in netta via di guarigione. Aprì
gli occhi ai raggi dell'aurora e mi sorrise: <<Io vivrò!>>
mi fece sorridendo <<Tu salvato!>> Sollevò la mano a carezzarmi
la guancia <<Debito di vita e di sangue!>> un sorriso smagliante
inondò il suo volto. E un grido di trionfo esultò in un recesso della mia
mente. Avevo vinto. Col
tempo guarì, credo che ciò che avevo fatto per lui non solo lo abbia reso
riconoscente ma abbia anche rafforzato quello strano legame che sentiva nei
miei confronti.- -Strano
legame?- osservò il principe laconico, sospirando a quella storia incredibile
- Non essere modesto! Tu sei davvero un diabolico seduttore, amico mio!- Il
cavaliere non poté trattenere un sonoro ghigno di compiacimento. -Un
giorno quando s'era ormai del tutto ripreso, dopo una lunghissima discussione
con il Grande Capo, venne da me con un sorrisone che gli illuminava il viso. <<Grande
Capo riconosciuto me. Ora tu diventare mio... -pronunciò una parola che nella
loro lingua doveva significare qualcosa come ‘adepto’ o ‘pupillo’- Quando
natura rinascere, adepti, ragazzi, condotti a morire per rinascere uomini. Tu
con loro, Figlio della Tribù! Finalmente io allattare te, darti tutto! Tutto
quanto!>> fece titillandosi i capezzoli con un sorrisone malizioso a
cui non sapevo resistere. La sua cicatrice si stava rimarginando. La carne
all'interno era ancora rosea e tenera, dello stesso colore dei capezzoli in
mezzo alla pelle scura e villosa, pareva quasi chiuderne la schiera verso il
centro dell'inguine. Presto, grazie al mio solerte lavoro, si sarebbe rimarginata
senza lasciare il segno. Mi sarebbe quasi mancata. Per fortuna l’orso non
aveva intaccato nulla che potesse far venir meno il mio piacere. Infine, con l’avvento della
primavera, giunse il fatidico giorno e il ragazzone mi condusse tra le
montagne, in una stretta forra rocciosa tra le pendici dei Mammel. Altri bruti vestiti di pelli attendevano là.
Erano tutti in coppia, uno già adulto dalla folta barba ne conduceva un altro
che sembrava più giovane. I ragazzi erano pronti a entrare nella tribù e a
divenire uomini. Fummo fatti entrare all’interno di una fenditura nella
roccia. Alcuni adulti tenevano dei rami accesi come fiaccole e ci guidarono
giù per un cunicolo roccioso nelle profondità della montagna. Si udiva un
lontano scorrere d’acqua e un altro strano mormorio sommesso. Fummo condotti
sino a un pertugio di pietra simile a una porta. Quando lo attraversammo, i
nostri occhi furono abbacinati. Eravamo in una grande caverna dalle pareti di
roccia bianca, che scintillavano riflettendo la luce delle fiaccole nelle
loro nervature cristalline. Il mormorio si fece più forte e, quando gli occhi
si furono riabituati alla luce, distinsi numerose file di bruti schierati
nella penombra che intonavano uno strano canto gutturale al rullo di tamburi
di pelle che alcuni di loro percuotevano, seduti a terra. Su una roccia
scavata, forse dalle forze della terra, nella forma di un seggio, sedeva il
capo nella sua pelle d’orso e al centro della caverna vi era una grossa polla
anch’essa scintillante di bianco. Di certo si trattava dei residui delle
rocce bianche disciolti in una sorgente sotterranea ma alla luce delle
fiaccole pareva che del latte fosse sgorgato direttamente dalla terra. Strane immagini fluttuavano
sulle pareti alla luce delle torce. Aguzzando lo sguardo si distingueva un
ciclo di disegni, graffiti e decorati con pigmenti naturali, una serie di
quadri impressi sulla roccia in forme elementari, i contorni geometrici e
stilizzati tracciati da una mano primitiva, ma chiaramente comprensibili e
pulsanti di colori vividi e accesi. Figure di uomini e donne si
aggiravano tutti nudi su una terra primitiva. Dapprima danzavano assieme in
un mitico giardino lussureggiante, tra alberi verdi dagli sfavillanti frutti
rossi e gialli. Poi invece arrancavano in un deserto desolato. Le donne
giacevano a terra mentre gli uomini avanzavano. Uno di loro, dalla pelle
ambrata, stringeva una donna dal colorito più chiaro accasciata sulle sue
ginocchia mentre un frutto rosso le rotolava dalla mano aperta. Una figura
più piccola, forse un bambino si stringeva accanto al suo corpo esanime, un
altro si tendeva verso il petto dell’uomo, che se ne stava in ginocchio, a
capo chino. Altrove vi era ancora una figura possente, pareva un uomo barbuto
ma sul petto aveva due seni da donna con grossi capezzoli colorati di rosso.
Stringeva tra le braccia due infanti, dai seni gli zampillavano getti bianchi
che cadevano ai suoi piedi in un grande lago, simile alla polla che era al
centro di quella grotta, e attorno ad esso la natura era di nuovo rigogliosa
d’alberi, fiori e frutti. Un altro cerchio bianco si levava in cielo, come
una luna piena e altre figure danzavano allacciate nel candido lago levando
le braccia. Un paradiso delle delizie simile a quello della prima immagine,
ma stavolta vi erano soltanto maschi. Poi vi erano molti uomini con seni di
donne allineati e di fronte a loro di nuovo figure di donne, ma armate di
lance come uomini. Infine vi erano ancora quei popputi, stavolta da soli,
tenevano in braccio degli infanti e alcuni se li stringevano ai seni. Finalmente il canto dei
popputi abbigliati di pelli tacque. Il cavaliere, sospinto dal suo selvaggio,
avanzò e vide che gli altri giovani facevano altrettanto. Si disposero in
cerchio attorno alla polla d’acqua. Poi il capo-tribù levò il braccio e
parlò. <<Benvenuti giovani
figli di Zizzon! Dato prova voi pronti diventare
uomini! Stanotte condotti quaggiù a Sorgente Galattos,
fonte di latte che tempo, ritorno di soli e di lune, nascosto sotto terra.
Voi diventare fratelli di Grande Tribù! Trenta re nati e morti da che Grande Zizzon donato noi questa terra benedetta!>>. Così dicendo tese la mano
in alto. Tra le rocce, sopra la fonte argentea, scorsi una strana ombra.
Sembrava viva ma non era che una grande statua, un idolo scolpito nella
pietra. Un grosso satiro barbuto, ignudo, dai muscoli monumentali e
dall’ampio torace che stringeva tra le braccia due bambini, uno a destra,
l’altro a sinistra, allattandoli ai seni villosi. Il suo viso mi fece
fremere, tanto elementare eppure così vivo, pareva guardarti sin dentro al
cuore, forte e autorevole eppure così colmo d'amore, paterno e materno
assieme. <<E noi ancora qui,
grazie suoi doni e segreti, tramandati ancora. Rivelati solo a fratelli, e
stanotte voi diventare fratelli. Solo una volta prima, uomo dai seni piccoli
rinato come figlio di Grande Tribù. Ma tu...>> soggiunse guardandomi
<<Figlio prediletto di Zizzon scelto te e tu
sarai nostro fratello. Debito di vita e sangue reso con latte!>> Il mio cuore sobbalzò a
quelle parole. Poi il capo tacque e si appoggiò al suo seggio. I popputi
ricominciarono a suonare i tamburi. Gli accompagnatori dei neofiti
avanzarono. Ciascuno giunse alle spalle del proprio pupillo. Avvertii la
presenza del mio popputo alle mie spalle, il suo corpo massiccio, il suo
calore, il suo odore ormai familiare. Gli ierofanti posero le mani sulle
spalle degli iniziandi, afferrarono le estremità
delle pelli allacciate che ci ricoprivano e le sciolsero, denudandoci. La
tribù ricominciò a intonare una litania ritmica e cadenzata al suono dei
tamburi, mentre ci guardavano. Sentii sguardi curiosi indugiare sul mio corpo
che pareva esile e diafano accanto ai fisici grandi e muscolosi degli altri iniziandi. Alcuni erano ancora giovani e glabri, altri
già coperti di peluria sul petto e sulle cosce, tutti però avevano già grossi
membri penduli e sui prominenti pettorali generose paia di capezzoli rosei
dalle larghe areole e dalle punte prominenti, alcuni ne avevano altre coppie,
allineate in fila sul petto e sul ventre, se ne arrivavano a contare quattro,
sei o addirittura otto. Ogni compagno prese da
dietro i seni del proprio iniziando e gli strinse i capezzoli tra le dita-. -E tu...?- chiese il
principe ardendo di curiosità. -Beh, io sentii una fitta
al basso ventre mentre i miei piccoli capezzolini
scattavano sull’attenti torti e roteati con tanta maestria. E debbo
confessare che, vedendo gli altri compagni nudi che venivano titillati allo
stesso modo, non furono solo i miei capezzoli ad andare in erezione. Ebbi
un'istintiva ondata di imbarazzo, ma poi mi accorsi che anche gli altri erano
eccitati. Poi gli iniziatori si
staccarono. Il capo ordinò a noi giovani adepti di entrare nella sorgente.
Obbedimmo. Entrammo, immersi sin sopra le ginocchia in quel liquido. Non era
freddo come mi aspettavo, aveva una temperatura mite e una consistenza
corposa e carezzevole, differente da quella dell’acqua. Il capo ci ordinò di
bere, noi raccogliemmo un po’ di liquido nelle mani a coppa ed eseguimmo.
Incredibile. Aveva davvero un sapore simile a latte, ma ancor più dolce sulla
lingua, un gusto che riconobbi con un’istantanea fitta ai lombi, che mi fece
nuovamente indurire i capezzoli e il membro. A un cenno del capo gli iniziandi avanzarono nella sorgente sino alla vita e uno
alla volta si immersero completamente nel latte. Quando giunse il mio turno
li imitai. Trattenendo il respiro mi lasciai andare in quell’onda bianca di
caldo liquido primordiale. È impossibile descrivere ciò che provai. Per un
attimo fu come se fossi ritornato al sicuro nell’amnios del ventre di mia
madre. A occhi chiusi, rividi immagini simili alle pitture sulle pareti e
agli occhi vivi della statua di quel dio primevo, il cui sguardo sembrava
avvolgermi in un abbraccio in cui avrei potuto perdermi, un abbraccio simile
a quello del mio ierofante. Riemersi di scatto assaporando l’aria a pieni
polmoni, mentre quel liquido mi scorreva addosso, grondando in rivoli candidi
sulla pelle. Il calore delle torce,
odoroso di resina, danzava sui corpi nudi. Il Capo levò di nuovo la mano
evocando il silenzio. <<Ora voi pronti
conoscere segreto di Grande Tribù!>> annunciò in tono grave. Un Popputo dalla barba
grigia avanzò tra le file degli astanti. Sembrava un confratello autorevole, vestiva
una pelle d’orso allacciata su una spalla sola, lasciando in bella vista
dall’altro lato un pettorale villoso e prominente con un capezzolo a punta
rivolto in su e un altro più piccolo sul torace sotto di esso. Almeno
un'altra fila si intravedeva eretta sotto la veste. Doveva essere il cantore
della tribù. Al suono dei tamburi iniziò a recitare a ritmo cadenzato un
racconto nella loro lingua. Narrò
come all’inizio dei tempi, gli antenati della tribù, sopravvissuti al Grande
Diluvio che aveva decimato popoli e razze, allorché le acque si ritirarono,
avevano vagabondato sul ventre desolato della terra bruna assieme alle loro
donne e ai loro figli. Un giorno, vagando nel deserto senza nome, privi di
cibo e di acqua, giunsero in una terra verde, ricca e generosa, un’oasi
felice dove le genti si nutrivano dei frutti che il suolo donava
spontaneamente levando canti all’amore e alla gioia della vita. Il capo della
tribù si recò al cospetto della bella regina di quella terra, che aveva fama
di essere una saggia e potente incantatrice, si inginocchiò dinanzi al suo
trono e le chiese ospitalità per sé e per il suo popolo. Il capo era uomo
forte, valoroso e di bell’aspetto e la regina lo ricoprì di ricchi doni e fu
ben felice di accoglierlo. Quella sera lo invitò a banchetto. Quando si
furono saziati del cibo, della musica e del succo fermentato della vite e del
melograno, allorché le stelle furono alte in cielo e i commensali si
ritirarono, la bella signora porse la mano al suo ospite e lo invitò a
seguirla nel proprio talamo. L’uomo era retto e d’animo puro e amava
profondamente la propria sposa, che era in procinto di partorirgli un
pargolo. Aborrì a quell’idea. Ringraziò ma rispose che non poteva accettare.
