Il parcheggio Ho spento il televisore. È l'una, ma non ho voglia di andare
a dormire. Apro il frigo e prendo una bottiglia di Müller
Thurgau. Mi verso un bicchiere. Mi rimetto seduto in
poltrona. Bevo a piccoli sorsi, assaporando il vino freddo. Poi mi alzo, torno in cucina e metto il bicchiere nella
lavastoviglie. Rimango un attimo incerto nel corridoio. Mi dirigo nello
studio. Potrei provare a leggere.
Scorro i titoli della libreria. Prendo in mano qualche libro. Leggo dieci
righe di uno, poi di un altro. Non c'è nulla che mi
interessi. Non ho voglia di leggere. Non riesco più a stare seduto. Sono
rimasto in poltrona tutta la sera. Mi avvicino alla finestra
e guardo fuori. La strada è deserta. Poche finestre con le luci ancora
accese. In questo tranquillo quartiere di merda, tutti vanno a dormire
presto. Io non ho sonno. Se mi mettessi a letto, non dormirei. Rimarrei a
fissare il soffitto o mi rigirerei tra le lenzuola in continuazione, fino a
mattina. Conosco questo nervosismo. Conosco anche il rimedio. Mi infilo la
camicia e le scarpe. Scendo nei garage, salgo sull'auto, avvio il motore. È
l'una e un quarto. Tra meno di un'ora sarò a Bologna, al parcheggio. Sono due anni che ci vado. È un posto che mi piace, perché
c'è di tutto: uomini, coppie. Può accadere di tutto. Accendo l'autoradio.
Cerco una stazione che trasmetta solo musica. Questa va bene: vecchie canzoni
degli anni '80 e dintorni. La cambio io
la vita che non ce la fa a cambiare me... Il mitico Vasco! Guidando mi
rilasso. Non c'è traffico, l'aria che entra dal finestrino è piacevole:
ancora calda, ma non più soffocante, come è stata tutto il giorno. Potrei
essere in California. Fermo l'auto in una zona poco illuminata. Mi guardo intorno.
Ci sono alcune macchine, i finestrini aperti. Uomini. In una c'è anche una
donna. Scendo, chiudo la portiera e mi appoggio sul cofano. Aspetto. Non ho
fretta. Non ho richieste da fare. Sono qui. Mi
basta. Forse succederà qualche cosa. Forse. Un'auto si muove lentamente e
accosta. Il guidatore mi guarda. Lo guardo. Sui quaranta, i capelli rasati a
zero. L'auto prosegue. Si ferma lontano.
È passata quasi un'ora da quando sono qui. Un'auto viene
nella mia direzione, mi passa vicino. L’uomo al volante rallenta fin quasi a
fermarsi e mi fissa. Poi prosegue, ma fa inversione di marcia e ritorna,
fermandosi proprio davanti a me. Ha lasciato tra la sua auto e la mia uno stretto corridoio, meno di un metro. Se
allungassi la gamba, con il piede toccherei la portiera. L’uomo scende
dall'auto. Passa davanti al cofano e si avvicina. Si appoggia anche lui alla
sua auto, esattamente davanti a me, e mi fissa. Nella penombra lo vedo
appena, ma è giovane, non più di venticinque anni, biondo, lineamenti squadrati,
tipo tedesco. Si accarezza lentamente la patta dei pantaloni. Io mi slaccio
la cintura e apro la cerniera dei pantaloni, ma non li abbasso. Mi studia un attimo, poi mi fa cenno di voltarmi. Mi giro,
stendendomi sul cofano, in modo da offrirgli il culo. Mi piace offrirmi,
soprattutto agli uomini giovani. Sono quelli che preferisco. Prendono, senza
tante parole. Sento di avere ancora qualche cosa da dare. Si avvicina. Ora è dietro di me. Mi cala i pantaloni e le
mutande, con un movimento lento, ma sicuro. Non dice
una parola. Qui al parcheggio non c'è bisogno di spendere molte parole. A me
piace quando tutto avviene in silenzio. Non ho neppure voglia di vedere in
faccia chi mi scopa. Non sopporto quelli che vogliono raccontare, spiegare,
giustificare. Non c'è niente da giustificare. A me va bene, a te pure. Cazzi
nostri. Se hai dei problemi, rivolgiti a Telefono amico, vai dal prete o
scrivi alla posta del cuore. Io non c'entro. Io non voglio entrarci. Questo qua è il tipo giusto. Non parla, ci intendiamo
perfettamente. Sento due dita bagnate di saliva tra le natiche. Poi mi entra
dentro. Spinge. Forza, ragazzo! Una macchina si avvicina e si ferma a pochi metri da noi,
davanti al corridoio formato dalle nostre due auto. Qui c'è spesso qualcuno
che guarda. Anche a me piace guardare. Ed essere guardato. Sento le portiere
che si aprono e volto la testa. Sono in due, un uomo e una donna. Si
appoggiano alla macchina e ci osservano. La luce di un lampione li sfiora,
riesco a vederli abbastanza bene. Lui è giovane, non più di vent'anni,
capelli lunghi, camicia sbottonata sul petto villoso e medaglione d'oro, un truzzo terrone. Lei è più vecchia, forse quaranta.
