Almanacco del giorno prima

 

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Villa de Luna

 

 

La villa è chiusa. Ci abito solo io, in questo primo affacciarsi di primavera.  Non c’è alcun entusiasmo in me, mentre scorgo i primi fiori sbocciati nel giardino, abbandonato a se stesso, proprio adesso che avrebbe più bisogno di me. Anche questo luogo mi ha tradito. Il paradiso perfetto, l’eremo tanto desiderato, dove rimanere al riparo dal mondo e dal dolore. Una speranza apolide.

La crudeltà del destino non si può depistare, non si può dirottare. Quando sei tu il bersaglio, riesce a scovarti dovunque. Anche Curzio se n’è andato. Mi restano solo stupidi ricordi su cui avvito i miei tetri pensieri. Mi sento strano, come se i miei movimenti fossero troppo lenti rispetto a quelli della rotazione terrestre. Il mondo corre e io resto indietro. E adesso neppure mi dispiace.

 

***

 

Non capivo perché la gente che veniva qui pretendesse di trovare sempre bel tempo, e quando pioveva se la prendesse con me. Non ero io a decidere. E poi non capivo perché mi prendessero per un concierge. Io sono il proprietario, e cazzo, quella gente con la puzza sotto il naso, la sopportavo come un calcio nei coglioni.

Il posto è magnifico, un eremo perfetto, io ero da solo a godermi questa villa sul mare, circondata da un’immensa pineta. Potevo fare la vita del nababbo, e invece, ero lì ad incazzarmi con quegli stronzi che mi distruggevano le stanze. Chi me l’aveva fatto fare?

Patrizia mi aveva appena mostrato lo scempio della camera d’angolo. Quei pezzi di merda mi avevano smontato le applique art nouveau e se l’erano portate via, con tutte le lampadine. E poi parlavano male degli italiani! Due americani di merda, che sembravano due Onassis, e se Patrizia non si trovava là per caso, si portavano via pure le lenzuola...

-       A quelle ci penso io. - aveva detto, afferrandole e riponendole nel cesto.

Lei pensava che volessero semplicemente aiutarla, ma dopo, quando aveva visto l’ecatombe, aveva capito ed era corsa giù.

-       Se ne sono già andati gli americani?

-       Sì, perché, hanno dimenticato qualcosa?

-       Già, hanno dimenticato di posare le applique!

-       Cosa? - avevo urlato.

-       Se le sono fottute, darling.

Patrizia lo sapeva che odiavo quando mi chiamava così.

-       Merda. Merda, merda, merda.

-       L’hai già detto.

-       Merda!

-       Non hai un’alternativa? Cominci ad essere monotono.

-       Merda, Patrizia. È la seconda volta, quest’anno!

-       E tu smettila di comprarle dagli antiquari. Prendile all’Ikea, di quelle schifose, di plastica color vomito, così non se le frega più nessuno. Oppure mettici un allarme, come quello antincendio, che non s’azzitta nemmeno se stacchi la luce.

-       Ma ti pare possibile? Ma ti pare normale? Io chiudo tutto e torno a fare l’eremita.

-       E io che faccio? Dove lo trovo un altro lavoro?

-       Ti tengo. Mi fai da governante e ci godiamo la pace nel mondo.

-       Nel tuo mondo.

-       Perché, ce n’è un altro?

-       Sei il solito egoista, egocentrico, ego... ego...

-       Lascia perdere, ho afferrato il concetto. Comunque, questa me la devi spiegare. Ti dico che ti tengo e tu in cambio mi dai dell’egoista. Non ti sembra di essere ingiusta, oltre che ingrata?

-       Lascia perdere, va’!

Patrizia c’aveva un chiodo fisso: ero io. Ma non potevo farci niente. A me le donne non mi prendevano. Lo sapeva, gliel’avevo dovuto dire, per scollarmela di dosso, ma ancora, a volte, avevo l’impressione che non riuscisse a rassegnarsi.

-       Ma che palle!

-       Ma che palle lo dico io. - aveva replicato Patrizia, voltandomi le spalle e tornando di sopra brontolando come una pentola giunta al bollore.

Menomale che avevo prenotazioni solo fino alla fine di settembre. Non ce la facevo più.

Sarei stato tentato di richiamare l’ultimo che aveva prenotato un quarto d’ora prima. Gli avrei detto che mi ero sbagliato, che era tutto pieno, e avrei chiuso una settimana prima. Sì, il pensiero mi piaceva. Dovevo farlo.

-       Pronto? Il signor Donati? Tarsia di Villa de Luna. Le chiedo scusa, ma poco fa ho visto male. Purtroppo l’ultima settimana di settembre siamo al completo. Mi perdoni, sono davvero desolato, si è trattato di un’imperdonabile svista.

-       Peccato, ci tenevo molto. Ho visto le foto su internet e mi è sembrato il luogo ideale per restarmene in pace qualche giorno, come in un eremo. Sa dirmi se c’è qualche convento da quelle parti, che ospiti privati nelle sue celle monastiche?

Oddio! Un’anima gemella! Era la prima volta che mi capitava di parlare con qualcuno che avesse i miei stessi gusti in fatto di eremi.

-       Senta, le dico la verità. Lei sarebbe stato l’unico ospite, allora ho pensato che potevo chiudere prima.

-       Capisco. Non si preoccupi. Troverò qualcos’altro.

-       No, senta, me ne sono pentito. Faccia finta che questa telefonata se la sia sognata. L’aspetto.

-       Davvero? È sicuro? Non vorrei essere di peso.

-       Sono certo che non lo sarà.

Proprio all’unico cliente decente della stagione dovevo sbattere la porta in faccia? Non sarebbe stato giusto. Ma non avrei accettato più nessuno. Per tutto il resto del mondo, saremmo stati chiusi. Poi pensai alle applique.

 

Quel giorno si erano liberate tutte le camere. Dopo le pulizie, avevo congedato gli stagionali. Era rimasta solo Patrizia. E in serata sarebbe arrivato il signor Donati, l’ultimo ospite. La settimana seguente sarei finalmente ritornato alla mia pace solitaria. Alleluia.

Non avevamo pensato alla cena. Patrizia mi aveva chiesto se l’ospite aveva preferenze, ma nel casino me n’ero dimenticato. Avevo provato a chiamarlo, ma non mi rispondeva. Pensai “Vorrà dire che mangerà quello che c’è.”

Poco dopo invece mi richiamò.

-       Mi scusi, stavo guidando. Ci sono problemi? Devo cercarmi un altro posto?

-       No, no, per carità! Volevo soltanto chiederle se ha preferenze per la cena. Sa, ne abbiamo viste di tutti i colori, quest’anno, vegetariani, celiaci, allergici ai crostacei, non vorrei commettere qualche errore imperdonabile proprio con lei.

-       Non si preoccupi, io sono onnivoro e non mi risultano intolleranze di alcun tipo.

-       Allora va bene. Lascerò libera la cuoca di sbizzarrirsi.

-       La ringrazio per la sua preoccupazione.

-       Dovere. A presto.

 

Vidi Patrizia che iniziava a smontare l’insegna sul lato della porta.

-       Che stai facendo? Abbiamo ancora un cliente che sta arrivando.

-       Non era quello che cercava un eremo?

-       Proprio lui.

-       E credi che gli importi di sapere che si trova nel B & B Villa de Luna? Lo sa già.

-       Anche gli altri lo sanno. Che c’entra?

-       Mi porto avanti col lavoro. Tra una settimana si chiude.

-       Appunto, l’hai detto. Tra una settimana. Smettila di smontare.

Mi caddero gli occhi sullo zerbino. Era sul lato monocolore.

-       Hai pure girato il tappeto!

-       E dai, quanto la fai lunga!