La maliarda allora si infuriò e gli scagliò contro le sue maledizioni: per
avere insultato la sua tavola ospitale e dileggiato il suo amore, lui e tutti
i suoi uomini avrebbero vagato nella desolazione, non avrebbero mai più
conosciuto l’amore di una donna e mai più un seno di donna avrebbe nutrito i
loro infanti. L’indomani si risvegliarono tutti nella desolazione del
deserto: la terra dell’abbondanza si era dissolta nel nulla. Il capo esortò i
suoi uomini ad allontanarsi in tutta fretta da quel luogo maledetto. Più
tardi ritrovò, tra i pochi averi che portava con sé, un cesto di frutta
donatogli dalla strega, ma, memore delle parole minacciose di lei, lo nascose
e non ne fece parola ad anima viva. Pochi
giorni dopo la sposa del capo fu colta dalle doglie e diede alla luce due
gemelli. Qualcuno disse che era segno infausto, ma il condottiero non volle
ascoltare e si rallegrò della nascita. Tuttavia, quando una notte, nel suo
giaciglio, si accostò di nuovo alla sua donna, si accorse con orrore che i
propri lombi erano inariditi e che, pur volendolo, non era in grado di
amarla. E non fu l’unico tra gli uomini della tribù. Frattanto ripresero a
vagare in terre bruciate da un vento di fuoco, senz’alberi e senza cibo.
Seguirono il cammino del sole e avanzando verso il crepuscolo giunsero ove il
dorso ossuto della terra si inarca in montagne alte e scoscese e si
inerpicarono su quei nudi pendii nella vana speranza di trovarvi luoghi più
generosi. Un giorno, mentre gli uomini erano alla ricerca di cibo, le donne,
sole attorno al fuoco, forse sofferenti a causa di voglie insoddisfatte,
furono colte da una fame improvvisa e irrefrenabile. La povera sposa del
capo, sopraffatta dal languore, svelò alle altre un cesto di frutta che aveva
trovato nascosto nella bisaccia del marito. Segretamente si recarono ad
aprirlo, constatarono con meraviglia che i frutti erano ancora buoni, dolci e
succosi e se ne saziarono avidamente. L’indomani
ripresero il cammino, ma un male improvviso colse le donne della tribù, che
cominciarono a deperire e a perdere le forze, i loro seni si disseccarono e
non ebbero più latte per nutrire gli infanti. I loro sposi le caricarono in
spalla e continuarono ad arrancare su quei pendii, offrendo loro la forza
delle braccia, là dove non avevano più potuto offrir loro la forza dei lombi.
Ma lentamente le donne agonizzarono e, una dopo l’altra, caddero rantolando
nella polvere. I loro sposi, piangendo, le seppellirono tra le rocce di
quelle montagne perdute. Infine anche la sposa del capo si accasciò sulle
ginocchia di suo marito, gli chiese perdono, sussurrandogli che era colpa
sua. Lui le rispose che l’aveva capito, ma che la perdonava, che era stato
lui ad attirare quella maledizione sulla tribù e la supplicò di restare in
vita per i loro figli appena nati. Ma ella spirò, abbandonandosi tra le sue
braccia. Lui pianse, anche i due gemelli piansero. Il padre li strinse a sé,
uno di loro cercò al suo capezzolo il latte che lo nutrisse, ma quell’ampio
petto era solo una sterminata pianura deserta, come quella che si apriva
innanzi a loro, in mezzo alle montagne. Avanzarono
in quella terra di morte. Una larga gora si apriva al di là delle creste
montane ma in essa vi era solo nuda roccia, le ossa della terra. I bimbi
privi delle madri e del latte giacevano ormai inermi, non più capaci neppure
di piangere. Gli uomini si accasciarono stremati. Il capo guardò la sua tribù
maledetta, giunta in quella terra senza nome alla fine del mondo. Alzò gli
occhi al cielo ove lo spirito della sua sposa vagava chissà dove e pregò. Si
strinse i figli al petto e all’improvviso avvenne il miracolo. Lo spirito
della sposa fu su di lui e dentro di lui, uno dei piccoli cercò il suo
capezzolo, le sue sizze si inturgidirono e da esse
zampillò il latte. Il piccolo si attaccò a destra e all’altro gemello il
padre porse la sinistra. I due si nutrirono e nei loro corpicini rifiorì la
vita. Una volta saziati, cullati dal padre, si addormentarono. Allora il capo
guardò i propri uomini. Un tempo forti e ardenti guerrieri, ora erano
stremati dalla fame e dal dolore. Lo guardarono supplichevoli cercando in lui
una guida e una speranza. Non sapendo cos'altro fare, egli strinse a sé i due
compagni che gli erano più vicini e porse loro i propri seni ancora umidi di
latte. Quelli affamati e stravolti si attaccarono e iniziarono a suggere, il
loro signore provò un inaspettato godimento e dalle poppe riprese a
zampillare generosamente il latte, infinitamente più dolce del succo dell’uva
e del melograno. A quella vista anche gli altri uomini si protesero, affamati
e disperati, verso il possente torace del capo e per miracolo altre quattro
coppie di capezzoli sorsero turrite dal suo petto e dal suo ventre sì che
altri uomini potessero trovar sollievo all’agonia. Ma anche quando, tutti
satolli, si staccarono, il capo continuava ad essere pervaso dal piacere e i suoi
capezzoli non smettevano di secernere quel dolce nettare. I suoi uomini si
protesero ad assaggiare e furono cosparsi dalla pioggia di dolce manna. Il
forte condottiero si accasciò tra le rocce gemendo, dalle sue sizze nacquero dieci fiumi di latte, scorrendo senza posa
per tre giorni e tre notti, e la terra sassosa e arida, fecondata dal
generoso nettare di vita germogliò all’improvviso d’erba verde e rigogliosa.
Dalla manna miracolosa nacque la sorgente di Galatto.
Estasiati gli uomini si gettarono come pesci nella fonte e, quando ebbero
bevuto a sazietà, si accorsero che anche le loro sizze
s’erano inturgidite e i capezzoli eretti. Si protesero verso i propri infanti
agonizzanti e videro che appena se li portavano alla poppa anche loro
iniziavano a secernere latte. E a quelli che stringevano a sé più di due
pargoli, come per incanto, sorsero sul petto e sul ventre altri capezzoli
perché potessero nutrirli tutti assieme. Quando i piccoli stettero bene, gli
uomini si guardarono gli uni gli altri ed, estasiati da quel generoso
banchetto, deposero gli infanti, si strinsero tra loro, presero a nutrirsi
gli uni gli altri e, colti dall’estasi, sotto la luna, nella sorgente bianca,
impararono a regalarsi l’un con l’altro la gioia che con le defunte donne avevano
perduto. Così, vinta la maledizione della strega malvagia, trovarono pace in
questa terra divenuta generosa e ricopertasi di rigogliosi alberi da frutto.
Da allora grande venerazione fu tributata Grande Zizzon
che li aveva salvati con quel miracolo. In
seguito i figli di Zizzon vennero alle mani con un
feroce popolo che viveva in quelle montagne: donne guerriere forti come
uomini, che avevano ucciso tutti i loro maschi dopo che questi avevano
tentato di sottometterle e brutalizzarle. Giunsero armate d’archi e aste e
dichiararono che mai più si sarebbero sottomesse a un uomo. I figli del
Grande Zizzon le rassicurarono, spiegando che in
seguito a una maledizione non desideravano più la compagnia delle donne. Le
donne si guardarono e, ammirando la forza e la dolcezza di quel popolo di
valorosi, proposero un accordo perché entrambe le tribù sopravvivessero in
quei luoghi nel tempo. Gli uomini ripeterono che a causa della maledizione da
cui erano stati colpiti non desideravano più la compagnia delle donne. Ma quelle
donne selvagge convennero che c’era una soluzione. Da allora, al sorgere di
ogni primavera le due tribù si incontrano al confine tra i loro territori e
si appartano tra le grotte, ogni donna in compagnia di due uomini. Dopo che i
due maschi si sono condotti all’apice del piacere l’un l’altro, fecondano
entrambi la donna con il proprio seme. Nove mesi dopo le donne lasciano loro
nella più grande di quelle stesse grotte i figli maschi partoriti, tenendo
per sé le femmine. I piccoli sono allevati dalla tribù e allattati dagli
uomini. Crescendo anch’essi diventano capaci di generare latte e ad alcuni
spuntano sul petto altri capezzoli. Nessuno conosce la propria paternità ma è
noto che solo i discendenti diretti del Grande Zizzon
hanno dieci capezzoli e per questo, alla morte di un capo, il giovane della
tribù dotato di più capezzoli è destinato a succedergli. Calò di nuovo il silenzio.
Le immagini di quel racconto del tempo che fu svanirono nella luce delle
torce e tornarono ad essere semplici graffiti policromi sulle pareti della
caverna. Gli sguardi di tutti tornarono a posarsi sul capo. Frattanto egli si
era sciolto la pelle che lo rivestiva restando a torso nudo. Colsi ancora,
ammirato, la somiglianza con il mio popputo, che già si notava vedendoli vestiti.
Il corpo possente e robusto del Capo-tribù pareva più appesantito dall’età.
Aveva anch’egli possenti muscoli, ma i due grossi seni pelosi erano sporgenti
e rotondeggianti, sormontati da monumentali capezzoli dalle grosse punte
tonde e rivolte all'insù, e anche il ventre tendeva alla rotondità. Tuttavia
su di esso si susseguivano ben altre quattro coppie di grossi capezzoli. Se
ne contavano dieci in tutto, quanti quelli del giovane ch'era in piedi dietro
di me. Le nenie e il suono dei tamburi riattaccarono. Il capo fece un gesto
di invito e i Popputi che assistevano noi neofiti si staccarono dal bordo
della sorgente per avanzare verso di lui. I primi due si accostarono ai lati
del suo trono. Fecero un rispettoso inchino con la testa, il loro signore pose
loro una mano carezzevole sul capo, li attirò a sé e quelli con spontaneità
infantile gli si attaccarono alle sizze cercando il
capezzolo con la bocca. Succhiarono avidamente. Il capo li strinse a sé con
sguardo amorevole e quelli iniziarono a succhiare con avidità febbrile. Era
uno spettacolo inusitato: l’ampio torace villoso arrossato, quella leggera
estasi sul viso del signore, il desiderio nei corpi dei due che leccavano e
ciucciavano con foga. Poi ebbi l’impressione che il capo gemesse, dai capezzoli
eretti sul suo ventre iniziarono a danzare getti bianchi e i due, attaccati
ai seni villosi, sembrarono accelerare il ritmo della poppata. Il capo fece
cenno agli altri e alcuni si avvicinarono attaccandosi ad altri capezzoli sul
petto e sul ventre. Poi si staccarono e se ne avvicinarono altri ancora,
continuando a far gioire il loro signore. Infine, per ultimo, fu il turno del
mio iniziatore. Si inginocchiò di fronte al suo signore, questi gli passò la
mano sulla testa cingendogli il collo. Lessi l'inconfondibile sguardo
d’orgoglio e di tenero amore con cui lo fissava e la fiera devozione negli
occhi dell’altro. Ricordi ormai sepolti riemersero nella mia memoria.
