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   Al ranch  
 Il ranch è deserto. Tutti
  sono andati via, come ho ordinato. Torneranno domani. Probabilmente si
  chiedono perché il padrone li ha allontanati, ma sono abbastanza saggi da tenere
  per sé la domanda. Gli animali non dovrebbero avere bisogno di nulla: le
  vacche sono all’altro ranch, i maiali hanno avuto la loro razione di cibo, i
  cavalli sono nella scuderia e domani mattina Pete,
  lo stalliere, li farà uscire nel recinto, come al solito. Sarà il primo a
  tornare: è quello sulla cui discrezione so di poter contare. Se dovessi aver
  bisogno di qualche cosa, mi aiuterà lui. Ramón,
  Miguel e Rose rientreranno a mezzogiorno, come ho ordinato.  Io fumo il sigaro,
  appoggiato allo steccato, e guardo la strada che in lontananza si perde verso
  il Colorado. Arriveranno di lì. Al pensiero avverto l’inquietudine e
  l’eccitazione che l’accompagna. So di aver fatto una follia, ma non mi pento
  della mia scelta. Per anni ho lottato contro i miei desideri, ma non ha
  senso. Non voglio vivere sempre inappagato. So che rischio, molto. Potrebbero
  perfino uccidermi, questa notte. Non voglio morire, i miei desideri non si
  spingono fino a questo punto, ma sono disposto a correre il rischio. Sono
  pazzo? Forse sì, se metto la vita in gioco per questo. Guardo il cielo, che si
  sta rapidamente coprendo di nuvoloni neri. Questa sera ci sarà un altro
  temporale violento, come ieri. Nonostante il calore della giornata, in alcuni
  punti il terreno è ancora bagnato e il mucchio di letame a lato della stalla
  è intriso d’acqua. Passo nella scuderia.
  Guardo i cavalli, ognuno nel suo box. Forse loro vedranno una parte di ciò
  che succederà questa notte. E mentre lo penso, sento il rumore delle moto. È
  ancora lontano, ma si avvicina, diventa sempre più forte. Il cuore ha preso a
  battere più in fretta, ho la gola secca. Ho paura, ma non tornerò indietro.
  Eccoli, sono qui, nello spiazzo tra la scuderia, la stalla e la casa. Fanno
  un giro e li sento fermarsi e spegnere i motori poco lontano,
  probabilmente oltre la stalla. Respiro a fondo ed esco.
  Ho il cazzo duro. Sbucano da dietro
  l’angolo. Due, tre, quattro, cinque, sei uomini, tra i trenta e i cinquanta.
  Grossi, forti, tatuati. Molti portano i capelli lunghi, due grigi. Per un
  momento non li vedo come individui, ma come un unico animale. So che sarò la
  preda di questa bestia dalle tante teste. So che potrebbe uccidermi.  L’unico che conosco è Adam, ma non è lui il capo. A comandare è quello che è
  davanti agli altri, un uomo sui cinquanta, molto massiccio, capelli lunghi
  grigi, braccia coperte di tatuaggi, gilet di pelle nera e pantaloni di pelle. Adam me ne ha parlato: è
  Hugh, un veterano della seconda guerra mondiale, fanatico sostenitore della guerra in Viet Nam, nazista convinto (anche se contro la Germania di
  Hitler lui ha combattuto) e pieno di disprezzo per i finocchi come me. Adam mi ha detto che non devo contrariarlo, perché può
  anche decidere di farmi ammazzare, se gli gira. Adam mi ha anche avvertito che non è in grado
  di rispondere del comportamento dei suoi compagni, soprattutto dopo che
  avranno bevuto: lui fa parte degli Hell’s Angels, ma non ha una posizione di comando.  - Che volete? Lo so. O almeno credo di
  saperlo. E loro sanno quello che io voglio. Non è detto che le due cose
  coincidano, anche se io pago per questo. Pago una banda di criminali che
  potrebbe decidere di uccidermi. - Come prima cosa, qualche
  birra fresca. Fa un caldo fottuto in questo posto del cazzo. Hugh ghigna. Potrei dire
  di no subito. Probabilmente sarebbe il segnale.  Annuisco.  Mi volto e mi dirigo verso
  la casa. Ho appena fatto due passi, che uno degli uomini mi mette le mani sul
  culo e stringe, dicendo: - Niente male, questo
  culo, anche se un po’ vecchiotto. - Togli le mani, stronzo! Ora sono tutti intorno a
  me. Uno continua a tenermi le mani sul culo, anche se io cerco di toglierle.
  Il pugno mi arriva improvviso, in pancia. Mi piego in due, boccheggiando,
  stordito dal dolore. Altri due colpi. Cado a
  terra. Se ne vanno. Entrano in
  casa.  Io rimango steso a terra.
  Non è la prima volta che mi menano, ma questi colpi sono stati davvero
  violenti. Non riesco ad alzarmi. Mi rendo conto che non sono io a controllare
  la situazione. E neanche Adam. Ma l’incertezza su
  quello che mi può succedere non riduce l’eccitazione. Il cazzo è duro come
  una pietra. E qualche cosa dentro di me chiede altra violenza. Ora escono di nuovo. Hanno tutti una birra in mano e la stanno
  bevendo. Mi guardano e sghignazzano. Io mi alzo, con fatica. Non dico niente,
  li guardo. Loro bevono, tranquilli. Sanno che non fuggirò. Non potrei,
  neanche se lo volessi. Ma non lo voglio. Voglio la violenza che mi attende,
  fino in fondo. Si mettono intorno a me, a
  cerchio. Qualcuno da dietro mi spinge con violenza. Finisco addosso a un
  altro che mi allontana con un colpo in faccia. Sento il dolore acuto al naso,
  mentre cado all’indietro, ma uno degli uomini mi afferra e con un calcio al
  culo mi risospinge in avanti. Mi becco un altro pugno in pancia e uno sputo
  in faccia, poi la spinta mi manda addosso a Adam, che mi molla una ginocchiata ai coglioni. Urlo. Adam mi manda contro a un altro,
  che di nuovo mi colpisce. La testa mi gira in questa giostra folle, in cui mi
  riempiono di pugni e calci e mi sputano addosso. Infine crollo a terra,
  ansimante e dolorante, davanti a Hugh. Hugh si abbassa la
  cerniera dei pantaloni, tira fuori il cazzo e dice: - Datti da fare, succhiacazzi. Esito un attimo, ma due
  degli uomini mi forzano a sollevarmi e a inginocchiarmi davanti a Hugh.  Il suo cazzo è sporco. Ne
  sento l’odore, intenso, di piscio e smegma. Esito
  solo un attimo, ma per loro è già troppo: un ceffone violento mi colpisce. Un
  po’ di sangue mi cola dal labbro. Apro la bocca e accolgo il cazzo. Lo lecco
  con la lingua, lo avvolgo con le labbra e incomincio a succhiare. Anche il
  gusto è forte, come l’odore.  Intorno a me gli uomini
  ridono, mi chiedono se mi piace, mi dicono che mi faranno gustare tutti i
  loro cazzi, in bocca e in culo. Hugh ordina: - Abbassati i pantaloni,
  intanto. Eseguo. Mentre succhio sento un
  liquido caldo che mi cola sul culo: mi stanno
  pisciando addosso. - Bagniamo bene il buco,
  così il cazzo entra meglio. Ridono ancora. Bevono e
  ridono. Il cazzo di Hugh si sta riempiendo di sangue e si irrigidisce.
