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   La guardia dei sogni 
 Entro nello spogliatoio e,
  come sempre in questi ultimi giorni, lo sguardo corre all’armadietto di
  Daniel. Ogni mattina vederlo vuoto è un colpo. Mi pare che le gambe non mi
  reggano. Mi siedo. Chino la testa. Non ce la faccio più. Non ce la faccio
  più. Ci ho pensato in queste
  ultime due settimane, molto. Troppo. È diventata un’ossessione e so che c’è
  un solo modo per liberarmene. Non mi cambio. Mi dirigo
  all’ufficio del capo. La porta è aperta. Mi guarda. Io non dico niente, non
  riesco a parlare. - Vieni avanti, Jarrett. Hai qualche cosa da dirmi? Annuisco, senza muovermi.
  Poi, con uno sforzo, percorro la distanza che mi separa dalla scrivania del
  capo. - Siediti, Jarrett. Qual è il problema? Lo sa anche lui qual è il
  problema. Rupert Blomberg non è uno stupido,
  tutt’altro. Ha intelligenza e sensibilità da vendere. - Non ce la faccio più, Rupert. Lo chiamo per nome, anche
  se è il mio capo: qui ci chiamiamo tutti per nome. Rupert annuisce.  - Lo sospettavo. Jarrett, prenditi un periodo di vacanza, vai a sbatterti
  su qualche spiaggia dei Caraibi o a farti un giro per i parchi, come cazzo ti
  pare. Hai bisogno di staccare. - No, Rupert. Ho deciso.
  Do le dimissioni. - Cazzo, Jarrett! Mi piace fare il
  poliziotto, l’ho scelto. Fin da ragazzo mi piaceva il ruolo del salvatore,
  quello che raddrizza le ingiustizie e mette a posto i cattivi. Pare che sia
  bravo a fare il poliziotto, lo dice Rupert, non io. Ma non ce la faccio più. C’è un silenzio. Rupert
  aggiunge: - Daniel, vero? Annuisco. Rupert mi ha messo con
  Susan e Daniel, quattro anni fa, per occuparmi dei bambini. Non mi
  dispiaceva, i bambini mi piacciono e a loro io piaccio.
  Magari all’inizio si spaventano, vedendomi alto e forte, ma poi, quando
  capiscono che sono lì per aiutarli, si sentono protetti. Mi è sempre piaciuto
  fare il protettore. Non il magnaccia, non fraintendiamo. Con Daniel e Susan
  formavano una bella squadra e quando io entravo in crisi, sapevo che potevo
  sempre contare su di loro. E ogni tanto in crisi ci andavo:
  è pesante occuparsi di bambini maltrattati. È uno di quei lavori che ti
  logorano. Certe volte il tuo intervento risolve la situazione e allora ti
  senti un dio, ma altre volte puoi fare davvero poco e veder soffrire un bambino
  è dura, è davvero dura.  Daniel lavorava da
  quindici anni con i bambini ed era il mio punto di riferimento, il mio
  modello. Aveva cinquantadue anni e per me era come un padre, un fratello, un
  amico. Se n’è andato in due
  settimane: leucemia. Non ce la faccio più a
  lavorare qui, ogni mattina entrando guardo l’armadietto di Daniel e penso che
  non c’è più. C’è un silenzio. Anche a
  Rupert la morte di Daniel è pesata: lavorava con lui da dodici anni. Aggiungo. - Daniel. E Martin Highcomb. Due giorni dopo il
  funerale, il piccolo Martin Highcomb è stato
  ammazzato a botte dal patrigno. Ci stavamo occupando di lui, cercando di
  farlo togliere alla famiglia, ma non siamo arrivati in tempo. Adesso ogni
  volta che vedo un bambino picchiato, penso a Martin, che non siamo riusciti a
  salvare. Non ce la faccio più. Rupert cerca di
  convincermi, mi propone di cambiare settore per un po’. Alla fine si rende
  conto che proprio non sono più in grado di reggere e dice: - Senti Jarrett… Fa una pausa, poi
  prosegue: - Credo che tu stia
  facendo la peggiore cazzata della tua vita, ma so che sei una testa dura e
  ormai hai deciso. Ma devi promettermi una cosa. Lo guardo, perplesso. - Che cosa? - Quando hai capito di
  aver fatto una cazzata, torni qui e riprendi il tuo posto. - Grazie, Rupert, ma non
  credo che tornerò mai. Rupert non sembra
  convinto. - Che cosa pensi di fare? - Non lo so, Rupert. Forse la guardia del corpo.  Rupert annuisce. - Qui a Los Angeles va
  bene? - Sì. Qui, da un’altra
  parte. Vediamo dove trovo. Rupert prende il telefono,
  consulta l’agenda (è uno dei pochi che ha un’agenda cartacea e non ha tutto
  sul telefonino) e compone un numero. - Ciao Dora, sono Blomberg. Passami Steve. C’è un silenzio, poi
  Rupert saluta questo Steve e prosegue: - Senti,
  Steve. Uno dei miei migliori agenti ha deciso di lasciare per un po’ la
  polizia. In attesa che cambi idea, ti serve uno in gamba? Al tuo posto non me
  lo lascerei sfuggire. Rimango senza parole. Che
  sia il mio capo a cercarmi un lavoro, mi spiazza. Rupert è generoso, ma fino
  a questo punto non me l’aspettavo. Parlottano un po’. A un
  certo punto il mio capo risponde a una domanda dicendo che sono un gran bel
  maschio, alto e forte. Mi stupisco un po’. Non dovrebbe essere tra i
  requisiti richiesti. L’agenzia di questo Steve fornisce guardie del corpo o
  escort? Se si tratta di escort, spero che sia per uomini, con le donne
  proprio non ci vado. Rupert mi chiede se va
  bene presentarmi alla Security+ domani alle nove.
  Aggiunge: - O vuoi prenderti una vacanza, prima? - No, mi va bene
  incominciare subito. Ma qui non devo… Non posso lasciare la
  polizia da un giorno all’altro! Ma Rupert mi interrompe e mi dice: - Ci penso io. L’appuntamento viene
  confermato. Ringrazio Rupert, un po’ scombussolato. - Adesso vedo come
  risolvere la faccenda, ma ricordati, Jarrett, che
  ti aspetto di ritorno. Non occorre che tu ti cosparga il capo di cenere. Ghigna e aggiunge: - Basta che tu ti
  inginocchi. Lo ringrazio.  - Adesso va’ a casa e torna nel pomeriggio, per il passaggio delle
  consegne. Torno a casa. Infilo le
  chiavi nella serratura e scopro che c’è solo il mezzo giro. Zak dev’essere a casa. È strano
  che non sia al lavoro. Non è che dorme ancora? No, sono le dieci, non è
  probabile. Ad ogni buon conto entro senza far rumore. Qualche rumore arriva
  invece dalla nostra camera da letto: gemiti,
  sospiri, un ansimare molto eloquente. Mi avvicino alla porta e
  guardo dentro, sapendo già benissimo che cosa vedrò. Zak è disteso sul letto, a gambe divaricate.
