La guardia dei sogni

 

Immagine12 copia.jpg

 

 

Entro nello spogliatoio e, come sempre in questi ultimi giorni, lo sguardo corre all’armadietto di Daniel. Ogni mattina vederlo vuoto è un colpo. Mi pare che le gambe non mi reggano. Mi siedo. Chino la testa. Non ce la faccio più. Non ce la faccio più.

Ci ho pensato in queste ultime due settimane, molto. Troppo. È diventata un’ossessione e so che c’è un solo modo per liberarmene.

Non mi cambio. Mi dirigo all’ufficio del capo. La porta è aperta. Mi guarda. Io non dico niente, non riesco a parlare.

- Vieni avanti, Jarrett. Hai qualche cosa da dirmi?

Annuisco, senza muovermi. Poi, con uno sforzo, percorro la distanza che mi separa dalla scrivania del capo.

- Siediti, Jarrett. Qual è il problema?

Lo sa anche lui qual è il problema. Rupert Blomberg non è uno stupido, tutt’altro. Ha intelligenza e sensibilità da vendere.

- Non ce la faccio più, Rupert.

Lo chiamo per nome, anche se è il mio capo: qui ci chiamiamo tutti per nome.

Rupert annuisce.

- Lo sospettavo. Jarrett, prenditi un periodo di vacanza, vai a sbatterti su qualche spiaggia dei Caraibi o a farti un giro per i parchi, come cazzo ti pare. Hai bisogno di staccare.

- No, Rupert. Ho deciso. Do le dimissioni.

- Cazzo, Jarrett!

Mi piace fare il poliziotto, l’ho scelto. Fin da ragazzo mi piaceva il ruolo del salvatore, quello che raddrizza le ingiustizie e mette a posto i cattivi. Pare che sia bravo a fare il poliziotto, lo dice Rupert, non io. Ma non ce la faccio più.

C’è un silenzio. Rupert aggiunge:

- Daniel, vero?

Annuisco.

Rupert mi ha messo con Susan e Daniel, quattro anni fa, per occuparmi dei bambini. Non mi dispiaceva, i bambini mi piacciono e a loro io piaccio. Magari all’inizio si spaventano, vedendomi alto e forte, ma poi, quando capiscono che sono lì per aiutarli, si sentono protetti. Mi è sempre piaciuto fare il protettore. Non il magnaccia, non fraintendiamo. Con Daniel e Susan formavano una bella squadra e quando io entravo in crisi, sapevo che potevo sempre contare su di loro. E ogni tanto in crisi ci andavo: è pesante occuparsi di bambini maltrattati. È uno di quei lavori che ti logorano. Certe volte il tuo intervento risolve la situazione e allora ti senti un dio, ma altre volte puoi fare davvero poco e veder soffrire un bambino è dura, è davvero dura.

Daniel lavorava da quindici anni con i bambini ed era il mio punto di riferimento, il mio modello. Aveva cinquantadue anni e per me era come un padre, un fratello, un amico.

Se n’è andato in due settimane: leucemia.

Non ce la faccio più a lavorare qui, ogni mattina entrando guardo l’armadietto di Daniel e penso che non c’è più.

C’è un silenzio. Anche a Rupert la morte di Daniel è pesata: lavorava con lui da dodici anni.

Aggiungo.

- Daniel. E Martin Highcomb.

Due giorni dopo il funerale, il piccolo Martin Highcomb è stato ammazzato a botte dal patrigno. Ci stavamo occupando di lui, cercando di farlo togliere alla famiglia, ma non siamo arrivati in tempo. Adesso ogni volta che vedo un bambino picchiato, penso a Martin, che non siamo riusciti a salvare. Non ce la faccio più.

Rupert cerca di convincermi, mi propone di cambiare settore per un po’. Alla fine si rende conto che proprio non sono più in grado di reggere e dice:

- Senti Jarrett…

Fa una pausa, poi prosegue:

- Credo che tu stia facendo la peggiore cazzata della tua vita, ma so che sei una testa dura e ormai hai deciso. Ma devi promettermi una cosa.

Lo guardo, perplesso.

- Che cosa?

- Quando hai capito di aver fatto una cazzata, torni qui e riprendi il tuo posto.

- Grazie, Rupert, ma non credo che tornerò mai.

Rupert non sembra convinto.

- Che cosa pensi di fare?

- Non lo so, Rupert. Forse la guardia del corpo.

 Rupert annuisce.

- Qui a Los Angeles va bene?

- Sì. Qui, da un’altra parte. Vediamo dove trovo.

Rupert prende il telefono, consulta l’agenda (è uno dei pochi che ha un’agenda cartacea e non ha tutto sul telefonino) e compone un numero.

- Ciao Dora, sono Blomberg. Passami Steve.

C’è un silenzio, poi Rupert saluta questo Steve e prosegue:

- Senti, Steve. Uno dei miei migliori agenti ha deciso di lasciare per un po’ la polizia. In attesa che cambi idea, ti serve uno in gamba? Al tuo posto non me lo lascerei sfuggire.

Rimango senza parole. Che sia il mio capo a cercarmi un lavoro, mi spiazza. Rupert è generoso, ma fino a questo punto non me l’aspettavo.

Parlottano un po’. A un certo punto il mio capo risponde a una domanda dicendo che sono un gran bel maschio, alto e forte. Mi stupisco un po’. Non dovrebbe essere tra i requisiti richiesti. L’agenzia di questo Steve fornisce guardie del corpo o escort? Se si tratta di escort, spero che sia per uomini, con le donne proprio non ci vado.

Rupert mi chiede se va bene presentarmi alla Security+ domani alle nove. Aggiunge:

- O vuoi prenderti una vacanza, prima?

- No, mi va bene incominciare subito. Ma qui non devo…

Non posso lasciare la polizia da un giorno all’altro! Ma Rupert mi interrompe e mi dice:

- Ci penso io.

L’appuntamento viene confermato. Ringrazio Rupert, un po’ scombussolato.

- Adesso vedo come risolvere la faccenda, ma ricordati, Jarrett, che ti aspetto di ritorno. Non occorre che tu ti cosparga il capo di cenere.

Ghigna e aggiunge:

- Basta che tu ti inginocchi.

Lo ringrazio.