  Diventa più difficile tenerlo in bocca. Mi sollevo un po’, per continuare a
  lavorare la cappella.  Il calcio in pancia di
  Hugh mi prende alla sprovvista e mi fa cadere
  all’indietro. Non capisco perché mi ha colpito. - Per il momento basta,
  finocchio. Adesso voglio gustare il tuo culo. Poi si rivolge agli altri: - Sistematelo,
  ragazzi. Mi afferrano, finendo di
  spogliarmi. Poi mi trascinano nel fienile prendendomi per le gambe. Cerco di
  tenere la testa sollevata, per evitare di sporcarmi tutto di fango. Lavorano
  un momento ad ammassare il fieno, poi mi stendono su un mucchio, il culo in
  aria. Hugh si mette dietro di me, gli altri mi stanno intorno. Sento la pressione del
  cazzo di Hugh contro il mio culo e il dolore intenso quando entra con una
  spinta decisa. Intanto uno degli altri si è abbassato la cerniera e ha tirato
  fuori un cazzo di tutto rispetto. Lo avvicina alla mia bocca e intima: - Succhia,
  stronzo. Eseguo. Prendo in bocca la
  cappella e la stuzzico con la lingua, poi l’avvolgo con le labbra e mi metto
  a lavorare di buona lena. Intanto un altro si avvicina e mi piscia sui
  capelli. Quello a cui lo sto succhiando dice, scazzato: - Ehi, non mi sporcare, stronzo. L’altro risponde: - Tanto ti pulisce lui. Poi ride e mi sputa in
  faccia. Un attimo dopo mi arriva
  un calcio alle costole. Spalanco la bocca in un
  urlo che il cazzo in parte soffoca. Il dolore è violento. Non capisco perché
  mi hanno colpito. Ma non c’è un perché. Ne avevano voglia. Lo faranno ancora. - Datti da fare, stronzo. Riprendo a succhiare, fino
  a che non sento il getto riempirmi la bocca. Ingoio. L’uomo si fa pulire
  bene, poi si ritrae e anche lui mi sputa in faccia. Un secondo si avvicina, ma
  non se lo fa succhiare: incomincia a pisciarmi in bocca. Bevo il piscio che
  mi scende in gola, finché non riesco più a respirare e allora chiudo la
  bocca, mentre il piscio mi inonda la faccia. Il ceffone arriva subito,
  violento. - Apri la bocca, rottoinculo! Obbedisco e riprendo a
  bere. Quando ha finito, il tipo mi infila il cazzo in bocca e dice: - E ora pulisci bene, tanto
  ti piace.  È vero. Essere umiliato e
  menato mi piace. Mi piace persino sapere che rischio la pelle. Mi piace il
  dolore che provo, che sale dal culo dove Hugh lavora deciso di cazzo, dalle
  sue unghie che affondano nella carne, dal torace dove ho ricevuto i colpi,
  dal ventre dove mi hanno colpito con i pugni. Hugh viene dentro di me. Sento il getto caldo che mi riempie le viscere. Il suo posto è subito
  preso da un altro, che entra con violenza, rinnovando il dolore.  Hugh passa davanti e si fa pulire bene il
  cazzo. Quando ho finito, mi molla un ceffone che mi fa sanguinare il labbro,
  poi mi sputa in bocca e si allontana.  Loro bevono, mi fottono in
  culo e in bocca, mi pisciano addosso, ogni tanto mi tirano un calcio o un
  pugno, mi sputano in faccia. Io sprofondo in un abisso di dolore, ma la
  tensione è fortissima. Il cazzo non è più teso, ma non m’importa. Verrò dopo,
  rivivendo nella mente questa scena, quando sarà finito. Adesso non è il
  piacere del cazzo, ma un altro, non meno forte, che si mescola al dolore, che
  dal dolore e dall’umiliazione prende forza. Nel fienile sta scendendo
  il buio: le giornate sono lunghe, ma ormai è sera. Un lampo improvviso ci
  illumina a giorno. Vedo i loro visi che ghignano alla luce spettrale, i loro
  corpi seminudi tatuati, le loro mani forti, i loro cazzi ancora turgidi.