Mi chinai a girarlo di nuovo sul lato opposto, dove si leggeva “Benvenuti a Villa de Luna”. Avevo preso l’idea da “Torna a Settembre”, un film che mi ero visto varie volte e che mi aveva fornito l’ispirazione per trasformare la mia villa in un B & B. Mentre ero chinato col culo a ponte, avevo sentito arrivare un’auto proprio dietro di me. Mi ero sollevato in un atteggiamento più dignitoso, maledicendo Patrizia per la sua fretta di smontare tutto.

Eravamo là fuori, in cima alla scalinata, come se stessimo aspettando proprio lui, ansiosi di accoglierlo. Non potevo certo rientrare in quel momento. Sorrisi, cosa che facevo raramente.

-       Non ti sembra di esagerare? Lo aspetti sul portone e pure col sorriso sulle labbra! Sei sicuro di non esserti beccato qualche virus, darling?

-       Piantala, Patrizia.

-       Beh, non scendi a prendergli i bagagli?

-       Ti ho detto di piantarla.

-       Più tardi, magari. Adesso mi diverto troppo.

-       Patrizia, se non la pianti ti licenzio.

-       E io ti lascio senza cena.

-       Non scherzare. Hai preparato?

-       Perché? Tu non sai cucinare?

-       Patrizia! - avevo strascicato tra i denti, senza abbandonare il sorriso, ormai imbalsamato sulla faccia come una paresi.

-       Buonasera, signor Donati. - dissi al nuovo arrivato, che aveva soltanto un borsone a tracolla e una ventiquattrore.

-       Buonasera. - aveva risposto, con un tirato sorriso imbarazzato.

Forse anche per lui era un esercizio poco frequente.

Come consapevoli dell’inutile sforzo, tornammo tutti seri, entrando.

-       L’accompagno.

Lui si era guardato intorno, ammirando la scala Liberty che portava al piano di sopra, senza fiatare. La passatoia acquamarina attutiva i nostri passi.

Quando arrivammo al piano, mi venne in mente che avrebbe potuto scegliersi la stanza che voleva, tanto erano tutte libere.

-       Ha preferenze per la posizione? Vista sul mare o sulla pineta?

-       Credo che troverei più ispirazione nel mare.

-       Sta cercando ispirazione?

-       Sì, ma soprattutto pace e silenzio.

-       Allora le mostro questa.

Era la camera proprio sopra la mia e secondo me quella con la vista migliore. Le altre hanno davanti qualche albero che ostruisce la visuale.

Lui era entrato e si era avvicinato alla finestra, poi si era voltato, sorridendo.

-       È perfetta. Grazie.

Aveva appoggiato il borsone sul letto e la valigetta sullo scrittoio. Poi mi aveva guardato.

-       Visto che è così gentile e disponibile, potrei chiederle una grossa cortesia?

-       Mi dica pure, se posso...

-       Potrei spostare la scrivania sotto la finestra?

-       Non ci vuole niente. Non c’è problema. Dovrei soltanto andare a prendere una prolunga per la lampada.

-       Non importa. Di solito non scrivo di notte.

-       Non si sa mai. - gli dissi, sorridendo. - Mi aiuta? -

In due spostammo facilmente lo scrittoio, di cui ho il gemello in camera mia, collocato proprio in questa posizione.

-       A che ora preferisce cenare?

-       Mi dica lei. Non voglio certo cambiare le vostre abitudini. Sono certo che la cuoca mi odierebbe.

-       Allora lasciamo fare a Patrizia.

-       Era quella con cui stava litigando quando sono arrivato?

-       Se n’è accorto, eh?

-       A dire il vero mi è sembrato di piombare nel bel mezzo di una lite coniugale. Ero in forse se scendere dalla macchina o farmi un altro giro.

-       È per questo che ci ha messo tanto!

-       Lo confesso.

-       No, non era una lite coniugale. Patrizia è una mia dipendente, e aveva deciso di smobilitare prima del tempo.

-       Se è per me che l’ha bloccata, la lasci fare tranquillamente. Non bado all’atmosfera da fuori stagione. Anzi, le dirò che mi piace.

-       Piace anche a me. Adesso vado a dare disposizioni per la cena e poi le porto la prolunga.

-       Grazie infinite.

Tornando di sotto avevo pensato che avevo fatto proprio bene. Il signor Donati era una persona squisita, gentile, educata, per di più un bell’uomo, cosa che di sicuro non guastava. Ma aveva lo sguardo più triste che avessi mai visto. Una cosa straziante. Speravo proprio che quella vacanza lo rimettesse in sesto.

-       Com’è il nuovo? - mi aveva chiesto Patrizia.

-       In che senso?

-       È un lupo solitario, come te?

-       Senti, perché non impari un po’ di discrezione e intanto mi dici a che ora si cena?

-       Alle sette come sempre, darling.

-       Se mi chiami ancora così, ti licenzio in tronco.

-       Un giorno o l’altro...

-       No, senza preavviso. Sai dove posso trovare una prolunga?

-       Nel ripostiglio di sopra.

-       Grazie.

-       Di niente, darl... ops, di niente, capo.

-       Si può sapere perché non mi chiami per nome?

-       Senza offesa, capo, ma hai un nome che fa schifo.

-       Giacinto, per tua informazione, è il nome di una pianta.

-       Sì, pure Cactus, che forse ti sarebbe stato più congeniale.

-       Vaffanculo, Patrizia.

 

Patrizia ed io avevamo cenato contemporaneamente al nostro ospite. Non lo facevamo mai, ma ci dispiaceva lasciarlo da solo in sala da pranzo. Forse lui avrebbe preferito, non lo so. In futuro avrei potuto chiederglielo. Patrizia aveva fatto avanti e indietro, concentrando lo sguardo su di lui, più che nel proprio piatto, per anticipare le sue necessità. Mentre portavamo via gli ultimi residui, ormai lontano dalle sue orecchie, a Patrizia era sfuggito un “Però, che bronzo di Riace!”.

-       Lascialo in pace, per favore.

-       Perché? C’hai la precedenza?

-       Patrizia, oggi sei insopportabile. Finisce che ti licenzio per davvero.

-       E tu sei uno strazio. Finisce che ti mollo, Giacinto.

Il mio nome, pronunciato col tono di un’offesa, era troppo.

-       Patrizia, non scherzo. O mi mostri maggior rispetto o te ne puoi andare anche subito. Ne trovo altre mille come te.

-       Moldave? Ucraine? O preferisci le Rumene?

-       Penserai mica che le governanti italiane siano estinte...

-       Governanti? Io non sono la tua governante.

-       È il lavoro che ti avevo proposto, non ricordi?

-       Ma dicevi sul serio?

-       Perché, ti sembro uno che scherza?

-       Adesso che mi ci fai pensare, no. Credo che tu abbia lo stesso senso dell’umorismo di questo freezer.

-       È la tua risposta definitiva?

-       Non ti ho dato nessuna risposta.

-       O.k. ma questo è un ultimatum. Domani mattina mi dirai se vuoi restare come governante, giurandomi rispetto, o andartene per la tua strada, e addio.

-       Mmm... serataccia! - aveva mormorato Patrizia, uscendo dalla cucina.

 

Approfittando della splendida serata, ero uscito a fare due passi sulla spiaggia. Nel cielo nero e nitido, le stelle brillavano. La sabbia era umida e fredda. Io ero ancora incazzato con Patrizia. Perché non la licenziavo? Forse perché era l’unica che sapeva fare di tutto e non si era mai attaccata ai cavilli del contratto. Dove l’avrei trovata un’altra così? Quello era un punto a suo favore. Però possedeva un carattere pestifero, nessun rispetto per me e l’irritante tendenza a cercarsi un moroso tra i clienti. E questi erano tre punti a sfavore. O.k. dovevo essere sincero, cucinava davvero bene. Un altro punto a favore. Era pure simpatica ai clienti. Eravamo pari. Tre a tre. Mi conveniva tenerla, anche se mi faceva ammattire. In fondo eravamo pure amici. E forse era quella la ragione per cui si sentiva in diritto di prendersi tanta confidenza, anche sul lavoro. Se la licenziavo e poi ne veniva un’altra peggio di lei, che avrei fatto? C’era pure un proverbio, ma non me lo ricordavo.