- Adesso va’ a casa e torna nel pomeriggio, per il passaggio delle consegne.

 

Torno a casa. Infilo le chiavi nella serratura e scopro che c’è solo il mezzo giro. Zak dev’essere a casa. È strano che non sia al lavoro. Non è che dorme ancora? No, sono le dieci, non è probabile.

Ad ogni buon conto entro senza far rumore.

Qualche rumore arriva invece dalla nostra camera da letto: gemiti, sospiri, un ansimare molto eloquente.

Mi avvicino alla porta e guardo dentro, sapendo già benissimo che cosa vedrò.

Zak è disteso sul letto, a gambe divaricate. Su di lui c’è Bertram, un nostro amico. Bertram lo sta fottendo con grande energia, spingendo a fondo e poi ritraendosi, con colpi decisi, intervallati da brevi pause. Sembra che ogni volta voglia entrare più a fondo, trapassando il culo di Zak. Emette un verso ad ogni spinta, mentre Zak geme, mugola, sospira, con grande partecipazione. Io guardo il movimento a stantuffo del culo di Bertram e quel bel fondoschiena, muscoloso e forte, ma snello, villoso il giusto, me lo fa venire duro, anche se ho le palle in giostra. Insomma io e Zak non ci siamo mai giurati fedeltà eterna e non ci siamo neanche detti che ci amavamo alla follia, ma stiamo insieme da sei mesi e lui ha sempre ribadito che nella sua vita non poteva esserci posto per un altro, adesso che stava con me. Direi che il posto per Bertram c’è, almeno per il suo cazzo che avanza ogni volta fino in fondo.

Mi rompe che Zak mi racconti storie. Perché deve mentirmi?

Bertram emette una specie di grugnito molto forte, muove freneticamente il culo avanti e indietro e infine si abbandona su Zak.

Sento la voce del mio compagno:

- Sei fantastico! Nessuno fotte bene come te, Bertram!

Ho già sentito questa frase. Al posto di “Bertram” c’era “Jarrett”, ma per il resto era assolutamente identica. Ho l’impressione che il mio rapporto con Zak sia arrivato al capolinea.

Bertram si alza e si volta. Mi vede e rimane a bocca aperta. Io gli guardo il cazzo, bello grosso e ancora turgido. Cazzo! Manco il preservativo ha usato. Zak è proprio uno stronzo. Il mio ex è proprio uno stronzo.

Zak si rende conto che c’è qualche cosa che non va e volta la testa. Mi vede e anche lui resta senza parole.

Io mi limito a dire:

- Passo tra un’oretta a ritirare le mie cose.

Poi giro sui tacchi e me ne vado.

Bene, due ore fa avevo un compagno, una casa (la sua, d’accordo), un lavoro. Adesso sono senza compagno, senza casa e in procinto di cambiare lavoro. Chissà che cosa prevedeva il mio oroscopo per la giornata di oggi?

 

Quando ripasso a casa, Zak non c’è. Mi ha lasciato un biglietto, chiedendomi di consegnare la mia copia delle chiavi a un vicino. Certo che deve soffrire molto…

Non ho tanto da ritirare: il rapporto con Zak era un esperimento (su cui incominciavo ad avere già qualche dubbio prima di questa mattina) e ho portato qui solo una parte delle mie cose. A casa dei miei c’è molto spazio e quando mi serviva una cosa passavo a prenderla: stanno a nemmeno un’ora di auto.

In due ore ho sistemato tutto. Depositerò le mie cose dai miei e mi sa che per qualche giorno mi stabilirò da loro, mentre cerco un’altra casa. Il mio fratellino ne sarà felice.

 

Nel pomeriggio ripasso in centrale. Ritiro le mie cose anche lì. Tempo di grandi cambiamenti. Saluto gli altri.

- Addio Rupert.

- Arrivederci, Jarrett. Tu ritornerai qui, a prendere il posto di Daniel, come lui avrebbe voluto.

Rupert sembra sicuro di sé. Lo pensa davvero o vuole convincermi? Se lo pensa davvero, sono fottuto, perché so che di rado si sbaglia. Ma magari sta solo cercando di suggestionarmi.

A casa i miei non fanno molte domande, loro sono molto discreti, ma ci pensa il mio fratellino (diciotto anni un mese fa), che non ha preso da loro:

- Perché ti sei lasciato con Zak?

- Perché hai mollato il lavoro?

- Come hai fatto a trovare un posto alla Security+ così in fretta?

- Perché…

Peggio di un terzo grado. Il mio fratellino è felice di avermi a casa, io lo sono molto di meno.

 

Il mattino dopo alla Security+ faccio conoscenza con Steve Dong, il boss. È un cinese, grosso e grasso, un viso simpatico e un sigaro che appesta l’aria, perennemente in bocca o sul posacenere.

- Il signor Basil Andropov è un cliente particolare, molto esigente. Non ha davvero bisogno di protezione, ma vuole guardie del corpo che gli facciano anche da autisti. Vuole uomini alti e forti, che gli altri notino. Cambia guardia del corpo ogni sei mesi. In questi sei mesi l’orario di lavoro è molto elastico…

Steve si interrompe e mi guarda un momento, poi riprende:

- Jarrett, Rupert mi ha parlato molto bene di te e non è uno che parla a vanvera. Andropov è uno dei nostri migliori clienti, forse il migliore. Paga uno sproposito, ma vuole gente che sia sempre a sua disposizione. Si tratta di sei mesi in cui non hai turni, orari, giorni liberi. Sei di servizio e basta. Fai quello che lui ti dice. Non ti chiede niente che non sia nelle prestazioni di una guardia del corpo, più o meno. Guadagni tre volte quello che guadagneresti facendo i normali turni di lavoro.

L’idea di passare sei mesi senza nessuna libertà di movimento non mi turba. Magari mi lascerà meno tempo per pensare. Può andare bene, in questo periodo.

- Non è un problema.

- Jarrett, voglio essere chiaro. Io non intendo perdere Andropov come cliente. Niente colpi di testa, niente scene. Se non reggi, mi chiami e ti sostituisco.

- Perché non dovrei reggere? Qual è il problema?

Un problema ci dev’essere, altrimenti non mi farebbe questi discorsi.

- Per Andropov tu sei al suo servizio, sempre. Sei come un cane da guardia e come tale ti tratta.

