Partita a poker

 

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Compongo il numero di telefono. Mentre premo il tasto della chiamata, già sono pentito di averlo fatto, ma aspetto che dall’altra parte mi rispondano e parlo: avviso che questa sera sarò nel locale, per giocare in una delle salette riservate. Conoscono il mio nome. Sento la deferenza dell’addetta, la sua cortesia quasi servile. Saluto e riattacco.

Non dovrei farlo, lo so. Non ha senso. Ma questa sera prenderò l’auto, farò duecentotrenta miglia per raggiungere Las Vegas e passare qualche ora a giocare a poker in un locale esclusivo, dove il solo ingresso costa almeno una settimana di salario del portiere della mia azienda.

Non so perché gioco. Ho cercato di scoprirlo, mi sono rivolto anche a una psicoterapeuta. È in gamba, Joan, mi ha fatto tirare fuori un sacco di cose di cui di solito non parlo mai: la morte di mia madre, uccisa dal cancro quando avevo solo sei anni; l’incidente d’auto in cui morì mio padre, quando ne avevo quasi undici; le botte dello zio a cui ero stato affidato, tante che finii diverse volte in ospedale e infine mi tolsero a lui; lo stupro di gruppo subito quando ero in orfanotrofio; la storia con Max. Sì, lo riconosco: Life for me ain't been no crystal stair, come diceva Hugues; ho mangiato una buona dose di merda, per dirla in modo meno poetico. Joan diceva sempre che dovevo imparare ad affrontare queste cose, a guardarle in faccia. Ma a un certo punto non ce l’ho più fatta. La terapia non mi faceva stare meglio: stavo peggio, ogni giorno peggio, stavo ripiombando negli incubi della mia infanzia e della mia adolescenza. E c’erano cose che non avevo voglia di dire, nemmeno a Joan. Non volevo dirle che anche mio padre mi picchiava, che era diventato violento dopo la morte di mia madre. Non volevo dirle che so benissimo che l’incidente non fu un incidente, ma che lui si schiantò contro quel camion perché voleva ammazzarsi.

Ho interrotto la terapia. Così continuo a giocare.

 

Mi preparo per la serata. Chissà se anche questa sera vincerò. È buffo, il principale problema dei giocatori è che al tavolo verde si rovinano. Io invece faccio soldi. Non vivo di gioco, ci mancherebbe. Quando sono diventato maggiorenne, ho realizzato alcune idee che avevo e ho messo su una piccola azienda. Gli affari vanno a gonfie vele. Non tutto nella mia vita è stato un disastro: quando si parla di dollari, è il contrario, i soldi sembrano amarmi e moltiplicarsi. Gli altri subiscono la crisi, io vendo sempre di più. E il lavoro mi piace, mi piace un casino confrontarmi con ragazzi che hanno pochi anni in meno di me e tante belle idee.

Max era uno di loro, una mente brillante, un fisico da atleta e molte ambizioni. Mi innamorai. Il primo vero amore. Fiducia totale. Condivisione totale. Dal letto al conto in banca, dalle posate alle carte di credito.

E un giorno torno a casa da una settimana a New York e non trovo più Max, né le sue cose, né le mie. Il conto in banca prosciugato, tutti gli oggetti di valore spariti. E neanche due righe. Anche se devo riconoscere che il messaggio era chiaro.

Sarà per quello che vinco sempre? Fortunato al gioco, sfortunato in amore.

Con l’amore ho chiuso. Ho un’attività che mi piace e tanti di quei soldi da non sapere cosa farmene. Lavoro con gente simpatica, c’è un gran bel clima in azienda. Che cosa si può avere di più?

Il gioco mi trasmette qualche brivido. Mi piace rischiare. Mi piace vincere. Magari mi piace anche perdere, non lo so, non mi capita mai.

Perché vinco sempre? Un po’ perché con i giocatori non professionisti capisco subito se hanno in mano qualche cosa o no. Come, non saprei. Lo capisco e basta. La tensione del corpo, le mani, la bocca, la rigidità del collo. Dopo un po’ che gioco sono in grado di cogliere i segni e di capire se il tizio sta bluffando o se invece ha davvero delle buone carte.

Il fatto è che vinco anche con i professionisti. Non so perché. Culo, probabilmente.