Indossa una minigonna da diciottenne, ha un trucco pesante, ma non mi sembra
un tipo volgare come lui. Ci guarda. Ha sollevato la minigonna e la sua mano
lavora tra le gambe. Sapere che la donna ci sta osservando mi eccita. Il
cazzo mi sta venendo duro. È parecchio che non mi capitava. Farmi inculare
non mi eccita. Mi piace sentire qualcuno che mi prende, che vuole il mio
culo. Mi piace la forza dei maschi giovani. Ma non mi fa godere. Alcune spinte più violente e il tipo ha
finito. Si stacca da me. Io rimango immobile. Guardo la coppia. Sono sempre
lì. Quello che mi ha scopato se ne va. Non lo guardo. Non abbiamo nulla da
dirci. Ha preso quello che voleva. Sale in macchina. Sento che chiude la
portiera. Non mette in moto. Forse vuole vedere che cosa succede ora. Forse
vuole soltanto fermarsi un attimo, prima di ripartire. Io guardo loro. Lei.
Mi raddrizzo e mi giro appena verso di loro, in modo che lei veda che ce l'ho duro. Con la coda dell'occhio vedo che il tedesco
sta guardando. Bene, meglio. I due si avvicinano. Non dicono una parola. Lei si stende sul
cofano, davanti a me, esattamente nella posizione in cui ero io pochi minuti
fa. Io non mi sposto e per passare lei deve strusciare il culo contro di me.
Lui si mette alle mie spalle. Io guardo il culo di lei. Le tiro su la gonna.
Sotto non porta nulla. Un po' di saliva. La inculo. È quello che vuole, lo
so. Sarà un anno che non scopo una donna. Quando avevo venti, trent'anni, ne
ho prese un'infinità. Mi è sempre piaciuto cambiare, nuove donne, nuove esperienze. Ho provato di
tutto, forse troppo. A un certo punto mi tirava sempre di meno. Quando sono
arrivate le negre è stata una novità, ma è durata
poco. Le slave ancora di meno. È bello stare dentro di lei. Sento le mani di lui sulle mie natiche. Le divarica. Il suo
cazzo mi preme contro il buco. Spinge ed entra, senza tanti complimenti. Ce l'ha grosso e duro. Si ferma. Io riprendo a spingere,
avanti, penetrando dentro di lei, e poi indietro, facendomi infilzare da lui.
Questo deve averglielo insegnato lei, ne sono sicuro. Ogni volta che arretro, sento una fitta, ma va bene così. È
quello che voglio. Il dolore è reale. Proseguo con il mio movimento. Il culo mi fa un male
bestiale. Il cazzo è sempre più teso. Sento che manca poco, pochissimo.
Infine vengo dentro di lei e mi fermo. Lui può
prendersi il suo piacere. Adesso è lui a spingere, pochi colpi ben dati, che
mi sfondano il culo, poi sento la scarica. Si
toglie. Anch'io mi tolgo. Lei scivola di lato, si gira verso la sua macchina,
quasi avesse pudore a mostrarsi mentre si rassetta, ed
abbassa la minigonna. Se ne vanno. Non si voltano a guardarmi. Io non cerco i
loro occhi, ma fisso il culo di lei fasciato dal tessuto. Tiro su i pantaloni e salgo in macchina. Il tipo tedesco è
ancora lì. Deve essersi divertito. Chiudo la portiera. Chiudo il finestrino,
anche se fa caldo. Non voglio essere disturbato. Ho bisogno di un attimo.
Chiudo gli occhi. Lascio che le sensazioni che ho provato riaffiorino. Il
culo di lei, stretto e sodo. Il mio entrare ed
uscire dentro di lei e poi il movimento del cazzo di lui dentro di me.