Mentre ritornavo sui miei passi, avevo visto la finestra illuminata al primo piano, quella sopra la mia. Mi sembrava d’intravedere la testa del nostro ospite, seduto allo scrittoio. Avevo pensato “Sarà uno scrittore? Uno che ha bisogno d’ispirazione, potrebbe esserlo. Oppure? Gli serve ispirazione per cosa? Ma sì, rimprovero Patrizia, ma poi mi rivelo anch’io più curioso di una scimmia. Sarà meglio che me ne vada a dormire.”

 

Il giorno seguente era una giornata magnifica. Sembrava tornata l’estate, dopo il grigiore delle prime tre settimane di settembre. Il signor Donati era fortunato. Patrizia mi aveva detto che era sceso a colazione alle otto e poi era tornato a rinchiudersi in camera. Non doveva dormire molto. Avevo sentito il suo andirivieni sulla mia testa fino alle due, poi mi ero addormentato.

Dopo colazione facevo spesso una passeggiata in pineta. Quel giorno fu più breve del solito. Sulla via del ritorno, avevo incrociato di nuovo Patrizia.

-       Giacinto, ti devo parlare.

-       Sono tutt’orecchi.

-       Ho deciso. Sarò la tua devota governante.

Devota governante. Sapevo che Patrizia mi stava prendendo per i fondelli, ma avevo fatto finta di niente.

-       Come vuoi. Però ci sono un paio di cose che vorrei chiarire con te. La prima è che mi devi portare rispetto. La seconda, che non devi fare la scema con i clienti. Quando e se riapriremo, ti occuperai tu dei dipendenti stagionali.

-       Lo faccio già adesso, questo non è un problema. Quanto al rispetto, se vuoi posso mantenere le distanze e dimenticare che siamo amici. E per la storia dei clienti, non ti permetto di dire che faccio la scema.

-       Allora mettiamola così: smettila di flirtare con i clienti. Questa è una condizione irrinunciabile.

-       Anche tu lo fai.

-       Non è vero.

-       E il Tiziano di Bologna che è venuto in giugno?

-       Abbiamo solo fatto amicizia.

-       E il signor Bertini di Caserta?

-       Non dire sciocchezze.

-       A no? E tutti quei sorrisi? Quelle battutine ironiche? Non è da te.

-       Ma insomma, ti rendi conto? Io faccio quello che mi pare. Sono il titolare, perdinci! Se non ti stanno bene le mie condizioni, puoi anche andartene.

Patrizia aveva messo il muso e si attorcigliava attorno a un dito un ricciolo dei suoi capelli rossi. Odiavo quando metteva il broncio come una ragazzina viziata.

-       Forse è meglio che mi prenda una pausa di riflessione. Anzi, sai che ti dico, Giacinto? Io me ne vado. Non ti sopporto più, né come amico, né come datore di lavoro. Vai al diavolo.

-       Tu finisci la settimana! - avevo urlato alla sua schiena che si allontanava.

-       Scordatelo! - mi aveva risposto, senza neanche voltarsi.

-       MERDA!

Una giornata ch’era iniziata così bene, e guarda che fine aveva fatto.

 

Prima di tutto, dovevo occuparmi del pranzo. Non sapevo da dove cominciare. Studiai i menù della stagione, li rielaborai al computer, lasciando solo i piatti che sapevo fare. Apposi dei quadretti davanti a tutte le proposte e ne stampai sei, uno per ogni giorno della sua permanenza. Così ci saremmo organizzati. Infine, andai a disturbarlo. Non potevo farne a meno. Bussai.

Donati mi aprì immediatamente la porta.

-       Mi scusi, se la disturbo. Le lascio i menù della settimana. Metta una croce su quello che preferisce, giorno per giorno, e al mattino può lasciarmelo sul tavolo della colazione.

-       La signora Patrizia è una che si organizza. - commentò.

-       La cuoca mi ha piantato. Sono io che mi organizzo.

-       Ah, mi spiace. Un’altra lite coniugale?

-       Mettiamola così: eravamo ai ferri corti e siamo arrivati al divorzio. Le donne sono proprio uno strazio. Ma io non ho bisogno di loro. Mi so arrangiare da me. Adesso, se non le dispiace, decida il menù, così avrò modo di dimostrarglielo.

-       Signor Tarsia, come le dicevo al telefono, io non ho preferenze. Faccia lei. Per me va bene tutto. Anche un panino col formaggio.

-       La prego, non sarò all’altezza di una cuoca come Patrizia, ma offrirle un panino offenderebbe anche me.

-       Sa una cosa? Anch’io cucino piuttosto bene. Posso darle una mano in cucina?

-       Ma che dice?

-       Su, mi farebbe davvero piacere.

-       E il suo lavoro? La sua ispirazione?

-       Tanto non viene. E poi non è lavoro. È inutile che stia qui a perder tempo. Almeno mi distraggo un po’.

-       Se davvero le fa piacere...

-       Andiamo. Voglio vedere la cucina, e anche il resto di questa bellissima villa, se permette.

-       Certo, non c’è problema, tanto qui siamo rimasti solo noi due.

 

Donati mi seguì, osservando tutto con molta curiosità. La villa è dei primi del novecento e lui, da esperto del settore, ne apprezzò il valore architettonico, oltre che artistico. Gli mostrai anche i miei appartamenti, la biblioteca, la piccola piscina coperta, con le pareti dipinte in stile art nouveau.

-       Questa l’avevamo aperta ai clienti, ma un paio di vandali hanno attentato alle pitture e mi è costato un occhio farle restaurare. Dopo di che, ho deciso di non farci più entrare nessuno.

-       Ha fatto benissimo. Io non credo che sarei stato capace di aprire ad estranei una villa tanto bella. Ci vuole coraggio.

-       O incoscienza. Non pensavo che ci fosse in giro della gente come quella che è capitata qui. E poi rubano di tutto. Quest’anno mi hanno fatto fuori persino le applique. Due volte. Erano degli anni ’20.

-       In un certo senso è una dimostrazione di apprezzamento. Non li ha denunciati?

-       Americani e russi? Ci ho rinunciato. Ma sto seriamente valutando la possibilità di chiudere questa esperienza, definitivamente.

-       Se così fosse, io sarei il suo ultimo ospite.

-       Esatto.

-       Peccato. Pensavo già di tornare.

-       Vedremo.

-       Allora, ci cimentiamo ai fornelli?

-       Sta pensando a una gara?

-       Perché no?

-       Intanto potremmo anche darci del tu. Io mi chiamo Giacinto.

-       E io Curzio. Per intero, Curzio Francesco Maria Donati.

-       E io, per intero, Giacinto Maria conte Tarsia de Luna.

-       Mi hai fregato, io non possiedo titoli nobiliari.

-       Tanto non servono a niente.

-       Maria anche tu, eh?

-       Abbiamo un destino comune...

-       Spero proprio di no. - commentò tristemente.

 

È cominciata così, la nostra storia. Una storia piuttosto ordinaria. Due che s’incontrano, si piacciono, stanno bene insieme. Una storia come tante, fino a un certo punto. Quel punto di svolta alla fine di febbraio, che io non mi sarei mai immaginato.

Curzio veniva in villa tutti i fine settimana. Il suo lavoro di architetto lo teneva impegnato dal lunedì al venerdì. In tutti quei mesi, non aveva tardato una sola volta. Quella sera invece mi chiamò.

-       Giacinto, scusami ma non posso venire. Ho un lavoro che devo finire entro domenica. Sono bloccato qui. Mi dispiace davvero.

-       Dispiace anche a me, ma se devi lavorare...

-       Ti chiamo in settimana. Scusami ancora. Mi mancherai.

-       Anche tu.

