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   Passaggio a Nord-Ovest 
 Owen Kintyre
  percorre il lungo corridoio immerso nella penombra e raggiunge la stanza del
  dottor McPherson. Esita un
  attimo, poi bussa alla porta. Da dentro si sente la voce del dottore. - Avanti. Owen apre e saluta McPherson. - Siediti, Owen, siediti. La voce del dottore è
  cortese, quasi melliflua. Owen si accomoda sulla sedia davanti alla grande
  scrivania. McPherson gli fa i complimenti per la laurea. Owen
  ringrazia ed attende. Sa che non l’hanno convocato
  per fargli le congratulazioni.  - Siamo orgogliosi di te,
  Owen. Eravamo sicuri che ti saresti impegnato al massimo
  per dimostrare di meritare l’aiuto che la Società ti ha dato e non hai
  tradito le nostre aspettative.  - Grazie, dottor McPherson. - Tuo padre sarebbe
  contento di te, se potesse vederti. Owen annuisce. Se suo
  padre fosse ancora vivo, Owen non avrebbe dovuto accettare l’aiuto della
  Società per poter completare gli studi, sopportando
  tutta una serie di umiliazioni: gli hanno fatto pesare non poco i quattro
  anni di studi, come se il denaro speso fosse stato un atto di grande generosità,
  ma Owen sa benissimo che adesso presenteranno il conto. - Noi intendiamo
  continuare a occuparci di te, Owen. Un giovane serio e studioso come te,
  merita tutto l’appoggio della Società. - Grazie, dottore, ma
  avete già fatto molto. - E continueremo a fare.
  Tu hai una vasta preparazione teorica, ma ti manca l’esperienza. Noi ti
  daremo l’occasione di fartela.  McPherson sorride, come se stesse per offrire a
  Owen un meraviglioso regalo. - Sono a vostra
  disposizione. Owen non può dire altro,
  anche se taglierebbe volentieri i ponti con la Società.  - Non è un’occasione da
  poco, quella che ti offriamo. Fra tre settimane partirà una spedizione per il
  Canada. La Count of Essex esplorerà l’area dove dovrebbe trovarsi il
  passaggio a Nord-Ovest. Owen si sente gelare.
  L’ultima spedizione, quella di sir John Franklin, è svanita nel nulla. Non ne
  è stata ritrovata traccia, nonostante alcune ricerche: di certo tutti gli
  uomini, circa 130, sono morti nell’inverno, di freddo e di stenti. McPherson prosegue: - Una grande occasione di
  raccogliere dati scientifici rilevanti: un viaggio come questo contribuirà a
  darti fama e ti aprirà molte porte. Per un giovane come te è l’ideale. Molti
  vorrebbero essere al tuo posto. Owen si dice che di certo
  nessuno degli studiosi della Società vorrebbe essere al suo posto: non
  manderebbero lui, se così fosse. Nessuno vuole rischiare di morire. McPherson finge di non accorgersi del silenzio di
  Owen. Sa benissimo che la sua proposta è infame, ma sa altrettanto bene che
  Owen non può dire di no. E difatti il giovane dice: - La ringrazio,
  dottore. Il dottore fornisce alcune
  indicazioni pratiche. Owen dovrà presentarsi al capitano della nave la
  settimana prossima e preparare tutto l’occorrente per la partenza.  Owen esce dallo studio del
  dottore e si avvia lungo il corridoio. Quando raggiunge la porta
  dell’edificio, si ferma. Gli pare di non essere in grado di affrontare la
  luce primaverile che illumina la città. Vorrebbe tornare indietro, dire che
  non intende partire, che non hanno il diritto di mandarlo a morire, che
  sarebbe stato meglio non pagargli gli studi e lasciare che si guadagnasse da
  vivere come impiegato, piuttosto che esporlo ai rischi della spedizione.  Se fosse impiegato in
  qualche ufficio pubblico o in una ditta, oggi non rischierebbe la vita.