Sensazioni forti, come da tempo non provavo. Sensazioni per cui ha ancora un
senso venire qui. Solo questo ha un senso. In questo
parcheggio, nel cuore della notte, l'attesa che succeda qualche cosa. E poi
questo. * Sono passati quindici giorni. Dodici agosto.
Il mio compleanno. Cinquantaquattro. Questa sera, quando sono tornato a casa,
ho trovato in segreteria un messaggio di mio padre. È strano che se lo sia
ricordato. Devo passare a trovarlo uno di questi giorni. Appena ho un po' di
tempo. Il caldo è soffocante.
Sono steso sul letto. in un bagno di sudore. Guardo l'ora. Le tre. Sono a
letto da un'ora. Non riesco a dormire. Non ha senso rimanere qui. Meglio che
vada. Arriverò tardi. Non troverò più nessuno, in questo periodo, poi! Ma non
ho voglia di continuare a rigirarmi nel letto. Mi alzo, una rapida
doccia, mi vesto e scendo. Se non altro, la corsa in auto mi farà bene.
Appena sono sull'autostrada, pigio sull'acceleratore. 120... 130... 140...
150... 160. Mi sento già meglio. Nel parcheggio ci sono poche automobili. Poca gente. Quasi le quattro. Tra poco
comincerà ad albeggiare. Tanto vale che torni a casa. Ma non mi muovo. Non ho
voglia di tornare a casa. Sono di nuovo nervoso.
L'effetto positivo della corsa in auto è svanito. Voglio che succeda qualche
cosa. Un'auto entra nel parcheggio e si muove lentamente. Viene
nella mia direzione. Qualcuno mi guarda dal vetro, ma nel buio dell'auto non
riesco a vederlo. Procede per qualche metro e poi si ferma. Scende. Si avvicina. Capelli cortissimi. Vent'anni, un fisico
da atleta. A torso nudo, un anello infilato al capezzolo destro. Pantaloni di
pelle. Guanti di pelle. Una corda in mano. Una cinghia di cuoio intorno
all'avambraccio. Non ho mai visto qui i tipi leather,
è un mondo che non conosco, non mi interessa. Non mi interessa nessuno degli
ambienti gay. Ma non voglio tornare a casa così.
Muove la corda. Non so che cosa vuole dirmi, ma annuisco. Può fare di me
quello che vuole. Non voglio tornare a casa così. Si avvicina, mi fa cenno di voltarmi. Ubbidisco. Sento le sue
mani che mi sfilano la camicia. Mi lega le mani dietro la schiena. Non mi era
mai successo. Lo lascio fare. Stringe forte. Ora sono completamente privo di
difese. Mi abbassa i pantaloni, fino in fondo. Non ho messo gli slip. Sento
la sua voce, profonda, tranquilla. - Togliti le scarpe. Mi sfilo i mocassini. Tolgo i piedi dai pantaloni. Ora sono
nudo. Si china. Mi lega i piedi. Altra corda. Con la mano fa pressione sulla
mia schiena, in modo da farmi appoggiare sul cofano. Non oppongo resistenza.
C'è una pausa. Aspetto. Non so che cosa stia facendo. L'attesa è
insostenibile, ma non mi volto. Quello che deve succedere, succederà.
Forse questa attesa è tutto quello che mi porterà questa notte. Forse si sta
facendo una sega e dopo aver finito, mi slegherà e se ne andrà. Forse... Il colpo arriva: un
bruciore al culo, inaspettato, violento. Mi sta frustando. Con la cintura. Un
secondo colpo. Più deciso del primo, un dolore sferzante. È una sensazione
forte, che come un'ondata dal culo si diffonde lungo la schiena. Ancora una
frustata. Ora ad ogni colpo che arriva, è tutto il
mio corpo che vibra, sollecitato dal dolore sempre più forte. Ne voglio
ancora. Non so dove colpirà ed è come se ogni millimetro della mia pelle volesse
essere prescelto. Un’altra lacerazione. Sì, ancora, aspetto con impazienza.
Ancora un colpo. Si è fermato. Ha finito. Vorrei gridare: ancora! Appoggia le mani sul mio culo. Le sue dita guantate sono attizzatoi che mi incendiano la pelle, mi
trasmettono scosse elettriche. Fa pressione verso l'esterno, in modo da
divaricarmi le natiche. Io non posso allargare le gambe. Entra con violenza,
sforzando. Niente saliva. Il dolore è bestiale, anche se ormai dovrei esserci
abituato. Muove le dita sulla pelle piagata dai colpi, premendo, sfregando.