- È meglio che te lo dica subito: a calci non mi faccio prendere.

- No, non ti prende a calci, ma non aspettarti che ti tratti come una persona. E se gli gira, è capace di chiederti di fargli da guardia del corpo anche mentre scopa.

Se è un bell’uomo, la cosa può anche essere interessante. Questo però non lo dico. Rispondo invece:

- Purché non scopi con bambini, perché gli spacco la faccia.

- No, quello no. Vuoi pensarci? Tu sei la sua guardia del corpo ideale, hai il fisico adatto. Può dire: guardate che razza di guardia del corpo ho! Ma se non te la senti, ti impiego diversamente.

Non ho motivo per dire di no. Credevo che avrei protetto persone che correvano rischi e invece mi ritroverò a scortare un tizio russo-americano a cui servo come autista e per far figura, ma non è un problema. Mi sembra di capire che questo Andropov sia uno stronzo, ma non ha importanza. Sono sei mesi e se proprio va male, me ne posso andare. Passiamo a parlare dello stipendio, che è una cifra assurda. Alla fine accetto: se non altro metterò da parte un po’ di soldi e intanto non dovrò preoccuparmi di cercare casa. Tra sei mesi vedrò che cosa voglio fare.

Devo prendere servizio domani. Questa sera ci sarà un nuovo interrogatorio da parte del fratellino: vorrà sapere tutto sul mio nuovo lavoro.

 

Steve mi accompagna a casa di Andropov.

È più giovane di quanto mi aspettassi. Sui quaranta-quarantacinque. Pelato, un’ombra di barba e baffi, un po’ di pancia. Non è bello, ma devo dire che non farebbe una cattiva figura, se solo fosse vestito in modo più decente: indossa una camicia hawaiana e pantaloncini, ai piedi ha un paio di sandali e in testa un cappello di paglia, per ripararsi dal sole. Se ne sta sbracato sulla sdraio, ai bordi della piscina. Io ho l’abito scuro e la cravatta, perché così dovrò vestirmi nei prossimi sei mesi, sempre. Ho messo gli occhiali da sole a specchio, come mi ha raccomandato Steve. Dice che sembro un divo del cinema porno. Credo che sia un complimento.

Andropov mi osserva come farebbe con un cavallo da acquistare, ma per fortuna non mi chiede di aprire la bocca per controllare la dentatura (perfetta, comunque). Annuisce e dice che vado bene. Si rivolge quasi sempre a Steve, non mi dà il benvenuto, non si occupa di me. Non è che sia scortese nei miei confronti, semplicemente mi ignora. Incomincia già a darmi sui nervi. Mica male, come partenza.

Il tutto si conclude in fretta e io prendo servizio. Uno dei suoi uomini mi spiega tutto ciò che devo e non devo fare. Niente di speciale, ma è evidente che per Andropov le guardie del corpo sono più o meno dei cani, come diceva Steve: devono essere sempre disponibili, zitti e pronti a obbedire. Però gli lascia il tempo di pisciare, purché non lo facciano sulla moquette.

 

Nelle settimane seguenti faccio da autista ad Andropov quasi ogni giorno. Si siede sul sedile posteriore, mi dice dove deve andare e poi si dimentica della mia esistenza. Io metto il navigatore e lo porto a destinazione. Giro sempre armato, ma non credo che avrò motivo per usare la pistola.

Andropov frequenta un giro di gente che organizza party e piccole orge. Spesso passiamo a raccattare qualche puttana, di solito più d’una. Le vedo armeggiare con lui sul sedile posteriore. Qualcuna fa commenti su di me, sempre positivi, devo dire. Qualcuna mi fa capire (e a volte me lo dice chiaramente) che se voglio divertirmi un po’, da me non si fa pagare. Hai sbagliato bersaglio, bellezza. Il mio grimaldello è destinato ad altri tipi di serrature. Ma devo dire che in questo periodo non lo uso.

Di solito a queste festicciole io rimango sulla porta della casa, insieme ad Alonso, un’altra guardia del corpo. Il suo capo è un colombiano. Secondo me è nel traffico della droga. Gli altri tizi che frequentano Andropov non hanno guardie del corpo, ma non è che siano molto più intelligenti del mio capo. Se frequentano uno come lui...

Con Alonso scherziamo spesso. È simpatico. Una sera osserva:

- Come si dice da noi, le guardie del corpo sono come i coglioni: sempre fuori quando ci si diverte.

Ride. Rido anch’io. Mi dico che un po’ coglione lo sono, ad aver accettato questo incarico. Andropov non mi piace proprio. Mi dà fastidio il suo modo di fare. Non mi piace la gente che frequenta. Non mi va il suo modo di vivere.

Uno degli uomini della servitù mi viene a chiamare.

- Il tuo capo ti vuole. Vieni dentro.

Io obbedisco e saluto Alonso dicendogli:

- Un solo coglione fuori.

- Con la cerniera lampo a volte succede.

Ridiamo tutti e due.

Andropov è sul divano. Ha una puttana per lato, ha messo le braccia sulle loro spalle e con le mani palpeggia le tette.

- Non mi piace la gente che c’è qui. Tira una brutta aria. Vieni anche tu in camera.

La gente che c’è questa sera non fa più schifo del solito. Non so perché vuole che venga anch’io, ma l’idea non mi va a genio.

Lui si è alzato e sale le scale, accompagnato dalle due ragazze. Non si volta a vedere se lo seguo: dà per scontato che io gli obbedisca. Penso a quanto mi ha detto Steve e faccio la mia parte.

In camera lui incomincia a spogliare le due ragazze e a farsi spogliare, come se io non ci fossi. In un’altra situazione, non mi dispiacerebbe, lo confesso. Andropov non è un bell’uomo, ma non fa nemmeno schifo e vedere un maschio scopare è sempre una bella vista. Ma ormai non lo sopporto più e questa mi sembra un’altra stupida vessazione. Vorrei dirgli che è un pezzo di merda.