Quando l’ho rivisto, era strano. Sembrava preoccupato, ma tentava di nasconderlo. Era più silenzioso del solito. Per tacito accordo, se uno dei due preferiva restarsene a rimuginare i propri pensieri, l’altro lo assecondava. Nonostante fossi ormai giunto a dipendere da lui, non mi piaceva mostrarmi curioso. Mi avrebbe parlato delle sue preoccupazioni quando fosse stato pronto a farlo. Io mi limitavo a stargli vicino. Ma quella notte, non so perché, arrivai ad infrangere quella consuetudine.

-       Sputa il rospo, dai.

-       Quale rospo?

-       Quello che ti preoccupa tanto.

-       Non mi pare il caso. Tanto non puoi farci niente, e nemmeno io.

Per la prima volta sentivo che il silenzio tra noi aveva un peso fastidioso. Importuno. Anziché unirci, ci divideva.

-       Ti sei stancato di me?

-       Come puoi dirlo? Sei l’unica cosa decente della mia vita.

-       Non mi sento una cosa.

-       Tu sei il mio unico raggio di sole in una vita di merda.

-       Così suona meglio.

-       E va bene, conte, tanto prima o poi te lo devo dire. Non mi sarà più possibile venire tanto spesso. Lo studio è stato assorbito da uno più importante, dove si lavora a cottimo, per progetto, senza orari e con tempi ristretti. È diventato un incubo. Lavoro anche di notte. E non ce la faccio più. Sono costretto a distribuirmi il lavoro anche di sabato e di domenica. Tornerò quando posso.

-       Merda!

-       Mi dispiace.

-       Ti stanno sfruttando. Sei più magro e sciupato dell’ultima volta che sei stato qui.

-       Si vede già...

-       Non mangi abbastanza. Non dormi abbastanza. Certo che si vede.

Curzio mi baciò appassionatamente.

-       Giacinto...

-       Che c’è?

-       Voglio che tu lo sappia. È la prima volta che lo dico a qualcuno. Ti amo.

-       Anch’io ti amo.

In quel momento pensavo che fosse l’inizio di qualcosa. E invece quella è stata l’ultima volta che l’ho visto.

Per qualche giorno il suo cellulare ha suonato a vuoto, poi mi ha risposto una voce metallica e senz’anima che mi ha detto “il numero da lei chiamato è inesistente”. Dopo la decima volta ci ho creduto.

L’unica possibilità di contatto che avevo con lui era sfumata. Maledicevo la mia  maniacale discrezione che m’aveva impedito di chiedere, d’informarmi su di lui, di farmi gli affari suoi. Non sapevo dove abitava, né dove lavorava. Sapevo soltanto che veniva da Milano. Troppo poco per cercarlo, per ritrovarlo. E poi perché? Lui sapeva dove stavo, aveva ancora il mio numero di telefono. Anche se l’avesse perduto, c’era ancora Villa de Luna su internet. Dovevo constatare l’amara verità. Non voleva più vedermi, né sentirmi. E allora perché, proprio quell’ultima notte, m’aveva detto di amarmi? Non poteva tranquillamente farne a meno? Non capivo.

 

***

 

C’è qualcuno che passeggia sulla spiaggia. Osservo dalla finestra del primo piano, da quella che mi ostino a chiamare la camera di Curzio. Riconosco la sua testa rossa di riccioli capricciosi. È Patrizia. Torna sul luogo del delitto. Scendo e le vado incontro. Mi sorride tra le efelidi. Io non trovo la forza di risponderle.

-       Ciao, Giacinto. Lo sai che per sorridere si mettono in moto meno muscoli che per restare seri?

-       Ciao, Patrizia. Che ci fai da queste parti?

-       Sono venuta a vedere come stai.

-       E come sto?

-       Imbronciato, come sempre. No, un po’ peggio, direi. Ti è morto il gatto?

Io mi limito a fissarla. Credo che il termine giusto per descrivere come mi sento sia “affranto”.

-       Che c’è? Che ti è successo? - mi chiede, seriamente.

-       Niente.

-       Non mi sembra. Te ne stai rintanato qua da solo. Non ti si vede in paese da due mesi. Prima almeno venivi a prendere i giornali. Hai fatto l’abbonamento?

-       Non mi va di...

Mi volto verso il mare. Ho un nodo in gola che m’impedisce di proseguire.

-       Con me puoi parlare, lo sai. - mi dice Patrizia con la voce più mielosa che le abbia mai sentito.

Ci sediamo sulla sabbia. Io guardo imperterrito verso l’orizzonte, poi do un’occhiata all’orologio come se m’importasse qualcosa del trascorrere del tempo. Mi sento ridicolo.

-       Giacinto, è successo qualcosa di grave? Non ti ho mai visto così.

E va bene. Con lei posso parlare. Sfogarmi mi farà bene, sempre che riesca a mettere una parola in fila all’altra.

-       Ti ricordi il bronzo di Riace?

-       Certo, Donati, quello che cercava un eremo per l’ultima settimana di settembre.

-       È stata più di una settimana.

-       Cioè? È rimasto qui?

-       No, ma è tornato tutti i sabati e le domeniche, fino alla fine di febbraio.

-       Non mi dire che vi siete innamorati!

-       Sì.

-       E poi ha smesso di venire?

-       Sì.

-       Quindi, ti ha mollato.

-       All’incirca. Non so che fine ha fatto.

-       Come sarebbe? Non ti ha nemmeno detto che non voleva più vederti?

-       Non proprio.

-       Telefonagli!

-       Non ha più lo stesso numero.

Patrizia mi osserva un po’ di sbieco. Ha un’espressione dubbiosa. Tentenna la testa.

-       Ma è sparito così? Non ci posso credere.

-       Veramente mi ha scritto una lettera, ma non riesco proprio a farla combaciare con il Curzio che ho conosciuto io. È come se me l’avesse scritta qualcun altro. La verità è che non riesco a crederci. Non mi ha mai dato motivo di sospettare che volesse chiudere con me.

-       Me la fai leggere?

Sono un po’ restio, ma poi mi dico che non ha più importanza. La tiro fuori dalla tasca. Ce l’ho sempre dietro. L’ho letta cento volte e ogni volta mi sono chiesto chi me l’ha scritta. Ormai la so a memoria.

Patrizia la sfila dalla busta ormai consumata, come il foglio che adesso ha in mano.

La legge, si sofferma su alcune righe, mi guarda, poi finisce di leggerla.

-       Anche se non lo conosco, è una lettera che mi pare strana. Questa scusa non regge. Se davvero aveva intenzione di lasciarti, non ti avrebbe mai detto, per sbaglio, “ti amo”. Nessuno lo dice per sbaglio. O tra voi lo dite come si dice passami il sale?

-       Curzio mi ha detto che era la prima volta che lo diceva a qualcuno.

-       Non sarà che si è spaventato delle conseguenze? Forse aveva in mente un rapporto leggero, senza impegno, e gli è sembrato che averti detto di amarti, fosse troppo. Che tipo è?

-       È esattamente il mio tipo. Nemmeno io avevo avuto il coraggio di dirgli quanto contasse per me. Non volevo che si sentisse legato. Lo sai come sono fatto, per me la libertà dell’altro è importante quanto e più della mia. Inoltre, la mia mania della discrezione mi è stata fatale. Adesso non so dove andarlo a cercare, per chiarire le cose. So soltanto che vive a Milano.

-       Ma sei proprio una schiappa, Giacinto. Hai la fotocopia dei suoi documenti! Lo trovi là l’indirizzo.

-       Non ho nessuna fotocopia. Non l’ho neanche registrato. Quando sei andata via, le cose si sono messe in un modo... Insomma, siamo stati insieme. E alla fine, mica potevo...

-       ...Registrarlo e fargli pagare il conto...

-       Già.

Patrizia mi guarda.

-       Se ti dicessi che sto per andare a Milano?

-       Che ci vai a fare?

-       Vado a trovare una zia. Mi ha invitato un centinaio di volte, ma io non ci sono mai andata. Questa volta le ho detto di sì.