Ho la sensazione che la pelle si stacchi. Non c'è altro contatto tra noi,
solo le sue dita sul mio culo ed il suo cazzo dentro
il mio culo. E questo contatto è un dolore, che ogni suo movimento
moltiplica. Vorrei che non finisse mai. Ma sento che viene dentro di me. Ha finito. Mi slega i piedi, ma non le mani. Mi volta. È lì davanti a
me, a due passi, nella posizione in cui era all'inizio. La corda è intorno
alla spalla. In mano ha ancora la cinghia dei pantaloni. Non parla, ma sta
chiedendomi qualche cosa. - Sì. Alza appena il braccio e colpisce al torace. Una volta. Due
volte. Si ferma. È la sensazione di prima, ma più bruciante, anche se i colpi
sono meno forti. - Ancora. Colpisce di nuovo al torace. Poi al ventre. Un solo colpo. Il
dolore è tanto violento che per un attimo mi si annebbia la vista. - Sì, così. Mi frusta tre volte al ventre. Faccio fatica a non urlare. La
terza volta la frusta scende più in basso, sfiora appena i coglioni. Il
dolore mi schiaccia. Cado in ginocchio. Lui si avvicina leggermente. Ora
incombe su di me. La sua mano mi afferra per il collo e mi sbatte a terra con
violenza. Mi ritrovo con la faccia sull'asfalto. Mi poggia un piede sulla
schiena. Mi slega le mani. Toglie il piede. Sento che si muove. Giro la testa
per guardarlo. Si è voltato. Se ne sta andando. Mi sollevo sulle braccia e lo
guardo. Guardo il suo culo stretto nei pantaloni di pelle nera. Guardo le
spalle da nuotatore. Non voglio che se ne vada. È la
prima volta che mi succede qui. Non ci tengo a rivedere quelli con cui ho
scopato. Se li rincontro, faccio finta di nulla. Anche loro. Nessuno viene qui per fare conoscenza. Ma non voglio che lui se ne vada.
Non può andarsene, lasciandomi qui. La parola mi esce dalla bocca, senza che lo voglia. -Tornerai? Si volta, mi guarda e sogghigna. -Forse. Se ne va. Mi rivesto. Mi accorgo che dal labbro cola un po' di sangue.
Mi pulisco con il fazzoletto. Salgo in macchina e chiudo la porta. Sento il
rumore del suo motore che si accende. Guardo nello specchietto retrovisore.
Una Punto Evo nera. Si allontana. Piove, temporale d'agosto. È assurdo
che io vada di nuovo al parcheggio. È stato solo ieri. Porto i segni delle
frustate sul corpo e quando scendo le scale il culo
mi fa male. Ma non posso rimanere qui. Forse lui tornerà questa sera. Devo
ritrovarlo. Sono sceso zoppicando fino al garage, poi ho guidato fino
qui. Non scendo dall'auto. Aspetto. Aspetto la sua auto, una Punto Evo nera. Non
piove più. Gente che va, qualcuno mi fissa. Io li ignoro. Non mi interessano.
Gli altri non mi interessano. Sono le quattro. Non c'è più nessuno. Esco dall'auto. Mi
appoggio al cofano ed aspetto. Riprende a piovere.
Non ho voglia di rientrare nell'auto. La pioggia mi inzuppa la camicia, i
pantaloni, le scarpe. L'acqua scende a rivoli dalla testa. Come se piangessi.
Non so quando ho pianto per l'ultima volta. Forse quand'ero ragazzino. Comincia ad albeggiare. Salgo in auto e ritorno a casa. * Sono passati quindici giorni. Sono venuto tutte le notti.
Sono stravolto. Di giorno sono irritabile, litigo per un nonnulla, maltratto
tutti. Passo i fine settimana a dormire, esausto per queste notti assurde.