Ripensai a quand’ero bambino, a mio padre che mi cullava stringendomi al
petto, al sicuro, prima di partire per la guerra da cui non avrebbe mai più
fatto ritorno. Poi il capo strinse il suo pupillo e quello si attaccò alla
poppa e si nutrì del caldo latte paterno, baciò e leccò le generose poppe e
la distesa villosa tra esse come un cucciolo affettuoso per poi passare ad
assaporare l’altra tetta e l’estasi si dipinse sul volto del suo signore.
Discese a onorare tutte le altre sorgenti e il capo si deliziò. Infine gli iniziatori si
rialzarono. Il capo levò le mani, fece cenno con la testa verso la statua e
li benedisse: <<Abbeveràti
a latte che per secoli da seni di Grande Zizzon
saziato figli e figli di figli, ora voi rendere loro fratelli!>> Gli ierofanti avanzarono,
si disposero di nuovo in cerchio attorno alla sorgente. Entrarono anch’essi
nel liquido sino alle ginocchia avanzando ciascuno alle spalle del proprio
adepto. Quindi si sciolsero le vesti dalle spalle mostrando i petti villosi e
robusti, rimanendo con solo un succinto cingilombi
indosso. Non vedevo il mio Popputo ma avvertii la vicinanza del suo corpo
nudo e caldo dietro di me. Tutti presero di nuovo i capezzoli dei rispettivi
adepti e iniziarono a titillarli. Poi il primo ierofante strinse le mani
sulle spalle del proprio adepto e lo condusse al centro della polla di latte,
si volsero l’uno di fronte all’altro. Lo ierofante si chinò a baciargli il
petto, dette piacere con labbra e lingua a tutti i quattro capezzoli, mentre
quello se lo stringeva al petto non trattenendo gemiti di gioia. Quindi, dopo
che gli ebbe mostrato come fare, se lo attirò al seno e gli porse la sisa invitandolo a fare altrettanto, quello non si fece
pregare, si attaccò e quando dai capezzoli dell’iniziatore iniziò a colare il
latte, leccò avidamente su tutto il torace per evitare che anche una sola
goccia ne andasse sprecata. Quando ebbero finito, uscirono dalla sorgente e
restarono a guardare mentre gli altri adepti erano condotti, uno ad uno, al
centro della sorgente per ricevere il battesimo del latte. Per ultimo
anch'io, di fronte agli occhi silenti dell’intera tribù, fui accompagnato
nella sorgente sino ai lombi dal mio ierofante. Il popputo mi prese per le
spalle e mi fece voltare. Quel viso amorevole che mi fissava, quel corpo
forte e immenso facevano accelerare il battito del mio cuore, come la vista
di quei vasti, ballanti pettorali, di quelle schiere di capezzoli rosei e il
pensiero che stavano per essere miei. Con un sorriso mi strinse le mani e se
le posò sul torace, io strinsi quei seni maschi, assaporando i muscoli duri
sotto la carne morbida che danzava e si gonfiava nelle mie mani, i miei
pollici affondavano nella pelle tenera dei capezzoli ancora lisci, gustando
ogni attimo di ciò che mi era finalmente concesso. Lasciai che il maschione
si chinasse a dare piacere alle mie minuscole tettine,
lo strinsi voglioso, mentre percorrevo ancora con le carezze quel corpaccione e quell’immenso torace, pregustando la
scorpacciata che mi attendeva. E finalmente il popputo si raddrizzò, mi posò
una mano sulla testa e mi baciò teneramente la fronte. Non resistendo affondai
le labbra nel suo collo taurino, percorsi la linea della spalla, tastai coi
denti la possanza dell’omero, discesi quindi lungo la sporgenza del petto in
mezzo alla selva di peluria sino a farmi strada con la lingua verso il primo
grosso lago roseo. Percorsi i contorni dell’areola, lavai la superficie
tenera sinché non si fece coriacea e la punta turrita non sorse a duellare
con la mia lingua, titillai, baciai, strinsi i denti sinché con un gemito non
giunse il primo schizzo di nettare bianco, caldo e infinitamente dolce sulle
mie labbra. Allora mi attaccai e poppai lasciando che la sisa
si gonfiasse e defluisse nella stretta della mia bocca. Discesi poi lungo la
china montuosa, infilando la lingua nella scanalatura sotto il pettorale,
risalendo e mordendo per lasciare il segno sulla pelle bronzea, discesi nella
valle boscosa tra le montagne e la percorsi su e giù. Feci poi argine ad un
rivolo di latte che colava giù e lo dragai risalendo il pendio dell’altra
montagna sino alla sorgente, all’erta torre coloritasi di rosso acceso.
Strinsi in mano la tetta e me la infilai in bocca carezzandola coi denti,
stringendo sempre più, scorrendo dalla vasta area di pelle attorno all’areola
sino a serrare la punta del capezzolo. Il popputo gemeva, il latte sprizzava in
getti talmente forti da inondare tutto il mio corpo stretto a lui. Quindi
scesi lungo il torace cercando tutti gli altri capezzoli per deliziarli con
labbra, lingua e denti e ingozzarmi di tutto il bianco latte che riuscivo a
ingurgitare. Il ritmo dei tamburi si era fatto concitato. La tribù acclamava
alla poppata in un canto selvaggio. E il nettare di quelle sizze era la bevanda più deliziosa ch'io avessi mai
assaggiato, dolce come il latte e caldo come il vino, mi pervadeva di
un’ebbrezza febbrile, di un fuoco incontrollato che mi montava alla testa.
Non sentivo più niente, avevo l’impressione che il mio corpo fremesse a tal
punto da perdere del tutto il senso di sé e del mondo. Il selvaggio che mi
sollevava di peso e mi deponeva su una roccia piatta, ancora semi-immersi nel
latte. Le mie mani infoiate che strappavano il cingilombi
da quelle natiche marmoree, quel membro tesissimo, caldo e pulsante nel mio
pugno. Tutto si confondeva in un vortice delirante disciolto nell’onda
incandescente di quel liquido paradisiaco. La voce cavernosa, supplichevole
che mi tratteneva: <<Non farmi sborrare
latte dal pisello prima che finito con zizze!>>. Io, a cavalcioni in braccio all'omone
mentre, incurante degli sguardi di tutti, mi impalavo sul membro infuocato e
i getti di latte danzanti dai capezzoloni isterici
che giocavano a centrare la mia bocca spalancata per i gemiti. Le altre
coppie di iniziati e iniziatori che si allattavano reciprocamente attorno
alla sorgente e facevano con foga l’amore nelle acque sacre. Non sentivo più
il retto dolorante, non sentivo più niente in assoluto e poi il piacere più
intenso mai provato che scuoteva le mie viscere, infuocato come l’inferno,
talmente forte che non riuscivo neppure a sentirlo se non nella vaga lontana
sensazione del liquido caldo che zampillava agognante dal mio membro, e un
rossore abbacinante che affluiva al mio viso dopo di esso, sotto tutti quegli
occhi che ci fissavano. E poi anche gli altri membri della tribù prendevano a
denudarsi e a sollazzarsi tra loro, ad abbeverarsi gli uni gli altri del
reciproco latte zuccherato. E io ero di nuovo pronto e voglioso. E il
bestione infoiato mi sbatteva supino sulla roccia, a gambe larghe e mi
inculava ancora. E quei seni immensi, villosi e umidi ballavano sulla mia
faccia, nella mia bocca, tra i miei denti. E sopra la spalla possente del
selvaggio, il Grande Zizzon, immobile nella roccia,
ci fissava tutti e sorrideva su quell’orgia benedetta, compiaciuto della
gioia che i suoi figli sapevano donarsi gli uni gli altri. E, quando infine il bruto
si era liberato, gemendo dentro di me, mi afferrava di peso e mi portava nel
segreto della nostra caverna, mi porgeva di nuovo i seni appetitosi e
ricominciava la danza dell’amore. Sapeva dannatamente bene come tenere
occupati tutti i miei orifizi e stremare tutte le mie erezioni. Infine, i capezzoloni scarlatti e martoriati, pervaso dall’estasi
che faceva strillare quella voce profonda e maschia con isteria da femmina,
mi supplicava che stavolta fossi io a scopare lui. E io obbedivo, affondavo
la mia grande spada nell’orifizio caldo assaporandone la stretta bramosa e
umida, lo violavo, lo deliziavo e lo benedicevo più e più volte mentre
continuavo a stringere tutti quei seni ballonzolanti da dietro e ad
assaporarli dal davanti. E gioivo del donargli la gioia. E infine l’estasi
cedeva al sonno mentre la luna piena salutava l’arrivo dell’alba. Il sole era già alto in
cielo quando mi svegliai, la testa appoggiata in mezzo a quelle calde, belle
tette. Mi strinsi ancora a quell'enorme corpaccione,
in preda all'estasi. Non resistetti alla tentazione di scalare di nuovo le
montagne con la lingua e a solleticare la grossa ciliegiona
rosea ed eretta sulla cima. Il bruto si mosse emettendo un dolce, adorabile
suono, che era un misto tra un gemito e un grugnito. Aprì gli occhi e il
faccione barbuto sorrise. <<Ehi, Capezzolone!>> lo salutai ammiccando. <<Terribile svegliare
me così!>> farfugliò lui <<Ora di nuovo voglia!>> Tutti i
capezzoli erano già eretti e il membro barzotto. <<Tu sempre
voglia!>> sorrisi malizioso. L'omone scosse il capo e si levò a sedere
mentre io rotolavo sdraiato accanto a lui. <<Tu maestro!>>
soggiunse scuotendo la testa, guardando dinanzi a sé <<Fare impazzire
me! Io dovere insegnare te ciucciare zizze, ma tu già bravissimo anche in
questo!>> Mi levai a sedere dietro di
lui. Gli passai le mani lungo la schiena, attorno alle spalle e mentre gli
baciavo il collo gli afferrai i pettorali e li strinsi, pieni e forti, nelle
mie mani. Sentii i capezzoli indurirsi sotto i miei palmi, ne presi uno e lo
torsi: <<Anche mio popolo imparare bene quest'arte, Capezzolone!>>
gli sussurrai nell'orecchio. <<Ahh!>>
gemette lui <<Cosa essere... ca-pe-tso-lo-ne!>> <<Grossa zizza, nella
mia lingua. Non vuoi che ti chiami così?>> <<Tu chiamare me come
vuoi!>> rispose lui voltando la testa verso di me con un sorriso
adorante. <<Se tuo
permesso...>> replicai stringendo quelle poppe divine, mentre chinavo
la testa con deferenza e mi accostavo al volto barbuto che ora appariva così
dolce. <<No! Ora tu uno di
noi! Uomo libero!>> sentenziò il bruto scuotendo la testa e avvicinando
la bocca alla mia. <<Libero.... >>
sospirai tra me e mi alzai in piedi, staccandomi e lasciandolo là da solo.
Nudo com'ero mi diressi verso l'apertura della caverna, ove filtrava la luce
del giorno. Ora il selvaggio si fidava ciecamente di me, al punto da non
ostruire più la porta. Ce l'avevo fatta, mancava solo un'ultima carta da
giocare. Presi a raccogliere le mie cose, infilandole nel sacco di pelle
conciata che usavo come bisaccia. Mi affrettai a far sparire nel fondo il
miele con cui lo avevo convinto a giocare il mattino del giorno in cui era
stato ferito. Divino sul suo cazzo e preda davvero succulenta per gli orsi
affamati. Assieme nascosi la punta staccatasi dalla sua lancia proprio quello
stesso mattino, subito prima che il bastone casualmente si spezzasse, e una
corda che tesa tra le radici di un albero avrebbe facilmente fatto inciampare
un uomo in fuga di fronte a una fiera. Era stata una vera fortuna che ci
fossi stato là io pronto a curarlo. Un servigio che avrebbe consolidato
niente di meno che un debito di vita e di sangue. Capezzolone preoccupato, si alzò prontamente e
avanzò verso di me. L'avevo in pugno adesso. <<Che fai?>> mi
chiese. <<Io confessare te...
una cosa.>> risposi serio, senza guardarlo, fissando il vuoto, verso
l'orizzonte. <<Io in mia terra servire grande... capo.>> <<Lui... più bravo a
scopare?>> chiese Capezzolone sorridendo.