  Mentre un tuono immenso rimbomba, tanto forte da assordarci, penso che mi
  uccideranno. Ho paura. Altri lampi e altri tuoni, poi lo scroscio violento
  della pioggia, mentre l’oscurità avvolge il fienile, rotta soltanto dalla
  luce livida dei lampi. Loro ridono, mi insultano, mi menano, mi fottono,
  ubriachi di birra e di forza. A tratti quasi perdo i sensi, ma loro mi
  colpiscono, forzandomi a succhiargli il cazzo, a bere il loro piscio, a
  leccargli il culo, mi sputano addosso e in bocca. Mi risveglio dal torpore
  che mi invade, cerco di fare quello che mi dicono, incasso i colpi, sento il
  dolore in cui ormai sprofondo, a tratti intollerabile. Ma il mondo riprende a
  oscillare e più volte svengo, finché un nuovo dolore, più forte, non mi
  desta. L’ultima volta mi sveglio
  sotto la pioggia che scende violenta. Mi hanno preso in quattro e mi
  trascinano nel cortile, come una bestia sgozzata, mentre il mio corpo si
  lorda del fango che ormai ricopre il terreno. Penso che siamo alla fine, che
  ora mi uccideranno. Loro mi gettano sul mucchio di letame di fianco alla
  stalla. Hugh mi molla un calcio ai coglioni. Urlo. Perdo di nuovo i sensi. È la voce di Pete a svegliarmi. La sua mano mi scuote. - Capo, capo! Alzo la testa e lo guardo,
  con la vista ancora annebbiata. - Che cazzo è successo,
  capo? Scuoto la testa. - Aiutami a rientrare, Pete. Cerco di alzarmi in piedi,
  ma barcollo. - Aspetta,
  capo. È meglio che mi spogli anch’io. In un attimo si toglie gli abiti e rimane nudo davanti a me. Non posso
  fare a meno di notare che ha un cazzo magnifico. Mi solleva e mi sostiene.
  Ho difficoltà a stare in piedi. Mi accompagna fino alla fontana e mi lava le
  gambe. Solo adesso mi rendo conto che sono tutto lercio. Poi mi solleva di
  peso. Mi sfugge un gemito. - Facciamo così, che è
  meglio, capo. Cazzo! Hai la febbre, capo. Mi porta dentro. Mi
  vengono in mente le scene in cui il marito solleva la sposina per portarla
  nella nuova casa, un pensiero assurdo in questo momento. - Che puttanaio!
  Poi mi spieghi che cazzo è successo. La cucina è un gran
  casino, con sedie rovesciate, lattine vuote, il frigo aperto. Pete chiude il frigo con il piede mentre
  passa e mi porta fino alla doccia. Entriamo nella cabina tutti e due. Apre
  l’acqua, regola la temperatura e poi mi spinge sotto il getto. Con le mani
  toglie lo sporco. L’acqua sul piatto della doccia è marrone. Dopo aver
  eliminato il grosso, prende il sapone e mi strofina energicamente. Gemo di
  nuovo e allora si muove con maggiore cautela. Si sciacqua anche lui, poi
  prende l’asciugamano da doccia e mi asciuga, con delicatezza. Quando mi passa
  l’asciugamano sul torace, a destra, mi fa male. Quando asciuga i coglioni,
  quasi mi sfugge un urlo. Anche sul culo e sul viso
  fa male. Però la doccia mi ha
  restituito un po’ di lucidità. Pete si asciuga in fretta, mi solleva di
  nuovo e mi depone sul letto, dopo aver spostato il lenzuolo. Di nuovo dolore
  al fianco. Pete mi copre. Poi mi chiede: - Che è successo, capo? Vuoi
  che chiami la polizia, oltre al medico? - No, Pete,
  niente polizia. Neanche il medico. Non credo di avere ferite. Al massimo una
  costola rotta. - Tagli e lividi, non vedo
  nulla che mi sembri grave. Ma hai una febbre da cavallo, capo.  - Passerà. - Se sei rimasto tutta la
  notte fuori, rischi una polmonite. No, il medico lo chiamo. Penso che tutto sommato
  non sia una cattiva idea. Il dottor Bartley non è
  un chiacchierone, questo lo so. Non racconterà in giro.  - Va bene. La polizia no,
  però. Pete non dice nulla. Si alza e va a
  telefonare al medico. Poi torna a sedersi di fianco al letto. - Che cazzo è successo,
  capo? Scuoto la testa. - Capo, qualcuno è
  arrivato qui e non era uno solo. Ti ha spaccato il
  culo e la faccia, preso a pugni e magari pure a calci nei coglioni e poi
  buttato nella merda. Dato che in questo ranch ci vivo io, non puoi dirmi che
  non sono cazzi miei. Motociclisti, vero? - Come cazzo l’hai capito? - Ci sono le tracce. È la
  prima cosa che ho notato, arrivando, prima di vederti steso sul letame.
  Parecchie moto. - Sì. Erano in sei. - E tu li aspettavi. Per
  questo ci hai mandato via. Annuisco. Mi sento stanco,
  sempre più stanco. Ora che sono steso sul letto, la
  stanchezza cresce. Non ho forze. - Qualche cosa è andato storto con loro? Fossi più lucido,
  probabilmente direi a Pete di farsi i cazzi suoi,
  anche se lui mi ha fatto notare che ciò che succede al ranch rientra nei
  cazzi suoi. Ma sono intontito e in qualche modo non riesco a tenere a freno
  il bisogno di spiegare, di parlare con qualcuno. So che posso fidarmi di Pete: lavora per me da dieci anni e ho avuto modo di
  provare la sua discrezione e il suo attaccamento. - No, Pete,
  è andata come avevamo concordato. Più o meno. Mi guarda. Annuisce. Poi
  dice: - Ti sei fatto menare e
  inculare da loro perché volevi provare? - Sì. Sono contento di
  averglielo detto. Mi sento meglio. - Hell’s
  Angels, vero? Mi sorprende. Come cazzo
  fa a saperlo? Lui capisce benissimo il
  motivo del mio stupore e mi spiega: - Ho visto una volta uno
  di loro, qui, Adam Greystone.
  Sei un cazzone, capo. Pete dice quello che pensa, sempre, ed è uno
  dei motivi per cui lo apprezzo. - Cazzo, Pete! Era quello che volevo, anche se tu non puoi
  capirlo. - Lo posso capire benissimo,
  non è quello. Se vuoi farti inculare e menare, va benissimo, ma sei stato un cazzone a farlo con loro, con Greystone.