Non ne posso più di aspettare. Prima, quando venivo qui,
non cercavo nulla di preciso. Attendevo che succedesse qualche cosa,
qualsiasi cosa. Adesso no, adesso desidero solo che
lui ritorni. Questa attesa è devastante. So che è
assurdo. Se mi piace farmi frustare posso cercare qualche locale sadomaso. Ce
ne saranno una caterva. Ma non me ne fotte un cazzo di farmi frustare dal
primo imbecille che trovo. Voglio lui. * Sono tornato a casa ieri notte. Una settimana a Saint Louis
per lavoro. Saint Louis. Un posto del cazzo. Non c'è altra definizione. Forse
ero anch'io dell'umore sbagliato: nessuna voglia di mettermi in cerca, nessun interesse. Almeno ho dormito, recuperato un po' di
forze. Ma adesso è peggio. Come al solito il fuso mi
manda in tilt. Non riesco a dormire. È senza dubbio il fuso. Mi alzo, accendo la luce, apro la porta dell'armadio e mi
guardo nello specchio. Cerco i segni delle frustate. Li accarezzo con le
dita. Sono quasi completamente scomparsi: si vedono appena, al tatto non
sento più nulla. Non voglio che scompaiano. E tutto quello che mi rimane di
lui. Non riesco a cavarmelo dalla testa. È demenziale continuare così. Lo so.
È demenziale. Ho deciso. Non ci andrò più. È demenziale. Passare la notte al
parcheggio. Spiare ogni automobile che arriva. Aspettare una Punto Evo nera.
È demenziale. Ritorno a letto. Non riesco a dormire. Riaccendo la luce. Meglio che legga un
po'. Che cosa? Mi alzo, vado in salotto. Scorro i titoli. Non c'è niente che
mi interessa. Whitman. Sì. Ci deve essere una poesia, come si chiama? To a stranger. A un estraneo. Passing stranger! you do not know how longingly I look upon you, You must be he
I was seeking. Devi essere quello che cercavo. I am
to wait, I do no doubt I am to meet you again, I am to see to it that I do not lose
you. Sì, devo badare a non perderti. Stronzate. Torno a letto. È demenziale. Continuare così è demenziale. Mi rigiro nel
letto. Sono le tre. Tanto non dormo. Tanto vale che vada. No, non voglio
ricominciare. Basta così. Andrò quando avrò voglia di altre esperienze. Devo badare a non perderti. Se vado deciso per le
quattro sarò al parcheggio. È settembre, le notti sono più lunghe. Per le
quattro. È l'ora giusta. Mi sono vestito in fretta. Sono già in auto. Pigio
sull'acceleratore. È una sfida. Devo arrivare per le quattro. All'uscita
dall'autostrada brucio qualche semaforo rosso. Tanto non c'è nessuno. Sono al
parcheggio. Le quattro meno due minuti. Mi siedo sul cofano e guardo. È piovuto da poco. Una Volvo passa
accanto a me, ma non guardo, non mi interessa. Di nuovo il rumore di un
motore. Si avvicina. Ho cercato di non voltarmi subito. Una Punto Evo nera. È
lui. Deve essere lui. È lui. Grazie. Scende e mi guarda, con un ghigno. Sa che lo ho aspettato. Io
lo guardo. Ora sono tranquillo. Non mi sfuggirà più. Non devo perderlo. Un cenno del capo. Mi spoglio. Rimango a piedi nudi
sull'asfalto bagnato. Lui non si è mosso. Ora si avvicina. Si toglie la corda
dalla spalla. Ha un nodo scorsoio. Me la passa sulla testa, attorno al collo.
Poi tira con forza verso il basso, uno strattone deciso. Mi ritrovo per terra, il respiro che mi manca. Mi porto la mano al collo,
allento la presa. Lui si muove. Vedo i suoi stivali. Con un piede mi dà due leggeri colpi sul braccio. Mi sollevo sulle
braccia. Mi metto a quattro zampe. Aspetto i colpi della frusta. Ma non
arrivano. Un dolore violento al culo mi strappa un urlo. Mi ha infilato
dentro il manico della frusta. Lo estrae con un movimento brusco. L’asfalto
si inclina, precipito. Chiudo gli occhi. Poi la sensazione di cadere nel
vuoto svanisce. Riapro gli occhi. Arrivano i colpi. E nuovamente sento moltiplicarsi il dolore ed il desiderio. Colpisce deciso, sulla schiena, sul culo,
sulle gambe, sulle braccia. Faccio fatica a reggere. Non riesco più a
sostenermi sulle braccia. Ma non voglio che smetta. Poi un colpo dato da
sotto, in pieno sui coglioni. Meno violento degli altri, ma atroce. Urlo e
cado al suolo, portandomi le mani dove ha colpito. Mi è subito addosso, mi
preme la faccia sull'asfalto, dà uno strattone alla corda. Mi vuole uccidere.
Respiro a fatica, il suo corpo mi schiaccia contro il suolo. Mi entra dentro.