Scoppiai a ridere. <<Beh, sì... quasi!
Eccezionale!! E io venuto qui perché promesso di portare lui un...>> la
mia voce si incrinò <<uno di voi!>> Mi voltai e vidi lo sguardo
confuso sul suo volto. <<Perché?>>
chiese sbigottito <<Voi...
bellissimi!>> replicai levando di scatto lo sguardo a fissarlo in viso
<<Avere...>> soggiunsi incerto dandogli una pacca sul petto e
sfiorando un capezzolo per poi prendere la punta e iniziare a titillarla
<<...zizze bellissime! E lui volere uno di voi! Ma... io fallito, tu
catturato me! Ma poi così buono con me, liberato e dato me... cose
bellissime! Ora però, se io davvero libero, tornare a casa. A mani vuote,
fallito, ma devo andare!>> Gli voltai di nuovo le spalle, guardando il
nulla. <<No, non potere andare!>>
esclamò il bestione saltandomi addosso e abbracciandomi con veemenza. <<Non libero
dunque?>> chiesi io voltandomi a fissarlo corrucciato. Quell'enorme
bambinone indietreggiò, abbassò gli occhi, pareva in imbarazzo. <<Sì, potere... se
volere, ma... ti prego... io non volere! Resta scopare con me!>>
Sorrisi fissandolo di sottecchi. <<Bello anche per me!
Ma non potere. Casa mia, mia... tribù... là!>> <<Io non volere tu
andare via!>> ripeté Capezzolone imbronciato,
incrociando le braccia sul petto monumentale. <<Vorrei portare te
con me!>> risposi facendo spallucce <<Ma poi mio... capo, altri
uomini volere te e, dopo che tu... buono con me, io mai dare te... come
giocattolo!>>. Capezzolone si soffermò a
pensare. <<... forse
divertirmi anche io!>> esclamò all'improvviso <<Uomini in tua
terra tutti belli e... bravi scopare come te?>> <<Oh... sì! Anche di
più!>> replicai io allontanandomi verso l'interno della grotta
<<Ma anche crudeli e tu... forse diventare schiavo... Come io
qui!>>. <<Io tuo...
schiavo.>> replicò lui secco <<Credere io uomo libero? Tu salvato
me, donato a mio... corpo... piacere più grande e ora, anche se io non
volere, appartenere a te. Mio corpo felice solo con te... Porta me... io fare
tutto quello che vorrai!>> Quel discorso, pur lasciandomi quasi
interdetto, troncava ogni possibile replica. Mi lasciai nuovamente cadere
seduto sulla pelliccia che ci faceva da giaciglio. <<Se è quello che
vuoi... Ma tuo... capo e tuoi fratelli lasciar andare futuro re?>>.
Quel pensiero se ne portò dietro un altro: l'oracolo di cui parlavano, il
tragico destino della stirpe dai dieci capezzoli... Ma Capezzolone
mi guardava sornione. <<Tu
tranquillo!>> rispose con un improvviso sorriso <<Di questo
parlare dopo...>> <<Dopo cosa?>> Capezzolone ammiccò con le sopracciglia e per tutta
risposta prese a contrarre alternativamente i pettorali facendoli ballare
mentre tutte le sue grosse mammelle parevano salutarmi con un sorriso. Contro
ogni sforzo di volontà, sentii il desiderio infuocarmi. <<Ma no,
io...>> vaneggiai. Per tutta risposta si sedette a cavalcioni sulle mie
ginocchia, mi passò le mani tra i capelli e mi attirò la faccia i mezzo al suo petto. Quel bastardone stava imparando fin troppo bene a usare le mie
stesse arti per zittirmi. Lasciai che mi affondasse la testa in mezzo a
quella morbida selva, che mi intrappolasse in mezzo alle montagne. Poi mi
voltai con foga febbrile attaccandomi alla prima tetta che trovai e mi persi
in quel forte abbraccio che mi trascinava sul giaciglio. C'era una cosa che ero curioso
di provare. Rimasi in piedi mentre lui era seduto. Mi presi in mano il membro
già umido per l'eccitazione e glielo appoggiai sul petto lasciando che quella
peluria mi solleticasse il glande. <<Metti in mezzo alle
zizze!>> gli dissi. Con un sorriso compiaciuto
obbedì. Gli presi le poppe
soppesandole tra le mani, gli solleticai i capezzoli. Presi a stringermele
una contro l'altra attorno al pisello. Lui compiaciuto si chinò a benedire il
mio scettro con la sua saliva. Poi si prese le generose mele e cominciò a sollazzarmici lui stesso. Strette, carnose, piene, calde
avvolgevano il mio membro solleticato da quella foresta di peli. Lo strofinai
su tutto il suo petto assaporando il contatto dei pieni e dei vuoti sulla mia
carne più sensibile, lasciando che l’erezione del mio membro sfidasse quelle
dei suoi capezzoli irti le cui punte lanceolate lo facevano fremere. Il mio
corsiero bagnato iniziò ad accelerare la corsa, a perdersi cavalcando in
quella prateria sconfinata, per poi sprofondare nel solco boscoso tra le
montagne, le mie palle a sbattere sotto le zizze, la punta a svettarne fuori
come una lancia. Avvolgendole con le mani accelerai il ritmo. Sentii il fuoco
invadere i miei lombi e salirmi alla testa, afferrai i capezzoli tra le dita
e continuai a stringerli e martoriarli. Anche lui era eccitato, prese ad
ansimare, a colorirsi in viso, aveva la bava alla bocca mentre la sua lingua
giocava a misurarsi in velocità con il mio destriero, a vedere se era
abbastanza svelta da raggiungerlo con una frustata ogni volta che saltava su.
Infine gemette, le sizze cominciarono ad espellere
latte, la pioggia a colare sulla foresta accelerando la velocità della mia
corsa. Finché non mi sentii mancare e stavolta fu il mio latte virile
a zampillare agognante sul suo petto e sin sul suo viso e continuai a gridare
con possenti spinte liberatorie sborrando la mia anima in mezzo a quelle
poppe tanto agognate, lasciando che il suo latte e il mio seme si
mescolassero in una sola torrenziale pioggia a imbiancare quella pianura
boscosa. Quando anche lui fu pago ed
esausto, giacemmo assieme, i corpi madidi e incollati l'uno all'altro.
Stingendomi ancora al seno, lui mi sorrise. <<Allora venire con
te!>> <<Tua tribù lasciare
te?>> <<Sì, certo, se
sapere che mio destino e in questo modo io sano e salvo!>> <<Ma come? Tuo
destino... il problema! Tu marchio di stirpe di Zizzon!>>
balbettai sfiorando prima una, poi l'altra schiera di capezzoli che
discendeva lungo il torace <<Per loro uomo dai seni piccoli uccidere
te!>> Lui scoppiò in una
fragorosa risata: <<Tranquillo, io pensare loro!>>. Il giorno seguente si recò
con me alla presenza della tribù per annunciare la sua dipartita. Loro
increduli lo guardarono preoccupati. Alcuni levarono imprecazioni contro di
me accusandomi di averlo stregato. Il capo lo guardò disperato dal suo trono
sentenziando tristemente che non poteva permettergli di andare a morire tra
gli uomini dai seni piccoli. <<Mio
destino!>> sentenziò Capezzolone
<<Destino è detto! E io vivrò!>> <<Ma cosa, figlio
mio, io...>> esitò il capo fissandolo sconvolto. Lui si voltò verso di me e
mi fece cenno di avvicinarmi. Perplesso obbedii. <<Lui quell' uomo dai seni piccoli!>>
sentenziò lui impassibile. Un brusio si levò nella tribù. Io lo fissai
incredulo, temendo per un attimo il linciaggio collettivo cui mi avrebbe
esposto. Per tutta risposta mi strappò la veste di dosso lasciandomi ancora
una volta ignudo dinanzi alla tribù. Istintivamente mi portai le mani a
coprire le pudenda. Ma lui mi fece cenno di sollevarle. Io, non sapendo che
accidenti fare, obbedii. La sua mano mi scivolò all'inguine e senza preamboli
mi afferrò il membro, pendulo in mezzo alle cosce. Bastò quel contatto a
risvegliare l'animale a riposo, ma non capivo cosa volesse fare là di fronte
a una tribù di uomini inferociti. <<Sua... grande
spada...>> sentenziò lui. E all'improvviso vidi lo stupore attonito sui
volti della tribù e udii un coro di approvazione. <<Oh sì!>> <<Davvero
grande!>> In effetti, scattata
sull'attenti nella sua mano esperta, svettava quasi al meglio delle sue
potenzialità. <<..già infilzato me
più di una volta!>> sentenziò Capezzolone
<<E io... consumato tutto seme per gioia! Così continuerà sinché,
vecchio, non più seme! E io vivrò. Non continuare stirpe se mio destino
lontano da qui. Ma questa volontà
di oracolo. Nessuno fermare!>>. E l'intera tribù cadde in
ginocchio fissando il mio membro in modo a dire il vero un po' imbarazzante. <<Oh straniero dalla
grande spada>> sentenziò il Capo <<Tu mandato da destino. Noi non
poter opporci. Contento se tua arma gioia e non morte per figlio prediletto
di Zizzon. Tu mai lui del male!>>. Non so se
fosse una preghiera, una minaccia o una predizione. Ma fu così che ci
lasciarono andare. Partimmo. Trovai ancora nella foresta la mia... l’altra mia spada e soprattutto il mio
fedele destriero che mi aspettava, montammo in sella e cavalcai giorno e
notte per giungere in tempo alle tue nozze, mio Signore. Il resto lo sai già!- Il principe continuava a
ridere, non riuscendo a trattenersi. -Era questo che intendeva
il selvaggio? Li hai incantati tutti con la tua grande spada?- fece indicandogli tra le risa il membro a
riposo sotto l'acqua. -Beh!- replicò il cavaliere
impettito -Hanno riconosciuto in me la volontà del destino. E, peraltro, non
sono certo stati i primi né gli ultimi a inginocchiarsi davanti... a cotanta spada con cotanta
ammirazione!-. Sghignazzò anche lui
unendosi al divertimento del suo Signore. -Scusa, amico mio, non rido
di te!- si schermì il principe -Anzi non posso che essere fiero del mio Primo
cavaliere! E complimentarmi se le tue doti amatorie sono state tanto eccelse
da piegare la forza bruta di un selvaggio dall'aria tanto minacciosa! Ora il
popputo fa davvero tutto ciò che gli ordini?-. -Oh sì! È stato disposto a
farsi incatenare e condurre al guinzaglio, si è inginocchiato ai tuoi piedi
solo perché gliel'ho chiesto io! Puoi farlo condurre qui e goderne ancora, se
lo desideri-. -Perché no! Un godimento
che spero vorrai condividere con me- replicò il sovrano appoggiando il
proprio calice sul bordo della vasca. -Sarà un immenso piacere,
se è ciò che vuoi!- Il
principe batté le mani. Dei servitori entrarono prontamente. -Conducete
il popputo qui da me!- sentenziò il signore. Poi un’idea divertita balenò
nella sua mente -Prima però voglio che sia lavato e profumato, tosategli
capelli e barba come quelli di un uomo e abbigliatelo come un principe!-. I
servi lo guardarono intimoriti. -Smettete di tremare come femminucce!-
soggiunse divertito -Ditegli che è il Cavaliere dell’Arpa d’Oro che lo ordina
per conto del suo Sommo Signore e vedrete che obbedirà senza la minima
resistenza. Ora andate!- Gli attendenti si inchinarono e uscirono obbedienti. -Sono
curioso di vedere come sarà, travestito da vero uomo!- rise divertito. Il cavaliere
lo guardò di sottecchi senza replicare. -Quanto apparirà ridicolo?- Quando
la luna da argentea divenne d’oro bussarono nuovamente alla porta. Entrarono
e condussero con loro... una creatura straordinaria a vedersi. Le chiome
erano state tagliate corte sul capo e la barba nera accuratamente rasata era
ben disegnata a incorniciare le guance, il mento e le labbra rosee e carnose.