  Su di lui c’è Bertram, un nostro amico. Bertram lo sta fottendo con grande energia, spingendo a
  fondo e poi ritraendosi, con colpi decisi, intervallati da brevi pause.
  Sembra che ogni volta voglia entrare più a fondo, trapassando il culo di Zak.
  Emette un verso ad ogni spinta, mentre Zak geme,
  mugola, sospira, con grande partecipazione. Io guardo il movimento a
  stantuffo del culo di Bertram e quel bel
  fondoschiena, muscoloso e forte, ma snello, villoso
  il giusto, me lo fa venire duro, anche se ho le palle in giostra. Insomma io
  e Zak non ci siamo mai giurati fedeltà eterna e non
  ci siamo neanche detti che ci amavamo alla follia, ma stiamo insieme da sei
  mesi e lui ha sempre ribadito che nella sua vita non poteva esserci posto per
  un altro, adesso che stava con me. Direi che il posto per Bertram
  c’è, almeno per il suo cazzo che avanza ogni volta fino in fondo. Mi rompe che Zak mi racconti storie. Perché deve mentirmi? Bertram emette una specie di grugnito molto
  forte, muove freneticamente il culo avanti e indietro e infine si abbandona
  su Zak. Sento la voce del mio
  compagno: - Sei
  fantastico! Nessuno fotte bene come te, Bertram! Ho già sentito questa
  frase. Al posto di “Bertram” c’era “Jarrett”, ma per il resto era assolutamente identica. Ho
  l’impressione che il mio rapporto con Zak sia
  arrivato al capolinea.  Bertram si alza e si volta. Mi vede e rimane a
  bocca aperta. Io gli guardo il cazzo, bello grosso e
  ancora turgido. Cazzo! Manco il preservativo ha usato. Zak
  è proprio uno stronzo. Il mio ex è proprio uno stronzo. Zak si rende conto che c’è qualche cosa che
  non va e volta la testa. Mi vede e anche lui resta senza parole. Io mi limito a dire: - Passo tra un’oretta a
  ritirare le mie cose. Poi giro sui tacchi e me
  ne vado. Bene, due ore fa avevo un
  compagno, una casa (la sua, d’accordo), un lavoro. Adesso sono senza
  compagno, senza casa e in procinto di cambiare lavoro. Chissà che cosa
  prevedeva il mio oroscopo per la giornata di oggi? Quando ripasso a casa, Zak non c’è. Mi ha lasciato un biglietto, chiedendomi di
  consegnare la mia copia delle chiavi a un vicino. Certo che deve soffrire molto… Non ho tanto da ritirare:
  il rapporto con Zak era un esperimento (su cui
  incominciavo ad avere già qualche dubbio prima di questa mattina) e ho
  portato qui solo una parte delle mie cose. A casa dei miei c’è molto spazio e
  quando mi serviva una cosa passavo a prenderla: stanno a nemmeno un’ora di
  auto. In due ore ho sistemato
  tutto. Depositerò le mie cose dai miei e mi sa che per qualche giorno mi
  stabilirò da loro, mentre cerco un’altra casa. Il mio fratellino ne sarà
  felice. Nel pomeriggio ripasso in
  centrale. Ritiro le mie cose anche lì. Tempo di grandi cambiamenti. Saluto
  gli altri. - Addio Rupert. - Arrivederci, Jarrett. Tu ritornerai qui, a prendere
  il posto di Daniel, come lui avrebbe voluto. Rupert sembra sicuro di
  sé. Lo pensa davvero o vuole convincermi? Se lo pensa davvero, sono fottuto,
  perché so che di rado si sbaglia. Ma magari sta solo
  cercando di suggestionarmi. A casa i miei non fanno
  molte domande, loro sono molto discreti, ma ci pensa
  il mio fratellino (diciotto anni un mese fa), che non ha preso da loro: - Perché ti sei lasciato
  con Zak? - Perché hai mollato il
  lavoro? - Come hai fatto a trovare
  un posto alla Security+ così in fretta? - Perché… Peggio di un terzo grado.
  Il mio fratellino è felice di avermi a casa, io lo
  sono molto di meno. Il mattino dopo alla Security+ faccio conoscenza con
  Steve Dong, il boss. È un cinese, grosso e grasso,
  un viso simpatico e un sigaro che appesta l’aria, perennemente in bocca o sul
  posacenere. - Il signor Basil Andropov è un cliente
  particolare, molto esigente. Non ha davvero bisogno di protezione, ma vuole
  guardie del corpo che gli facciano anche da autisti. Vuole uomini alti e
  forti, che gli altri notino. Cambia guardia del corpo ogni sei mesi. In
  questi sei mesi l’orario di lavoro è molto elastico… Steve si interrompe e mi
  guarda un momento, poi riprende: - Jarrett,
  Rupert mi ha parlato molto bene di te e non è uno che parla a vanvera. Andropov è uno dei nostri migliori clienti, forse il
  migliore. Paga uno sproposito, ma vuole gente che sia sempre a sua
  disposizione. Si tratta di sei mesi in cui non hai turni, orari, giorni
  liberi. Sei di servizio e basta. Fai quello che lui ti dice. Non ti chiede
  niente che non sia nelle prestazioni di una guardia del corpo, più o meno.