Mi guardo allo specchio. Non sono alto, ma vado in palestra e ho cura del mio corpo. La faccia non è male, anche se certo non sono un divo del cinema. Capelli corti e barba cortissima, che copre una delle cicatrici che mi regalò mio zio (ne ho una infinità, di cui tre in faccia: di botte ne ho prese che basterebbero per una vita, a volte mi capita ancora di sognare che mio zio mi mena e mi sveglio sudato e urlante, a trentacinque anni!). Abito scuro, camicia bianca e cravatta. Se vado in qualche locale gay, ho sempre qualcuno che mi gira intorno. Probabilmente perché capiscono che ho i soldi.

 

Il Laure’s Orchard è un locale poco appariscente. Non è per i turisti o per i giocatori delle macchinette: bisogna prenotare per poter entrare. Io intendo giocare a poker, come ho comunicato, per cui do la carta di credito all’ingresso e mi faccio dare le fiche. Sono da cento, cinquecento, mille, cinquemila e diecimila dollari. Qui i tagli sono questi.

Raggiungo il locale in cui giocherò questa sera, una piccola sala privata: si paga, caro, per giocare in una di queste sale. Qui nessuno usa le fiche da cento, farebbe la figura del poveraccio. Cinquecento è la puntata minima.

Sono ammessi soltanto i giocatori. Nessuno disturba e il gioco può andare avanti anche per tutta la notte o per più giorni. Io non amo giocare molto a lungo. Prima di mattina voglio poter andare a dormire in albergo o tornare a casa.

Sono l’ultimo ad arrivare. Degli altri quattro conosco solo Andropov, uno che gioca grosse cifre. Non ho stima di lui, ma di solito non ho molta considerazione per i giocatori. Uno che gioca grosse somme come se fossero noccioline o è fuori di testa o è un debole o uno stronzo oppure tutte e tre le cose insieme, come il sottoscritto.

In piedi, dietro Andropov, c’è un uomo alto, vestito con un abito scuro. Mi colpisce subito. In primo luogo perché mi piacciono un casino gli uomini alti e ben piantati, poi perché trasuda testosterone da ogni poro. Porta gli occhiali scuri, il che è semplicemente ridicolo in questa saletta in cui la luce è forte solo sul tavolo. Ma quegli occhiali grandi, che nascondono gli occhi, lo rendono ancora più virile. Anche lui ha la barba molto corta e i capelli corti, più lunghi sulla sommità. Maschio al cento per cento. Cazzo! Mi piace.

Perché questo tipo è qui? Qui ci possono stare solo i giocatori. Poi capisco. È in piedi dietro Andropov. È la guardia del corpo di Andropov. Quel coglione gira davvero con un gorilla, perché ha paura di rimanere vittima di una rapina: in realtà per darsi importanza. Cambia guardia del corpo abbastanza spesso, mi dicono: vuol far vedere che rinnova la merce. Perché lo abbiano lasciato entrare, non lo so. Probabilmente gli altri giocatori non hanno fatto obiezioni.

Mi siedo al mio posto e aspetto che gli altri finiscano la mano. Mi fanno un cenno di saluto. Andropov sta vincendo: ha un casino di fiche davanti. Ma non è contento del mio arrivo, l’ho capito dall’occhiata che mi ha lanciato. L’ho già spennato due volte.

Andropov perde la mano. Vince un nero, che ha la faccia sveglia. Anche lui ha un discreto numero di fiche davanti. Gli altri due invece devono aver già perso abbastanza, si capisce dalle loro facce, oltre che dal mucchietto esiguo di fiche. Non mi fanno pena. Se giochi somme di questo genere, è perché le hai. Altrimenti sei un fottuto coglione, come il sottoscritto. Io i soldi li ho, ma sono un coglione lo stesso. Lo so, autostima scarsa, me lo diceva sempre anche Joan. Ma quando per anni ti hanno detto che sei una merda e l’unico che dice di amarti alla follia se ne va con tutto ciò che può prenderti, qualche dubbio ti viene.

Andropov suona il campanello e chiama il cameriere. Prende un whiskey. Io prendo un gin tonic. Sarà l’unico della notte. Bevo sempre pochissimo, ma un po’ di alcol in corpo mi fa bene quando gioco.

Io sono di fronte ad Andropov e posso vedere il pezzo da novanta che ha dietro. Me lo divorerei con gli occhi, ma non voglio che lui se ne accorga. È vero che è qui solo per far figura, che Andropov vuole metterlo in mostra, ma mi sembrerebbe poco gentile nei suoi confronti. Ogni tanto gli lancio un’occhiata e mi rendo conto che mi sta facendo un certo effetto. Cazzo! Questo non mi era mai successo, qui.