Due spille d’argento gli trattenevano sulle spalle la tunica di seta bianca
dai ricami scintillanti che cadeva elegantemente sul corpo ritto, possente e
ben modellato. -È
incredibile!- esclamò il principe emergendo in piedi dall’acqua e avanzando a
rimirarlo verso il bordo della vasca, incurante della propria nudità. -Ti
piace la nuova veste, Capezzolone?- chiese compiaciuto. -A
Sua Maestà piace?- replicò l’omone con deferenza -Ora io divertire Voi?- Il
principe non rispose, con gli occhi ancora sgranati. -Non
fai affatto ridere- replicò il Cavaliere dell’Arpa d’Oro emergendo anche lui
dall’acqua -Anzi...- -Sei
tra gli uomini più belli che io abbia mai visto!- sospirò il principe,
sollevando una mano a carezzare quella barba ben rasata. Il viso di Capezzolone divenne completamente rosso mentre allungava
al cavaliere uno sguardo imbarazzato. Pareva un prodigio, così abbigliato
sembrava un vero uomo, immenso, forte e incredibilmente bello. -Non
ti sei visto?- chiese il principe divertito. -Portate qui uno specchio!-
sentenziò. I servi obbedirono. Il
selvaggio si guardò e restò a bocca spalancata. -Lui
essere... me?- chiese incredulo, quasi non riconoscendo l’immagine che vedeva
riflessa in quel vetro, in mezzo ai putti alati che si rincorrevano sulla
cornice d’oro. Il principe scoppiò a ridere. L'omone
lo guardò non sapendo se ridere anche lui o chiedere spiegazioni. -Ti
sei divertito con i miei uomini?- chiese il sovrano compiaciuto. -Sì!-
rispose l'altro sorridendo a sua volta. -Ne
ero certo!- soggiunse il cavaliere, in disparte, strizzandogli l'occhio. -Cavaliere dire me vostra terra piena di
uomini belli e bravi a scopare...- il principe non poté trattenere una nuova
risata -..ma qui... uuuuuuuh! Nessuno mai mangiato
cena da mio petto e io mai ciucciato tante sise e
piselli uno dopo altro, mai avuto tanti uomini tutti per me, o preso tanti
piselli in mano, in bocca, in mezzo mie zizze, in tutte mie parti mentre
altri uomini impalati su di me e io schizzato tante volte da pisello in culo
e da zizze in dieci bocche assieme!- -Ehi!-
fece il principe appoggiandogli due dita sulle labbra -Ora che sei un vero
signore non sta bene che tu dica certe sconcezze davanti al tuo futuro re!- -Oh!
Perdonate!- fece di riflesso l'omone confuso -Voi non piacere queste cose?-
abbassò lo sguardo e il principe, nudo com'era, non poté proprio nascondere
quanto invece gli piacessero e gli piacesse sentirle raccontare. -A
ogni uomo piacciono!- rispose il sovrano tornando di nuovo serio, fissandolo
impassibile con i suoi occhi di ghiaccio -Come piacciono a te!-. Abbassò lo
sguardo sui capezzoli eretti le cui capocchie facevano chiaramente capolino
sotto la seta, sotto i due seni anche gli altri otto svettavano dietro la
stoffa, risvegliati dall'intensità dei ricordi. Il principe gli prese in mano
una poppa, la strinse. Afferrò la punta tra due dita e torse sinché il dolore
non deformò il viso dell'omone. Accostò la bocca al suo orecchio lasciando
che i lunghi e setosi capelli d'oro gli sfiorassero il collo e il viso e
soffiando appena sussurrò: -Fa’ divertire me, adesso!-. Discese a baciare quel collo
taurino, assaporando la pelle lavata e profumata, che non aveva perso però il
suo gusto salato. Discese sul petto muscoloso, le areole rosate sembravano
guardarlo e sorridere come tanti occhi attraverso la seta, resa
semitrasparente dal contatto con il corpo ancora bagnato del principe.
Discese sul primo, a destra, e lo assaporò con la lingua attraverso la
stoffa, lavò fin quasi a voler svellere i fili di tessitura, poi affondò i
denti con tutta la forza che aveva facendo gemere il bestione e frattanto
prese tra pollice e indice la coppia di capezzoli sottostante, alla base dei
pettorali e cominciò a rotearli e a torcerli all'improvviso. Il viso paonazzo
e deformato, Capezzolone iniziò a emettere
gridolini rochi mentre il principe seguitava a succhiare e mordere ora un
capezzolo ora l'altro sinché non sentì le punte dure fremere e la bianca seta
bagnarsi di latte. Assaporò la stoffa madida e infine strappò via la tunica
denudandolo. Il suo corpo era uno spettacolo ora che i peli sul suo petto
erano stati rasati, accorciati, e resi più “umani”, un'enorme colosso dai
muscoli bronzei, le due schiere di capezzoloni
rosei contro la pelle soda e abbronzata, stillanti di latte. Il principe lo
strinse a sé per sentire tutte quelle piccole lance erette trafiggere il suo
petto e quel nettare delizioso impregnare anche il suo corpo. Il selvaggio,
estasiato e in brodo di giuggiole, afferrò il grosso fallo eretto del giovin signore. -Dissetami
ancora!- imperò il principe riempiendosi le mani di quel corpaccione
mastodontico. -Mie
zizze tutte per voi!- sentenziò il selvaggio tirando il petto in fuori. Il
principe come impazzito ne afferrò una e se la infilò in bocca. Il selvaggio
strinse a sé quei capelli d'oro e quel corpo glabro, liscio e scultoreo,
imperlato di rivoli d'acqua. Levò lo sguardo al bel cavaliere, ritto in piedi
nella vasca e questi gli sorrise e annuì col capo in segno di compiacimento.
E quando il suo signore, volgendosi a guardarlo con la bocca ancora piena,
gli tese la mano non esitò ad andare a unirsi alla poppata. E tutta la notte
esplorarono quel corpo immenso per godere ogni sua secrezione, dettero
piacere a quei capezzoli mentre i loro ne ricevevano da lui, consumarono ogni
goccia del latte di quel petto possente per poi inondarlo nell'apice del
piacere con quello dei propri lombi e in mille altri giochi si intrattennero
ancora sinché non caddero esausti, tutti e tre assieme, nel grande talamo
regale. Ormai
tutto era pronto per le nozze regali. La nobiltà di tutto il regno era stata
invitata ed era prontamente accorsa per assistere. L'intera capitale era
parata a festa. Le strade e i luoghi sacri erano addobbati dei fiori più
belli. Le cucine regali erano in fermento e già tutto era stato predisposto
per il banchetto di nozze nel castello e per quelli da offrire al popolo
nelle strade. La gente aveva acclamato l'arrivo in città della futura regina,
che però, pudica e virtuosa quale era, si era ritirata nel segreto degli
appartamenti riservatile nel palazzo reale per non mostrarsi ad anima viva
sinché non fosse uscita ammantata dei candidi veli nuziali. Tutto era pronto
e già i nobili, come il popolo, s'apprestavano a festeggiare la vigilia delle
nozze. Solo un ultimo dettaglio mancava all'appello: lo sposo. La regina
angosciata vagava avanti e indietro per la sala del trono chiedendosi che
fine avesse fatto suo figlio, perché ancora non si fosse presentato a
palazzo. Il re la esortò a tranquillizzarsi: il principe voleva concedersi un
ultimo festeggiamento con i suoi compagni, forse avevano un po' esagerato,
come è normale che facciano i giovani a quell’età, e ora stava riprendendo le
forze prima di rientrare a casa. Ma poiché la sua sposa non si calmava e lui
stesso iniziava a chiedersi cosa, davvero, fosse accaduto a suo figlio, la
rassicurò: lui stesso sarebbe partito in segreto seduta stante a cercarlo con
una scorta. Baciatala sulla bocca con lo stesso tenero amore del loro primo
giorno di matrimonio, si accomiatò e, convocati i suoi veterani più fidati,
partì al galoppo. Ripensando alla sua ultima notte da scapolo di ormai tanti
anni prima, non ebbe alcun dubbio a dirigersi diritto al Castello delle
Delizie. Erano
passati ventuno anni da quando era giunto in groppa al suo destriero al
palazzo reale per ricevere l'annuncio della nascita del suo erede. Ed ora
correva al galoppo da lui per condurlo alle nozze con la migliore delle
spose. Anche se ora la sua barba era divenuta grigia, era ancora un guerriero
forte e fiero, eretto nell'armatura sul suo corsiero, e già aveva uno
splendido erede pronto a reggere il suo regno e a continuare la sua stirpe.
Era davvero un uomo fortunato. Allora perché uno strano presentimento
offuscava il cielo azzurro e terso di quella giornata di festa? Quando
giunse al Castello tra i monti, il silenzio regnava ovunque. Il sole era già
alto, ma il portiere, svegliato di soprassalto, si scusò dicendo che il
principe stava ancora riposando. Il re, sforzandosi di portare pazienza,
entrò senza fare troppo chiasso. La Sala delle feste era ancora sottosopra, i
resti di un sontuoso banchetto, avanzi di vino e succulente prelibatezze,
erano sparsi qua e là sulla tavola, tovaglie e broccati cremisi sgualciti e
gettati ovunque in disordine, i bracieri delle lampade d'oro consumati,
persino le vesti erano state strappate e gettate qua e là nella foga dei
bagordi. Al re sovvennero ricordi di follie della sua ormai lontana gioventù.