  Poi ti spiego. Adesso riposati perché devi avere una febbre da cavallo. Metto
  un po’ in ordine la cucina e mi rivesto, altrimenti quando Rose arriva, le
  viene un colpo. Sorrido e dico: - A vedere la cucina in
  quello stato o a vedere il tuo cazzo da cavallo? Ride e dice: - Tutti e due, capo. Se ne va. Io chiudo gli
  occhi e immediatamente sprofondo nel sonno. Mi sveglia Pete, quando arriva il dottore. Pete
  è vestito e ci scommetto che la cucina è perfettamente a posto. Il dottor Bartley mi dice: - Pete
  mi ha spiegato tutto. Al tuo posto chiamerei la polizia, ma capisco che tu
  preferisca non farlo. Non so che cosa gli ha
  detto Pete. Di certo non che mi hanno inculato e
  menato perché lo volevo. Probabilmente ha inventato qualche cosa, avrà detto
  che avevo invitato alcuni che conoscevo e dopo un litigio mi hanno fatto
  quello che mi hanno fatto. Sono contento che
  gliel’abbia detto lui: mi evita l’imbarazzo del momento. Bartley mi visita. Tagli, escoriazioni, lividi non sembrano preoccuparlo. Si limita a
  disinfettare. I coglioni sono a posto, anche se c’è stato un versamento di
  sangue per cui avrò male per diversi giorni. Una
  costola è sicuramente incrinata, ma probabilmente non rotta. Il buco del culo
  è stato alquanto sforzato, ma non sembrano esserci lesioni significative. Il
  febbrone potrebbe dipendere da un focolaio di polmonite. Ad
  ogni buon conto, una bella dose di antibiotici è quello che ci vuole. Domani Bartley tornerà a visitarmi. Passo la giornata
  dormendo. Pete mi porta da mangiare e mi accompagna
  al cesso. Agli altri ha detto che sono caduto e rimasto fuori tutta la notte,
  bagnato e in stato di incoscienza: per quello ho preso freddo e ho qualche
  escoriazione in faccia. Pete passa da me spesso. Se sono sveglio, mi
  chiede se ho bisogno di qualche cosa. Non fa più domande sull’accaduto. La
  febbre rimane alta per tre giorni, poi cala. In questi giorni Pete viene a sedersi vicino a me la sera. Quando sono
  sveglio, mi chiede anche se voglio che mi legga il
  giornale o altro. Pete ha una bella voce, grave.
  Penso che mi piacerebbe farmi leggere qualche racconto di un volume che mi ha
  passato una volta Adam, storie di stupri e
  violenze. Chissà che cosa penserebbe di me?! Mi piace Pete, molto. È il mio tipo d’uomo: forte, alto, deciso,
  franco, un po’ selvaggio; incute un certo timore. Anche lui è tatuato come i
  motociclisti dell’altra sera. Non fosse un mio dipendente, ci avrei anche
  provato. So che se fosse possibile troverei in lui un compagno su cui potrei
  contare, ma il mio corpo cerca altro, una violenza e un’umiliazione che Pete non mi darebbe. Gli dico
  che le notizie posso sentirle alla radio, che ho in camera. Parliamo del
  ranch, di politica, della guerra in Viet Nam. Per il momento Pete non
  sembra intenzionato a indagare su ciò che è successo, ma so benissimo che se
  ha qualche cosa da dire, me lo dirà. Lo fa sei giorni dopo la
  mia serata folle. Il dottore mi ha confermato che domani posso
  alzarmi, anche se per due o tre giorni devo riguardarmi un po’ e fare
  attenzione ai forti sbalzi di temperatura tra il giorno, sempre più caldo, e
  la notte, ancora fresca. Pete è venuto in camera mia, si è accomodato
  sulla poltrona e ora riprende il discorso come se l’avesse interrotto cinque
  minuti fa e non quasi sei giorni fa. - Adesso ti spiego perché
  sei un cazzone, capo. Sogghigno. - Non hai paura che ti licenzi, Pete? Pete sogghigna anche lui. - No. Sei un cazzone, ma non uno stronzo. È diverso. - Va bene, spiegami. Il sorriso di Pete svanisce. - Adam
  Greystone è un coglione e nient’altro. Va con gli Hell’s Angels, ma non conta
  niente. Non è lui che comanda. Nel gruppo che hai
  visto comanda Hugh Amber. Annuisco. Non conoscevo il
  cognome, ma il nome è quello che mi aveva detto Adam. - Hugh fa quello che
  vuole. Poteva decidere di ammazzarti ieri sera, perché disprezza i finocchi,
  perché la tua faccia non gli piaceva, perché avevi detto una parola di
  troppo. Poteva incendiare il fienile e la scuderia, per il gusto di vedere
  bruciare il ranch e i cavalli. Ma non è questo. Non ti ha ammazzato, non ha
  bruciato niente.  Fa una pausa, poi
  aggiunge: - Questa volta. - Pete,
  non è detto che ci sia una prossima volta. Non so se ho voglia di passare di
  nuovo attraverso quello che ho passato, anche se… Mi interrompe, brusco. - È per questo che sei un cazzone, capo. Perché non hai capito che non sei tu a
  decidere se ci sarà o meno una prossima volta. È
  Hugh. Ora conosce la strada e tornerà. Tornerà per estorcerti altro denaro,
  per divertirsi a spaccare il culo a un finocchio, per ammazzarti, perché ha
  voglia di finire quello che ha incominciato o di vedere bruciare la scuderia
  con dentro i cavalli. È lui a decidere, ora. E Adam
  non è in grado di fermarlo. Potrebbe venire qui
  questa sera stessa. Capisco che Pete ha ragione, su tutta la linea. Ho sottovalutato i
  rischi che corro. E anche se una parte di me vorrebbe ancora violenza,
  persino ora, non voglio farmi ammazzare, anche se mi
  piace giocare con la morte. Sono un cazzone. - Ora ho capito, Pete. Hai ragione. Pete annuisce. - Mi fa piacere vedere che
  ti sei reso conto del casino in cui ti sei cacciato. - Che cosa posso fare, Pete, ora? Non voglio che siate in pericolo per colpa
  mia. Non voglio vendere il ranch. - La sistemo io la
  faccenda, capo. - Come conti di fare? Pete sorride. - Cazzi miei, capo. Tu
  torni in città tra due giorni e ti chiamo quando è ora. Non so che cosa intenda
  fare. - Pete,
  non ficcarti nei guai per me. Per un cazzone. Sorrido. Anche lui
  sorride. Poi aggiunge. - E la prossima volta che
  vuoi farti violentare da una banda di motociclisti, rivolgiti a me. Il mio
  gruppo lo controllo io e non fanno nulla che io non voglia. - Cazzo! Pete, fai anche tu parte degli Hell’s
  Angels? - Di quelle merde? No
  capo. Io sono dei Mongols. - Ne ho sentito parlare. - E quello che hai sentito
  non ti piace. Sorrido. È vero. Pare che
  siano coinvolti in varie imprese criminali, come d’altronde anche gli Hell’s Angels. Tra le due bande
  esiste una rivalità fortissima e si parla di scontri violenti. - Pete…
  non ti ho mai visto in moto. - Non la tengo qui. - Perché? - Per lo stesso motivo per
  cui in città mando sempre Rose o Miguel. Non voglio dare nell’occhio. Vorrei chiedere di più, ma esito. Non voglio ficcare il naso negli affari di Pete, ma lui prosegue senza che io chieda: - Capo, dieci anni fa tu
  hai assunto un assassino evaso dal carcere. - Cazzo! - Mi sono fatto otto anni
  di carcere per aver partecipato a una rissa in cui un uomo venne ucciso.