-       E che cosa pensi di fare? Non ho uno straccio d’indirizzo.

Patrizia osserva la busta su entrambi i lati.

-       Lo cercherò per te. Tanto non ho niente da fare. Lasciami questa busta. So come trovarlo.

-       Dici sul serio?

Colto dall’entusiasmo, sono già in piedi.

-       Non affidarci troppe speranze, però. Se la mia idea non funziona, non saprei cos’altro fare.

-       Ormai non spero più in niente.

-       Dai, Giacinto. Non ti posso vedere così!

-       Sono soltanto un po’ triste.

-       Io invece ti vedo angosciato, disperato, affranto, depresso. E se vuoi, posso continuare.

-       No, grazie. Dare un nome a questa cosa, non credo che la farà migliorare.

-       Perché non vieni con me?

-       E se poi mi cerca qui?

-       Giacinto...

-       Hai ragione, qualche speranza ce l’ho ancora.

-       Parto lunedì. Se cambi idea, fammelo sapere.

 

***

 

Milano

 

L’esaltazione del desiderio è un’arte. Mi ci sono sempre dedicato, fin da ragazzino, ogni volta che volevo qualcosa, qualunque cosa. Mi preme che il desiderio cresca, si gonfi, s’intensifichi, si nutra d’ogni possibile fantasia, ci giri intorno con l’uso di ogni senso, vedere, sentire, odorare, sfiorare. Non aspiro alla soddisfazione del desiderio, qualunque esso sia, fino a che non si sia tramutato in una massa gonfia e irriducibile che pretende un inappellabile appagamento. Solo allora mi concedo di soddisfarlo, perché solo allora può darmi un piacere simile all’estasi. Non ignoro che possa sembrare una perversione, ma non posso farci niente. Sono fatto così.

Invece con Giacinto è stato tutto diverso.

Ho sempre avuto orrore dei medicinali e dei medici. Forse perché ho visto i miei genitori ingoiare quintali di composti chimici e morire giovani ugualmente. Penso che la vita abbia un inizio e una fine che debbano restare entro i limiti che la natura ci impone. Ho sempre ritenuto che quando fosse giunto il mio momento me ne sarei andato senza protestare, senza fare una piega, senza rimpianti e nostalgie. O almeno lo pensavo prima di arrivare a Villa de Luna.

Mi ero preso una settimana per riflettere su quello che avrei fatto. Curarmi, come pretendevano i medici, o lasciarmi morire, com’era nelle mie più recondite intenzioni.

Non immaginavo che proprio in quel momento avrei conosciuto Giacinto. Proprio in quel momento! Che beffa sottile, mi giocava il destino. L’innamoramento che mi colpiva tra capo e collo proprio quando dovevo togliere il disturbo, salutare tutti ed uscire di scena. In un attimo la mia vita si è trasformata in un’odiosa farsa melodrammatica, degna della peggior telenovela.

Tutte le mie certezze buttate nel cesso, tutte le mie consuetudini ostentatamente ignorate, le concrezioni calcificate del mio cosiddetto carattere, sbriciolate e disperse al vento, mentre un’esclamazione affiorava sempre più spesso alle mie labbra: chissenefotte!

È troppo breve una settimana, per mettersi a fare giochini col desiderio. Cedetti, benché fossi consapevole che sarebbe stato meglio evitare, perché non era il momento, perché non poteva durare, perché poi sarebbero sopraggiunti la nostalgia e il dolore, che invece avrei potuto tranquillamente risparmiarmi. Certo, sarebbe stato sufficiente restare in camera, guardare il mare dalla finestra, far finta di ignorare quanto mi piacesse osservare quel tale che andava e veniva dalla spiaggia, che passeggiava in giardino, che litigava con quella Patrizia che tutto sembrava tranne che una sua dipendente. 

Ma lui si è presentato in camera mia con quegli ingenui e disarmanti menù, offrendomi un sorriso che sembrava comporre con fatica, come uno che ne abbia dimenticato il segreto.

Poi gliel’ho detto che era stato quello, prima d’ogni altra cosa, a conquistarmi. Invece, per Giacinto, è stata la tristezza del mio sguardo. Due bei soggetti, non c’è che dire. Ho pensato che eravamo patetici. Forse l’ha pensato anche lui, ma non ce lo siamo detti. Parlavamo poco, il minimo indispensabile. Di preferenza, facevamo altro, anche senza soddisfare la mia perversa ossessione di covare il desiderio. Bastava quello che c’era. All’improvviso sembravo deciso a vivere l’attimo fuggente, senza preoccuparmi del futuro, che probabilmente non ci sarebbe stato, o di quei sorprendenti sentimenti, che andavano a riempire tutti gli spazi che avevo lasciati vuoti per tanto di quel tempo... Chissenefotte, mi dicevo.

E invece, dopo quella settimana, che per me era stata di pura follia, non avevo potuto fare a meno di tornare.

Avevo iniziato a curarmi, ovviamente, anche se con un imperdonabile ritardo, come mi avevano inutilmente rimproverato. Mi hanno operato. Adesso sto facendo la radio. Ma non so come andrà a finire. E finché non lo so, non ho intenzione di tornare da Giacinto. Lui non sa niente. Non deve saperlo. Preferisco che pensi che mi sono stancato di lui. Ho solo commesso l’imperdonabile errore di dirgli che lo amo, invece di mentirgli come mi ero ripromesso di fare. Che stronzo.

Ho dovuto rettificare con una lettera. Temevo che se avesse sentito la mia voce al telefono, avrebbe capito. Ho accennato a un mio trasferimento, senza chiarire dove. Spero mi ritenga disperso in Abcasia, in Kulistan o in Strakazzistan, ovunque gli sia impossibile cercarmi.

Nella stanza 23 ci sono due letti. L’altro è occupato da un uomo che è in cura da più tempo di me. Ho visto la moglie piangere, più di una volta. Parlano poco, ma spesso vedo che si stringono la mano. Anche Giacinto lo farebbe, se gli permettessi di venire qui. Ma è un pensiero che mi fa orrore. Preferirei che mi dimenticasse, o persino che mi odiasse. Un’incazzata, sana reazione alla mia scomparsa. Ho disdetto la sim con il numero che lui conosceva. Anche se volesse cercarmi, non saprebbe dove. Gli ho accuratamente tenuto nascosto ogni indizio. In questo sono stato bravo. Sono orgoglioso di me.

Entra il medico di turno.

-       Allora, come va?

-       Bene.

Rispondo sempre così, ma continuano a chiedermelo.

-       Che reazioni ha avuto alla terapia?

-       Le solite cose.

-       Ci avverta se peggiora, mi raccomando.

-       Non mancherò.

Ormai manca solo una settimana e poi mi sottoporranno agli ultimi esami. Se tutto va bene, dovrò ripeterli ancora ogni sei mesi, per cinque anni. Se sopravvivo. Prima non me ne importava, ma adesso penso a Giacinto. E mi dico che sarebbe bello tornare da lui. Avere ancora un po’ di tempo, un bene prezioso, che davo per scontato, come se fosse un diritto.

Quando il medico esce, la signora lo rincorre, dicendo che deve chiedergli una cosa. Ritorna solo dopo dieci minuti, si avvicina lentamente all’altro letto e parla con il marito. Gli dice che il medico le ha confermato che l’impotenza è una delle conseguenze della radio.

Ci resto di merda. Nessuno mi aveva avvertito. Nessuno si è degnato di parlarmene.

 

Domani torno a casa. Ci ho riflettuto. In ogni caso, con Giacinto ho chiuso. Ho fatto bene a non coinvolgerlo in questa storia. L’unica cosa decente che abbia fatto, lasciarlo fuori dalla mia merdosa esistenza. Mi spiace solo d’averlo portato in giro per sei mesi. Sono stato uno stronzo, ma non avrei potuto mai rinunciare a quest’ultima fettina di paradiso. L’egoismo non tollera sensi di colpa. Non dovrei averne. Chissenefotte.