Tutti gli ospiti si erano ritirati nelle camere da letto e la porta d'oro
massiccio degli appartamenti del principe era chiusa. -Sua
Altezza sta riposando! Sarà da Voi più tardi!- sentenziò un nano vestito da
giullare ritto davanti alla porta. Addirittura un custode: per vegliare sul
suo semplice sonno? Scuotendo la testa il re decise di pazientare ancora un
po' facendo una passeggiata in giardino. Attraversando le sale del
castello si dilungava a rimirare tutte le folli inezie che si era dilettato a
collezionare suo figlio. I serpenti verdi, quel grosso e inquietante corno
d'argento, gli enormi animali impagliati e l'ingente varietà di pennuti dai
colori infuocati e improbabili che riempivano la gigantesca voliera. -Dai! Fammi vedere le sizze!- gemette all'improvviso una voce alle sue spalle. -Cosa?- chiese il re
voltandosi di scatto. Pareva la voce di suo figlio. -Dai! Fammi vedere le sizze!- ripeté con l'inconfondibile voce del principe un
pappagallo dalle piume rosee appollaiato nella sua grande gabbia d'oro. Quei
dannati pennuti! Pensò il re, riprendendosi dalla sorpresa con un profondo
respiro. Sapevano imitare la voce umana in modo tanto perfetto da ingannare
chiunque. -Per gli dei! Che petto
appetitoso!- strillò ancora il pennuto con la stessa voce. A quanto pareva il
principe si era ben dato da fare in quell'ultima notte di gioventù, pensò suo
padre con un sorrisino. Si era fatto sentire sino in quella sala? Il suo ragazzo
sì che era giovane e vigoroso e sapeva come divertirsi. -Che possanza!- fece con la
stessa voce un altro pappagallo appollaiato su un trespolo in una gabbia
vicina -Avrei voglia di strapparti tutti questi bei peli a morsi!-. Il re aggrottò le ciglia confuso. -Così fate eccitare me, mio
principe!- replicò all’improvviso un pappagallo dorato con una cavernosa e
profonda voce maschile. Il sorriso sul volto del re mutò. -Lo vedo, mio caro!-
rispondeva il pappagallo con la voce del principe -I tuoi capezzoloni
sono già tutti duri come piccoli cazzi!- -Li volete, mio principe?-
replicò il pennuto con la voce da maschione. -Sì! Fammi assaggiare
queste fragole!- replicò con la voce del figlio del re un altro uccello
ancora. -Mie sizze
sono tutte vostre!- -Che buon sapore maschio
hanno! E che muscoli incredibili!- quel concerto di botta e risposta tra
pennuti risuonava in tutta la sala. -Belli, Altezza?- -Mai visti di così
prestanti!- -Ah, ciuccia più forte,
fammi godere!- quel teatrino iniziava ad assumere toni inquietanti. Oscuri
ricordi riecheggiarono nella testa del re. -Ah sì, allattami, Capezzolone, mentre ti sego questa grossa mazza!- -Mmmm! Sììì cosììì!- Il volto del re sbiancò
all'improvviso. Che significavano quei lazzi osceni? -Che accidenti state
dicendo?- gridò all'improvviso sconcertato. -Dammi il latte delle tue
tette maschie!- replicò un altro pappagallo. Il re non voleva riconoscere la
voce di sua figlio, così deformata da quell'ansimante voluttà oscena. -Dammi il latte delle tue
tette maschie!- -Dammi il latte delle tue
tette maschie!- ripeterono in coro i pennuti facendo riecheggiare il grido da
una gabbia all'altra. -Basta! Basta! Basta!-
gridò il re come impazzito portandosi le mani alle orecchie. -Aaaaaaaaaaaaaah! Sìììììììììììììììììììììì!-
gemeva un altro pennuto imitando perfettamente la voce calda dell’altro
maschio nel bel mezzo di un amplesso. -Mmmmm! Buono! Adoro il latte di maschio, è la
cosa più dolce che abbia mai bevuto!- -Ah sì, fa' godere me,
cucciolo, ciuccia latte della sisa di papà!- Il re sentì il terreno
sprofondargli sotto i piedi. Cos’era? Il suo peggiore incubo che prendeva
corpo? Un ricordo dimenticato, mai svelato ad anima viva. Non poteva essere!
Chi accidenti aveva ammaestrato quelle bestie? -Che significa questa
farsa?- gridò, ma nessuno rispose. -Che significa questa
farsa?- -Che significa questa farsa?- replicarono
gli uccellacci in coro imitando la sua voce alla
perfezione. Avrebbe tirato loro il collo ad uno ad uno. Ma se stavano davvero
ripetendo quanto udito dalla voce di suo figlio? Cosa in tutti gli Inferni
stava accadendo? Come posseduto, il re si voltò sui suoi passi e attraversò
la sala veloce come il vento. Vedeva solo oscurità innanzi a sé mentre
arrancava disperato tra quelle sale delle meraviglie diritto verso la porta
dietro cui si trovava il suo principino. Che stava facendo? Che gli avevano
fatto? Terrorizzato afferrò i battenti d’oro massiccio. -No, Maestà, Vi prego! Il
principe... è ancora occupato!- gracidò il nanerottolo alla porta. Il re,
infuriato lo gettò a terra con un calcio e spalancò il portone. I corridoi
erano deserti ma il re udì grida soffocate simili a quelle di un innocente
che veniva strangolato. Si precipitò alla camera da letto. Grossi satiri
villosi danzavano affrescati sulle pareti, intenti a rincorrere in mezzo ai
boschi diafani efebi nudi, pronti a predare la loro innocenza. Una danza
inquietante e sinistra, come le sontuose tende rosse e dorate del
baldacchino, rosse come la cascata di sangue del suo ragazzo che già vedeva
sgozzato in mezzo a quel talamo, come i gemiti strozzati che sentiva risonare
dietro le cortine, simili a lamenti di morte con cui la sua creatura
supplicava, invocando aiuto. Il re scostò via le cortine
e lo spettacolo che gli si parò dinanzi lo paralizzò. Tre uomini nudi,
inginocchiati tra i cuscini di satin, sembravano saltati fuori dalle
conturbanti pitture parietali. Al centro un enorme e bel satiro barbuto dal
corpo immane e possente, sul petto aveva due grossi seni villosi, larghi e
muscolosi come i pettorali di un uomo ma generosi e sporgenti come le poppe
di una donna. E attaccati ad essi intenti a suggere a ritmo cadenzato uno a
un lato, uno all’altro, si stringevano a lui due giovani uomini dai corpi già
formati e ben torniti ma ancora longilinei, lisci e glabri, le candide
natiche ignude in bella mostra e le lunghe chiome, bionde dell’uno e scure
dell’altro, disciolte sulle spalle, a formare una cortina sul petto
dell’omone. Il bruno, dai riflessi ramati, si stava staccando dalla poppa e si
chinò più in basso sul torace. Il re vide altre infiorescenze rosse, simili a
grossi capezzoli che si susseguivano da entrambi i lati del petto e del
ventre simili a quelle più grosse dei capezzoloni
che incoronavano i seni. Il giovane si accostò a uno di essi e iniziò a slinguarlo e con orrore il re si accorse che dalla poppa,
così come da tutte le altre mammelle, zampillavano rivoli candidi simili a
latte. Il gigante stringeva entrambi i giovani tra le sue braccia monumentali
e il biondo, seduto a cavalcioni di un suo ginocchio gli stringeva il grosso
membro equino con una mano, mentre poppava intento una tetta tra le labbra.
Il re era immobile, pietrificato. Alla sua età non credeva che uno spettacolo
del genere gli avrebbe fatto agitare tante emozioni contrastanti nel cuore e
nei visceri. Solo pochi attimi prima che, consapevoli della sua presenza, i
due giovani si voltassero e che il viso del suo biondo figliolo, la bocca
imberbe ancora gronda del latte di quella tetta villosa non lo colpisse come
un atroce pugno allo stomaco. -Noooooooooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!!!!!!- un grido roco e sordo gli
rombò dalla gola rimbombando contro la cupola del soffitto. Paonazzo in
volto, afferrò il suo marmocchio per i lunghi capelli e, strappatolo alle lenzuola,
lo trascinò di peso giù dal letto, fuori dalla porta nel corridoio, per
scaraventarlo per terra, le natiche contro il freddo del pavimento. Il
Popputo era scattato in piedi, pronto a intervenire, se l’altro uomo non
l'avesse fermato. Ma il re incurante di tutto prese a vomitare su suo figlio
un fiume di improperi: -Figlio degenere! Per tutti
gli inferni, cosa accidenti hai fatto!!!??? E io che ho sprecato la mia vita
a viziarti! Che avevo investito ogni mia speranza su di te! Sei uno
smidollato, una bestiola perversa!!! Come hai potuto? Getterai il mio regno e
la mia stirpe nel fango e nella rovina!!!!! Ci hai disonorati tutti per
sempre!!!!- Il suo moccioso si levò
sconvolto, ignudo com’era, le chiome bionde strappate e scarmigliate,
ripulendosi i rivoli di latte che aveva ancora ai bordi della bocca. -Come osate? Si può sapere
cosa mai avrei fatto?- strillò piagnucolando -Ho seguito il mio cuore e
dovrei essere punito perché esso risiede altrove da dove Voi avreste
voluto!?- -Il tuo... cuore?- ansimò
l’uomo furente. -Mi spiace Padre!- frignò
il principino viziato rizzandosi con alterigia -Ma non potete costringermi a
fare ciò che non voglio! Perché volete farmi passare il resto della vita
recluso accanto a una sposina virtuosa e frigida!? Forse Voi siete troppo
vecchio per sapere cosa significhi ardere di passione, godere ed essere
felice! Ma io no! Perché nessuno vuole lasciarmi in pace!?- Prese a strillare
come un ossesso. -Razza di imbecille!- gli
gridò il padre mollandogli uno schiaffo in pieno viso con la mano guantata, tanto forte da accopparlo di nuovo a terra
-Cosa credi che facessi io alla tua età? Credi che, dall'instancabile
guerriero che ero, non abbia infilato il mio regale uccello in tutti i conni delle dame della corte e anche tra le natiche di
buona parte dei cavalieri? E, con sommo rispetto per la tua augusta madre,
credi forse che, dopo essermi sposato per dare al regno quello che credevo
sarebbe stato un degno erede, qualcuno mi abbia impedito di continuare a
divertirmi quando e con chi più mi piaceva? Un re fa ciò che vuole nella sua
camera da letto, ma tu... ..tu sei riuscito a macchiarti dell'unica
perversione contro natura che ti condurrà alla rovina!!!- Il
principe levò gli occhi umidi e infuriati senza comprendere: -Che accidenti state
dicendo?- strillò. Suo padre si voltò con aria
disgustata e senza guardarlo si allontanò verso la parete opposta. -Tu
non capisci!- continuò con voce grave -La notte in cui venisti al mondo,
preoccupato per la tua sorte, mi recai dalla veggente più potente e temuta
del regno. Ella mi disse che se mio figlio fosse stato allattato al seno di
un maschio, costui poi lo avrebbe ucciso, strappandogli il cuore! Com'ero
felice io pensando che il mio figliolo per leggi di natura sarebbe stato
invulnerabile! E quanto sono stato sciocco!- Il
principe lo fissò, confuso ed esterrefatto. -È
questo che vuoi?- gridò il re voltandosi a fissarlo con feroce esasperazione
-Vuoi morire? Tieni così poco al tuo miserabile cuore? Vuoi lasciare tuo
padre senza un erede e la tua terra senza un re?- -Padre,
perché?- chiese il principe confuso -Perché non me l'avete mai detto?-. -Avrei
dovuto pensare che mio figlio fosse talmente vizioso da andare a fornicare
con l'unico mostro che fosse in grado di distruggerlo!?- Valutata
la situazione, il principe si levò in piedi, recuperando finalmente il
controllo -Va bene! Non preoccupatevi, Padre. Penserò io a sbarazzarmi di
lui!- -E
come? Hai fatto entrare quella creatura demoniaca, forte quanto cento uomini,
nella tua camera da letto, dove sei nudo e vulnerabile!- -So
come tenere in pugno la sua volontà!- lo rassicurò il principe -So di avervi
deluso, Padre, ma, vi prego, abbiate fiducia in me!- -Come
potrei non preoccuparmi, sei il mio unico figlio!- -Lasciate
che sistemi la cosa! Poi, oggi stesso, verrò con Voi! Domani sposerò la
regina che Voi e mia madre desiderate e in seguito continuerò a divertirmi
con chi io desidero!- concluse con
espressione fiera. -Ti
prego, sta attento!- fece il padre e, superata ogni ostilità, abbracciò suo
figlio, timoroso per la sua vita. -State
tranquillo, Padre!- lo rassicurò il principe -Fate chiamare i miei servi e
scegliete pure il ragazzo o la ragazza che più vi piace per intrattenervi
mentre attendete! Sarò da Voi al più presto!- Ciò
detto, rientrò spedito nella sua stanza. -Che succede?- chiese il
Cavaliere dell’Arpa d’Oro preoccupato e perplesso. -Nulla di grave!- lo zittì il
principe. Gli passò una mano attorno al collo, tra le lunghe chiome e lo
attirò a sé con gesto affettuoso accostandogli la bocca all’orecchio: -Puoi condurre Capezzolone
nella torre, mettergli dieci guardie alla porta e assicurarti che non esca?-
sussurrò con voce ferma. -Ma perché... cosa...?- il
cavaliere era perplesso, ma riconobbe sul viso del suo signore l’espressione
imperiosa che non ammetteva repliche –Sarà fatto, mio Signore!-
assentì, chinando il capo. Indossate le brache, condusse fuori il Popputo.