  L’avevo ammazzato io, ma non potevano provarlo. In carcere ho ucciso un
  prigioniero di una banda rivale, poi sono riuscito a scappare. Ma mi cercano.
  Questo ranch è un posto perfetto per nascondersi. Sono rimasto senza parole.
  Pete continua: - Ogni tanto partecipo a
  qualche spedizione del mio gruppo, quelle dove c’è da andare pesante. Mi
  piace. Mi piace menare le mani, anche ammazzare quei bastardi. Ne ho fatti
  fuori diversi, in questi anni. Guardo Pete.
  Non sta scherzando. - Questo è tutto, capo. Se
  vuoi me ne vado. Ma in ogni caso risolvo questa faccenda. Come vedi, sono un
  figlio di puttana.  - Perché mi racconti
  queste cose, Pete? - Perché adesso giochiamo
  a carte scoperte, capo. Sai con chi hai a che fare. - Anche tu: un finocchio a
  cui piace farsi menare e inculare. - Non vai sulla sedia
  elettrica per questo. Però rischi ugualmente di essere ammazzato. Se proprio
  ci tieni, preferisco farlo io. Lo guardo in faccia. Non
  sorride, non sta scherzando. Faccio fatica ad abituarmi
  all’idea che Pete sia un assassino. Guardo le sue
  mani. Sono mani grandi, forti. Quelle mani hanno ucciso. Potrebbero uccidere
  anche me. Le domande che mi si affollano in testa sono assurde: vorrei
  chiedergli come ha ucciso, che armi ha usato. Vorrei chiedergli che cosa si
  prova a uccidere. Non ora. Deglutisco. - Pete,
  ne parleremo. Non ho fretta di essere ammazzato. Ho cercato di metterla sul
  ridere, per nascondere il turbamento che provo. Ma Pete
  è serio. - Capo, non vuoi che me ne
  vada? - No, Pete,
  questo no. Ma… perché lo fai? - Mi piace, capo. Mi piace
  scontrarmi e rischiare la pelle. Mi piace ammazzare un figlio di puttana come
  me. Ognuno ha i suoi gusti. Lo guardo negli occhi: - Che cosa pensi dei miei? - Che ogni uomo dovrebbe
  vivere la sua vita come gli pare e che se è quello che vuoi, fai bene a farlo. Anche per questo mi piaci: hai i coglioni per
  vivere come vuoi. Mi piaci davvero, capo. Ora ti lascio. Non ti preoccupare
  di questa faccenda, ma non metterti più nei guai da cazzone. Se ne va e io rimango a pensare. Ho sempre apprezzato molto Pete, la sua competenza, la sua correttezza, la sua
  discrezione. E scopro di avere a che fare con un assassino. Voglio saperne di
  più. Domani gli parlerò. E mentre lo penso, mi chiedo che cosa voglio davvero
  sapere. Giro per il ranch. Mi
  sento bene, anche se quando cammino ogni tanto mi fanno male i coglioni e la
  costola continua a dolermi. Ma sono in forze. Pete
  lavora, concentrato in quello che fa, attento a tutto. E mentre guardo le sue
  grosse mani che riparano lo steccato, mi ripeto che quelle mani hanno ucciso. Mi avvicino e gli dico: - Pete,
  questa sera vorrei parlare ancora con te. Di… Mi interrompo. Vorrei che
  mi raccontasse delle cose che non ho il diritto di chiedergli. Lui mi
  risponde: - Di tutto quello che vuoi, capo. In camera tua? Nella scuderia? La scuderia è il suo
  regno: dei cavalli si occupa solo lui. In estate spesso dorme nella scuderia,
  anche se nel ranch ha la sua camera. - Nella scuderia va bene.
  Vengo da te. E mentre lo dico avverto
  una tensione di cui conosco il significato. Provo a fare una
  passeggiata, ma dopo un po’ il fastidio ai coglioni aumenta e mi fermo. Mi
  siedo su una roccia e guardo il ranch. L’ho comprato dodici anni fa e ci
  vengo spesso. Ci vivrei volentieri, ma il lavoro mi costringe a passare ogni settimana almeno tre o quattro giorni in città. Tendo
  a concentrare gli incontri con i clienti dal martedì al venerdì, così posso
  venire qui il venerdì sera e fermarmi fino al lunedì
  o partire martedì mattina. Ho tutto l’occorrente per lavorare qui, ma stare
  al ranch significa potere anche cavalcare, camminare, fare qualche lavoro di
  manutenzione. Dopo essermi riposato,
  torno al ranch e passo il resto della giornata ascoltando la radio, leggendo
  e guardando alcuni materiali di lavoro che mi sono portato dietro.  Dopo cena raggiungo la
  scuderia. Vedo la luce al fondo e percorro il corridoio tra i box dei
  cavalli. Mi piacciono i cavalli, animali magnifici: quando sono al ranch
  passo le ore a cavalcare, ma per il momento non posso proprio. Mi piace anche la scuderia, l’odore intenso. Accarezzo il
  muso di White Star, lo stallone che amo montare. Poi raggiungo l’area
  illuminata, dove Pete mi aspetta. Ha posato la lampada a
  terra e si è seduto sulla paglia. Indossa i pantaloni e un gilet sulla pelle
  nuda. Posso vedergli i tatuaggi: ne ha diversi, sulle braccia e sul torace.