Ora Andropov è nudo e fa migliore figura di quando è vestito. Ha un bel cazzo, circonciso (una cosa che mi piace, non so perché), e un paio di grossi coglioni che mi solleticano. Lui mi ignora completamente, io ho gli occhiali a specchio e guardo la scena senza muovere un muscolo. Qualche cosa si sta muovendo, in realtà, dentro i boxer, ma ho le mani davanti e spero che non si noti troppo. Andropov non lo noterà, perché lui non mi guarda. Le due ragazze invece ogni tanto mi lanciano un’occhiata e mi sorridono. Il loro messaggio è chiaro: preferirebbero che ci fossi io, al posto di Andropov. Mi spiace per loro, ma non farei il cambio. Devo dire però che ad Andropov lo metterei volentieri in culo, sperando di fargli male.

Andropov fa mettere una ragazza a quattro zampe e la monta come fosse una pecora. L’altra intanto usa la lingua e le mani, accarezzandolo e stuzzicandolo.

Alla prova dei fatti, Andropov si rivela mediocre: si limita a spingere un po’ e molto presto viene. Poi si stende sul letto e le due ragazze continuano a stuzzicarlo, finché non ha di nuovo una mezza erezione. Allora una delle due usa la bocca per farlo venire.

Quando ha finito, Andropov si alza e va a farsi una doccia. Le due ragazze mi si avvicinano e mi stuzzicano un po’. Io ce l’ho duro, ma non per i motivi che pensano loro. Fanno alcuni apprezzamenti (positivi, ampiamente positivi) su durezza, lunghezza e volume. Sono quasi contento quando Andropov esce dal bagno e loro mi lasciano.

Ma questa sera non è finita qui. Andropov molla le due ragazze e passa in salotto, con il suo cane da guardia (io) dietro. Si mette a chiacchierare con un tizio molto magro. Dal loro dialogo capisco che il tizio, Gustav, non ama le donne e non ne fa mistero. Allora Andropov gli dice:

- Ti piacerebbe la mia guardia del corpo, eh?

Da come Gustav mi guarda, la risposta è sicuramente affermativa. Ma c’è un piccolo dettaglio: io non ho nessuna intenzione di scopare con questo stronzo, che per il solo fatto di frequentare Andropov è sicuramente un figlio di buona donna.

Non dico nulla. Rimango impassibile. Gustav chiede al mio capo (non a me e questo solo già la dice lunga su di lui):

- Posso?

Andropov ride.

- Prova. Al massimo ti fa un foro rosso in mezzo alla fronte.

Ride di nuovo.

Il tizio si avvicina, sorridente. Quando alza la mano verso la mia faccia, metto di mezzo il braccio e dico:

- Per un escort, rivolgiti a un’altra agenzia.

Andropov ride.

- Ti è andata male.

Il tizio fa una smorfia. Non l’ha presa bene. Non me ne fotte un cazzo. Non insiste: sa che potrei spaccargli la faccia.

 

Sono ormai due mesi che lavoro per Andropov e mi rendo conto di aver sbagliato lavoro o almeno cliente.

Nel tardo pomeriggio mi chiama e mi dice:

- Andiamo a Las Vegas.

- Conta di fermarsi a dormire, signor Andropov?

Glielo chiedo perché se ci fermiamo devo preparare la ventiquattrore.

- No, torniamo qui in nottata, dopo che ho giocato.

- Va bene, signor Andropov.

Rimarremo fino alle due o alle tre, magari anche oltre, e poi mi toccherà riportarlo indietro, guidando quel che rimane della notte e forse anche la mattina. Ma non dico nulla: è il mio capo, decide lui.

Saliamo in auto. Lui si mette dietro e io guido. Per mia fortuna non mi considera degno della sua conversazione e io posso pensare ai cazzi miei, mentre lui pensa ai suoi. Posto che pensi: non ne sono tanto sicuro.

Ogni tanto guardo nello specchio retrovisore e, vedendo la sua faccia di merda, mi chiedo perché sono qui, agli ordini di un pallone gonfiato. Dovrei fermare la macchina, scendere e mollarlo sulla superstrada. Poi però mi dovrei cercare un’altra agenzia, perché di sicuro alla Security+ dopo uno scherzetto del genere straccerebbero la mia scheda. E dovrei cercarmi anche un altro lavoro, perché non avrei certo buone referenze, se mollassi questo stronzo a una stazione di servizio.

Va bene, me lo sono voluto io.

Posso sempre telefonare a Steve e dirgli che voglio cambiare, ma l’idea mi dà fastidio: mi sembrerebbe di gettare la spugna. Ho la testa dura.

 

Questo stronzo si diverte a giocare e andiamo spesso a Las Vegas: in questi due mesi sarà almeno la decima volta. Frequenta un locale esclusivo, uno di quei posti per ricchi che non vogliono incontrare i comuni mortali. Punta migliaia di dollari come fossero monete da un centesimo.

Arriviamo alle nove. Come le altre volte, il responsabile dice che deve chiedere agli altri clienti se non hanno nulla in contrario alla mia presenza: l’ingresso nelle salette è riservato ai giocatori. Ma gli altri non hanno obiezioni, per cui mi piazzo dietro il mio capo, con gli occhiali scuri, mi metto perfettamente immobile e mi preparo a passare così le prossime quattro o cinque ore, magari di più.

Seguo un po’ il gioco. Mi auguro sempre che il capo perda: è l’unica cosa positiva che può accadere, qui dentro. Dei quattro giocatori di questa sera, il più forte mi sembra un nero, che vince abbastanza spesso. Anche il mio capo vince, peccato! Gli altri sono due sfigati, che dopo un’ora hanno metà delle fiche che avevano all’inizio: torneranno a casa spennati.

Sono mezzo addormentato (riesco a dormicchiare anche in piedi) quando arriva un altro giocatore. In effetti c’era una sedia libera. È giovane, deve avere pochi anni in più di me, ha una faccia simpatica (e pure belloccia). Si siede e incomincia anche lui a giocare. Ogni tanto mi guarda, ma senza insistere. Mi sa che gli piaccio. Anche lui mi piace e se non avessi questo capo stronzo tra i coglioni, magari combineremmo qualche cosa io e lui.

Adesso sono curioso di vedere come gioca questo.

Lo scopro presto: vince; vince; vince. Qualche volta perde con il nero, ma fa sempre la mossa giusta: sembra che veda le carte degli altri, perché se qualcuno ha carte migliori delle sue, non rilancia. Cazzo! Sta accumulando una massa di fiche incredibile. Il mio capo è furente, lo capisco benissimo. Quanto ci godo! Dai, dai, fottilo per bene, fagli passare la voglia di giocare! Inculalo.