Incominciamo la partita. Studio gli altri giocatori, quando prendono le carte, le sistemano, le guardano. Non è uno studio razionale, non saprei dire che cosa vedo, ma vedo. Vinco una mano e ne perdo due, ma adesso ho capito come sono gli altri. So che ora il nero ha qualche cosa di buono in mano e non rischio con la mia doppia coppia. E infatti ha un tris. So che invece adesso nessuno di loro è soddisfatto di quello che ha ed è il mio turno di intascare.

Il gioco ha preso la solita direzione: vinco, con frequenza crescente. I due che già erano in difficoltà rinunciano presto: uno molla quasi subito e se ne va, l’altro rimane ancora poche mani, poi cede anche lui. Il nero è un osso duro, più di Andropov. Sa giocare. Vince una mano su tre. Io vinco le altre due. Andropov perde quasi sempre. Due volte si fa portare altre fiche.

Il nero sta valutando le fiche davanti a lui. Medita di smettere: deve essere in attivo e, visto che ormai il vento è girato, preferisce salvare quanto ha guadagnato. Infatti annuncia che si ritira e se ne va.

Rimaniamo io e Andropov, oltre ovviamente al PokerBoy e alla guardia del corpo.

Andropov è furente, gli scoccia perdere di nuovo. Ma la sua faccia è un libro aperto, in cui leggo benissimo se ha carte buone o solo scarti. E anche quando rischio, mi va sempre bene. Andropov reagisce aumentando la posta, nella speranza di rifarsi con un colpo fortunato, ma gli va sempre peggio. Per due volte chiede ancora fiche. Ho davanti a me una quantità di denaro impressionante. Quelli di Save the Children saranno contenti. Finisce che do sempre a loro le vincite. Con il responsabile della sezione Western Coast ho fatto amicizia, una volta che è venuto a trovarmi per ringraziarmi. Gli ho raccontato da dove provengono i soldi. Da allora ogni volta mi dice che prega sempre che io riesca a vincere la mia passione per il gioco o almeno, se proprio devo cedere, che io riesca a vincere.

Andropov si fa portare un nuovo mazzo di carte, poi prende un altro whiskey. Sta finendo le ultime fiche. Esita, non sa che fare. Io aspetto. Non intendo forzarlo, che faccia quello che vuole. Intanto ne approfitto per lanciare un’occhiata al marcantonio alle sue spalle. Non ha detto una parola, non si è mosso. Sembra una statua, immobile e splendido.

Si fa portare altre fiche. Borbotta:

- Queste sono le ultime che mi fotti, Blackwell.

Sorrido.

Il gioco prosegue. Andropov vince una mano, io sei. Adesso è alla frutta. Questa volta però deve avere buone carte in mano, glielo leggo in faccia. Punta tutto quello che ha. Potrei rilanciare e costringerlo a chiedere altre fiche, ma non voglio forzarlo. Vediamo se riuscirà a recuperare una parte di quello che ha perso (poco, comunque).

- Vedo.

Abbassa le sue carte trionfante: colore. Per un attimo ho l’impulso di buttare via le mie carte e dirgli che ha vinto lui. Ma c’è un lampo di gioia maligna nei suoi occhi e quelle migliaia di dollari servono più a Save the Children che a lui.

Gli faccio vedere il mio full.

Commenta solo:

- Merda!

Mi guarda, furibondo. Mi fa quasi pena. Sollevo gli occhi sulla guardia del corpo, sempre immobile. Sono tre ore che se ne sta lì, senza dire una parola, senza muovere un muscolo. Però, che gran bel maschio!

L’idea mi viene così e la butto lì, evitando rigorosamente di rifletterci:

- Ti do ancora una possibilità.

Andropov mi guarda. Scuote la testa.

- No, non prendo altre fiche.

- Non occorre.

Spingo la massa di fiche al centro del tavolo. È impressionante, è senz’altro una delle volte in cui ho vinto di più.

- Io gioco tutto. Tu ti giochi la tua guardia del corpo. 

E mentre lo dico guardo l’uomo. Il tizio non fa una piega. Sarà vero o sarà una statua?

- Che cazzo dici?

- Per quanto tempo l’hai pagato? Quanto dura il contratto per lui?

- Sei mesi, ce ne sono ancora quattro.