  Guadagni tre volte quello che guadagneresti facendo i normali turni di
  lavoro.  L’idea di passare sei mesi
  senza nessuna libertà di movimento non mi turba. Magari mi lascerà meno tempo
  per pensare. Può andare bene, in questo periodo. - Non è un problema. - Jarrett,
  voglio essere chiaro. Io non intendo perdere Andropov
  come cliente. Niente colpi di testa, niente scene. Se non reggi, mi chiami e
  ti sostituisco. - Perché non dovrei
  reggere? Qual è il problema? Un problema ci dev’essere, altrimenti non mi farebbe questi discorsi. - Per Andropov
  tu sei al suo servizio, sempre. Sei come un cane da guardia e come tale ti
  tratta. - È meglio che te lo dica
  subito: a calci non mi faccio prendere. - No, non ti prende a
  calci, ma non aspettarti che ti tratti come una persona. E se gli gira, è
  capace di chiederti di fargli da guardia del corpo anche mentre scopa. Se è un bell’uomo, la cosa
  può anche essere interessante. Questo però non lo dico. Rispondo invece: - Purché non scopi con
  bambini, perché gli spacco la faccia. - No, quello no. Vuoi
  pensarci? Tu sei la sua guardia del corpo ideale, hai il fisico adatto. Può
  dire: guardate che razza di guardia del corpo ho! Ma se non te la senti, ti
  impiego diversamente. Non ho motivo per dire di
  no. Credevo che avrei protetto persone che correvano rischi e invece mi
  ritroverò a scortare un tizio russo-americano a cui servo come autista e per
  far figura, ma non è un problema. Mi sembra di capire che questo Andropov sia uno stronzo, ma non ha importanza. Sono sei
  mesi e se proprio va male, me ne posso andare.
  Passiamo a parlare dello stipendio, che è una cifra assurda. Alla fine
  accetto: se non altro metterò da parte un po’ di soldi
  e intanto non dovrò preoccuparmi di cercare casa. Tra sei mesi vedrò che cosa
  voglio fare. Devo prendere servizio
  domani. Questa sera ci sarà un nuovo interrogatorio da parte del fratellino:
  vorrà sapere tutto sul mio nuovo lavoro.   Steve mi accompagna a casa
  di Andropov. È più giovane di quanto mi
  aspettassi. Sui quaranta-quarantacinque. Pelato,
  un’ombra di barba e baffi, un po’ di pancia. Non è bello, ma devo dire che
  non farebbe una cattiva figura, se solo fosse vestito in modo più decente:
  indossa una camicia hawaiana e pantaloncini, ai piedi ha un paio di sandali e
  in testa un cappello di paglia, per ripararsi dal sole. Se ne sta sbracato sulla sdraio, ai bordi della piscina. Io ho l’abito scuro
  e la cravatta, perché così dovrò vestirmi nei prossimi sei mesi, sempre. Ho
  messo gli occhiali da sole a specchio, come mi ha raccomandato Steve. Dice
  che sembro un divo del cinema porno. Credo che sia un complimento. Andropov mi osserva come farebbe con un cavallo
  da acquistare, ma per fortuna non mi chiede di aprire la bocca per
  controllare la dentatura (perfetta, comunque). Annuisce e dice che vado bene.
  Si rivolge quasi sempre a Steve, non mi dà il benvenuto, non si occupa di me.
  Non è che sia scortese nei miei confronti, semplicemente mi ignora.
  Incomincia già a darmi sui nervi. Mica male, come
  partenza. Il tutto si conclude in
  fretta e io prendo servizio. Uno dei suoi uomini mi
  spiega tutto ciò che devo e non devo fare. Niente di
  speciale, ma è evidente che per Andropov le guardie
  del corpo sono più o meno dei cani, come diceva Steve: devono essere sempre
  disponibili, zitti e pronti a obbedire. Però gli lascia il tempo di pisciare,
  purché non lo facciano sulla moquette. Nelle settimane seguenti
  faccio da autista ad Andropov quasi ogni giorno. Si
  siede sul sedile posteriore, mi dice dove deve andare e poi si dimentica della
  mia esistenza. Io metto il navigatore e lo porto a destinazione. Giro sempre
  armato, ma non credo che avrò motivo per usare la pistola. Andropov frequenta un giro di gente che organizza
  party e piccole orge. Spesso passiamo a raccattare qualche puttana, di solito
  più d’una. Le vedo armeggiare con lui sul sedile posteriore. Qualcuna fa
  commenti su di me, sempre positivi, devo dire. Qualcuna mi fa capire (e a
  volte me lo dice chiaramente) che se voglio divertirmi un po’, da me non si
  fa pagare. Hai sbagliato bersaglio, bellezza. Il mio grimaldello è destinato
  ad altri tipi di serrature. Ma devo dire che in questo periodo non lo uso. Di solito a queste
  festicciole io rimango sulla porta della casa, insieme ad Alonso, un’altra
  guardia del corpo. Il suo capo è un colombiano. Secondo me è nel traffico
  della droga. Gli altri tizi che frequentano Andropov
  non hanno guardie del corpo, ma non è che siano molto più intelligenti del
  mio capo. Se frequentano uno come lui... Con Alonso scherziamo
  spesso. È simpatico. Una sera osserva: - Come si dice da noi, le
  guardie del corpo sono come i coglioni: sempre fuori quando ci si diverte. Ride. Rido anch’io. Mi
  dico che un po’ coglione lo sono, ad aver accettato questo incarico. Andropov non mi piace proprio. Mi dà fastidio il suo modo
  di fare. Non mi piace la gente che frequenta. Non mi va il suo modo di
  vivere. Uno degli uomini della
  servitù mi viene a chiamare. - Il tuo capo ti vuole.