Una testa rossa si affaccia alla porta.

-       Signor Donati?

No, non ci credo. È quella ragazza che lavorava per Giacinto. Che cazzo ci fa qui?

-       Patrizia, vero?

-       Sì. Come sta?

-       Bene. Domani mi dimettono.

-       Giacinto ne sarà felice.

-       Giacinto non deve saperne niente. Le proibisco di parlargliene. Ha capito?

-       Mica tanto. Però, se è quello che ha deciso...

-       Che ci fa qui?

-       Sono venuta a cercarla per conto di Giacinto. Lui non ha voluto muoversi dalla villa, nella speranza che nel frattempo lei ci tornasse.

-       Non tornerò alla villa. Ma come ha fatto a trovarmi?

-       Grazie alla raccomandata che gli ha spedito.

-       È impossibile. Sono sicuro di non averci scritto il mittente.

-       Non c’era, infatti, ma io ho rintracciato l’ufficio postale da cui l’ha spedita. Loro avevano la ricevuta, e là il mittente c’era, e anche l’indirizzo.

-       Merda.

-       Poi il portiere del suo stabile è stato così gentile da informarmi che era ricoverato qui, al reparto oncologico.

-       Viva la privacy! Non è stato neppure troppo difficile trovarmi, vero?

Sono incazzato come un toro nell’arena.

-       No. Direi di no. Peccato che non serva a niente, se non mi permette di parlarne a Giacinto.

-       Non gli dica che mi ha trovato. Gli ho scritto che mi sono trasferito.

-       Farò del mio meglio, ma lui mi capisce al volo, quando gli nascondo qualcosa. Ha un intuito diabolico.

-       Mi sta già dando una scusa per quando gli spiffererà tutto?

Patrizia ride.

-       Forse.

-       Mi regga il gioco. Se poi le cose miglioreranno, allora tornerò.

-       Non capisco.

-       Non importa, è quello che voglio.

-       Quello che vorrebbe Giacinto, invece, è di chiarire le cose tra voi.

-       Non sono ancora pronto.

Non lo sarò mai.

-       E comunque, non s’impicci dei fatti miei. Quando sarà il momento, saprò io cosa fare. Lei pensi a tenere la bocca chiusa.

-       Non è giusto, nei suoi confronti, se ne rende conto?

-       Non s’intrometta.

-       Come vuole. Però, ribadisco che non lo trovo giusto.

 

Lo specchio è un pessimo compagno. Non lo posso guardare. Non mi ci posso vedere. Ma devo farmi la barba. No, potrei lasciarla così, lasciarla crescere, permettere che mi nasconda questa faccia scavata. Faccio pietà. Menomale che Giacinto non può vedermi. La cosa migliore che abbia mai fatto, sparire dalla sua vita. La migliore per lui, certo. Per me la più dolorosa, ma chissenefotte!

Mi ha chiamato uno dei miei soci. Non è certo per affetto o amicizia che mi ha chiesto quando penso di rientrare. Si è a malapena informato se mi sentivo meglio. Generoso, da parte sua. Avrei voglia di non tornarci mai più, allo studio. Mai più. Vorrei cambiare vita, ma sono costretto nei panni di questa, che sono diventati piuttosto stretti. Lo sarebbero per chiunque. Se non sapessi che poi mi sentirei malissimo, questo sarebbe il momento perfetto per sbronzarmi.

Suonano alla porta. Chi può essere? Suonano ancora, insistenti.

Non c’è nessuno qui, a parte un fantasma che vorrebbe restarsene da solo. Ancora? Mi avvicino alla porta.

-       Chi è?

-       Patrizia.

-       Ancora lei?

-       Mi apra, per favore.

-       Cosa vuole?

-       Devo urlarglielo dal pianerottolo?

-       Se ne vada!

-       Curzio, per favore, aprimi... ti devo parlare un momento.

Sospiro. Apro la porta. La guardo. Sospiro ancora. Lei entra, fregandosene altamente del mio desiderio di non vedere nessuno.

-       Lo sai che tu e Giacinto vi assomigliate?

-       Non è vero. Siamo molto diversi.

-       In una cosa però siete uguali, vi piace stare da soli a crogiolarvi nei vostri macabri pensieri.

-       Dovevi dirmi qualcosa che non poteva aspettare, giusto? Allora dimmela.

-       Vieni con me a Villa de Luna. Chiarisci le cose con Giacinto.

-       Non c’è niente da chiarire. Gli ho spiegato tutto nella lettera.

-       Quella lettera non ha convinto neanche me, che non ti conosco affatto. Giacinto crede addirittura che gliel’abbia scritta qualcun altro.

-       Cosa? L’hai letta anche tu?

Ma qualcuno ha mai sentito parlare di privacy?

-       Sì, che l’ho letta. Senti, tu hai preso le tue decisioni, che non dubito siano senz’altro giustissime e motivate, ma fai un piccolo sforzo per metterti nei panni di Giacinto. Immagina cosa sta provando. Che ti costa parlargli un’ultima volta, per liberarlo dai dubbi che lo stanno divorando? Spiegagli le tue ragioni, ti chiedo solo questo.

Che mi costa? Ho bisogno di riflettere, di capire. Ho bisogno di tempo e non so neppure se ce l’ho.

- Se non vuoi vederlo, almeno telefonagli.

Sospiro. Sembra che non sia più capace di far altro.

-       Ci penserò.

-       Come vuoi. Ma non aspettare troppo. Ho paura di quello che potrebbe decidere di fare.

-       Che vuoi dire?

-       Niente... niente.

-       Patrizia...

-       Devo andare. Il mio treno parte tra un’ora. Riguardati.

All’improvviso sembra avere molta fretta. È già fuori, e ha già chiuso la porta, prima ancora che riesca di nuovo a chiamarla. Che cosa voleva dire?

Mi sento un rottame. Come ci arrivo a Villa de Luna? Ma perché dovrei andarci? Non sarebbe meglio lasciare le cose come stanno? Di guidare per quattro ore non se ne parla nemmeno. Ci sarebbe il treno. Taxi, treno e di nuovo taxi. Potrebbe essere sopportabile, se proprio volessi andarci. Ma perché dovrei? Che se ne farebbe Giacinto di me?

 

 

***

 

Villa de Luna

 

Il bar di Giulio ha già i tavolini fuori. La primavera è esplosa all’improvviso. Oggi ritorna Patrizia. Ho deciso di aspettarla qui, di fronte al suo portone. Sono già al secondo chinotto e a pagina cinquanta di un romanzo di José Pablo Feinmann, quando il taxi si ferma a pochi metri da me. Le vado incontro.

-       Bentornata, Patrizia.

-       Ciao, darling. Tutto bene?

-       Per favore...

-       Sì, lo so. Non chiamarmi darling.

-       Appunto, se lo sai, vuol dire che lo fai di proposito, solo per il gusto di farmi incazzare.

-       No, Giacinto, mi viene spontaneo.

-       Anche a me verrebbe spontaneo di mandarti a fanculo, ma non per questo lo faccio.

-       Tutto bene?

-       Sì, tutto bene. E tu? Com’è andata a Milano?

-       Tutto liscio. Vieni su.

L’aiuto con il trolley, scalando i due piani di scale. Appena dentro, Patrizia va a spalancare tutte le finestre.

-       Siediti! - mi urla da non so dove.

Accomodo il mio deretano sul suo lindo sofà e aspetto, con la vaga sensazione che lo stia facendo apposta. Sa che mi sento sulle spine, che vorrei subito sapere qualcosa. Ma intanto sento scorrere l’acqua, sento rumori lontani, sbattere di ante e cassetti.

-       Patrizia, che cazzo stai facendo?

-       Arrivo!

Passano altri cinque minuti, prima che ricompaia con un paio di jeans, una maglietta di cotone verde bottiglia e i capelli arrotolati sulla nuca, infilzati con un bastoncino nero.