- Va bene. Se vinci tu, ti porti a casa tutto il malloppo. Se vinco io, paghi la guardia per tutto il periodo, ma dalla fine della partita lui lavora per me.

Sono una testa di cazzo, l’ho sempre saputo, ma anche così non riesco a spiegarmi come mi è potuta venire in mente una cosa del genere.

Andropov mi fissa. Non si volta verso la sua guardia, non gli chiede se è d’accordo. Lentamente annuisce.

Il PokerBoy dà le carte.

Guardo Andropov prendere le sue. È soddisfatto.

Io guardo le mie. Scala. Re, regina, dieci e nove di picche, fante di cuori. Che culo! E mentre lo penso, mi chiedo che farò della guardia del corpo. Che cazzo mi è passato per la mente di fare una proposta del cazzo come quella?

Andropov cambia due carte. Ha un tris. Può venirgli un poker, nel qual caso mi batte, ma non è probabile. Io sto per dire che sono servito, quando tolgo il fante di cuori, per chiedere un’altra carta. Rinuncio alla scala. Mi spiace per Save the Children, gli staccherò un assegno dal mio conto in banca, ma voglio uscire da questo guaio in cui mi sono messo, facendo tutto da solo.

Ci danno le carte. Vedo Andropov gongolare. Non nasconde la sua gioia: non ha motivo per fingere, tanto non ci sono rilanci. Guarda il mucchio di fiche, di cui tra poco si impadronirà.

Io faccio un cenno con la testa.

Andropov fa scendere una per volta le sue carte. Asso di picche, di fiori, di cuori, di quadri. Poker. Un finale alla grande.

Va bene, meglio così. Sono contento di perdere, ma mi dà fastidio la faccia di Andropov, la sua gioia maligna. Allora decido di proseguire la commedia. Scopro una dopo l’altra le carte: il re di picche, la regina di picche. Andropov mi guarda. Il sorriso è svanito. Mi viene da ridere. Lascio uno spazio per la nuova carta, che non ho ancora visto, poi metto il dieci e il nove di picche. Mi sembra che Andropov sia pallido. Volto l’ultima carta e la metto al posto che dovrebbe avere il fante, senza guardarla.

Vedo Andropov afflosciarsi sulla sedia e scuotere la testa. Intuisco e guardo le mie carte. Perfettamente al suo posto, c’è il fante di picche. Scala a colore.

L’impressione è di sentire il Destino dirmi la frase che mi diceva mio zio, quando voleva menarmi: “Non mi scappi”. Non lo urlava: lo diceva tranquillo, mentre si alzava senza fretta.

Io a scappare ci provavo, ma lui mi prendeva. L’ultima volta, forse l’unica in cui avevo davvero combinato un guaio, urtando e facendo cadere la bottiglia vuota mentre gli portavo quella piena che mi aveva chiesto, mi seguì per tutta la casa. Io mi barricai in bagno, terrorizzato: per cose ben più leggere avevo subito tante di quelle percosse, che non osavo affrontare la sua collera. Lui sfondò la porta. Fu la polizia a salvarmi, avvertita da una vicina che aveva sentito le mie urla e poi il silenzio. Io ero svenuto. L’ultimo ricordo è di mio zio con la bottiglia rotta in mano che dopo avermi menato mi tagliuzzava la gamba. Mi portarono all’ospedale in coma, una gamba e un braccio rotti, coperto di ferite e contusioni. Mi svegliai dopo tre giorni e per tutto il periodo che trascorsi in quella camera, se qualcuno entrava, sussultavo. C’era un’infermiera che si metteva a piangere quando mi vedeva con gli occhi sbarrati dal terrore ogni volta che la porta si apriva.

Adesso la sensazione è quella: mi sembra di non riuscire a sfuggire a qualche cosa che mi aspetta. So che non ha senso: ho vinto una grossa somma di denaro e una guardia del corpo, di cui non so che fare, nient’altro. 

Alzo lo sguardo sull’uomo, che è sempre immobile. Ha cambiato padrone, ma non ha mosso un muscolo. Come fa? Posso dirgli che può andarsene, che Andropov lo pagherà, che a me non serve. Eppure l’immobilità di quest’uomo mi turba.

Andropov si alza e se ne va, dicendo che darà all’agenzia gli effetti personali della guardia. Io do al PokerBoy una delle fiche più grosse come mancia, poi gli affido tutto il malloppo perché lo porti alla cassa e gli dico di portarmi un altro gin tonic. Chiedo alla guardia del corpo se vuole qualche cosa. Lui scuote la testa. Sarà muto, ma non è una statua.