Lo fa, lo fa alla grande. I due polli si ritirano, uno dopo l’altro, poi è il turno del nero che evidentemente non ama farsi spennare: ha più fiche di quelle che aveva entrando e sa benissimo che se rimane ancora un po’, non gli resterà più niente. E Andropov continua a perdere, chiede fiche e perde.

A un certo punto il mio capo riesce ad avere colore. Punta tutto quello che ha: non molto, anche se devo riconoscere che io ci vivrei per un anno. Mi spiace che si riprenda dei soldi, spero che li riperda presto. Ma non li vince. La spunta di nuovo il tipo, che si chiama Blackwell, l’ha detto il mio capo: ha un full. Gli voglio bene, lo bacerei per questo.

Il mio capo è stato spennato. Grande, Blackwell!

E a questo punto il tipo fa un’altra proposta. Spinge tutte le sue fiche in mezzo al tavolo e dice:

- Io gioco tutto. Tu ti giochi la tua guardia del corpo. 

Rimango senza fiato. Non mi muovo, ma sono basito. Poi penso che se vince ci faremo una bella scopata e l’idea mi piace, il tizio mi piace. Sì, dai! Spero che quello stronzo del mio capo accetti. Mi libero da Andropov e mi faccio una bella scopata, dopo due mesi di astinenza (non completa, lo ammetto, ma le seghe non contano).

E lui accetta, naturalmente senza consultarmi, figuriamoci. Il patto è che continuerà a pagarmi per gli altri quattro mesi, ma io passo al servizio di Blackwell. Cazzo, sììììììììììììììììì!

Guardo le carte che ha in mano Andropov. Tre assi. Cazzo! Marca male. Ma perché? Perché? Incomincio a sospettare di essere proprio scalognato. Avevo l’occasione di sganciarmi da questo stronzo e di conoscere uno che mi piace un casino… Non è ancora detto. Blackwell ha culo, magari gli va bene. Lo spero con tutto me stesso.

Andropov cambia due carte, Blackwell una. Magari ha un poker e fotterà questo figlio di puttana del mio capo. Dai, dai!

Andropov prende le due nuove carte. L’asso. Il quarto asso! Noooooooooooooooooo!

Vorrei tirare fuori la pistola e spararmi. O magari sparare a lui (soluzione decisamente preferibile). Blackwell ha perso. Anche se avesse un poker, sarebbe comunque di valore più basso. Se ha provato una scala, pure, a meno che non sia a colore, ma c’è una possibilità su diosolosaquante. Cazzo! Blackwell non prende la sua carta. Si vede che ha già un poker in mano. Ma perderà anche con un poker. Merda!

Andropov scopre le sue carte. Lo vedo di schiena, ma è evidente che gongola.

Blackwell fa scendere il re e poi la regina di picche. Cazzo! Provava una scala! Ma perché non ha neanche guardato la carta che ha pescato? Poi lascia uno spazio e tira fuori dieci e nove di picche. Cazzo! L’ultima carta…

La volta senza guardarla.

Fante di picche.

Incredibile! Alleluia! Alleeeeeluuuuiaaaaaaaaaaaaaaaaaa!

Sembra che ad Andropov abbiano dato una mazzata in testa. Ci mette un po’ a riprendersi. Poi si alza. Esce dalla stanza, dicendo che manderà all’agenzia la mia roba e provvederà a pagare il dovuto. Non mi saluta neanche. Perché dovrebbe?

E ora? Blackwell mi sta guardando. Mi chiede se voglio bere, ma faccio cenno di no.

Lui si fa portare un gin tonic, poi mi si avvicina. Mi allenta la cravatta. Qui e ora, quindi? Ci sto, ma lascio che vada avanti senza parlare, senza muovermi. Non ha detto più nulla. Mi apre la camicia, mi accarezza. Mi piace il contatto della sua mano sulla pelle. Mi sfiora il viso. Mi piace. Mi piace il suo odore, di pulito. Mi piace la tenerezza che c’è nella sua carezza. Mi piace l’impudenza con cui la sua mano raggiunge il cazzo, che sta preparandosi a ciò che lo aspetta. Quando lo stringe attraverso la stoffa, è una sensazione fortissima. E allora decido che è il momento di intervenire.

Gli blocco il braccio, lo faccio girare su se stesso, lo stendo sul tavolo da poker. Non oppone resistenza e allora proseguo con il gioco. Sempre in silenzio, gli lego le mani dietro la schiena, poi gli calo i pantaloni. Ha un bellissimo culo.

Gli passo la lingua. Non è prudente, ma chissenefrega. Poi infilo un dito, due. Lui geme e mi piace sentirlo gemere. Mi piace, questo tizio. Mi piaci, Blackwell.

Tiro fuori il preservativo. Spero che non sia troppo vecchio. Me lo metto e poi lo infilzo, piano, perché non voglio fargli davvero male. Il suo corpo vibra di piacere. E allora, molto dolcemente, avanzo ancora, con leggere spinte, fino in fondo. Le mia braccia lo avvolgono. Mi piace, questo tizio mi piace.

E mentre lo fotto lo accarezzo, perché mi piace sentire la sua pelle, la sua barba, le sue labbra, sotto le mie mani.

Incomincio a spogliarmi, lo bacio, uso la lingua e i denti per trasmettergli il mio desiderio e sento che lo stesso piacere sta incalzandolo. Lo sollevo un po’, lui gira la testa di lato e le nostre bocche si incontrano. È bellissimo. E allora gli sciolgo le mani e lui sposta le braccia indietro, stringendomi il culo, mentre io lo abbraccio. È una meraviglia, mi piace un casino, è bello scoparlo. E incomincio a spogliare anche lui, tra baci e carezze, abbracci e spinte, gemiti e sospiri. Poi, quando capisco che sto per venire, gli afferro il cazzo con la destra, perché voglio che venga con me: è troppo bello, dobbiamo venire insieme. E così succede, la tensione si scioglie in un’ondata di piacere che mi travolge. Lo stringo, lo bacio.

Rimango a lungo steso sul suo corpo. Poi mi sollevo e finisco di spogliare me e lui. Lo volto di schiena sul tavolo. Lui mi lascia fare. Mi appoggio su di lui, lo bacio, lo abbraccio, lo accarezzo con le mani e con la lingua. È bellissimo baciarlo.