Spinge con forza, il suo peso mi schiaccia i coglioni al suolo, rinnovando il
dolore. Le sue mani scavano il mio culo martoriato, penetrano nelle ferite.
Il dolore mi sommerge. Viene. Si alza. Incombe su di me. Con fatica mi sollevo sulle
braccia, alzo la testa e lo guardo. Il getto di piscio mi colpisce in pieno.
Quando ha finito si riabbottona i pantaloni. Con un sforzo mi alzo, anche se ogni
movimento mi provoca un dolore atroce. Adesso se ne andrà. Non devo lasciare
che mi sfugga. Parlo, con fatica. - La prossima volta, vuoi arrivare fino in fondo? Risento la sua voce. È più profonda di come me la ricordavo. - Che cosa vuoi dire? - Fino in fondo. Stringere con la corda, o con le mani,
stringere. Porto una mano al collo. Concludo: - Stringere fino in fondo. Socchiude un attimo gli occhi, come
per mettermi a fuoco. - Fino a farti crepare? Mi fa effetto sentirglielo dire. - Sì. Esita. - No. Qualcuno ci vedrebbe. Non ho nessuna voglia di finire
in galera per questo. La risposta è quella giusta. È disposto a farlo. Si preoccupa solo delle conseguenze. - Non ci incontreremo qui. Conosco un posto dove non c'è
nessuno, nessuno ci vede. Possiamo trovarci là. Non è come qui, non è un
posto d'incontro. La notte non c'è nessuno. Non corri rischi. Conosco bene quel posto, l'ho studiato a lungo, ci sono
tornato più volte per verificare. Il supermercato ha un grande parcheggio. La
parte sulla strada è chiusa da una sbarra e comunque è illuminata a giorno.
Ma di lato, tra il terrapieno della ferrovia ed il
supermercato, ci sono alcuni posti-macchina, che la notte rimangono in ombra.
Non c'è mai nessuno. Gli spiego dove si trova. Gli spiego che cosa voglio.
Vedo che ascolta con attenzione. Sono più tranquillo ora.
Non lo perderò. L'idea gli piace, lo vedo. Se n'è andato. Comincia ad albeggiare. Mi sono rivestito, ma
ogni movimento è stato una tortura. Sono risalito in auto. Ho chiuso tutto.
Cerco di riprendere fiato. Cerco di calmarmi. Tra
tre settimane lo rivedrò. Sa quello che voglio. Ne abbiamo parlato. Lo farà.
Ci sarà. Penso a quello che è successo. Cerco di ritrovare qualche cosa
di quello che ho provato. Guido con fatica fino a casa. Meno male che è sabato. Domani
non devo andare a lavorare. Non ce la farei. Quando ci rivedremo, sarà la
notte di sabato, sarà domenica mattina. * Sono passate tre settimane. Sabato mattina. Ho ancora i segni
di alcuni colpi, ma non mi fanno più male, neppure quando premo. Telefono a
mio padre. È preoccupato perché per mettergli la dentiera
il dentista deve togliergli un dente del giudizio che non era mai
spuntato. Adesso che gli hanno tolto gli altri denti, quello sta venendo
fuori. Povero cristo. Alla sua età un intervento del genere non è piacevole.
Povero cristo. Avrei proprio dovuto passare a trovarlo. Scendo in garage. Preparo l'auto. Sotto i coprisedili
ed i tappetini stendo con cura i fogli di plastica.
Nel bagagliaio metto i sacchi per l'immondizia. Nel cruscotto i guanti di
gomma. Preparo tutto. Sono le due passate. Meglio che vada. Voglio arrivare prima
di lui e ci vuole oltre un'ora di qui al supermercato, senza correre. Ho
scelto un posto lontano. Meglio essere prudenti. Manca poco ormai, poco. C'è un'auto dietro di me. Arrivati
all'ultimo paese, svolto in una via laterale. La macchina prosegue. Riprendo
la statale fino al supermercato. Nessuno, né in una direzione, né nell'altra.
Volto rapidamente e mi infilo nello spazio a lato del supermercato. Spengo
subito i fari e fermo l'auto al fondo, tra il muro di cinta ed il terrapieno della ferrovia. Infilo la prima, in modo
che la leva del cambio non stia tra i sedili. Apro le due porte: quella dalla
parte del guidatore, nella direzione in cui sarà la Punto Evo, e l'altra.