Rimango seduto. Non so che fare. Alzo la testa e fisso l’uomo. Quegli assurdi occhiali scuri mi impediscono di vedere il suo sguardo.

Il cameriere mi porta il gin tonic. Non dovrei berne un altro. Non sono abituato a bere. Due bicchieri in tre ore non sono sufficienti per ubriacarmi, ma sarei imprudente a mettermi alla guida dopo aver bevuto. Mi fermerò in un albergo qui vicino.

E adesso, che ne faccio, di questo bell’esemplare?

Bevo e mi alzo. Mi avvicino. Sorrido. Nessuna reazione. L’alcol mi dà alla testa. Solo l’alcol? No, c’è una nuova tensione che sale. So benissimo di che si tratta. Quest’uomo mi piace, moltissimo, troppo. Ho sempre avuto un debole per gli uomini alti e forti. Forse perché ho sempre cercato qualcuno che mi proteggesse. Quando mio zio mi picchiava, desideravo che qualcuno mi salvasse da lui. Anche nell’istituto in cui finii avrei avuto bisogno di essere protetto, dopo che mi ero messo in mezzo per impedire che un ragazzino più piccolo di me venisse violentato. Io, basso e solo, che mi mettevo contro una banda di ragazzi più grandi! Coglione, come sempre. Lui la scampò, io no: un giorno quelli mi presero a forza.

Mi avvicino. Gli arrivo alla spalla. Alzo la destra e gli allento la cravatta. Non fa una piega.

Allora incomincio a sbottonargli la camicia. Non so che cosa sto facendo. So che tra poco mi spaccherà la faccia e mi lascerà a terra, sanguinante. Le botte mi restituiranno la lucidità. Ho aperto completamente la camicia. Con il palmo della mano, gli accarezzo il torace. Ha un corpo da statua greca. Avvicino il viso. Ne sento l’odore, un odore di maschio, di pulito. Un odore che mi intossica.

Gli passo le dita sul viso, con delicatezza.

Poi la destra scende, ancora lungo il torace, fino ai pantaloni. Accarezza, fino a trovare la protuberanza, che sta crescendo. Muovo due volte la mano sul davanti dei pantaloni, poi con le dita afferro, attraverso la stoffa, il cazzo. Lo sento duro, palpitante, grosso. Mi manca il fiato. Non so che cosa sto facendo. Sono impazzito.

Stringo con la destra. E mentre le mie dita afferrano, lui scatta. È tutto molto rapido. Mi stringe il polso con la sinistra, con la destra mi fa girare su me stesso e mi ritrovo con un braccio bloccato dietro la schiena. Mi spinge sul tavolo da poker, mi forza ad appoggiarmi. Mi sta legando le mani dietro la schiena, con una cinghia, forse. Non oppongo resistenza. Lascio che faccia.

Mi passa le mani intorno alla vita, mi slaccia la cintura, mi abbassa i pantaloni, scoprendomi il culo. Sta per prendermi. È quello che desidero.

Sento le sue mani sul mio culo e poi la sua lingua, che lavora muovendosi rapida lungo il solco. Lo percorre più volte e indugia sull’apertura. Gemo, stordito dal piacere che mi dà. Poi mi infila un dito in culo. Lo fa senza delicatezza e io sussulto. Lo muove un po’, circolarmente, dilatando l’apertura. Lo toglie, ne infila due, facendomi di nuovo sobbalzare. Le muove con decisione, e la sensazione che mi trasmette questo contatto brutale è fortissima. Poi c’è un momento di pausa. Mi passa un braccio intorno al torace e mi solleva un po’. Sento la pressione del suo cazzo, grosso e turgido, contro il buco del culo. Sento il suo avanzare. Fa male, parecchio, anche se procede piano. Si ferma, indugia, si ritrae. Respiro e il dolore si attenua. Avanza di nuovo, con più delicatezza. Spinge a fondo. Di nuovo dolore, ma anche piacere. Ora è tutto dentro di me ed è bellissimo, uno spasimo violento e un godimento ancora più forte, questa mescolanza di sofferenza e piacere che è tutto quello che voglio.

Spinge avanti e indietro, con forza, senza stancarsi. Le sue braccia mi avvolgono e mi sembra che ci sia tenerezza in questo gesto. Assurdo.