Per un po’ restiamo così, mentre il desiderio alza di nuovo la testa, in entrambi. E allora, dopo aver gustato il suo cazzo (circonciso!), tiro fuori un altro preservativo e lui me lo infila. Gli sollevo i piedi, gli appoggio le gambe sulle mie spalle e riprendo il lavoro con nuova lena, guardandolo. Mi piace. Lo accarezzo, accarezzo le sue cicatrici: ne ha tante, piccole. Deve piacergli il sesso sado-maso spinto all’estremo, perché riconosco bruciature e piccole ferite. Ma qui c’è solo tenerezza e desiderio.

E di nuovo il piacere ci travolge insieme.

Credo che sia stata la più bella scopata della mia vita. Il mio nuovo capo mi piace, un casino, e nei suoi occhi leggo che io gli piaccio altrettanto.

Lo pulisco, con cura.

Lui mi ringrazia e io rispondo con una battuta, dicendogli che fa parte del mio lavoro, ma capisco di aver detto la cosa sbagliata, perché mi sembra turbato. Gli dico che scherzavo. Scambiamo infine due parole. Si chiama Ben e presentandosi mi stringe la mano. Sarà normale, ma dopo due mesi di Andropov a me non lo sembra per niente.

- Senti Jarrett, io non so perché ho fatto la cazzata di metterti sul piatto delle scommesse…

- Quella l’ha fatta il mio ex-capo. Tu l’hai solo proposto.

E per mia fortuna ha vinto!

- Io non ho bisogno di una guardia del corpo.

Ci rimango male. Vuole mandarmi via? Gli rispondo:

- Neanche il mio ex-capo.

Lui prosegue:

- Quindi, se vuoi goderti quattro mesi di libertà per me va bene.

Quattro mesi di libertà, pagato, non sono male, ma io vorrei conoscere meglio questo mio nuovo capo che mi piace un sacco (l’ho già detto, ma mi sento un po’ ubriaco, anche se non ho bevuto una goccia: Ben mi fa questo effetto e la faccenda mi turba un po’). Allora gli dico che non voglio cercarmi una casa su due piedi e che posso fargli da autista, almeno per qualche giorno. Lui ci sta.

Passa a ritirare l’assegno della vincita, poi saliamo sulla sua auto. Non si siede dietro, ma di fianco a me. Mi propone di cercarci un albergo nelle vicinanze. Mi chiede se voglio una camera singola. Figuriamoci! Io voglio stargli vicino, dormire con lui e domani mattina scopare di nuovo finché saremo esausti.

Dopo la doccia ci stendiamo sul letto. Lo bacio e poi mi metto a dormire.

Nella notte mi sveglia il suo grido strozzato. Ha un incubo. Lo chiamo, lo desto dal sonno, lo abbraccio e lo tengo stretto, finché non si riaddormenta. Mi piace stare così, mi piace. Ben ridesta in me una tenerezza sconfinata, non so perché. Lo bacio, leggermente.

 

Mi sveglio che è pieno giorno. Per un attimo non capisco dove sono, poi il ricordo della notte mi ritorna, portando con sé una piacevolissima sensazione. Ben non è a letto. Sarà al cesso. O magari è sceso a fare colazione.

Mi alzo, mi stiracchio. Gli abiti di Ben non ci sono. Neanche la sua valigetta.

Di colpo capisco: se n’è andato. Non ha lasciato nulla, neanche un biglietto. È un bello stronzo. E mentre lo penso, mi rendo conto che mi spiace, mi spiace un casino. È stato bello, ieri sera, questa notte. È stato bello scopare con lui, stringerlo, tenerlo tra le mie braccia. Ma perché mi ha mollato così? Sì, è proprio uno stronzo.

E adesso? Telefonerò alla Security+ per verificare la situazione. Andropov deve pagarmi. Ma lo farà, si è impegnato davanti al PokerBoy. Se non lo facesse, se venisse fuori che non mantiene gli impegni, non lo farebbero più giocare. E poi quattro mesi del mio stipendio per Andropov sono noccioline. Però Ben è uno stronzo (è la terza volta che lo dico, lo so, ma ci sono rimasto di merda. Mi ci ero affezionato, anche se è assurdo).

Sono triste, ma non c’è niente da fare. Devo tornare a Los Angeles. Mi faccio la doccia, mi rivesto. Magari mi toccherà pure pagare la camera, ma mentre lo penso qualche cosa mi dice che l’ha già pagata lui. Non può essere tanto stronzo.

E poi metto la mano in tasca per controllare il portafogli e sento un foglio di carta piegato. Lo tiro fuori. Il biglietto contiene solo un grazie e un assegno al portatore. Duecentoquarantamila dollari: quanto Ben ha vinto ieri notte.

Lo guardo, senza capire. Duecentoquarantamila dollari. Duecentoquarantamila. Cazzo! Cazzo! Cazzo!

Ben è pazzo. 

Sono completamente disorientato. Mi sembra di non riuscire a connettere. Cazzo!

Mi ha lasciato la sua vincita. È pazzo.

Ben Blackwell. È tutto quello che so di lui. In questo albergo di sicuro hanno anche il collegamento a Internet. Io non ho il portatile dietro, non contavo di fermarmi, però ci sarà una saletta con i computer.

Esco e scendo. Alla reception dico che voglio pagare la camera. La signorina controlla e dice che è già pagata, anche per la prossima notte (in effetti è passata l’ora in cui avrei dovuto lasciare la camera: Ben è stato previdente). Lo sospettavo, ma mi fingo stupito, sostengo che dev’esserci stato un errore, che toccava a me pagare. La piccola scenetta prosegue e lei mi fa vedere al computer che la camera è pagata (confesso che in diversi casi faccio ignobilmente leva sull’effetto del mio sorriso per ottenere un trattamento di favore). Quello che mi interessa è il nome che risulta al computer, perché Ben ha pagato con la carta di credito: Benjamin Blackwell, come supponevo.

Chiedo se ci sono computer a disposizione degli ospiti e ovviamente ci sono. Mi siedo e digito Ben Blackwell. C’è un Ben Blackwell che ha fondato un’azienda informatica. Sul secondo sito che consulto trovo anche la foto, mentre riceve un premio: è lui.