  Guadagnerebbe poco, ma che importa? Non ha molte esigenze. E magari
  troverebbe il tempo per dedicarsi a scrivere, come ha sempre desiderato fare. Owen barcolla: gli sembra
  di non riuscire a stare in piedi. Cerca di riprendersi: non vuole che il
  custode si accorga del suo turbamento. Scende lentamente la scalinata. Dovrà
  dirlo a sua madre. Owen sente una stretta al cuore. Era così contenta quando
  lui si è laureato. Intravedeva per lui un futuro di ricercatore, di studioso,
  anche solo di professore, che li avrebbe riscattati dalla miseria in cui
  erano piombati negli ultimi anni, dopo la morte del padre. Per la
  partecipazione alla spedizione Owen riceverà una discreta somma di denaro,
  che permetterà a sua madre e sua sorella di vivere durante la sua assenza. Ma
  se non dovesse tornare? E in ogni caso, come affronteranno
  le due donne la sua lontananza, sapendolo in pericolo? Deve farsi forza,
  nascondere la realtà e dire che la spedizione non presenta rischi, in modo
  che sua madre non si preoccupi. Owen fa un lungo giro a piedi prima di
  rientrare a casa sua. Sale al castello, passeggia
  per le strade della città alta. Il movimento calma la sua agitazione. Quando
  infine è sicuro di poter fingere, ritorna a casa. Sua madre lo accoglie
  sorridendo. - Allora, che cosa ti ha
  detto il dottore? - Mi hanno trovato un
  lavoro. Il sorriso di sua madre si
  allarga. Batte le mani, contenta. - Che bello! Che lavoro è?
  Quando incominci? Owen sorride, cercando di
  essere il più convincente possibile. - È una spedizione di
  esplorazione. Avrò modo di studiare il clima, la flora e la fauna delle coste
  settentrionali dell’America, raccogliendo dati interessanti. Il viso di sua madre
  cambia espressione. Il sorriso svanisce. Ora appare inquieta. Owen si mette a
  ridere, sperando di riuscire a essere convincente. - Perché fai quella
  faccia? - Starai via a lungo.
  Avevo sperato che tu avessi un lavoro qui in città…
  e poi… non è pericoloso? - Il viaggio sarà lungo,
  sì, certamente. Però sarà una bella esperienza. Pericoloso no, che pericoli
  vuoi che ci siano? Non sono abbastanza grasso da farmi divorare dagli orsi
  polari. Owen cerca di ridere alla
  propria battuta. Sua madre sorride, ma non è contenta. Neanche Owen lo è, ma
  c’è poco da fare: non può dire di no. Sale a bordo e si rivolge
  al marinaio sul ponte. - Buongiorno, sono Owen Kintyre. Sono lo studioso che parteciperà alla spedizione
  per conto della Società Scientifica. Vorrei presentarmi al capitano. L’uomo non gli dà il
  benvenuto, non ricambia neppure il saluto. Si limita a fare un cenno in
  direzione del castello, dicendo: - Il capitano è nella sua
  cabina. Ma è occupato. Owen esita: - Ne avrà per molto? - Non so. - È con qualcuno? - No. - Non può chiedergli
  quando è disponibile a ricevermi? - Non ama essere
  disturbato. Owen esita. Che cosa può
  fare? Tornare a casa e poi ripassare un altro giorno, rischiando magari di