Questi si lasciò guidare senza obiezioni e quando, introdottolo nella stanza
più alta della torre, il cavaliere cercò di rassicurarlo, gli rispose
serenamente che si fidava di lui e che avrebbe fatto quanto gli ordinava. Il
cavaliere ebbe un tuffo al cuore. -Perché?- chiese confuso
rientrando negli appartamenti regali. Il principe aveva cinto la sua veste da
camera di velluto cremisi orlato d’oro e sedeva allo specchio mentre dei
servitori terminavano di spazzolargli le lunghe chiome. Vedendo l'immagine
del cavaliere riflessa nello specchio gli sorrise. -Tu sai quant'io tenga a
te,- lo apostrofò -quanto sia felice di averti di nuovo accanto a me e quanto
ti sia grato per il meraviglioso dono che mi hai fatto?- -Sono lusingato di
sentirtelo dire, mio Signore!- rispose il cavaliere con deferenza. -Cosa faresti per me?-
chiese il principe con aria noncurante. -Qualsiasi cosa, lo sai,
mio Signore!- -Bene!- replicò alzandosi
di scatto e scansando i suoi attendenti. Aprì uno scrigno e vi infilò una
mano -Allora ho ancora una richiesta per te!-. Si voltò, stringendo in mano
un pugnale dall’elsa d’oro decorata di un grosso rubino. -Il tuo dono di nozze è il
più bello che io abbia ricevuto! Ma, perché sia completo, voglio che tu ti
rivesta, prenda questo pugnale, vada dal Popputo e lo uccida, sì che il suo
corpo possa essere impagliato e perennemente esposto nella mia splendida
collezione!- Gli prese le mani tra le
sue e gli lasciò scivolare l'elsa nella destra. Il cavaliere si sentì
annichilire vedendo il suo incerto, oscuro presentimento prendere corpo: -Ma... perché...?- tentennò
-Non è meglio divertirsi con lui vivo?- -L'ho fatto!- replicò il
principe -Ma mi ha stancato! Va'!- Il cavaliere strinse il
pugnale, con la sensazione che glielo avessero infisso nel cuore. Di scatto
cadde in ginocchio: -Ti prego, mio Signore, non chiedermi questo! Già l'ho
strappato alla sua gente, l'ho circuito per condurlo qui, l'ho privato della
libertà e trasformato in un giocattolo. Non posso fargli anche questo!- -Mio prode guerriero,- il
suo signore lo fissò dall’alto in basso con alterigia -il tuo cuore si è
rammollito a tal punto? Non mi hai mai deluso da quando, riconoscendo il tuo
valore, ti sottrassi a una milizia di furfanti e, ricordando le tue nobili
origini, feci di te un cavaliere! Non deludermi adesso!- Sentirsi ricordare il
debito che lo legava al suo signore per l'eternità fu come una pugnalata
nello stomaco. -Ti supplico!- implorò -So
bene di doverti tutto. Dopo che il mio nobile padre mi lasciò, cadendo da
eroe, fui costretto a sopravvivere combattendo battaglie altrui, facendo
l'unica cosa di cui ero capace. Ero un mercenario senza onore sinché non mi
prendesti al tuo servizio. Tu mi hai restituito ogni cosa. E io farei tutto
per te, ma questo... è davvero necessario?- -D'accordo!- il principe
scosse la testa -Uscite tutti!!!!- sentenziò rivolto ai servi. Quando furono
soli, gli fece cenno di alzarsi, si avvicinò e gli appoggiò le mani sulle
spalle, stringendolo con affetto cameratesco. -Tu sei colui a cui tengo
più di ogni altro, il mio migliore amico, il mio cuore, il mio braccio
destro! Voglio che tu sia il mio testimone, che tu sia accanto a me, domani
alle mie nozze e per sempre, quando sarò ammogliato e quando sarò re!- -Mi onori davvero!- rispose
il cavaliere commosso, senza capire però dove volesse andare a parare. -Sei l'unica persona di cui
mi fidi davvero! Per questo voglio svelarti un pernicioso segreto!- proseguì,
staccandosi e iniziando a misurare a larghi passi la stanza. -Quando nacqui, mio padre
ricevette un oracolo!- -Tutti sanno che sei nato
sotto auspici fausti e grandiosi, mio Signore!- -No! Tutti lo credevano!
Incluso mio padre. Ma l'oracolo disse ben altro. Disse che quando fossi stato
allattato al seno di un maschio, costui, e costui soltanto, mi avrebbe
ucciso!- -Per tutti gli dèi!-
bisbigliò il cavaliere esterrefatto. -Ora capisci perché quella
creatura deve morire!?- replicò il principe voltandosi verso di lui, con lo
sguardo iniettato di sangue. -Capisco bene, mio Signore!
Ma, se mi permetti, se c'è una cosa che ho imparato è che gli oracoli sono
ambigui e ingannevoli, che il loro senso è spesso diverso da quello che
credono gli uomini e...- -E nel dubbio vuoi che io rischi
la mia vita? Che rischi di lasciare la mia stirpe rischi senza un erede e il
mio regno senza un re?- -No. Mai, mio Signore!- replicò il cavaliere
sconfitto, il volto immobile e inespressivo. -Allora va'! Io devo
recarmi alla capitale per occuparmi della verginella da impalmare. Tu va' e
strappagli il cuore, come lui avrebbe dovuto strapparlo a me, e portamelo
alla capitale in questo scrigno d'oro, come ultimo dono di nozze! Consegna il
suo corpo ai miei impagliatori affinché si occupino di lui, che resti tra i
miei tesori a memoria della gratitudine che ti dovrò in eterno!- -Sarà fatto, mio Signore!- -Fa presto allora! Ti
voglio accanto a me domani! E non crucciarti per l’anima di quel selvaggio,
ammesso che ne abbia una. Io e te abbiamo una vita intera e un regno da
condividere assieme!- lo abbracciò forte e uscì, lasciandolo solo, con il
ricordo del velluto profumato e delle chiome setose bruciante sulla pelle
nuda e il baratro più nero in fondo al cuore. Più
tardi, senza neppure rivestirsi, con le sole brache indosso e il pugnale in
mano, il cavaliere si avviò verso la torre. Al posto del cuore sentiva un
macigno. Benché giovane, aveva ucciso molti uomini in guerra, con alcuni si
era rotolato assieme nella polvere nella foga della lotta, aveva udito
battere il loro cuore, ma a nessuno era stato davvero così vicino, nessuno
gli aveva dato quanto gli aveva dato quel buon, innocente selvaggio. Ma non
era questo il momento di tentennare, gli disse l'anima fiera del soldato che
era in lui. Se era questo che il suo signore chiedeva, questo doveva essere
fatto. La pietà è per i deboli. Aveva lottato una vita per l'affetto del suo
principe, ora che finalmente lo aveva per sé, niente e nessuno glielo avrebbe
tolto, non certo quell'ingenuo selvaggio, né la sua stessa debolezza o quello
strano, confuso fremito che gli si agitava nel cuore. Ma per quanto tempo il
suo volubile signore sarebbe stato contento? A quale altra irragionevole
richiesta avrebbe dovuto obbedire la volta seguente per conservare il suo favore?
Per quanto ancora sarebbe continuata così? E quando la sposa regale avesse
partorito un figlio, quello non sarebbe divenuto il primo nell'affetto del
proprio padre al posto suo? Vergognandosi di quei pensieri ingrati e
irrispettosi li scacciò dalla propria mente mentre entrava nella cella alla
sommità della torre. Era
già il crepuscolo e il selvaggio giaceva a terra addormentato, il dorso
appoggiato al muro sotto la finestra, nel riverbero degli ultimi raggi del
sole. Era completamente ignudo come vi era stato portato quella mattina. Coi
capelli, la barba e il petto ben rasati, pareva davvero un uomo, un
gigantesco e magnifico Ercole a riposo. Avrebbe
dovuto agire subito, pensò il cavaliere, sinché dormiva sarebbe stato più
facile. Era così bello e aveva un'aria così dolce mentre riposava, col sole
che indorava la peluria sui muscoli rilassati, i dieci capezzoli lisci e
rosei contro il torace bronzeo e quell'espressione da bimbo immerso nei sogni
sul volto da uomo. Non resistette, si chinò e lo baciò con tenerezza paterna,
sulla fronte e sulle palpebre chiuse. Quello si riscosse, dischiuse gli occhi
e gli sorrise. Accidenti! Perché doveva essere tanto difficile? -Tu
tornato!- disse Capezzolone sorridente,
stringendogli la mano che gli stava accarezzando i capelli -Io contento tu
qui! Mancato me!- Il
cavaliere gli strinse la mano più forte, incapace di dire o fare alcunché.
Avrebbe potuto stritolargliela per la tensione, ma per quel bestione la sua
stretta non era che un corroborante massaggio. -Tu
vuoi suonare per me?- chiese l'omone. -Sì,
Capezzolone. Ti canterò una ninnananna!- bisbigliò
il cavaliere. Aveva ancora con sé la cetra che si era fabbricato nel bosco
con il guscio di tartaruga, la prese e iniziò a pizzicare le corde e a
intonare una melodia triste. Il selvaggio, seduto a terra, gli appoggiò la
testa sulle ginocchia e si lasciò cullare da quella melodia. Il cavaliere
sperava solo che si addormentasse per porre fine il più in fretta possibile a
quella straziante agonia. Ma sentiva la propria voce rotta e agitata. Quando
la ninnananna finì, l'omone volse la testa in su sorridendo e fissò gli occhi
del suo signore, infuocati e tristi mentre fiotti di lacrime gli rigavano le
belle guance. -Devo
morire, vero?- chiese placido e sorridente il selvaggio. Il cavaliere aveva
la gola troppo gonfia per rispondere. -Mia
gente non stupida come voi credere- soggiunse -Ma io contento. Se per tua
felicità morire, io felice, farlo per te!- -Io
non vorrei, credimi!- sussurrò il cavaliere. Il bruto tese una manona ad asciugargli le lacrime. -Non
piangere! Tu non vedere me? Tu portato me per pochi giorni in mondo bello,
reso me uomo civile, reso me... bello! Io contento, morire adesso. Mia
felicità schiava a te, come tua schiava a tuo principe. Per tuo volere, modo
più bello di morire e io contento, tu a farlo!- Il
cavaliere piangendo gli carezzò la testa, chiedendosi se dietro
quell'ingenuità non si nascondesse davvero una grande e sorprendente
saggezza. -Una
sola cosa posso chiedere...?- -Cosa?-
bisbigliò il cavaliere. -Ultima
volta, fai con me... l'amore! Così voi dite?- Era
la prima volta che pronunciava quella parola. Travolto da un istintivo moto
d'affetto, il cavaliere balzò in piedi e si chinò a baciare quella bella
bocca rosea. Capezzolone ricambiò il bacio. Le loro
labbra si accarezzarono, si fusero, si aprirono una all'altra, le loro lingue
si cercarono con ardore, pronte a darsi conforto. Le manone
del selvaggio erano divenute infinitamente dolci e delicate sulle sue guance
e tra i suoi capelli. Il cavaliere sollevò quel bel viso barbuto e lo strinse
tra le mani a coppa, ciascuno dei due pareva volersi abbeverare all'anima
dell'altro, mentre il sole scompariva all'orizzonte e il crepuscolo cremisi
lasciava il posto alla sera color dell'indaco. Baci e carezze si protraevano
in una dolcezza febbrile sinché le stelle non si erano già accese nel cielo. Capezzolone stringeva l’altro serrato a sé, petto contro
petto, ché le loro carni nude potessero toccarsi e godere l'una del calore
dell'altra, i seni villosi e appuntiti contro i muscoli glabri del cavaliere.