Spengo la luce interna. Mi spoglio ed infilo i vestiti nel
portabagagli. Fa fresco, ma non importa. È tutto pronto. Seduto al posto di
guida, scorro le dita sulla mia pelle. Cerco le tracce delle frustate. Al
tatto i segni si avvertono appena. Tra poco ci saranno nuove ferite. Porto le
mani al collo. Userà le mani? O la corda? O la cinghia? Un leggero brivido mi
corre lungo la schiena. Ho bisogno di pisciare. Mi alzo e mi metto contro il
terrapieno. Piscio. Torno a sedermi. Ho lasciato la portiera aperta. Aspetto. So che arriverà. Ed infatti
sento il rumore del motore. Si ferma vicino a me. Spegne i fari. Non guardo nella sua direzione.
Aspetto. È sceso. Si avvicina all'auto. Lo guardo. È vestito come le altre
volte. Mi afferra per i capelli e mi tira fuori dall'auto con uno strattone.
Cado sull’asfalto. Il gioco incomincia. L'ultimo. Può fare quello che vuole. Mi metto a quattro zampe. Sento la
sferzata della cinghia sul culo. Il colpo è violento, il dolore feroce. Sono
vivo. Sento di essere vivo. Mi colpisce ancora, più volte, la schiena, il
culo, le gambe, le braccia. Non reggo più. Cado a terra. Mi piscia sulla testa, sul
culo. Poi si stende sopra di me e mi infilza. Mi sembra che il suo cazzo sia
una spada rovente. Mi dilania le viscere e gemo di dolore. Ma questo dolore
intollerabile è quello che voglio. Con la mano mi strizza i coglioni. Io gemo, grido. Mi
dibatto, ma lui mi schiaccia al suolo, mi squarcia con il suo palo. Non viene dentro di me. Si alza. Mi
colpisce con un calcio. Sento il dolore alla costola. Mi rannicchio, cercando
di proteggere il ventre. Altri calci. Mi solleva per i capelli, mi sbatte sul
cofano, mi infilza di nuovo. Urlo. Mi passa la corda intorno al collo. Stringe. Cerco di
allentare la stretta, ma lui è più forte. Continua a stringere ed io faccio
sempre più fatica a respirare. Mi sta ammazzando. Sto per crepare. Allenta la corda. Esce di nuovo dal
mio culo. Sento la frustata sulla schiena. Rimango appoggiato al cofano, le
braccia aperte, le gambe allargate. Schiena, culo. Colpi su colpi. Gemo. Mi
prende ancora per i capelli. Di nuovo a terra. Batto malamente la spalla e il
gomito. Il calcio ai coglioni mi fa urlare. Lui mi appoggia lo
stivale sul ventre. Lo guardo, sopra di me. È nudo, ora. Solo gli stivali. Il
grande cazzo svetta, minaccioso. Sposta lo stivale, preme sui coglioni
martoriati, sul cazzo. Ride. Gli piace. È quello che voglio. Uno a cui piace. Siamo arrivati alla fine. Respiro a fatica. In un momento in
cui lui non mi è sopra, cerco di alzarmi di scatto e di correre verso l'auto.
Sono pochi passi, ma non riesco più a muovermi in fretta. Faccio appena in
tempo a salire, che lui mi è addosso. Mi dibatto. Mi sbatte sui sedili e si
stende su di me. Mi spingo in avanti, verso l'altro lato, come se volessi
cercare ancora di sfuggirgli. Ora ho le spalle fuori dall'auto. Il suo peso
mi inchioda. Mi entra dentro. L'ultima volta. Dopo mi ucciderà. Questo è
l'accordo. Starà ai patti. Lui spinge con violenza,
squarciandomi il culo martoriato. Io passo il braccio destro dietro il
sedile. Sollevo lo straccio e prendo il pugnale. Lo
impugno, stringendo bene. Sposto il braccio, tenendo in basso il pugnale,
davanti a me, in modo che non possa vederlo. Lui è sdraiato su di me. Sollevo
il braccio sinistro e gli passo la mano sulla testa, poi premo, in modo da
bloccarlo, mentre con il destro colpisco il corpo su di me, con tutta la
forza che ho. È un colpo violento, che centra il suo obiettivo: ho provato
questo gesto centinaia di volte, l'ho fatto altre tre volte.