  trovare il capitano nuovamente occupato? Deve prepararsi per la partenza, non
  sta andando a Londra: rimarrà via uno o due anni. Ha bisogno di avere
  informazioni. Infine si dirige verso la
  porta che gli è stata indicata. Al massimo il capitano gli dirà quando
  tornare. Bussa. Una voce tuona: - Che cazzo c’è? Ho detto
  di non rompermi i coglioni. Di bene in meglio.  Owen dice, ad alta voce: - Sono
  Owen Kintyre, lo studioso che segue la spedizione. Il tono della voce tradisce
  l’impazienza. - Avanti.  Il capitano è seduto al
  tavolo. Non si alza. Lo squadra, dalla testa ai piedi. È un colosso, con
  capelli e barba biondi. Davvero un gran bell’uomo, ma quegli occhi azzurri
  sembrano di ghiaccio. Il capitano riprende a
  esaminare le carte che ha sul tavolo, come se lui
  non esistesse. Owen rimane a guardarlo, incerto su come comportarsi. Dopo
  qualche minuto si schiarisce la gola e prova a dire: - La disturbo? - Puoi aspettare un
  momento, no? Non vedi che sono occupato?! Owen respira a fondo. Non
  si attendeva di essere accolto a braccia aperte, ma con un minimo di
  cortesia, di civiltà, questo sì. Non gli ha neanche detto di sedersi. Passano altri minuti. Owen
  vorrebbe andarsene.  Infine il capitano solleva
  lo sguardo. - Che cosa vuoi? - Volevo presentarmi,
  visto che farò parte della spedizione. - Va bene, ti sei
  presentato. C’è altro? Altro ci sarebbe: avere
  qualche informazione in più sui tempi; sapere dove sarà alloggiato; avere una
  conferma su ciò che deve portarsi dietro, oltre a ciò
  che gli è già stato detto. Gli sarebbe piaciuto anche avere un sorriso di
  incoraggiamento, visto che è il suo primo vero viaggio in mare, ma di certo è
  pretendere troppo. Owen non trova le parole. Rimane zitto. Il capitano ora è
  chiaramente irritato. - Non farmi perdere tempo.
  Che cazzo vuoi?  Owen inghiotte e dice: - Posso sapere dove
  dormirò e che cosa devo portare con me? - O cazzo, ma non sei mai
  stato su una nave!? Blackbridge! Il nome è urlato. Il
  marinaio arriva subito. Non è quello che stava alla scaletta. - Blackbridge,
  prenditi cura di questo rompicoglioni qui, ché io non ho tempo da perdere. E senza nemmeno salutare,
  il capitano si rimette a consultare le carte. Escono dalla cabina. Il
  marinaio lo guarda, aspettando che lui parli. Owen incomincia a dirgli che
  cosa vorrebbe sapere, ma in quel momento dalla scaletta sale un uomo, con la
  divisa da ufficiale. Anche lui, come il capitano, è robusto, ma meno alto.
  Capelli e barba di un biondo rossiccio, un viso non bello, dai lineamenti
  forti, occhi chiari il cui sguardo pare trapassare Owen. L’uomo si rivolge al
  marinaio: - Va’
  pure, Blackbridge. Me ne occupo io. Il marinaio saluta
  l’ufficiale, che si rivolge a Owen. Ha una voce aspra, ma non è scortese: - Quindi lei è lo studioso
  che si occuperà delle rilevazioni scientifiche. Owen fa cenno di sì. - Sì, sono venuto a
  presentarmi. - Benvenuto a bordo. Io
  sono il secondo, Vincent Hagen. Hagen è il primo a dargli un benvenuto, l’unico.