Raccolgo le informazioni. Su Internet ci sono poche sue foto, ma è citato infinite volte. Pare che sia proprio un genio. Ha avuto alcune intuizioni incredibili e le ha sapute sfruttare. Un piccolo Steve Jobs. Cerco qualche cosa di più personale, ma è difficile. Lo trovo solo in un sito in cui si accenna alla sua infanzia: poche cose, ma dev’essere stata una roba tremenda. Entrambi i genitori morti quando era piccolo, affidato a uno zio a San Diego, percosse, intervento della polizia, orfanotrofio. Penso a quando ha urlato nella notte, in preda a un incubo.

Risalire all’indirizzo di casa non è facile, ma essendo stato un agente fino a due mesi fa, ho contatti con diverse persone che possono aiutarmi a fare indagini.

Incomincio a telefonare. Christopher mi dice che trattandosi di un personaggio importante, non farà fatica a trovarlo. Lo ringrazio e mentre aspetto che lui mi comunichi l’indirizzo, mi viene l’idea di contattare Keith, che lavora da vent’anni a San Diego, occupandosi di minorenni maltrattati. Mentre faccio il numero, mi chiedo con che diritto scavo nel suo passato. Nessuno, lo so. Chiuderei la comunicazione, ma ormai il telefono squilla e Keith mi risponde. Non gli chiederò niente, non sono affari miei. Chiacchieriamo un momento, ma Keith evidentemente sta aspettando che io gli dica perché ho telefonato e allora lancio lì:

- Senti, Keith, ti disturbo per questo: non so se ti ricordi di un vecchio caso che avete seguito a San Diego. Roba di vent’anni fa, se non ne sai nulla, non importa. Un ragazzino maltrattato che venne tolto allo zio, un certo Benjamin Blackwell.

- Benjamin Blackwell!?

Il tremito nella sua voce mi dice che si ricorda benissimo di lui.

- Sì, ne sai qualche cosa?

- Cristo, Jarrett! Cristo!

L’angoscia che sento vibrare nelle sue parole mi disorienta.

- Che c’è?

- Me lo sogno ancora di notte, Benjamin.

Non dico nulla, spiazzato. Lui aggiunge:

- Ero alle prime armi, allora, e poco ci mancò che cambiassi lavoro. Andai a dire al mio capo che io di ragazzini non volevo occuparmi più. Benjamin Blackwell! Un caso del genere non te lo scordi per tutta la vita.

- Dimmi quello che ricordi.

Keith esita.

- Senti, Jarrett, so che sei uno serio, ma… sono informazioni molto personali. A che cosa ti servono? Quel ragazzo, ormai sarà un uomo, è stato all’inferno. Ha fatto qualche cosa?

- No, Keith. Niente. Quello che mi racconti me lo tengo per me, te lo posso garantire.

- D’accordo.

Ma sento che esita ancora. Aggiunge:

- Senti Jarrett, qualunque cosa lui abbia fatto, io non voglio dire nulla che possa andare a suo danno. Dopo quello che ha passato…

- Keith, non posso dirti perché ho bisogno di qualche informazione, ma non le divulgherò, te lo assicuro. Conosco un po’ Ben e gli sono davvero affezionato.

Non è esatto, non saprei neanch’io che cosa sarebbe esatto, preferisco non saperlo perché temo che la risposta non sarebbe un punto a favore della mia sanità mentale. E non so perché sto ficcando il naso nella vita di Ben, senza nessuna giustificazione.

Keith chiede:

- Che ne è di lui?

- Ha messo su un’azienda informatica. Ha fatto un casino di soldi. È un genio.

- Sono felice di saperlo. È sereno?

- Non lo so, ma sembra una persona equilibrata.

Sembra, ma non lo è: uno che ti lascia un assegno da duecentoquarantamila dollari dopo una serata di sesso è fuori di testa. Anche uno che gli corre dietro e cerca di raccogliere informazioni riservate su di lui è fuori di testa, devi ammetterlo, Jarrett.

- Mi fa piacere.

Non dico nulla. Ora tocca a lui.

Keith respira a fondo e dice:

- Credo che fosse il 1990. Benjamin aveva quindici anni. Lo portarono in ospedale in fin di vita: era in coma, aveva fratture varie, tagli e bruciature. Era stato punito. E sai che cosa aveva fatto?

- Dimmi.

- Aveva fatto cadere una bottiglia vuota, rompendola.

- Cazzo!

- Quando arrivarono i miei colleghi, lo zio, era quel figlio di buona donna che lo aveva in affidamento, stava spegnendogli una sigaretta sulla gamba. Voleva che si svegliasse perché doveva punirlo ancora per quello che aveva fatto. Non aveva finito, intendeva continuare.

Sento nella voce di Keith una sofferenza che conosco bene. È difficile parlare del dolore di un ragazzino

- Poi saltò fuori che era già finito altre volte all’ospedale, per strane cadute, che i vicini sentivano le urla, che lo zio era un sadico fuori di testa. Ci mise tre giorni per uscire dal coma.

C’è un momento di silenzio. Vorrei dire a Keith di smettere, che non è necessario, ma non apro bocca.

- Jarrett, sai che adesso a parlarne mi viene ancora da piangere, io che non piango mai? Ogni giorno scoprivamo qualche cosa di nuovo. Non avevo mai visto un orrore del genere e non mi è mai più capitato, eppure ne ho viste di cose orribili, te lo assicuro. Ma la ferocia con cui quel bastardo lo ha torturato per quattro anni… Cristo! Il medico al processo disse che aveva ventisette cicatrici da ustioni, probabilmente dovute a sigarette spente sul suo corpo, ventisette…

La voce gli si spezza. Non riesce più a parlare. Sta piangendo. Non avrei dovuto chiedergli. Non avevo nessun diritto di ficcare il naso e sono stato punito. Mi ritornano in mente i bambini maltrattati che ho visto. E le cicatrici sul corpo di Ben hanno un significato ben diverso da quello che io, da perfetto coglione, gli avevo dato. Sto male.

Questa volta sono io che dico:

- Cristo!

Ringrazio Keith, lo saluto e gli chiedo di scusarmi se ho ridestato questi ricordi. Lui mi dice che gli farebbe piacere avere altre notizie di Ben. Gli dico che quando le avrò, gli telefonerò di nuovo. Chiudo la comunicazione.