  Il viso rimane in ombra, ma vedo che mastica un filo d’erba. - Siediti, capo. Mi siedo davanti a lui. Ci guardiamo in silenzio.
  Non so da che parte incominciare. Sono teso. - Dimmi che cosa vuoi sapere, capo. Cerco le parole, ma non è
  facile. Gli pongo una domanda che mi è venuta in mente oggi, ma che non è
  quello che mi importa davvero. - Quando mi hai trovato,
  mi hai chiesto se volevo che chiamassi la polizia. Non avevi paura che un
  agente potesse riconoscerti? Pete scrolla le spalle. - Può succedere, capo. Fa
  parte dei rischi del gioco. Annuisco. Lui riprende: - Ma non è questo che vuoi
  sapere. Scuoto la testa. Infine mi
  decido a parlare: - Perché lo fai, Pete? - Perché faccio parte di
  una banda che si scontra con altre bande? Perché
  ammazzo e rischio di farmi ammazzare? È questo che
  intendi? - Sì. - Perché mi piace, capo.
  Perché quando parto per una spedizione, mi sembra che il sangue circoli più in
  fretta, ho il cazzo duro e le mani che mi prudono. Mi piace affrontare un
  altro che potrebbe uccidermi. Mi piace ucciderlo. Mi piace uccidere,
  capo.  Le parole di Pete aumentano il mio turbamento. Lui se ne accorge. - Capo, è un gioco, come
  una guerra. Mi sarei arruolato per andare a combattere in Viet
  Nam, ma ovviamente un evaso non può farlo. È come
  il baseball. C’è un campo da gioco e ci sono delle regole. Ci sono due gruppi
  e tu puoi uccidere quelli dell’altro gruppo e loro possono uccidere te. Non ho
  mai ammazzato nessuno che non giocasse, ma se entri nel gioco, sai che devi
  badare a difendere la tua vita. Se non lo fai, crepi e va bene così.  Incomincio a capire.
  Quello che mi dice è coerente con il Pete che
  conosco, un uomo su cui so di poter contare sempre, corretto. Vorrei
  chiedergli altro, ma provo vergogna. Lui capisce: - Chiedi,
  capo. Ti racconto volentieri. Apro la bocca, esito e poi
  dico: - Come ammazzi? Come ti
  piace ammazzare? - Ammazzo con il coltello
  o con le mani, di solito. Amo poco la pistola. Mi piace avere un contatto e
  quando affondi il coltello dentro un corpo, senti il sangue sulla mano, il
  rumore della  carne
  che si lacera… Mi piace strangolare. Mi piace
  spegnere la vita di un corpo che stringo.  Guardo le mani di Pete. Mani forti. Ho la gola secca.  - Capo, sono così. Non
  ammazzerei mai nessuno per soldi. Ma uno che ha accettato di entrare nel gioco… Sono sempre più turbato.
  Ciò che dice Pete mi spaventa e mi attrae. Sento il
  sangue che affluisce al cazzo, mentre fisso quelle mani. - Vuoi che ti racconti di
  una volta che ho ucciso? Non avrei osato
  chiedergli, ma lo voglio, sì. Annuisco. - L’ultima volta è stato
  un anno fa. Avevo un conto in sospeso con uno dei Mongols,
  il mio gruppo, una cosa personale. Ci siamo lanciati una sfida e affrontati
  con la catena e il coltello. Gli altri hanno fatto un cerchio intorno a noi. Fa una pausa e mi guarda,
  poi prosegue: - In questi incontri fai
  roteare la catena o la usi come una frusta, per tenere a distanza
  l’avversario o per colpirlo. Quando però sei molto vicino, la catena serve a
  poco. Io tenevo il coltello nella sinistra, perché sono mancino, e la catena
  nella destra. È una cosa che mi dà un vantaggio, perché gli altri non sono
  abituati a combattere contro uno che usa il coltello con la sinistra, mentre
  io combatto quasi sempre con gente che lo tiene con la destra. Annuisco. - Lo spazio è limitato
  dagli altri: se ti avvicini troppo al limite, ti risospingono dentro. Dopo un
  po’ di schermaglie, lui è riuscito a colpirmi al torace. Una catena vibrata
  con forza può gettarti a terra e in effetti mi ha
  sbilanciato, ma mentre cadevo ho afferrato la catena e questo lui non se
  l’aspettava. È caduto su di me, che ero pronto ad accoglierlo e gli ho
  infilato il coltello in pancia. Avrei potuto ucciderlo subito, con un colpo
  al cuore, ma mi piace farlo con calma, avere il tempo di assaporare e darlo
  anche all’altro. Io taccio. Ho il cazzo
  duro. - Lui era forte, ma con un
  coltello piantato a fondo in pancia non reggi a lungo. Io ho mollato la sua
  catena e il mio coltello. Ho usato la sinistra per bloccargli la mano, prima
  che potesse colpirmi. Poi ho preso il coltello con
  la destra, l’ho estratto e l’ho infilato di nuovo. Lui ha emesso un urlo
  strozzato. Ha capito che era fottuto. L’ho colpito una terza volta, sempre al
  ventre. Lui ha perso le forze. Non riesco a parlare, non riesco a distogliere lo sguardo dalle mani di Pete. La tensione è tanto forte che mi chiedo se non
  verrò, senza neppure toccarmi. - Allora gli ho tolto il
  coltello, e gli ho passato intorno al collo la catena. Mi sono seduto in
  terra, tenendolo davanti a me. Ho incominciato a stringere, molto lentamente.