  Owen gliene è grato, anche se lo sguardo duro dell’uomo lo mette in
  soggezione. Hagen gli fa vedere la cabina: uno spazio
  minuscolo, in cui non sarà facile fare stare la strumentazione che Owen deve
  portarsi dietro. Owen chiede, ma non ci sono altri locali di cui può
  usufruire, anche se la Società Scientifica è uno dei finanziatori della
  spedizione.  - Non so se riuscirò a far
  star tutto. C’è poco spazio. - Siamo su una nave. Lei
  ha a disposizione più spazio di chiunque altro, escluso il capitano. La voce è dura, come lo
  sguardo. Owen è a disagio. Prima che abbia il tempo di chiedere altro, Hagen incomincia a fornirgli una serie di indicazioni
  pratiche. Owen pone qualche domanda. L’ufficiale risponde in modo preciso ed
  esauriente. Owen lo ringrazia. Vorrebbe ancora chiedergli dei rischi della
  spedizione, ma lo sguardo dell’uomo non l’invoglia a insistere. Hagen è corretto ed abbastanza
  cortese, ma non sembra esserci nessun calore umano in lui. Owen scende dalla nave angosciato. L’incontro con il capitano ha
  aumentato le sue ansie. Che razza di viaggio sarà quello,
  con un capitano villano ed arrogante, che lo ha trattato a pesci in faccia,
  un secondo che non gli ha regalato neppure un sorriso? Che vita farà, a
  bordo?  La partenza avviene alla
  fine della primavera. La nave attraverserà l’Atlantico fino a Terranova e poi
  di lì navigherà verso Nord, non appena le condizioni climatiche lo
  permetteranno. Sul ponte Owen guarda il
  profilo della città allontanarsi ed avverte un
  dolore cupo. Si chiede se rivedrà mai Edimburgo, sua
  madre, sua sorella, coloro che gli vogliono bene. Nel migliore dei casi sarà
  di ritorno a fine autunno, perché la nave non deve cercare il passaggio a
  Nord-Ovest, ma solo esplorare alcune aree. Non è però da escludere che il
  viaggio duri più a lungo.  Owen pensa che forse non
  sarà mai di ritorno: non sarebbe né la prima, né l’ultima spedizione che si
  perde tra i ghiacci del Canada. Owen volta le spalle alla costa, perché
  guardare la città che svanisce in lontananza è troppo doloroso.
  Il suo sguardo incrocia quello di Hagen. Per un
  attimo gli pare di scorgere una scintilla di pena in quegli occhi chiari, ma
  scompare subito. Nei primi giorni il mare è
  mosso. Owen non ha mai affrontato lunghi viaggi per nave ed è subito preda del mal di mare. La nausea dura un giorno, in
  cui Owen non riesce neppure a nutrirsi, poi si attenua, ma Owen fa fatica a
  rimanere in piedi, si sente senza forze, la testa gli gira.  Passa molto tempo nella sua cabina, dove un
  marinaio ogni tanto gli porta il cibo. Chris Kildare
  ha capelli rossi e occhi verdi. Quando, dopo quasi una settimana, incomincia
  a sentirsi meglio, Owen parla un po’ con lui. - Quando raggiungeremo la
  costa americana? - Non so, ci vogliono
  ancora parecchi giorni. Dipenderà dalle condizioni del vento e del mare. Chris è giovane e sembra
  amichevole. Owen chiede:  - È un viaggio pericoloso? - Certo che lo è, da
  quelle parti se capita qualche guaio e non si riesce a
  tornare indietro si è fottuti. Di navi ne sono già scomparse
  parecchie. Owen annuisce, senza
  parlare: ha un groppo alla gola. Owen incomincia a
  trascorrere più ore fuori dalla cabina. Si sta abituando al continuo rollio,
  che ormai non gli dà più molto fastidio. Non ha quasi niente da fare: le sue
  rilevazioni incominceranno quando saranno giunti a Terranova. Per il momento
  si limita a registrare nel diario il passare dei giorni e a prendere nota di
  temperatura, coordinate geografiche, direzione e velocità del vento.  Owen guarda il mare. Non
  ha mai attraversato l’Oceano, non gli è mai capitato
  di non vedere da nessuna parte la terra. Mare, mare,
  mare. Ora agitato dal vento, in grandi onde che fanno danzare la nave, ora
  più calmo. Ora azzurro come il cielo sereno, ora di
  un grigio plumbeo sotto un manto di nuvole, ora nero come la notte. Owen trascorre ore a
  guardare incantato il movimento delle onde o le vele che il vento tende.
  Scopre con stupore di amare questo mare sconfinato, di cui prima di partire
  temeva la violenza.  Altre volte la sua mente
  vaga, sogna le avventure che vorrebbe scrivere.  Owen assiste volentieri
  anche alle manovre, che sono dirette dal capitano stesso o dai due ufficiali,
  Hagen e Heighter. Heighter è un uomo forte, con larghe spalle e grandi
  mani. Ha capelli di un rosso acceso ed un viso
  butterato dal vaiolo. Appare infaticabile, sempre presente ovunque, sempre
  attento a ciò che succede, sempre insoddisfatto di come i marinai svolgono il loro lavoro.  La disciplina è molto
  severa e già il secondo giorno che Owen passa sul ponte, vede frustare due
  marinai per un errore di manovra, che Heighter
  imputa a pigrizia e codardia. La punizione avviene sotto gli occhi degli
  altri marinai, che appaiono impassibili, ma Owen coglie una forte tensione.