Rimango a guardare davanti a me, senza vedere nulla. Troppe cose vengono fuori. Penso a Martin, ammazzato dal patrigno. Ben è sfuggito per un pelo alla stessa sorte. Ma queste cose ti segnano per sempre.

Poco dopo Dora, della Security+, mi telefona e mi riporta alla realtà. Andropov ha fatto mandare la mia roba e ha lasciato detto che mi ha regalato a un amico. Mica male, come modo di metterla. Il mio stipendio mi sarà pagato regolarmente. Dora mi informa che gli faranno pagare un supplemento per vitto e alloggio, che comunque erano di sua competenza per quattro mesi, e mi chiede dove deve mandare le mie cose.

- Non te lo so dire ancora. Mandale a casa dei miei. Comunque in serata o al massimo domani sarò a Los Angeles.

L’azienda di Ben è a quaranta miglia a nord della città. Lui non può abitare molto lontano.

Pochi minuti dopo telefona Christopher. Ben vive a Fillmore. Mi dà l’indirizzo preciso.

So che cosa farò. Prendo un Greyhound per Los Angeles: ritirerò la mia auto e raggiungerò Fillmore questa sera stessa.

 

Sono fermo in auto. Sto per fare una cazzata, lo so. Dovrei rimettere in moto, fare inversione di marcia e dimenticare per sempre questa tranquilla cittadina di cui conoscevo appena l’esistenza. Questo è quello che dovrei fare. Scomparire. Godermi i soldi e via.

Metto una mano nella tasca interna della giacca e sento con i polpastrelli l’assegno. Non me ne andrò senza averci provato, lo so. Provato a fare che cosa? Non lo so neanch’io.

Se voglio proprio affrontarlo, potrei almeno decidere di fare una cosa meno idiota: suonare il campanello o telefonare, anche se è già andato a dormire; cercarmi un motel per la notte e tornare domani mattina; presentarmi nella sua azienda. Insomma, qualsiasi soluzione è meno stupida di quello che sto per fare. Eppure so che farò così. Perché? Perché voglio prenderlo di sorpresa. Perché non c’è spazio per il buon senso. C’è stato qualche cosa di sensato nelle ultime ventiquattro ore? No, è stato tutto demenziale, dall’inizio alla fine, e forse è per questo che non riesco ad andarmene, perché è stato contro ogni logica. E perfetto.

Tocco ancora l’assegno. È il mio talismano. La prova che lui è pazzo. Io lo sono altrettanto.

Sarà un macello. Un vicino mi vedrà e telefonerà alla polizia. Magari lui è armato e mi sparerà, pensando che io sia un ladro. Chiamerà lui la polizia. No, questo lo escludo, non lo farà. Come faccio a dirlo? L’ho conosciuto ieri sera. Non so niente di lui, salvo quello che ho trovato su Internet e quello che mi ha detto Keith sulla sua infanzia.

Scendo dall’auto e chiudo la portiera. Mi dirigo verso la casa. Faccio finta di suonare, poi scavalco il cancelletto e raggiungo la casa. Mi guardo intorno. Tutto è silenzioso. Dorme. Si deve essere alzato relativamente presto questa mattina, non come me che ho dormito fino a mezzogiorno.

 

E adesso sono qui, davanti alla porta. Percorro la facciata e controllo le finestre.

Non ama l’aria condizionata, preferisce dormire con la finestra aperta. Anche qui, al piano terreno? Rischioso. Vediamo. C’è una debole luce. Mi avvicino. Oltre la finestra vedo il letto. Sta dormendo, con la luce accesa. La finestra è accostata, non chiusa. È pazzo, ma lo sapevo già. La faccio scorrere. Scavalco ed entro. Sono pazzo anch’io, questo non lo sapevo, ma ora lo so.

Accosto nuovamente la finestra. Ora sono davanti al letto e lo guardo dormire. Vorrei abbracciarlo. Non è il desiderio, anche se c’è pure quello, lo riconosco. Mi piace un casino, ho sempre avuto un debole per gli uomini più piccoli di me e che mi sembrano indifesi. E lui lo è. In questo momento risveglia in me soprattutto tenerezza, una voglia infinita di accarezzarlo.

Mi tolgo la giacca, la cravatta, la camicia. Mi spoglio completamente. Anche lui è nudo, il lenzuolo gli copre solo la metà inferiore del corpo.

Tolgo dalla tasca l’assegno e glielo metto sul comodino.

Muovendomi con molta cautela, mi avvicino al letto, sollevo il lenzuolo e mi stendo accanto a lui. Si muove, in qualche modo ha avvertito nel sonno la mia presenza, ma non si sveglia. Ora sono steso al suo fianco. Rido. Voglio vedere la sua faccia, quando mi vedrà qui. Come la prenderà?

Non lo so. E non ho più voglia di ridere. Ho paura della sua reazione, che mi mandi via, che non mi voglia.

Dopo un po’ mi addormento, ma nella modalità di sonno leggero: posso rimanere in parte vigile quando dormo, come dicono che succeda ai genitori che hanno bambini piccoli. Non mi farò fregare come questa mattina.

Non dormo a lungo. Lo sento gemere e mi sveglio. Continua a gemere, più forte. E allora mi avvicino e lo accarezzo, piano. I gemiti si calmano, ma poi riprendono. Allora lo abbraccio, lo avvolgo completamente, il mio corpo contro la sua schiena e un braccio che lo stringe. Si calma in fretta, emette un sospiro di soddisfazione e sprofonda in un sonno sereno.

È così bello stringerlo, sentire il mio corpo che aderisce al suo. Il contatto accende il desiderio, ma non lo ascolto. Non è una scopata, quello che cerco, anche se ne avrei voglia, tanta.

Ben ha bisogno di una guardia, se lascia la finestra aperta la notte, al piano terreno. Ma soprattutto gli serve qualcuno che protegga i suoi sogni felici e scacci gli incubi. Vorrei farlo io, lasciargli solo sogni sereni, in cui magari c’è un posto anche per me. È un bel mestiere, la guardia dei sogni.

Non mandarmi via, Ben.

 

2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Area aperta

Storie

Gallerie

Indice