  Vieni dentro. Io obbedisco e saluto
  Alonso dicendogli: - Un solo coglione fuori. - Con la cerniera lampo a
  volte succede. Ridiamo tutti e due. Andropov è sul divano. Ha una puttana per lato,
  ha messo le braccia sulle loro spalle e con le mani palpeggia le tette. - Non mi piace la gente
  che c’è qui. Tira una brutta aria. Vieni anche tu in camera. La gente che c’è questa
  sera non fa più schifo del solito. Non so perché vuole che venga anch’io, ma
  l’idea non mi va a genio.  Lui si è alzato e sale le
  scale, accompagnato dalle due ragazze. Non si volta a vedere se lo seguo: dà
  per scontato che io gli obbedisca. Penso a quanto mi ha detto Steve e faccio
  la mia parte. In camera lui incomincia a
  spogliare le due ragazze e a farsi spogliare, come se io non ci fossi. In
  un’altra situazione, non mi dispiacerebbe, lo confesso. Andropov
  non è un bell’uomo, ma non fa nemmeno schifo e vedere un maschio scopare è
  sempre una bella vista. Ma ormai non lo sopporto più e questa mi sembra
  un’altra stupida vessazione. Vorrei dirgli che è un pezzo di merda. Ora Andropov
  è nudo e fa migliore figura di quando è vestito. Ha un bel cazzo, circonciso
  (una cosa che mi piace, non so perché), e un paio di
  grossi coglioni che mi solleticano. Lui mi ignora completamente, io ho gli
  occhiali a specchio e guardo la scena senza muovere un muscolo. Qualche cosa
  si sta muovendo, in realtà, dentro i boxer, ma ho le mani davanti e spero che
  non si noti troppo. Andropov non lo noterà, perché
  lui non mi guarda. Le due ragazze invece ogni tanto mi lanciano un’occhiata e
  mi sorridono. Il loro messaggio è chiaro: preferirebbero che ci fossi io, al
  posto di Andropov. Mi spiace per loro, ma non farei
  il cambio. Devo dire però che ad Andropov lo
  metterei volentieri in culo, sperando di fargli male. Andropov fa mettere una ragazza a quattro zampe e
  la monta come fosse una pecora. L’altra intanto usa la lingua e le mani,
  accarezzandolo e stuzzicandolo. Alla prova dei fatti, Andropov si rivela mediocre: si limita a spingere un po’
  e molto presto viene. Poi si stende sul letto e le due ragazze continuano a
  stuzzicarlo, finché non ha di nuovo una mezza erezione. Allora una delle due
  usa la bocca per farlo venire. Quando ha finito, Andropov si alza e va a farsi una doccia. Le due ragazze
  mi si avvicinano e mi stuzzicano un po’. Io ce l’ho
  duro, ma non per i motivi che pensano loro. Fanno alcuni apprezzamenti
  (positivi, ampiamente positivi) su durezza,
  lunghezza e volume. Sono quasi contento quando Andropov
  esce dal bagno e loro mi lasciano. Ma questa sera non è
  finita qui. Andropov molla le due ragazze e passa
  in salotto, con il suo cane da guardia (io) dietro. Si mette a chiacchierare
  con un tizio molto magro. Dal loro dialogo capisco che il tizio, Gustav, non
  ama le donne e non ne fa mistero. Allora Andropov
  gli dice: - Ti piacerebbe la mia
  guardia del corpo, eh? Da come Gustav mi guarda, la risposta è sicuramente affermativa. Ma c’è un
  piccolo dettaglio: io non ho nessuna intenzione di scopare con questo
  stronzo, che per il solo fatto di frequentare Andropov
  è sicuramente un figlio di buona donna. Non dico nulla. Rimango
  impassibile. Gustav chiede al mio capo (non a me e questo solo già la dice
  lunga su di lui): - Posso? Andropov ride.  - Prova. Al massimo ti fa
  un foro rosso in mezzo alla fronte. Ride di nuovo. Il tizio si avvicina,
  sorridente. Quando alza la mano verso la mia faccia, metto di mezzo il
  braccio e dico: - Per un escort, rivolgiti
  a un’altra agenzia. Andropov ride. - Ti è andata male. Il tizio fa una smorfia.
  Non l’ha presa bene. Non me ne fotte un cazzo. Non insiste: sa che potrei
  spaccargli la faccia.  Sono ormai due mesi che
  lavoro per Andropov e mi rendo conto di aver
  sbagliato lavoro o almeno cliente. Nel tardo pomeriggio mi
  chiama e mi dice: - Andiamo a Las Vegas.  - Conta di fermarsi a dormire, signor Andropov? Glielo chiedo perché se ci
  fermiamo devo preparare la ventiquattrore. - No, torniamo qui in nottata, dopo che ho giocato. - Va bene, signor Andropov. Rimarremo fino alle due o
  alle tre, magari anche oltre, e poi mi toccherà riportarlo indietro, guidando
  quel che rimane della notte e forse anche la mattina. Ma non dico nulla: è il
  mio capo, decide lui.  Saliamo in auto. Lui si
  mette dietro e io guido. Per mia fortuna non mi
  considera degno della sua conversazione e io posso
  pensare ai cazzi miei, mentre lui pensa ai suoi. Posto che pensi: non ne sono
  tanto sicuro.  Ogni tanto guardo nello
  specchio retrovisore e, vedendo la sua faccia di merda, mi chiedo perché sono
  qui, agli ordini di un pallone gonfiato. Dovrei fermare la macchina, scendere
  e mollarlo sulla superstrada. Poi però mi dovrei cercare un’altra agenzia,
  perché di sicuro alla Security+ dopo uno scherzetto
  del genere straccerebbero la mia scheda. E dovrei
  cercarmi anche un altro lavoro, perché non avrei certo buone referenze, se
  mollassi questo stronzo a una stazione di servizio. Va bene, me lo sono voluto
  io.  Posso sempre telefonare a
  Steve e dirgli che voglio cambiare, ma l’idea mi dà fastidio: mi sembrerebbe
  di gettare la spugna. Ho la testa dura. Questo stronzo si diverte
  a giocare e andiamo spesso a Las Vegas: in questi due mesi sarà almeno la
  decima volta. Frequenta un locale esclusivo, uno di quei posti per ricchi che
  non vogliono incontrare i comuni mortali. Punta migliaia di dollari come
  fossero monete da un centesimo. Arriviamo alle nove. Come
  le altre volte, il responsabile dice che deve chiedere agli altri clienti se
  non hanno nulla in contrario alla mia presenza: l’ingresso nelle salette è
  riservato ai giocatori. Ma gli altri non hanno obiezioni, per cui mi piazzo dietro
  il mio capo, con gli occhiali scuri, mi metto perfettamente immobile e mi
  preparo a passare così le prossime quattro o cinque ore, magari di più. Seguo un po’ il gioco. Mi
  auguro sempre che il capo perda: è l’unica cosa positiva che può accadere,
  qui dentro. Dei quattro giocatori di questa sera, il più forte mi sembra un
  nero, che vince abbastanza spesso. Anche il mio capo vince,
  peccato! Gli altri sono due sfigati, che dopo un’ora hanno metà delle fiche che avevano all’inizio:
  torneranno a casa spennati.  Sono mezzo addormentato
  (riesco a dormicchiare anche in piedi) quando arriva un altro giocatore. In effetti c’era una sedia libera. È giovane, deve avere
  pochi anni in più di me, ha una faccia simpatica (e pure belloccia). Si siede
  e incomincia anche lui a giocare. Ogni tanto mi guarda, ma senza insistere.