-       Era ora!

-       Sono qui. Cosa vuoi bere?

-       Basta, bere. Mi sento un cammello. Dimmi cos’hai scoperto.

-       Cosa ho scoperto? - ripete, con l’indecisione nella voce.

-       Dai, Patrizia, non sono in vena d’indovinelli.

-       Purtroppo ho scoperto ben poco. So dove abitava Curzio, ma il portinaio mi ha detto che si è trasferito.

-       E non ha lasciato il nuovo indirizzo?

-       No. Lui non ne sa niente.

-       Quindi hai fatto fiasco.

-       In pratica, sì.

Mi sento sgonfiare come un soufflé mal riuscito.

-       Non fare così, Giacinto. Vedrai che un giorno ti passerà.

-       Certo. Mi passerà. Adesso vado.

-       Hai deciso quando riapri il B & B?

-       Non lo riapro. Non ne vale la pena.

-       E te ne starai là tutto solo a crogiolarti nella tua depressione e a rimestare nei tuoi melmosi pensieri?

-       Sì, direi che questo è il programma.

-       Non mi vorresti come governante?

-       Non ne avevamo già parlato?

-       Non mi ricordo...

Patrizia mi strizza l’occhio, sorridendo.

-       Ci penso e poi ti faccio sapere.

 

È cominciata di lunedì. Suona il telefono, rispondo, dico un paio di volte “pronto” e poi chiudono la comunicazione. Capita due volte al giorno, al mattino e la sera, come se qualcuno controllasse se sono in casa. Che mi abbiano preso di mira per un bel furto con scasso?

Comincio a chiudere col fermo tutte le aperture del piano terra. Sto diventando paranoico. Ancora una volta mi sento tradito dal mio eremo paradisiaco. Il mio sacro rifugio si sta trasformando in una trappola di merda. Sono travolto dall’ansia. Restare qui da solo, senza nemmeno un’arma a mia disposizione, mi sembra una pessima idea. Devo procurarmi qualcosa. Mi ricordo, in un lampo, di conservare in soffitta una balestra che usavo da ragazzo. Ho anche partecipato a qualche gara nei tornei che si tenevano durante le Rievocazioni storiche in paese.  Le fanno ancora, a dire il vero, ma io non ci vado più. Mi è rimasta la balestra. Con un po’ di esercizio, credo di poter tornare in forma, abbastanza per infilzare il primo che si provi ad entrarmi in casa senza invito.

Ecco di nuovo il telefono. Se non rispondo, è peggio. Penseranno che non ci sono e tenteranno di svaligiarmi...

-       Pronto. Pronto.

-       Ciao, Giacinto.

-       PATRIZIA!

-       Che hai? Perché urli così?

-       Lascia perdere. Sono nevrastenico.

-       Che ti succede?

-       Vieni qui. Non mi va di parlarne al telefono.

-       Certo che stai diventando ogni giorno più strano. Va bene. Arrivo.

Poco dopo sento la Vespa fermarsi davanti al portone. Sbircio nello spioncino per accertarmi che sia proprio lei e poi apro le quattro serrature (ne ho aggiunte due, in questi giorni).

-       Ma cos’è, Fort Knox? Che ti succede, Giacinto? - mi chiede Patrizia, preoccupata, osservando la fila di serrature sulla porta.

-       Da dieci giorni c’è qualcuno che telefona e riattacca senza parlare. Mi stanno curando. Stanno aspettando che mi allontani da casa per venire a ripulirmi.

-       Ma come fai a dirlo? Hai provato a rintracciare le chiamate?

-       Dovrei chiamare la polizia. Hai ragione.

-       Ma no, sul telefono hai l’opzione numero chiamante. Che testone che sei! - mi dice, andando verso l’apparecchio.

Armeggia per un po’ con i tasti e poi sussurra: - Bingo!

-       Che c’è?

-       Ti andrebbe di sentire una voce conosciuta?

-       Cosa?

-       Vieni qui, lascia che risponda e poi riattacca.

-       Ma chi è?

-       Vieni qui. - insiste.

Patrizia schiaccia un paio di tasti e io m’incollo il ricevitore all’orecchio.

Cazzo, mi risponde la voce di Curzio. Io resto un po’ a fargli sentire il mio respiro, poi riattacco.

-       Era lui! E io che mi stavo barricando in casa come a Fort Apache...

-       A questo ti serviva, quella balestra? Volevi giocare a indiani e cow-boy?

-       Patrizia, sei assunta. Subito. Vatti a fare la valigia e trasferisciti qua immediatamente.

-       Calma, cow-boy. Prima dimmi che intenzioni hai.

-       Te l’ho appena detto. Ti assumo.

-       Non intendevo questo. Che intenzioni hai con Curzio?

-       Nessuna.

-       Ma come, non volevi parlarci? Adesso hai il suo numero. Perché non lo chiami?

-       Prima voglio fargli un paio di squilli al giorno, per... diciamo un mese. Solo per sentire la sua voce.

Patrizia mi guarda con disgusto.

-       Siete patetici...

-       Ha cominciato lui.

-       ... e infantili.

-       E che cazzo vuoi? Tu che faresti?

-       Lo chiamerei e gli chiederei che cazzo vuole dalla mia vita. Semplicemente. Ma prima gli chiederei come sta.

-       Sta alla grande, come vuoi che stia?

-       Non lo darei per scontato.

-       Che vuoi dire?

-       Mi sembra che sia un po’ fuori di testa, come te, del resto. O mi sbaglio?

Patrizia ha quell’espressione da gira-intorno che non mi convince, quella che assume quando vorrebbe dirmi qualcosa, ma preferirebbe che ci arrivassi da solo. In questo caso però non ho la pazienza sufficiente per trovare la soluzione dei suoi enigmi.

-       Cosa mi stai nascondendo?

-       Niente.

-       Patrizia, parla, o ti lego in cantina e ti torturo finché non mi dici la verità.

-       Ma che vuoi da me, pazzo maniaco?

-       Tu sai qualcosa, me lo sento.

-       E per caso non senti anche le voci, come Giovanna D’Arco?

-       Patrizia, giuro che se aspetti ancora un po’ a parlare, ti faccio nera.

-       Eh, che carattere di merda che hai messo su! Fino all’estate scorsa eri un perfetto gentiluomo...

-       Mi si è sballato l’androsterone. Adesso parla, o non rispondo più di me.

-       Vabbè, l’hai voluto tu.

 

***

 

Milano

 

-       La bevi sempre la cioccolata, prima di dormire?

-       Sì. Lo sai che mi calma. Poi dormo come un bambino.

 Quasi a scusarsi, sorride: appena una crepa sul suo volto di creta.

-       Giacinto, non puoi immaginare quanto mi faccia piacere che tu sia qui.

-       E me lo dici pure! Sei proprio uno stronzo. Hai affrontato tutto da solo e nemmeno me lo volevi far sapere. Se non torturavo Patrizia, stavo ancora là a chiedermi che fine avessi fatto.

-       È una ragazza in gamba.

-       Su questo devo darti ragione. È insopportabile, ma è in gamba. Comunque, non tentare di cambiare discorso. Perché l’hai fatto? Non ha senso.

-       Non è giusto che ti abbia coinvolto nella mia vita, proprio adesso... Volevo che ne restassi fuori, che non soffrissi per causa mia. Non volevo che i miei problemi pesassero su di te. O in fondo temevo che fossi tu a mollarmi...

-       E non ti è sembrato che fosse un po’ tardi per questo? Pensa che cretino, credevo che dall’amore dovesse derivare la fiducia reciproca.

-       No. Sì. Non lo so. A un certo punto non ci ho capito più niente.

-       Che dicono gli ultimi esami?

-       Per ora è tutto sotto controllo. Tra sei mesi si vedrà.

-       Allora vieni con me alla villa.