  Piano piano la catena lo strangolava. Volevo che
  sentisse che stava crepando. E alla fine si è afflosciato, mentre si pisciava
  addosso. Quasi venivo. Pete sorride. Poi aggiunge: - Lo so, è difficile da
  capire.  Annuisco e dico: - Anche i miei gusti sono
  difficili da capire. - Parlamene un po’, capo, se ne hai voglia. Dopo quanto mi ha detto Pete, sarebbe assurdo non parlare. - Mi piacciono gli uomini,
  Pete. Gli uomini forti. Ma non è solo quello. Mi
  piace che un uomo forte mi prenda, anche con la forza, che mi meni. Mi piace
  sentire le botte. Pete, so di essere un cazzone, come dici tu, ma la sera con gli Angels… cazzo, Pete! È stata
  grande. La rifarei, non ora, magari, perché prima devo rimettermi in sesto,
  ma la rifarei, tutta, niente escluso. Non la rifarò, lo so, non sono così cazzone: non voglio che brucino il ranch, non voglio che mi ammazzino, anche se a volte… Non concludo. È Pete a farlo: - A volte pensi che ti
  piacerebbe andare fino in fondo. Annuisco. - Ma è solo un’idea, Pete. - D’accordo, capo. Come ti
  ho detto, ho molta stima di quelli che vivono come vogliono e se ne fottono
  di quello che pensa la gente.  Sorrido. Lui prosegue: - Ti servivi di Adam per procurarti i tipi adatti, vero? - Lo faceva lui, di
  solito. Qualche volta con un altro. Poi gli ho detto che volevo un gruppo di
  uomini e… hai visto il risultato. Pete annuisce. - Qualunque cosa tu
  voglia, capo, te la posso procurare, senza rischi. Possiamo stuprarti in
  venti, se vuoi. Pete è serio. Io sono a disagio, ma con il
  cazzo duro. Annuisco. Pete si alza e fa un passo avanti. Ora
  incombe su di me. Il rigonfio dei pantaloni non mi lascia dubbi.  - Alzati, capo, che ti
  faccio vedere che non scherzo. Io mi alzo. Ora siamo a una spanna l’uno dall’altro. Mi colpisce con
  forza, al ventre. Il dolore è lancinante e mi piego in due, ma un secondo
  colpo mi mozza il fiato. Barcollo. Il terzo colpo mi fa cadere a terra. Mi
  dico che se mi colpisce così alla costola incrinata o ai coglioni, sverrò, ma
  so che non lo farà. Pete è su di me e mi ha abbassato i
  pantaloni. Non sono in grado di lottare: i colpi mi hanno intontito. Pete si stende su di me e la pressione del suo corpo mi
  schiaccia contro il pavimento della scuderia. Avverto nuovamente il dolore ai
  coglioni e alla costola, ma quello al ventre, dove Pete
  mi ha colpito, è più forte. Pete posa le sue mani sul mio culo, allarga
  le natiche, si solleva, sputa sul buco e poi entra. Io faccio fatica a
  soffocare un grido di dolore, anche se è entrato con cautela. Mi lascia un
  momento per abituarmi e poi incomincia a fottermi con vigore. Ogni tanto mi
  preme la testa sul pavimento. Non dice nulla, solo ogni tanto emette un suono
  che pare un grugnito. Sento la tensione
  crescere, il piacere che sale dal mio culo, il dolore dei colpi ricevuti. Non
  vengo mai quando mi inculano, ma talvolta ci vado vicino. E questa volta mi
  accorgo che manca davvero poco.   Sento il suo sborro
  riempirmi le viscere. Lui si abbatte su di me come se fosse stato schiantato.
  Poi, mentre il suo cazzo lentamente perde volume e consistenza, arrivando a
  dimensioni più tollerabili, si gira su un fianco, senza uscire con me, e la
  sua mano mi afferra l’uccello e mi fa venire. La mano ha raccolto parte
  del mio sborro e lui la porta alla mia bocca. Lecco le dita, poi gliele
  mordo. Mormoro: - Grazie. Pete mi telefona una settimana dopo. - Puoi trovarti al ranch
  domani sera alle sette? Domani è
  venerdì e per le quattro avrò finito con i miei impegni. Da casa mia in città
  al ranch ci vuole un’ora.  - Certo, va bene. - Allora ti telefono per
  confermartelo in giornata. Se non ricevi telefonata,
  non lasciare la città ed evita di andare al ranch.  - Pete,
  che cosa significa? Non voglio… Mi interrompe: - Sistemo la faccenda,
  come ti ho detto. - Pete.
  Non voglio che tu corra rischi. Lui ignora la mia frase.
  Invece chiede: - Sei a posto? La costola?
  I coglioni? - Sì, la costola ogni
  tanto mi dà ancora fastidio, ma poca roba. Ai coglioni è passato tutto. - Bene, allora domani sera
  ti meno sul serio, prima di incularti.  Rido, ma in realtà il
  cazzo si sta già tendendo. Lui prosegue: - Allora ricorda: non ti
  muovere se non ti telefono. - Ma… Ha già riattaccato. Mi
  chiedo se non andarci ora al ranch, a parlare con Pete.
  Non voglio che si metta nei guai, che rischi la pelle per colpa mia. Ma so
  che la pelle la rischierebbe comunque e che nulla di quello che potrei dirgli
  gli farebbe cambiare idea. Venerdì mi sveglio in
  tensione, dopo una serie di sogni inquietanti. Ho paura per Pete, paura che gli succeda
  qualche cosa.  La giornata si trascina a
  stento. Io non ci sono con la testa, faccio fatica a seguire quello che mi
  dicono due clienti con cui ho un colloquio di lavoro. Ogni volta che squilla
  il telefono, mi tendo, in attesa che la segretaria mi passi la chiamata. Le
  ho dato l’ordine di avvisarmi se Pete
  telefona, anche se sono con un cliente. Alle quattro infine Marion
  mi dice: - Pete
  Highstrand, signor Greenmount. Mi sembra che mi abbiano
  tolto un peso di dosso. Non do a Pete il tempo di aprire bocca. Chiedo subito: - Tutto a posto? - Certo, capo. Alle sette
  al ranch. Riattacca. Non sono riuscito a
  chiedergli altro. Alle sette meno un quarto
  arrivo al ranch. Non c’è nessuno. Rose a quest’ora è
  già andata a casa, Miguel e Ramón dormono al ranch,
  ma evidentemente Pete li ha mandati all’altra
  tenuta.  Giro per il ranch,
  impaziente. Mi chiedo se per caso qualche cosa non è andato
  storto all’ultimo minuto. Ma alle sette sento il rumore del furgoncino e
  arriva Pete. Scende dal posto di guida con un
  salto. - Sono contento di vederti, Pete. Mi hai fatto
  preoccupare. Lui ridacchia: - Preoccupati di quello
  che ti succederà dopo, capo. Poi aggiunge: - Va’
  a prendere nel magazzino due vanghe. Eseguo. So che questa sera
  è Pete che comanda. Torno con le due vanghe. Pete sta svuotando l’abbeveratoio. - Adesso lo spostiamo.