  Mi sa che gli piaccio. Anche lui mi piace e se non avessi questo capo stronzo
  tra i coglioni, magari combineremmo qualche cosa io e lui.  Adesso sono curioso di
  vedere come gioca questo. Lo scopro presto: vince; vince; vince. Qualche volta perde con il nero, ma fa
  sempre la mossa giusta: sembra che veda le carte degli altri, perché se
  qualcuno ha carte migliori delle sue, non rilancia. Cazzo! Sta accumulando
  una massa di fiche incredibile. Il
  mio capo è furente, lo capisco benissimo. Quanto ci godo! Dai, dai, fottilo per bene, fagli
  passare la voglia di giocare! Inculalo. Lo fa, lo fa alla grande. I due polli si ritirano, uno dopo l’altro,
  poi è il turno del nero che evidentemente non ama farsi spennare: ha più fiche di quelle che aveva entrando e
  sa benissimo che se rimane ancora un po’, non gli resterà più niente. E Andropov continua a perdere, chiede fiche e perde. A un certo punto il mio
  capo riesce ad avere colore. Punta tutto quello che ha: non molto, anche se
  devo riconoscere che io ci vivrei per un anno. Mi spiace che si riprenda dei
  soldi, spero che li riperda presto. Ma non li vince. La spunta di nuovo il
  tipo, che si chiama Blackwell, l’ha detto il mio
  capo: ha un full. Gli voglio bene, lo bacerei per questo. Il mio capo è stato
  spennato. Grande, Blackwell! E a questo punto il tipo
  fa un’altra proposta. Spinge tutte le sue fiche
  in mezzo al tavolo e dice: - Io
  gioco tutto. Tu ti giochi la tua guardia del corpo.   Rimango senza fiato. Non
  mi muovo, ma sono basito. Poi penso che se vince ci
  faremo una bella scopata e l’idea mi piace, il tizio mi piace. Sì, dai! Spero
  che quello stronzo del mio capo accetti. Mi libero da Andropov
  e mi faccio una bella scopata, dopo due mesi di astinenza (non completa, lo
  ammetto, ma le seghe non contano). E lui accetta,
  naturalmente senza consultarmi, figuriamoci. Il patto è che continuerà a
  pagarmi per gli altri quattro mesi, ma io passo al servizio di Blackwell. Cazzo, sììììììììììììììììì! Guardo le carte che ha in
  mano Andropov. Tre assi. Cazzo! Marca male. Ma
  perché? Perché? Incomincio a sospettare di essere proprio scalognato. Avevo
  l’occasione di sganciarmi da questo stronzo e di conoscere uno che mi piace
  un casino… Non è ancora detto. Blackwell
  ha culo, magari gli va bene. Lo spero con tutto me stesso. Andropov cambia due carte, Blackwell
  una. Magari ha un poker e fotterà questo figlio di puttana del mio capo. Dai,
  dai! Andropov prende le due nuove carte. L’asso. Il
  quarto asso! Noooooooooooooooooo! Vorrei tirare fuori la
  pistola e spararmi. O magari sparare a lui (soluzione decisamente
  preferibile). Blackwell ha perso. Anche se avesse
  un poker, sarebbe comunque di valore più basso. Se ha provato una scala,
  pure, a meno che non sia a colore, ma c’è una possibilità su diosolosaquante. Cazzo! Blackwell
  non prende la sua carta. Si vede che ha già un poker in mano. Ma perderà
  anche con un poker. Merda! Andropov scopre le sue carte. Lo vedo di schiena,
  ma è evidente che gongola. Blackwell fa scendere il re e poi la regina di
  picche. Cazzo! Provava una scala! Ma perché non ha neanche guardato la carta
  che ha pescato? Poi lascia uno spazio e tira fuori dieci e nove di picche.
  Cazzo! L’ultima carta… La volta senza guardarla. Fante di picche. Incredibile! Alleluia! Alleeeeeluuuuiaaaaaaaaaaaaaaaaaa! Sembra che ad Andropov abbiano dato una mazzata in testa. Ci mette un
  po’ a riprendersi. Poi si alza. Esce dalla stanza, dicendo che manderà
  all’agenzia la mia roba e provvederà a pagare il dovuto. Non mi saluta
  neanche. Perché dovrebbe? E ora? Blackwell
  mi sta guardando. Mi chiede se voglio bere, ma faccio cenno di no. Lui si fa portare un gin tonic, poi mi si avvicina. Mi allenta la cravatta. Qui e
  ora, quindi? Ci sto, ma lascio che vada avanti senza parlare, senza muovermi.
  Non ha detto più nulla. Mi apre la camicia, mi accarezza. Mi piace il
  contatto della sua mano sulla pelle. Mi sfiora il viso. Mi piace. Mi piace il
  suo odore, di pulito. Mi piace la tenerezza che c’è
  nella sua carezza. Mi piace l’impudenza con cui la sua mano raggiunge il
  cazzo, che sta preparandosi a ciò che lo aspetta. Quando lo stringe
  attraverso la stoffa, è una sensazione fortissima. E allora decido che è il
  momento di intervenire.  Gli blocco il braccio, lo
  faccio girare su se stesso, lo stendo sul tavolo da poker. Non oppone
  resistenza e allora proseguo con il gioco. Sempre in silenzio, gli lego le
  mani dietro la schiena, poi gli calo i pantaloni. Ha un bellissimo culo. Gli passo la lingua. Non è
  prudente, ma chissenefrega.
  Poi infilo un dito, due. Lui geme e mi piace sentirlo gemere.
  Mi piace, questo tizio. Mi piaci, Blackwell. Tiro fuori il
  preservativo. Spero che non sia troppo vecchio. Me lo metto e poi lo infilzo,
  piano, perché non voglio fargli davvero male. Il suo corpo vibra di piacere.
  E allora, molto dolcemente, avanzo ancora, con leggere spinte, fino in fondo.