Come faccio a dirglielo? Come faccio? Devo smetterla di mentire. Deve sapere che non possiamo più stare insieme. Deve saperlo che non mi tira più.

-       Non posso. Ho un lavoro qui, e dovrò riprenderlo molto presto.

-       Te lo do io, un lavoro. Riapro il B & B e tu mi fai da collaboratore. Ti prego, non mi dire di no.

Gli occhi di Giacinto brillano di aspettativa. E io mi sento più morto che vivo.

-       Non posso, Giacinto.

-       Ti prego. Ti giuro che starai bene, da me.

-       Vorrei tanto, ma non posso.

-       Allora è proprio vero quello che mi hai scritto nella lettera. Quella notte me l’hai detto per sbaglio, che mi ami.

Sarei tentato di dirgli che la verità è proprio quella, ma non sarebbe giusto, né per lui, né per me. Almeno questo glielo devo.

-       C’è una ragione, se non voglio venire con te, e non è quella che pensi. I miei sentimenti non sono cambiati, ma io purtroppo sì. La cura che ho fatto, mi ha lasciato delle conseguenze. Non sono più come prima, Giacinto. Io non posso più...

Non riesco a dirglielo. Vorrei tanto che Giacinto ci arrivasse da solo.

-       Curzio, stammi bene a sentire. Di qualunque cosa si tratti, a me non importa. Voglio solo restarti vicino. E nient’altro. Alla villa hai la tua stanza. Puoi fare quello che vuoi. Sarai libero di scendere o restare tappato là dentro. Mi basterà sapere che sei lì.

-       Tu sei pazzo, Giacinto.

-       Me l’ha già detto Patrizia. Pazzo maniaco, per l’esattezza.

Scoppio a ridere, un po’ per disperazione, un po’ per commozione. Giacinto ne approfitta per insistere.

-       Dai, vieni con me.

Sospiro. Uno di quei lunghi sospiri in cui mi sono specializzato.

-       Ti prego. Mi metto in ginocchio, se vuoi.

E mentre lo dice, lo fa sul serio. Mi stringe i polpacci tra le braccia, appoggiando la testa sulle mie cosce.

-       Ti prego.

Gli afferro la testa, gliela faccio sollevare tirandogli i capelli e lo bacio. Provo una tenerezza devastante, che mi strazia. Dio, proprio adesso dovevo innamorarmi? Non so neanche se tra sei mesi ci sarò ancora.

-       Ti rendi conto che sono un prodotto a breve scadenza?

-       Non me ne fotte un cazzo.

Gli sorrido.

-       Mi hai convinto.

 

***

 

Villa de Luna

 

Appena sveglio, mi siedo allo scrittoio guardando il mare, e scrivo su uno di quei grossi e pesanti libri mastri che si usavano una volta negli alberghi, per registrare i clienti. Ha il tipico odore di carta vecchia che ricorda i libri lasciati in cantina. L’avevo comprato in un mercatino del modernariato, senza avere un’idea di cosa ne avrei fatto. L’ho intitolato “Almanacco”, con la penosa mancanza di fantasia di chi ritiene inutile sforzarsi. Le mie priorità sono diventate altre.

Una pagina al giorno, un giorno alla volta, riporto quello che accade, racconto di Curzio e di me, senza osare fare programmi. Andrò avanti fin dove arrivano i giorni. Su ogni pagina incollo qualcosa, una foto, una foglia, un ritaglio di giornale, l’etichetta di un vino che gli è piaciuto, annoto una frase che ci siamo detti... qualunque cosa faccia, di quel giorno, un giorno speciale. D’altra parte, con Curzio, tutti i giorni mi sembrano speciali, grazie all’intensità delle nostre emozioni, esasperata dal senso di provvisorietà con cui li viviamo.

Non ho riaperto il B & B.  Curzio non era d’accordo, l’ha presa come una sorta di tradimento, ma poi si è dovuto arrendere. Quest’estate non voglio nessuno tra i piedi. Sono stato irremovibile. Con noi c’è solo Patrizia.

Da alcuni giorni Curzio sta molto meglio, tanto che mi pare quasi tornato quello di un tempo. Ha più appetito, è più allegro e le nostre passeggiate si fanno sempre più lunghe. Inoltre, da un paio di giorni, ha un modo di guardarmi che mi fa venire i brividi e idee oziose, che tento in ogni modo di scacciare. Vi leggo un intenso desiderio che non sarebbe in grado di soddisfare. E io ci resto male. Preferisco lasciarlo in pace, anche se per me è dura. È un argomento penoso, che non tocchiamo mai, da quella volta che mi ha detto: - Che te ne farai di uno come me?

Una volta terminato l’almanacco di ieri, vado in cucina.

-       Buongiorno, darling.

Ora lascio che Patrizia mi chiami come le pare.

-       Buongiorno.

-       Dormito bene?

-       Come un angioletto.

-       Dovrei parlarti, Giacinto. Lo so che non sono affari miei, ma...

-       Che c’è Patrizia?

-       Ho notato una cosa. Non che mi riguardi, intendiamoci, ma...

-       Hai la sfacciataggine d’impicciarti dei fatti miei, ma poi non hai il coraggio di andare fino in fondo... Sei comica, sai?

-       Lo so. È che ci tengo a te, anche se tu sei così... così...

-       Stronzo?

-       Giacinto...

-       Dai, Patrizia, abbi il coraggio dei tuoi intrufolamenti negli affari miei. Sono proprio curioso di scoprire fin dove puoi arrivare.

-       E va bene. Sono sicura che tu sai benissimo quello che fai, ma... Insomma, lo sai anche tu che non sono consigliabili i rapporti non protetti e facendo le pulizie nelle vostre stanze non ho trovato preservativi.

Per un attimo resto interdetto, poi, nonostante tutto, scoppio a ridere.

- Non ci trovo niente da ridere, è una cosa seria!

-       Rilassati. Non ce ne sono perché non pratichiamo.

-       Eh?

È più stupita lei della mia rivelazione, di quanto lo sia io della sua indiscreta intrusione nella mia vita sessuale.

-       Siamo casti, austeri e morigerati come due monaci. E come avrai notato, per non incorrere in tentazione, ciascuno dorme nella propria camera.

-       L’astinenza è tornata di moda?

-       Non dovrei neanche dirtelo, ma vista la tua affettuosa e imbarazzata preoccupazione, te lo spiegherò. Il motivo è che la radioterapia provoca impotenza.

-       Momentanea, solo momentanea.

Resto per un attimo senza fiato.

-       Chi te l’ha detto?

-       Lo so.

-       Ma sei proprio sicura?

-       Vai a guardare su internet, se non ci credi.

-       Patrizia, darling, ti ho mai detto che ti voglio bene?

L’abbraccio forte e poi scappo in biblioteca ad accendere il computer.

 

Mentre Curzio è sotto la doccia, m’intrufolo in camera sua, mi spoglio e mi stendo sul letto. Quando entra, vedendomi, sbarra leggermente gli occhi, sorpreso, ma anche piuttosto felice.

-       Giacinto...

-       Devo comunicarti una splendida notizia.

-       Mi par di capire che appartiene al genere che si dà e si riceve meglio se stesi su un letto...

-       Preferibilmente nudi.

Curzio, annuendo con docilità, apre lentamente l’accappatoio e lo lascia scivolare a terra. Poi si distende accanto a me, con un gomito puntato sul cuscino e la testa appoggiata alla mano, regalandomi un sorriso tra l’ironico e il tenero, che non gli vedevo da tempo. I suoi occhi brillano di desiderio. Non resisto. Gli imprigiono la testa tra le mani e lo bacio, a lungo, con tutta la passione repressa che mi brucia dentro. In alcuni frangenti, anche l’annuncio più lieto può aspettare. Mentre ci baciamo con trasporto, ci accarezziamo, fin quando non tocco con mano che alcune notizie, se non le riveli tempestivamente, rischiano di diventare irrimediabilmente troppo vecchie per essere diffuse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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