Con una mano questi discese sul torace immenso dell’omone per stringere le
poppe e sentire sotto di esse il battito del cuore. I capezzoli reagirono
prontamente al calore della mano artigliandone il palmo. Poi le labbra del
cavaliere discesero ancora una volta a carezzare la guancia barbuta, a
infilarsi nel collo e nell'incavo del petto. Si chinò prima su una sisa, poi sull'altra e succhiò con foga facendole godere
per l'ultima volta. Discese a suggere tutti i dieci meravigliosi capezzoli e
infine il fallo eretto, desideroso di donare al suo amante tutta la gioia di
cui era capace. Si lasciò strappare le brache con brutalità e allattare sino
a saturarsi di quel nettare di felicità. Nudo, lasciò che il suo amante lo
afferrasse, rotolandogli sopra e esplorando anch'egli tutto il suo corpo per
cavarne ogni ansito e gemito di piacere di cui fosse capace. Infine i loro
corpi divennero una cosa sola in quel tripudio di baci, carezze e morsi. Il
cavaliere cavalcò impalato sul membro del suo amante e poi, sdraiatolo a
gambe all'aria, affondò con tutta l'anima nelle sue viscere, contemplando
ogni sussulto di piacere l'uno negli occhi dell'altro. Infine
giacquero avvinti sul nudo pavimento, madidi di sudore, latte e seme virile
sotto la luce della bianca luna. Ancora sdraiato con la testa contro quel
petto immenso, forte e morbido, il cavaliere scoppiò di nuovo in singhiozzi.
Maledetto il giorno in cui l'aveva incontrato, pensò. Possibile che quel
selvaggio fosse divenuto talmente esperto nelle arti che lui stesso gli aveva
insegnato da rendergli tanto arduo il compito da svolgere pur senza opporgli
la minima resistenza? -Non
saresti stato capace di balzare giù da quella finestra?- gli chiese
all'improvviso sollevando la testa. -Certo!-
rispose l'altro –Grande e forte, io alzarmi illeso e camminare via!- -E
potresti anche ammazzare me e fuggire, evitandomi un compito tanto doloroso!
Perché non l'hai fatto?- chiese con gli occhi colmi di lacrime. Il
selvaggio gli prese il viso tra le mani e lo fissò dritto negli occhi: -Tu sai perché!- rispose
serio. -Ora basta!- sentenziò poi
e si staccò da lui facendolo rotolare al suo fianco. Il cavaliere si alzò a
sedere. -Prendi pugnale!- ordinò Capezzolone. L'altro,
come inebetito, obbedì. -Basta
piangere! Sii uomo!- sentenziò con viso fiero. Il cavaliere trattenendo le lacrime passò
il braccio attorno alle spalle dell'omone e se lo strinse forte al petto,
baciandogli ancora la fronte e il capo mentre i suoi occhi disperati
fissavano il vuoto. -Vita bellissima per te con tuo principe, e spero anch'io
con te in... in piccolo angolo, qui!- disse l'omone sfiorandogli il petto con
la mano, all’altezza del cuore. -Amore!-
soggiunse poi sospirando, parlando quasi con sé stesso. -Non strano? In
vostra lingua parola per dire cosa che non vedere e non toccare. Ma adesso io
sentire così forte, così... grande in me! Cosa è davvero Amore?-. -È
un dio crudele!- sospirò il suo amante -L’amore è con te, ti assiste e ti dà
la forza di affrontare ogni ostacolo. Ma è imprevedibile. Nessun mortale può
governarlo davvero! E infine conduce il tuo cammino a mete del tutto diverse
da quelle che ti aspettavi!-. Quelle parole risuonarono nella sua bocca come
una cantilena imparata a memoria, ma solo ora le aveva comprese davvero. -Alzati!-
gli intimò l'omone. Il cavaliere si asciugò le lacrime. -Alzati!- strillò di nuovo
con la voce roboante e aggressiva che lo aveva udito usare soltanto nella
furia della lotta. Era un soldato, avrebbe fatto ciò che doveva. Strinse il
pugnale. Capezzolone si inginocchiò ai suoi piedi e
allargò le braccia, sporgendo con fierezza il petto in fuori. -Questo
petto allattato te! Ora colpisci e prendi suo cuore, eterno dono di
felicità!- -Sei
davvero divenuto un uomo, Capezzolone!- gli disse
il cavaliere fissando colmo di orgoglio quel gigante, inerme ai suoi piedi
eppure così fiero -Il migliore che io conosca!-. Ciò detto sollevò il
braccio, stringendo il pugnale. Capezzolone sorrise: -Chiedo solo: tu fa’ presto. Dà me
morte da uomo, senza soffrire!-. Chiuse
gli occhi e volse la testa, una lacrima infine gli discese lungo la guancia,
ma restò immobile, ad aspettare il colpo. Il
sole sorse raggiante sul giorno delle nozze regali. Tutta la capitale era in
festa per le strade. Al Tempio Sacro, l'aristocrazia del regno era pronta a
prender posto sulle panche rivestite di broccati. Centinaia di colombe
bianche svolazzavano in enormi voliere d'oro, pronte ad essere liberate in
cielo per celebrare la sacra unione. Il principe era splendido nella veste
regale di velluto azzurro trapunto d'oro, le chiome scintillanti come il sole
legate da un laccio di zaffiri sotto il diadema lucente. Il re lo guardava
con fiero orgoglio, la regina piangeva di felicità. La carrozza d'argento
della sposa già sfilava per le strade trainata da candidi destrieri. Il
popolo lanciava petali di rosa al suo passaggio. Ed ella si sporgeva appena,
la colomba più bella, la sua cignea leggiadria
nascosta sotto i candidi veli, circondata dalle sue dame, simili a
meravigliosi fiori primaverili, variopinti di sfumature tenui, e
premurosamente assistita dalle suoi giovani, impettiti e prestanti soldati,
fasciati nella bianca livrea di Rocca-del-Cigno . Solo
un ultimo dettaglio mancava all'appello: il testimone dello sposo che ancora
non si faceva vivo e alla cui assenza lo sposo pareva tutt'altro che
indifferente. Aveva inviato tutte le sentinelle del palazzo ad avvistarne
l'arrivo e quando gli riferirono che il Cavaliere dell’Arpa d’Oro (come pareva
essere sua abitudine) non tornava, inviò dei messi a cercarlo al Castello
delle Delizie. Immensa la sua sorpresa quando i suoi uomini lo raggiunsero al
Tempio per riferirgli che là nessuno era riuscito a trovarlo. Senza por tempo
in mezzo si gettò di corsa fuori dalla navata, proprio mentre, sul sagrato
della piazza antistante, la sua promessa sposa si accingeva a scendere dalla
carrozza. Il re lo rincorse furioso, rammentandogli la vergogna che investiva
l'intero regno alla vista dello sposo che abbandonava le sue nozze. -Non
posso sposarmi senza il mio testimone!- strillò irritato -Sospendete la
cerimonia!-. Balzò in sella al suo destriero bianco e lo speronò verso la
porta della città. La sposa a quella vista fu colta da un malore e svenne,
sorretta dalle forti braccia delle sue guardie, ansiosi di prodigarsi per la
signora in ogni devozione e servigio, con la solerzia che il suo futuro
consorte pareva non riservarle. La regina scoppiò in grida isteriche, il re
infuriato ordinò ai suoi uomini di inseguire il principino insolente e che a
lui stesso fosse condotto il suo cavallo. Ma il principe spinto da una forza
folle e inarrestabile corse al galoppo fuori dalle mura prima che le
sentinelle, avvertite troppo tardi, serrassero le porte. Corse lungo il
sentiero per valli e boschi sin sulle montagne, seminando suo padre e le
guardie reali che gli erano alle calcagna. Giunto al Castello si precipitò
dentro e, incurante delle domande dei nani e della servitù attonita, si
precipitò sulla torre. Le guardie alla porta della cella, sconvolte e
imbarazzate, balbettavano scuse confuse assicurando di non aver nulla visto e
nulla udito e che il Cavaliere dell’Arpa d’Oro non era mai uscito di là. La
porta era ancora serrata, ma quando il principe la spalancò la cella era
vuota. La finestra era aperta e priva di sbarre, ma la parete della torre
scendeva a picco su un dirupo e nessun uomo sarebbe riuscito a uscir vivo da
là. Se non sulle spalle di un gigante. Quel pensiero fece fremere il principe
all'improvviso. Sull'unico tavolo presente in quella nuda stanza vi era un
foglio arrotolato, il giovane lo svolse e all'improvviso il suo volto
scolorì. -Nooooooo!- un grido disperato lo scosse e suo padre,
giunto di gran carriera dietro di lui, pronto a rimproverarlo, entrò appena
in tempo per vederlo stramazzare a terra e iniziare a tremare e a strillare
disperato. Cercò di calmarlo, lo sollevò tra le braccia, gli posò una mano
sul viso, ma la sua fronte scottava. Ordinò che chiamassero dei medici, lo
chiamò per nome, disperato, ma il principino isterico si dibatteva come in
preda al delirio. Il re raccolse allora la pergamena caduta al suolo e lesse
in silenzio. Mio Principe, perdonatemi. Non posso farlo. So di
essermi rivelato per Voi un servitore indegno. Ma non temete per la vostra
vita. Non vedrete mai più né lui, né me. Sotto era apposto un sigillo con lo
stemma dell'arpa d'oro. Il re riavvolse il rotolo e chinò il capo in
silenzio. Il principe fu portato nella sua camera, ma i medici dissero che
quella che l'aveva colto in modo tanto repentino era una malattia dell'anima
e che nessuno di loro era in grado di curarla. Gli portarono da mangiare e da
bere perché cercasse di rimettersi in forze, ma lui rifiutò qualunque cosa.
Il re rimase accanto a lui giorno e notte senza darsi pace. -Ti
prego! Mia creatura, sangue del mio sangue, mio principino viziato, ti prego,
non morire! Perché disperi e non vuoi più mangiare né bere? Proprio ora che
hai allontanato da te il tuo Fato? Quella bestia è andata via! Non può più farti
del male! Tu... non puoi morire! Resta con me. Non lasciare la tua stirpe
senza un erede, la tua terra senza un re... e tuo padre senza il suo figlio
adorato!- Il
principino viziato aprì gli occhi, schegge di cielo azzurro in quel volto
ormai esangue. Un ultimo barlume di speranza si accese nel cuore del re. -No!-
sussurrò mentre il re si chinava ad ascoltare. - Nessuno può sfuggire al suo
destino! Sono stato davvero un
principino viziato. Che sciocco! Tutto ciò che desideravo era accanto a me,
eppure io l'ho gettato via!- -No,
mio diletto. Niente è perduto!- -Ma
non capite, Padre? Lui era il mio cuore e ora che quella bestia, dopo
averci allattati entrambi, me l'ha strappato dal petto e se lo è portato via,
io non voglio più vivere!- E
morì, si spense tra le braccia del suo amato padre come tanti anni prima
aveva predetto l'oracolo, lasciando la sua stirpe senza un erede e il suo
regno senza un re. Quanto
al Cavaliere dell’Arpa d’Oro e al suo compagno, il leggendario grande uomo
dai dieci capezzoli, nessuno li rivide mai più in quel reame. Qualcuno disse
di averli avvistati oltre il confine, mentre cavalcavano assieme, liberi come
il vento, verso l'orizzonte lontano. Dove siano andati, in quali terre remote
e meravigliose vaghino oggi, nessuno lo sa. Ma una cosa posso dirvela per
certa. Vissero per sempre felici e
contenti. La
fiaba della buona notte ho narrata Lunghetta, ma spero l'abbiate apprezzata E
adesso, ragazzi, ciascun vada a letto La
fiaba è finita. E ora che tutto ho detto, Cosa
fa sotto il lenzuolo la tua mano impertinente Davvero
io non voglio saperlo per niente! |