  Non c’è certamente un clima sereno sulla nave. Man mano che i giorni passano,
  la situazione sembra peggiorare. Il capitano è durissimo nei confronti dei
  marinai. Non tollera nessun errore, il minimo sbaglio è punito con la frusta.
  Più di una volta Owen lo vede minacciare qualche marinaio di farlo impiccare.
  Heighter sembra divertirsi a umiliare e ferire gli
  uomini dell’equipaggio. Owen lo evita il più possibile. Anche Vincent Hagen è molto severo ed esigente, ma ha rapporti migliori
  con l’equipaggio. Owen, se ha bisogno di qualche cosa, chiede a Hagen, che gli procura ciò che gli serve e gli dà le informazioni necessarie. Però l’ufficiale è alquanto
  scostante e non invoglia certo ad avviare una conversazione. Owen preferisce
  evitarlo, perché gli incute timore. D’altronde abitualmente Hagen lo ignora, limitandosi a salutarlo quando si
  incrociano per la prima volta nella giornata.  Durante tutta la
  traversata dell’Atlantico, il capitano non rivolge la parola a Owen. Anche i
  marinai non si occupano di lui: solo con Kildare
  gli capita di scambiare due parole.  Le punizioni corporali
  sono all’ordine del giorno ed è quasi sempre Heighter
  a fissarle: il capitano ha delegato a lui questo compito. Owen avverte l’odio
  dei marinai nei suoi confronti. Un giorno, mentre stanno frustando uno degli
  uomini, Owen sente un altro bestemmiare sottovoce e mormorare: - Pagherà anche questo,
  quel figlio di puttana! Sono appena all’inizio del
  viaggio. Che succederà quando navigheranno tra i ghiacci e dovranno
  affrontare ogni giorno gravi pericoli e difficoltà? Come reagirà un
  equipaggio che già ora sembra sul punto di esplodere? Per fortuna l’America non
  è lontana: forse ritrovarsi a navigare lungo la costa rasserenerà il clima.   Dopo un’ennesima
  fustigazione, Owen chiede a Chris se su tutte le navi la
  disciplina è così severa. Chris scoppia a ridere. - Nella marina la
  disciplina è molto severa, ma non tutti i capitani sono come Lawrence. - In che senso? - Ha visto anche lei come
  si comporta. Non gli va bene niente e al minimo errore, scatta subito una
  punizione. - Certo che non è
  piacevole essere agli ordini di un capitano così severo. - Nessuno vorrebbe
  viaggiare con Lawrence. E Heighter è ancora… Una voce aspra li
  interrompe: - Kildare,
  tieni a freno la lingua. Hagen è dietro di loro. Owen non si è accorto
  del suo arrivo. - Sissignore. Mi scusi, signore. Kildare si allontana. Hagen
  fissa Owen. I suoi occhi sembrano volerlo trafiggere. - Signor Kintyre, in quanto passeggero di questa nave e membro
  della spedizione, sarebbe doveroso che evitasse di sparlare degli ufficiali. Owen si sente a disagio
  sotto quello sguardo ostile. Hagen sarà meglio di Heighter, ma non è certo una persona piacevole. - Non intendevo sparlare.
  Mi scuso. La costa americana
  dovrebbe apparire presto, ma una tempesta è in arrivo. Il mare è sempre più
  mosso e Owen legge sui visi degli uomini una crescente preoccupazione. Ben
  presto la pioggia incomincia a scendere, mentre il vento soffia impetuoso.
  Owen è affascinato dal mare in tempesta, ma rimanere sul ponte è pericoloso e
  Hagen gli intima di scendere in cabina e rimanerci.