Il pugnale scivola su una costola e gli spacca il cuore. Lancia un urlo
bestiale, ha uno scatto all'indietro per cui sfugge alla mia presa, ma tengo
il pugnale stretto nella mia mano. Per un attimo si solleva, sento il sangue
che scende a fiotti sulla mia schiena, poi il suo corpo ripiomba sul mio,
inerte. Ora il suo cadavere è sopra di me, dentro di me. Rimango
disteso. Chiudo gli occhi. Assaporo le sensazioni. È bello rimanere così. Non so quanto tempo è passato, ma devo muovermi. Con fatica,
mentre ogni ferita torna a bruciare, scivolo lentamente in avanti, portando
con me questo corpo che è ancora dentro di me. Mi appoggio sulle braccia, poi,
quando sono quasi interamente fuori dall'auto, metto a terra prima una gamba,
poi l'altra. Il suo corpo ha ancora le gambe sul sedile. Mi muovo a quattro
zampe, fino a che tutto il suo peso grava su di me. Mi sdraio per terra.
Aspetto ancora un attimo. Poi mi giro su un fianco. Il cadavere scivola di
lato. Non è più dentro di me. Mi alzo. Ogni gesto mi costa molta fatica, le ferite
bruciano, ma ho molto da fare. E devo farlo in fretta. Prendo dal cruscotto i
guanti di plastica. Apro la confezione. Me li infilo. Trascino il cadavere
verso la sua auto. Prendo le chiavi. Apro il bagagliaio. Sollevo il corpo e
lo infilo dentro. Riprendo il pugnale e incomincio il mio lavoro. Sento il
rumore della carne che viene lacerata. Un brivido mi
corre lungo la schiena. Ora è il mio turno di godere. Quando ho finito, richiudo il bagagliaio. Penso che
probabilmente non lo troveranno fino a lunedì, come la volta scorsa, a Busto.
Chiudo le portiere, apro il mio bagagliaio ed infilo
le chiavi della sua auto in uno dei sacchi della spazzatura. Tolgo i
copricuscini e i tappetini della mia ed infilo anche
quelli nei sacchi. Tolgo i teli di plastica che coprivano i cuscini, badando
che il sangue non coli sul tessuto. Dal cruscotto prendo la pila e uno
straccio e cerco altre tracce di sangue. Ce ne sono sulla leva del cambio,
sul cruscotto. Pulisco con lo straccio. Poi prendo dal bagagliaio la
bottiglia con l'acqua e lavo. A casa, domani, verificherò il lavoro svolto.
Ma voglio essere sicuro di avere eliminato le tracce più appariscenti. Quando ho finito, esco
dall’auto e con l'altra bottiglia mi lavo. Sulla schiena devo avere parecchio
sangue. Passo l'acqua e mi sfrego bene la schiena. Poi butto tutto nei
sacchi, ci metto anche i guanti, chiudo i sacchi e li infilo nel bagagliaio.
Dal culo continuo a perdere sangue. Metto un fazzoletto per tamponare. Mi
vesto. Prima di accendere il motore mi guardo il viso nello specchietto
retrovisore: una faccia qualunque, niente di sospetto. Nessun segno troppo
evidente. Rimetto a posto lo specchietto. Posso andare. Metto in moto senza accendere i fari e mi dirigo verso la
zona illuminata. Nello specchietto vedo la Punto Evo nera ferma nella zona
buia. Guardo davanti a me. Nessuno. Mi infilo nella strada ed
accendo i fari. Nessuno mi ha visto. Guido tranquillo. Guardo ancora nello
specchietto: non c’è nessuno. Buio. Nessuna imprudenza, non voglio farmi
fermare dalla polizia. Non prendo l'autostrada. Preferisco la statale. A
Busto mi fermo vicino ad un gruppo di bidoni. Ci
butto dentro i sacchi dell'immondizia. Sono esausto. Tra non molto sarò a
casa. Sui giornali di uno dei prossimi giorni, forse martedì, leggerò i soliti articoli. Scoprirò un nome, una
professione, una famiglia, altre informazioni di cui non m'importa niente.
Vedrò una foto, che non sarà l'immagine che porto dentro di me. Ci saranno le
solite cazzate sugli indizi in mano alla polizia, il testimone che ha fornito
elementi importanti. Parleranno del maniaco che ha colpito per la quarta
volta. Non sanno, non capiscono. Io so. So che questa volta è
andata così, ma la prossima forse non sarò abbastanza veloce, i colpi non mi
avranno lasciato abbastanza forza, lui non rispetterà i patti oppure mi
sorprenderà mentre cerco di colpirlo. La prossima volta il cadavere potrebbe
essere il mio. Guardo ancora nello specchietto retrovisore, nessuna luce.
Dietro c'è solo il buio. 1998/2011 |