Mi fotte con grande energia e intanto le sue braccia mi stringono, le sue mani mi accarezzano, sì, mi accarezzano, davvero, scivolano sulla mia faccia, tra i miei capelli, si infilano sotto la camicia. Poi a tratti toglie le braccia, mi preme deciso sul tavolo e mi fotte con forza ancora maggiore, facendomi gemere.

Ora si toglie la giacca e la camicia e le vedo posarsi sul tavolo accanto a me. Senza smettere di fottermi, si china su di me e mi bacia sulla guancia. Mi mordicchia un orecchio e poi ci infila la lingua dentro.

Poi mi solleva, mi accarezza, ruvidamente, ma io sento il suo desiderio. Giro la testa di lato e ci baciamo. Lui mi scioglie le mani. Io passo le braccia dietro di lui e gli stringo il culo, mentre lui continua instancabile a fottermi. Che bello! Ci baciamo di nuovo, senza che il suo movimento si interrompa. Mi piace sentire le sue mani che percorrono il mio corpo, che stringono, accarezzano, pizzicano, sfiorano. Mi piace sentire le sue labbra che cercano le mie. Non ha più gli occhiali e vedo i suoi occhi, chiari.

È una delle più grandi scopate della mia vita. Era bello con Max, certo, era molto bello. Perché io lo amavo ed ero convinto che anche lui mi amasse. Sono sempre stato un coglione, l’ho detto. Quando mio zio mi prese con lui, lo ringraziai.

Qui non c’è niente, solo il desiderio. Lui mi piace, ha voglia di scopare e io non gli faccio tanto schifo che lui non abbia voglia di stringermi e baciarmi.

Lui mi sta spogliando, mi toglie la giacca, gioca con la cravatta, stringendola un po’ intorno al collo, ma mi bacia e allenta la stretta, mi bacia di nuovo, mi toglie la camicia. Le sue mani percorrono la mia schiena, poi mi sollevano, mi stringe, mi abbraccia forte, mi bacia, ancora. Infine le sue mani scendono fino al mio cazzo, teso all’inverosimile. Lo accarezzano, delicate, stringono un po’ i coglioni, ritornano al cazzo, lo afferrano, premono, si muovono decise. Sento l’onda del piacere che sale e mi spiace, perché vorrei che continuasse ancora, che rimanessimo ancora così, contro questo tavolo. Ma in tutti e due la tensione si scioglie e in un grido strozzato lui mi viene in culo e il mio seme si sparge sul tavolo, mentre lui mi bacia.

Rimaniamo così, stretti, ed è una gioia infinita. Questa notte folle mi regala piacere e tenerezza. Poi lui esce da me e finisce di spogliarsi. Spoglia anche me, togliendomi i pantaloni, gli slip e le calze. Mi mette di schiena sul tavolo e si stende su di me, tenendo le gambe a terra. Mi abbraccia, mi bacia. Sembra affamato di baci e io lo sono più di lui. A lungo mi passa la lingua sui capezzoli, li morde, li succhia, poi la fa scorrere lungo il torace e il ventre, scende fino al cazzo, lo bacia e risale. E il nostro stringerci, baciarci, leccarci, accarezzarci, riaccende il desiderio. Lui si solleva, mi prende in bocca il cazzo e incomincia a succhiare e leccare. Lo percorre con la lingua, di lato, lo avvolge con le labbra. Io gemo di piacere. 

E allora lui prende un preservativo (anche prima ne ha usato uno, ma questo l’ho capito solo dopo). Io tendo la mano. Lui capisce e me lo dà. Io apro la bustina e lo tiro fuori. Gli accarezzo il cazzo, con delicatezza appoggio il preservativo sulla cappella e lo srotolo. Lui mi solleva le gambe, le appoggia sulle sue spalle e, guardandomi negli occhi, mi infilza, piano. Sorride e anch’io sorrido, mentre il suo cazzo mi dilata le viscere e mi regala il piacere.

È una nuova cavalcata, lunga, interminabile. Lui si china su di me, mi bacia, le nostre lingue si incontrano, si accarezzano, si ritraggono, si cercano di nuovo. E io lo accarezzo, mentre lui mi fotte, instancabile.

E di nuovo l’ondata del piacere sale, lui mi afferra il cazzo e la sua mano lo fa vibrare, fino a che veniamo, quasi insieme.

Sono esausto. Lui mi bacia ancora. Esce da me. Con un fazzoletto di carta mi pulisce. Poi lo butta nel cestino insieme al preservativo. Si riveste.