  Le mia braccia lo avvolgono. Mi piace, questo tizio
  mi piace. E mentre lo fotto lo
  accarezzo, perché mi piace sentire la sua pelle, la sua barba, le sue labbra,
  sotto le mie mani.  Incomincio a spogliarmi,
  lo bacio, uso la lingua e i denti per trasmettergli il mio desiderio e sento
  che lo stesso piacere sta incalzandolo. Lo sollevo un po’, lui gira la testa
  di lato e le nostre bocche si incontrano. È bellissimo. E allora gli sciolgo
  le mani e lui sposta le braccia indietro, stringendomi il culo, mentre io lo
  abbraccio. È una meraviglia, mi piace un casino, è bello scoparlo. E
  incomincio a spogliare anche lui, tra baci e carezze, abbracci e spinte,
  gemiti e sospiri. Poi, quando capisco che sto per venire, gli afferro il
  cazzo con la destra, perché voglio che venga con me: è troppo bello, dobbiamo
  venire insieme. E così succede, la tensione si scioglie in un’ondata di
  piacere che mi travolge. Lo stringo, lo bacio. Rimango a lungo steso sul
  suo corpo. Poi mi sollevo e finisco di spogliare me e lui. Lo volto di
  schiena sul tavolo. Lui mi lascia fare. Mi appoggio su di lui, lo bacio, lo
  abbraccio, lo accarezzo con le mani e con la lingua. È bellissimo baciarlo. Per un po’ restiamo così,
  mentre il desiderio alza di nuovo la testa, in entrambi. E allora, dopo aver
  gustato il suo cazzo (circonciso!), tiro fuori un altro preservativo e lui me
  lo infila. Gli sollevo i piedi, gli appoggio le
  gambe sulle mie spalle e riprendo il lavoro con nuova lena, guardandolo. Mi
  piace. Lo accarezzo, accarezzo le sue cicatrici: ne
  ha tante, piccole. Deve piacergli il sesso sado-maso spinto all’estremo,
  perché riconosco bruciature e piccole ferite. Ma qui
  c’è solo tenerezza e desiderio. E di nuovo il piacere ci
  travolge insieme. Credo che sia stata la più
  bella scopata della mia vita. Il mio nuovo capo mi piace, un casino, e nei
  suoi occhi leggo che io gli piaccio altrettanto. Lo pulisco, con cura. Lui mi ringrazia e io rispondo con una battuta, dicendogli che fa parte del
  mio lavoro, ma capisco di aver detto la cosa sbagliata, perché mi sembra
  turbato. Gli dico che scherzavo. Scambiamo infine due parole. Si chiama Ben e
  presentandosi mi stringe la mano. Sarà normale, ma dopo due mesi di Andropov a me non lo sembra per niente.  - Senti Jarrett, io non so perché ho fatto la cazzata di metterti
  sul piatto delle scommesse… - Quella l’ha fatta il mio
  ex-capo. Tu l’hai solo proposto. E per mia fortuna ha
  vinto! - Io non ho bisogno di una
  guardia del corpo. Ci rimango male. Vuole
  mandarmi via? Gli rispondo: - Neanche il mio ex-capo.  Lui prosegue: - Quindi, se vuoi goderti
  quattro mesi di libertà per me va bene. Quattro mesi di libertà,
  pagato, non sono male, ma io vorrei conoscere meglio questo mio nuovo capo
  che mi piace un sacco (l’ho già detto, ma mi sento un po’ ubriaco, anche se
  non ho bevuto una goccia: Ben mi fa questo effetto e la faccenda mi turba un
  po’). Allora gli dico che non voglio cercarmi una casa su due piedi e che
  posso fargli da autista, almeno per qualche giorno. Lui ci sta. Passa a ritirare l’assegno
  della vincita, poi saliamo sulla sua auto. Non si siede dietro, ma di fianco
  a me. Mi propone di cercarci un albergo nelle vicinanze. Mi chiede se voglio
  una camera singola. Figuriamoci! Io voglio stargli vicino, dormire con lui e
  domani mattina scopare di nuovo finché saremo esausti. Dopo la doccia ci
  stendiamo sul letto. Lo bacio e poi mi metto a dormire. Nella notte mi sveglia il
  suo grido strozzato. Ha un incubo. Lo chiamo, lo desto dal sonno, lo
  abbraccio e lo tengo stretto, finché non si riaddormenta. Mi piace stare
  così, mi piace. Ben ridesta in me una tenerezza
  sconfinata, non so perché. Lo bacio, leggermente. Mi sveglio che è pieno
  giorno. Per un attimo non capisco dove sono, poi il ricordo della notte mi
  ritorna, portando con sé una piacevolissima sensazione. Ben non è a letto.
  Sarà al cesso. O magari è sceso a fare colazione.  Mi alzo, mi stiracchio.
  Gli abiti di Ben non ci sono. Neanche la sua valigetta.  Di colpo capisco: se n’è
  andato. Non ha lasciato nulla, neanche un biglietto. È un bello stronzo. E
  mentre lo penso, mi rendo conto che mi spiace, mi spiace
  un casino. È stato bello, ieri sera, questa notte. È stato bello scopare con
  lui, stringerlo, tenerlo tra le mie braccia. Ma perché mi ha mollato così?
  Sì, è proprio uno stronzo. E adesso? Telefonerò alla Security+ per verificare la situazione. Andropov deve pagarmi. Ma lo farà, si è impegnato davanti
  al PokerBoy.
  Se non lo facesse, se venisse fuori che non mantiene gli impegni, non lo
  farebbero più giocare. E poi quattro mesi del mio stipendio per Andropov sono noccioline. Però Ben è uno stronzo (è la terza volta che lo dico, lo so, ma ci sono rimasto
  di merda. Mi ci ero affezionato, anche se è
  assurdo). Sono triste, ma non c’è
  niente da fare. Devo tornare a Los Angeles. Mi faccio la doccia, mi rivesto.
  Magari mi toccherà pure pagare la camera, ma mentre lo penso qualche cosa mi
  dice che l’ha già pagata lui. Non può essere tanto stronzo. E poi metto la mano in
  tasca per controllare il portafogli e sento un foglio di carta piegato. Lo
  tiro fuori. Il biglietto contiene solo un grazie e
  un assegno al portatore. Duecentoquarantamila dollari: quanto Ben ha vinto
  ieri notte. Lo guardo, senza capire.
  Duecentoquarantamila dollari. Duecentoquarantamila. Cazzo! Cazzo! Cazzo!  Ben è pazzo.   Sono completamente
  disorientato. Mi sembra di non riuscire a connettere. Cazzo! Mi ha lasciato la sua
  vincita. È pazzo. Ben Blackwell.
  È tutto quello che so di lui. In questo albergo di sicuro hanno anche il collegamento
  a Internet. Io non ho il portatile dietro, non contavo di fermarmi, però ci
  sarà una saletta con i computer. Esco e scendo. Alla
  reception dico che voglio pagare la camera. La signorina controlla e dice che
  è già pagata, anche per la prossima notte (in effetti
  è passata l’ora in cui avrei dovuto lasciare la camera: Ben è stato
  previdente). Lo sospettavo, ma mi fingo stupito, sostengo che dev’esserci stato un errore, che toccava a me pagare. La
  piccola scenetta prosegue e lei mi fa vedere al computer che la camera è
  pagata (confesso che in diversi casi faccio ignobilmente leva sull’effetto
  del mio sorriso per ottenere un trattamento di favore). Quello che mi
  interessa è il nome che risulta al computer, perché Ben ha pagato con la
  carta di credito: Benjamin Blackwell, come
  supponevo. Chiedo se ci sono computer
  a disposizione degli ospiti e ovviamente ci sono. Mi siedo e digito Ben Blackwell. C’è un Ben Blackwell
  che ha fondato un’azienda informatica. Sul secondo sito che consulto trovo anche la foto, mentre riceve un premio: è lui. Raccolgo le informazioni.