  Prendilo di lì, capo. Non so che cosa voglia
  fare, ma ubbidisco. - Adesso scaviamo la fossa. Lo guardo,
  interdetto. - La fossa? Per che cosa? - Per il cadavere, capo. - Quale? Pete scrolla le spalle e ride. - Magari il tuo. Non so che cosa intenda
  fare Pete, se è un gioco o se davvero nella fossa
  ci sarà un cadavere. Se abbiamo spostato l’abbeveratoio per scavare lì sotto,
  è perché la fossa non deve vedersi. Non è un gioco. Pete si toglie la camicia. Sul suo torace da
  Ercole c’è una striscia rossa che una settimana fa non c’era. Pete non dice nulla, io neppure.
  Scaviamo. Presto grondiamo di sudore: il sole non è ancora tramontato e fa
  caldo. Quando abbiamo finito, io
  sono esausto e abbiamo tutti e due i pantaloni bagnati di sudore. Pete si lava le mani, poi si spoglia
  completamente. Il suo cazzo superlativo è a riposo, ma il mio incomincia a
  tendersi.  - Spogliati anche tu,
  capo, e poi va’ a prendere la carriola. Eseguo. Lui mi guarda il
  cazzo mezzo teso e sorride. - Riempiamo la carriola di
  letame. Lo facciamo, in fretta: è
  molto meno faticoso che scavare una fossa. Poi Pete
  porta la carriola fino alla buca e sparge il letame sul fondo. - Riempi di nuovo la
  carriola, capo. Io obbedisco. Non capisco,
  ma so che capirò presto. Quando torno, accanto alla
  fossa c’è qualche cosa avvolto in un telo. So che cos’è, ma il cuore accelera
  i battiti. Pete apre il telo. Il cadavere di Hugh Amber
  è nudo, con una serie di squarci al torace e al ventre e il collo spezzato,
  per cui la testa è inclinata in modo strano. Il cazzo è quasi completamente
  staccato dal corpo.  Guardo Pete.
  Deglutisco. - Dai, buttiamolo nella
  merda, come merita. Lui lo prende per le
  ascelle e io per le gambe e lo gettiamo nella fossa.
  Pete sparge il letame sopra il cadavere, poi mi
  dice: - Piscia nella fossa,
  capo. Ho il cazzo mezzo duro, ma
  riesco ancora a svuotare la vescica. Credevo che Pete
  facesse lo stesso, ma non lo fa. Lo guardo e lui coglie la domanda
  inespressa. Risponde: - Piscio dopo, capo. Sul tuo di cadavere, dopo averti fottuto. Incomincia a rimettere la
  terra nella fossa. Io gli do una mano. C’è più terra di quella che serve per
  riempire, per cui la carichiamo nella carriola e Pete
  la trasporta in un punto in cui c’è un cumulo di altra terra, per qualche
  lavoro che deve essere stato fatto in settimana. Probabilmente Pete l’ha fatto proprio per poter
  aggiungere terra senza che nessuno lo notasse. Ora dobbiamo mettere
  l’abbeveratoio a posto, ma Pete
  ha tirato fuori il coltello e la catena e si avvicina. Di colpo ho paura, ma
  il cazzo mi si tende allo spasimo. - Non è stato lungo. Sono
  riuscito a bloccarlo quasi subito, così. Con un movimento rapido mi
  afferra, mi fa girare e mi ritrovo con la schiena appoggiata contro di lui,
  la catena intorno al collo. - Poi l’ho colpito. Il primo colpo arriva al
  torace, dal lato opposto alla costola incrinata. Per un attimo penso che sia
  davvero una coltellata, ma è un pugno, vibrato da dietro, con forza. Emetto
  una specie di grugnito. - Un secondo colpo al
  ventre. Il pugno arriva mentre
  parla. Mi piegherei in due dal dolore, che mi annebbia la vista, se lui non
  mi tenesse saldamente. - Un terzo colpo più
  sotto.  Se non avessi svuotato la
  vescica, questo colpo l’avrebbe fatta esplodere. Pete
  è attento a tutto, ma la catena mi sta stringendo il collo e respiro con
  fatica.  - E poi ancora un colpo,
  perché volevo che non crepasse maschio.  Il pugno mi prende in
  pieno il cazzo teso e urlo. - E infine gli ho preso la
  testa e tirandola indietro gli ho spezzato il collo. Mi afferra la testa e la
  tira un po’ indietro e mentre penso che mi ammazzerà davvero, mi getta sulla
  terra della fossa, sputa sul mio culo, inserisce senza delicatezza due dita
  per dilatare l’apertura, poi si stende su di me e mi incula con un movimento
  deciso, che mi strappa un nuovo urlo. Pete estrae il cazzo, aspetta un attimo che
  il dolore al culo diminuisca, e poi me lo infila di nuovo dentro con un colpo
  secco. Urlo ancora, anche se il dolore è stato meno forte. Lui mi stringe la
  catena intorno al collo, togliendomi il fiato, poi l’allarga, estrae il cazzo
  e per la terza volta mi incula, questa volta spingendo fino in fondo. Mi sembra
  che un palo mi stia sfondando le viscere. Gemo. Pete incomincia a spingere avanti e indietro
  il suo cazzo da cavallo, mentre preme il mio corpo sulla terra sotto cui è sepolto Hugh. Mi fotte con vigore, mentre le sue
  mani mi pizzicano il culo. A tratti si gira su un fianco e mi colpisce ancora
  al ventre, mi schiaccia la testa sulla terra della fossa, mi stringe i
  coglioni facendomi un male cane. Il dolore è violento, ma il piacere è
  altrettanto forte. A tratti le sue mani stringono la catena intorno al collo,
  bloccandomi quasi completamente il respiro, poi l’allentano.
  E io sento l’eccitazione crescere, il dolore
  raggiungere livelli intollerabili, il piacere avvolgermi tutto. E quando Pete
  viene, con un grugnito sordo, riempiendomi il culo di sborro,
  vengo anch’io, con un urlo di piacere. Non mi era mai successo. 2012  |