Non ha detto una parola.

E ora?

Gli sorrido e mentre mi infilo i pantaloni gli dico:

- Grazie.

Sorride, poi apre la bocca:

- Figurati, fa parte del mio lavoro, no?

Ha una bella voce, profonda, maschia anche quella. Sorride. Le sue parole però mi turbano. Non lo ha fatto solo perché l’ho vinto come guardia, spero. O si è sentito tenuto a farlo?

Lui coglie il mio imbarazzo e precisa:

- Era una battuta.

Allora sorrido anch’io.

Adesso però non so che cosa dire. Lui si è rivestito e si è rimesso gli occhiali scuri.

- Li tieni anche di notte?

- Fuori no, dentro qualche volta sì. Così non mi leggono in faccia che cosa penso delle cazzate che fa il mio capo.

Io rido e dico:

- Giusto. Certo che un capo fuori di testa come me non devi averlo mai avuto.

Lui scrolla le spalle. Non si sbilancia:

- È troppo presto per dirlo.

- Io mi chiamo Ben. E tu?

- Jarrett.

Gli stringo la mano. Sembra un po’ stupito.

Meglio che affronti la situazione.

- Senti Jarrett, io non so perché ho fatto la cazzata di metterti sul piatto delle scommesse…

- Quella l’ha fatta il mio ex-capo. Tu l’hai solo proposto.

Annuisco. Non so bene come proseguire. Comunque ci provo:

- Io non ho bisogno di una guardia del corpo.

- Neanche il mio ex-capo.

- Quindi, se vuoi goderti quattro mesi di libertà per me va bene.

- Non hai bisogno neanche di un autista?

- Non credo. C’è qualche problema?

- Il mio contratto prevede che io abbia vitto e alloggio. Dovrei cercarmi casa e così su due piedi non è il massimo. Prendimi qualche giorno come autista. Posso anche dormire in auto. Intanto ci penso e, se l’offerta non scade, magari decido di accettarla.

Mi guarda ghignando. Sa benissimo che non lo farei dormire in auto, ma nel mio letto.

Usciamo dalla saletta. All’ingresso il cassiere mi consegna l’assegno al portatore. Guardo la cifra. Sono abituato a maneggiare grosse somme, ma, cazzo!

Jarrett mi dice:

- Vedi che hai bisogno di qualcuno che ti protegga. Vuoi andare in giro da solo con un frego di soldi così? Le banche a quest’ora sono chiuse.

Il dubbio mi viene in questo momento: e se lui volesse fottermi i soldi? Guardo l’ora. Sono le tre del mattino. Banche aperte in effetti non credo di trovarle, anche se qui a Las Vegas non si può mai dire.

- Ci prendiamo una camera d’albergo e dormiamo un po’. Domani ci pensiamo. Adesso crollo dal sonno.

- Agli ordini, capo.

Arrivati all’auto, premo il pulsante e apro le portiere. Lui mi tende la mano per avere le chiavi. Glielo do.

- Dove mi dirigo?

- Verso Los Angeles, troviamo diversi alberghi prima di lasciarci questo puttanaio alle spalle.

- Non ti piace Las Vegas?

- No. A te sì?

- È interessante. Un mondo tanto assurdo che ti chiedi come faccia a essere reale.

Scorgo il Lighthouse Hotel. Mi ci sono già fermato in passato. Mi piace.

- Parcheggia lì.

Io ho una valigetta con due effetti personali, che mi porto sempre dietro in questa occasione. Faccio per prenderla, ma Jarrett mi precede.

- Questa la porto io, capo.

Lo guardo. Esito. Sono disorientato. Sta prendendo molto sul serio il suo ruolo.

Alla reception gli chiedo:

- Preferisci che prenda una doppia o due singole?

- Sei tu il capo…

Ma prima che io abbia il tempo di aprire bocca, aggiunge:

- …ma io preferirei la doppia.

Faccio così.

La camera è ampia e ci sono due letti kingsize.

Mi spoglio e mi faccio la doccia. Jarrett fa lo stesso. Io spengo l’aria condizionata e apro la finestra. Poi mi stendo, nudo.

Lui arriva e io gli dico:

- Ho aperto la finestra. Ti spiace? Siamo sul lato interno, non dovrebbe esserci tanto rumore. Preferisco dormire con la finestra aperta. Non sopporto l’aria condizionata.