  Su Internet ci sono poche sue foto, ma è citato
  infinite volte. Pare che sia proprio un genio. Ha avuto alcune intuizioni
  incredibili e le ha sapute sfruttare. Un piccolo
  Steve Jobs. Cerco qualche cosa di più personale, ma
  è difficile. Lo trovo solo in un sito in cui si accenna alla sua infanzia:
  poche cose, ma dev’essere stata una roba tremenda.
  Entrambi i genitori morti quando era piccolo, affidato a uno zio a San Diego,
  percosse, intervento della polizia, orfanotrofio. Penso a quando ha urlato
  nella notte, in preda a un incubo. Risalire all’indirizzo di
  casa non è facile, ma essendo stato un agente fino a due mesi fa, ho contatti
  con diverse persone che possono aiutarmi a fare indagini.  Incomincio a telefonare.
  Christopher mi dice che trattandosi di un personaggio importante, non farà
  fatica a trovarlo. Lo ringrazio e mentre aspetto che lui mi comunichi
  l’indirizzo, mi viene l’idea di contattare Keith, che lavora da vent’anni a
  San Diego, occupandosi di minorenni maltrattati. Mentre faccio il numero, mi
  chiedo con che diritto scavo nel suo passato. Nessuno, lo so. Chiuderei la
  comunicazione, ma ormai il telefono squilla e Keith mi risponde. Non gli
  chiederò niente, non sono affari miei. Chiacchieriamo
  un momento, ma Keith evidentemente sta aspettando che io gli dica perché ho
  telefonato e allora lancio lì: - Senti, Keith, ti
  disturbo per questo: non so se ti ricordi di un vecchio caso che avete
  seguito a San Diego. Roba di vent’anni fa, se non ne sai nulla, non importa.
  Un ragazzino maltrattato che venne tolto allo zio, un certo Benjamin Blackwell. - Benjamin Blackwell!? Il tremito nella sua voce
  mi dice che si ricorda benissimo di lui. - Sì, ne sai qualche cosa? - Cristo, Jarrett! Cristo! L’angoscia che sento
  vibrare nelle sue parole mi disorienta. - Che c’è? - Me lo sogno ancora di
  notte, Benjamin. Non dico nulla, spiazzato.
  Lui aggiunge: - Ero alle prime armi,
  allora, e poco ci mancò che cambiassi lavoro. Andai a dire al mio capo che io
  di ragazzini non volevo occuparmi più. Benjamin Blackwell!
  Un caso del genere non te lo scordi per tutta la vita. - Dimmi quello che
  ricordi. Keith esita. - Senti, Jarrett, so che sei uno serio, ma…
  sono informazioni molto personali. A che cosa ti servono? Quel ragazzo, ormai
  sarà un uomo, è stato all’inferno. Ha fatto qualche cosa? - No, Keith. Niente.
  Quello che mi racconti me lo tengo per me, te lo posso garantire. - D’accordo.  Ma sento che esita ancora.
  Aggiunge: - Senti Jarrett, qualunque cosa lui abbia fatto, io non voglio
  dire nulla che possa andare a suo danno. Dopo quello
  che ha passato… - Keith, non posso dirti
  perché ho bisogno di qualche informazione, ma non le divulgherò, te lo
  assicuro. Conosco un po’ Ben e gli sono davvero affezionato. Non è esatto, non saprei neanch’io che cosa sarebbe esatto, preferisco non saperlo
  perché temo che la risposta non sarebbe un punto a
  favore della mia sanità mentale. E non so perché sto ficcando il naso nella
  vita di Ben, senza nessuna giustificazione. Keith chiede: - Che ne è di lui? - Ha messo su un’azienda
  informatica. Ha fatto un casino di soldi. È un genio.  - Sono felice di saperlo.
  È sereno? - Non lo so, ma sembra una
  persona equilibrata. Sembra, ma non lo è: uno
  che ti lascia un assegno da duecentoquarantamila dollari dopo una serata di
  sesso è fuori di testa. Anche uno che gli corre dietro e cerca di raccogliere
  informazioni riservate su di lui è fuori di testa, devi ammetterlo, Jarrett. - Mi fa piacere. Non dico nulla. Ora tocca a
  lui. Keith respira a fondo e
  dice: - Credo che fosse il 1990.
  Benjamin aveva quindici anni. Lo portarono in ospedale in fin di vita: era in
  coma, aveva fratture varie, tagli e bruciature. Era stato punito. E sai che
  cosa aveva fatto? - Dimmi. - Aveva fatto cadere una
  bottiglia vuota, rompendola. - Cazzo! - Quando arrivarono i miei
  colleghi, lo zio, era quel figlio di buona donna che lo aveva in affidamento,
  stava spegnendogli una sigaretta sulla gamba. Voleva che si svegliasse perché
  doveva punirlo ancora per quello che aveva fatto. Non aveva finito, intendeva
  continuare.  Sento nella voce di Keith
  una sofferenza che conosco bene. È difficile parlare del dolore di un
  ragazzino - Poi saltò fuori che era già finito altre volte all’ospedale, per strane cadute,
  che i vicini sentivano le urla, che lo zio era un sadico fuori di testa. Ci
  mise tre giorni per uscire dal coma. C’è un momento di
  silenzio. Vorrei dire a Keith di smettere, che non è necessario, ma non apro
  bocca. - Jarrett,
  sai che adesso a parlarne mi viene ancora da
  piangere, io che non piango mai? Ogni giorno scoprivamo qualche cosa di
  nuovo. Non avevo mai visto un orrore del genere e non mi è mai più capitato,
  eppure ne ho viste di cose orribili, te lo assicuro. Ma la ferocia con cui
  quel bastardo lo ha torturato per quattro anni…
  Cristo! Il medico al processo disse che aveva ventisette
  cicatrici da ustioni, probabilmente dovute a sigarette spente sul suo
  corpo, ventisette… La voce gli si spezza. Non
  riesce più a parlare. Sta piangendo. Non avrei dovuto chiedergli. Non avevo
  nessun diritto di ficcare il naso e sono stato punito. Mi ritornano in mente
  i bambini maltrattati che ho visto. E le cicatrici sul corpo di Ben hanno un
  significato ben diverso da quello che io, da perfetto coglione, gli avevo dato.
  Sto male.  Questa volta sono io che
  dico: - Cristo! Ringrazio Keith, lo saluto
  e gli chiedo di scusarmi se ho ridestato questi ricordi. Lui mi dice che gli
  farebbe piacere avere altre notizie di Ben. Gli dico che quando le avrò, gli
  telefonerò di nuovo. Chiudo la comunicazione. Rimango a guardare davanti
  a me, senza vedere nulla. Troppe cose vengono fuori. Penso a Martin,
  ammazzato dal patrigno. Ben è sfuggito per un pelo alla stessa sorte. Ma
  queste cose ti segnano per sempre. Poco dopo Dora, della Security+, mi telefona e mi riporta alla realtà. Andropov ha fatto mandare la mia roba e ha lasciato detto
  che mi ha regalato a un amico. Mica male, come modo
  di metterla. Il mio stipendio mi sarà pagato regolarmente. Dora mi informa
  che gli faranno pagare un supplemento per vitto e alloggio, che comunque
  erano di sua competenza per quattro mesi, e mi chiede dove deve mandare le
  mie cose.  - Non te lo so dire
  ancora. Mandale a casa dei miei. Comunque in serata
  o al massimo domani sarò a Los Angeles.  L’azienda di Ben è a
  quaranta miglia a nord della città. Lui non può abitare molto lontano. Pochi minuti dopo telefona
  Christopher. Ben vive a Fillmore. Mi dà l’indirizzo
  preciso. So che cosa farò. Prendo
  un Greyhound per Los Angeles: ritirerò la mia auto
  e raggiungerò Fillmore questa sera stessa. Sono fermo in auto. Sto
  per fare una cazzata, lo so. Dovrei rimettere in moto, fare inversione di
  marcia e dimenticare per sempre questa tranquilla cittadina di cui conoscevo
  appena l’esistenza. Questo è quello che dovrei fare. Scomparire. Godermi i
  soldi e via.  Metto una mano nella tasca
  interna della giacca e sento con i polpastrelli l’assegno. Non me ne andrò
  senza averci provato, lo so. Provato a fare che cosa? Non lo so neanch’io. Se voglio proprio
  affrontarlo, potrei almeno decidere di fare una cosa meno idiota: suonare il
  campanello o telefonare, anche se è già andato a dormire; cercarmi un motel
  per la notte e tornare domani mattina; presentarmi nella sua azienda.
  Insomma, qualsiasi soluzione è meno stupida di quello che sto per fare.
  Eppure so che farò così. Perché? Perché voglio prenderlo di sorpresa. Perché
  non c’è spazio per il buon senso. C’è stato qualche
  cosa di sensato nelle ultime ventiquattro ore? No, è stato tutto demenziale,
  dall’inizio alla fine, e forse è per questo che non riesco ad andarmene,
  perché è stato contro ogni logica. E perfetto.  Tocco ancora l’assegno. È
  il mio talismano. La prova che lui è pazzo. Io lo sono altrettanto. Sarà un macello. Un vicino
  mi vedrà e telefonerà alla polizia. Magari lui è armato e mi sparerà,
  pensando che io sia un ladro. Chiamerà lui la polizia. No, questo lo escludo,
  non lo farà. Come faccio a dirlo? L’ho conosciuto ieri sera. Non so niente di
  lui, salvo quello che ho trovato su Internet e quello che mi ha detto Keith
  sulla sua infanzia.  Scendo dall’auto e chiudo
  la portiera. Mi dirigo verso la casa. Faccio finta di suonare, poi scavalco
  il cancelletto e raggiungo la casa. Mi guardo intorno. Tutto è silenzioso.
  Dorme. Si deve essere alzato relativamente presto questa mattina, non come me
  che ho dormito fino a mezzogiorno.  E adesso sono qui, davanti
  alla porta. Percorro la facciata e controllo le finestre. Non ama l’aria
  condizionata, preferisce dormire con la finestra aperta. Anche qui, al piano
  terreno? Rischioso. Vediamo. C’è una debole luce. Mi avvicino. Oltre la
  finestra vedo il letto. Sta dormendo, con la luce accesa. La finestra è
  accostata, non chiusa. È pazzo, ma lo sapevo già. La faccio scorrere.
  Scavalco ed entro. Sono pazzo anch’io, questo non lo sapevo, ma ora lo so. Accosto nuovamente la
  finestra. Ora sono davanti al letto e lo guardo dormire. Vorrei abbracciarlo.
  Non è il desiderio, anche se c’è pure quello, lo riconosco. Mi piace un
  casino, ho sempre avuto un debole per gli uomini più piccoli di me e che mi
  sembrano indifesi. E lui lo è. In questo momento risveglia in me soprattutto
  tenerezza, una voglia infinita di accarezzarlo. Mi tolgo la giacca, la
  cravatta, la camicia. Mi spoglio completamente. Anche lui è nudo, il lenzuolo
  gli copre solo la metà inferiore del corpo. Tolgo dalla tasca
  l’assegno e glielo metto sul comodino. Muovendomi con molta
  cautela, mi avvicino al letto, sollevo il lenzuolo e mi stendo accanto a lui.
  Si muove, in qualche modo ha avvertito nel sonno la mia presenza, ma non si
  sveglia. Ora sono steso al suo fianco. Rido. Voglio vedere la sua faccia,
  quando mi vedrà qui. Come la prenderà? Non lo so. E non ho più
  voglia di ridere. Ho paura della sua reazione, che mi mandi via, che non mi
  voglia. Dopo un po’ mi addormento,
  ma nella modalità di sonno leggero: posso rimanere in parte vigile quando
  dormo, come dicono che succeda ai genitori che hanno bambini piccoli. Non mi
  farò fregare come questa mattina. Non dormo a lungo. Lo
  sento gemere e mi sveglio. Continua a gemere, più forte. E allora mi avvicino
  e lo accarezzo, piano. I gemiti si calmano, ma poi riprendono. Allora lo
  abbraccio, lo avvolgo completamente, il mio corpo contro la sua schiena e un
  braccio che lo stringe. Si calma in fretta, emette un sospiro di
  soddisfazione e sprofonda in un sonno sereno.  È così bello stringerlo,
  sentire il mio corpo che aderisce al suo. Il contatto accende il desiderio,
  ma non lo ascolto. Non è una scopata, quello che cerco, anche se ne avrei
  voglia, tanta. Ben ha bisogno di una
  guardia, se lascia la finestra aperta la notte, al piano terreno. Ma
  soprattutto gli serve qualcuno che protegga i suoi sogni felici e scacci gli
  incubi. Vorrei farlo io, lasciargli solo sogni sereni, in cui magari c’è un
  posto anche per me. È un bel mestiere, la guardia dei sogni.  Non mandarmi via, Ben. 2012    |