Non è così. Dormo sempre con la finestra aperta o almeno socchiusa, dai tempi di mio zio. Mi sembrava di poter scappare. Una volta ci provai davvero a scappare dalla finestra, per sfuggirgli. Mio zio stava al quarto piano. Mi prese in tempo. E rimpiansi di non avere avuto il coraggio di buttarmi subito, prima che mi prendesse. Lo rimpiansi molte volte, in quegli anni. Dormo anche con una luce accesa, come un bambino piccolo. Ma quando sono in compagnia non è necessario.

- Come vuoi, capo.

Jarrett si stende sul mio stesso letto. Poi però mi dice:

- O preferisci che dorma nell’altro letto? O per terra?

- Jarrett, piantala! Per me è la soluzione migliore, ma ti ho vinto come guardia del corpo, non come escort, quindi deve andare bene anche a te.

- A me va bene così, capo.

- Buona notte, Jarrett.

Lui si avvicina e mi bacia sulle labbra, con delicatezza.

- Bacino della buona notte, capo.

Poi si volta e si addormenta quasi subito.

Anch’io mi addormento in fretta, è sempre così. Per tanti anni il sonno è stato il mio rifugio.

Ma nel sonno mio zio ritorna. Sono stati pochi i periodi della mia vita in cui non è ritornato. Quando ho messo su la fabbrica. Durante la mia storia con Max, anche se alla fine aveva ripreso a tornare: una parte di me aveva capito, anche se il cervello non voleva accettarlo. Non torna spesso, ma questa notte è qui, che mi prende e mi sbatte contro la parete, come quella volta che dovette poi portarmi all’ospedale e disse che ero caduto dalle scale. Mi afferra di nuovo e io urlo, urlo, urlo…

Mi sveglio tra le braccia di Jarrett, che mi stringe e mi chiama:

- Ben, Ben. Che ti succede?

Sono sudato, tremo e sto piangendo. Mi stringo contro di lui, che mi abbraccia, mi avvolge, mi accarezza. Non riesco a parlare.

- Calmati, Ben, è stato un incubo.

Sento l’angoscia svanire. Tra le sue braccia recupero la calma molto più in fretta del solito: quando mi capitano questi incubi a casa, devo alzarmi, accendere la luce e rimanere in piedi almeno un’ora, a leggere o ascoltare musica. Ma ora mi sento protetto.

Mi scuso per averlo svegliato. Lui mi accarezza, mi stringe e mi dice di non preoccuparmi.

- Vuoi che ti tenga così per un po’?

- Sì, grazie, Jarrett.

Tra le sue braccia mi riaddormento e penso che vorrei non svegliarmi più.

 

Quando mi sveglio sono le nove. Jarrett dorme ancora. Nel sonno i nostri corpi si sono separati. Mi alzo, senza far rumore. Vado in bagno. Mi faccio la doccia e torno in camera, asciugandomi con l’accappatoio.

Lo guardo dormire. È bellissimo. Il sonno lo rende indifeso, eppure il suo corpo trasuda forza. È stato meraviglioso incontrarlo.

Potrei tornare a letto, svegliarlo, fare ancora l’amore, ma so che non ha senso.

Mi vesto, badando a non fare rumore. Prendo le mie cose.

Tiro fuori l’assegno al portatore. Save the Children ne farà a meno questa volta. Prendo un foglio dal blocco dell’albergo. Scrivo solo:

Grazie

Ben

Piego il foglio, ci metto dentro l’assegno e lo infilo nella tasca interna della giacca di Jarrett, dove tiene il portafogli.

Lo guardo ancora dormire e sento un dolore che cresce e mi strazia.

Prendo le chiavi dell’auto ed esco, chiudendo con delicatezza la porta della camera.

Pago con la carta di credito alla reception e raggiungo il parcheggio. Metto in moto l’auto e me ne vado.

Sto male. Sto sempre peggio. Ma so di aver fatto la cosa giusta. Non c’è futuro per me e Jarrett, lo so. Voglio conservare il ricordo di questa notte assurda e perfetta, della felicità di un momento. Quando mio zio tornerà nei miei sogni, cercherò di pensare a Jarrett. Non voglio che la bellezza del nostro incontro si sgretoli in una quotidianità in cui io sarei sempre inadeguato. Forse dovrei tornare da Joan, lo so.

Spero che quei soldi cambino la vita di Jarrett in meglio, che gli permettano di realizzare un sogno, tanti sogni. Lui può farlo.

Spero che tu sia felice, Jarrett.

 

2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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