  Owen obbedisce. Nella sua stanzetta gli
  sembra che gli manchi l’aria. Owen si stende nella cuccetta. Hanno avuto mare
  mosso in diverse occasioni, ma nulla di paragonabile
  ad oggi. La cabina oscilla paurosamente e Owen è di nuovo assalito dalla
  nausea, come non gli capitava da parecchi giorni. Anche rimanere disteso non
  basta a dargli sollievo. Il movimento della nave è sempre più violento e la
  nausea cresce. Insieme monta anche la paura. La nave resisterà alla tempesta?
  O l’oceano la inghiottirà? Owen sente che tra poco
  vomiterà. Non vuole farlo in cabina, perché l’aria diventerebbe
  irrespirabile. E forse stare un momento all’aperto gli farà bene. A fatica si
  alza, apre la porta, la richiude e sale. Appena ha raggiunto il ponte,
  spazzato dalla pioggia e dalle onde, il brusco movimento della nave lo fa
  cadere. Cerca di aggrapparsi, ma non trova un appiglio. Rotola. Gli pare di
  precipitare nell’abisso. Finirà in mare. È perduto. Owen non vede nulla,
  accecato dall’acqua. Sente solo che qualche cosa lo trattiene.  L’onda passa. A bloccarlo è un braccio,
  mentre la voce di Hagen gli sibila all’orecchio: - Testa di cazzo! Vuole
  ammazzarsi? Hagen lo solleva. Owen vomita, più volte. Hagen lo regge, impedendogli di cadere di nuovo, gli
  tiene una mano sulla testa. Quando i conati si sono calmati, Hagen lo trascina fino alla sua cabina. Lo fa entrare, lo
  aiuta a mettersi a letto e gli dice: - Non metta più il naso
  fuori. Ha capito? Owen annuisce. - Grazie. Mi scusi. - Ha bisogno di qualche
  cosa? - No, grazie. Hagen esce senza dire altro. Owen chiude gli occhi. È
  esausto. Si è comportato da idiota. Per fortuna Hagen
  era presente e gli ha salvato la vita.  La tempesta si calma nella
  notte. Quando spunta l’alba, la
  costa americana è ormai visibile.  Owen si alza dalla
  cuccetta e sale sul ponte. Immediatamente si accorge di una grande agitazione
  tra i marinai. Pensa che sia dovuta all’aver infine raggiunto l’America, ma
  la causa è un’altra: Heighter accusa un marinaio,
  Walter Crane, di aver cercato di ucciderlo durante
  la tempesta. Il marinaio nega, dice di essere finito addosso a Heighter per aver perso la presa e di non aver avuto
  nessuna intenzione di spingerlo in mare. Owen si dice che il
  marinaio verrà consegnato alle autorità sull’isola di Terranova, visto che la
  costa non è lontana e di sicuro si fermeranno a St. John’s
  per far rifornimento prima di proseguire il viaggio. Ma il processo si tiene
  sulla nave, il giorno stesso, in pochi minuti. Lawrence condanna Crane a morte. Lo sgomento di Owen
  diventa ancora maggiore quando scopre che Crane
  verrà impiccato in giornata. Un’ora dopo
  l’equipaggio assiste, in un silenzio di piombo, all’impiccagione del
  marinaio. Quando gli mettono il cappio al collo, Crane
  maledice Heighter e gli augura di crepare presto. Heighter segue l’agonia di Crane
  con un ghigno di soddisfazione stampato in faccia. Quando Crane
  ha finito di agitarsi e il suo cadavere dondola ancora solo per il movimento
  della nave, il capitano si rivolge ai marinai: - Chiunque di voi può
  essere il prossimo. Badate a quello che fate.  Il senso di oppressione
  che Owen avverte diventa ogni giorno più forte. Owen vorrebbe scendere a
  Terranova. Nessuno lo tratterrebbe, nessuno fa caso a lui. A fermarlo è la
  coscienza che non avrebbe neppure di che pagarsi il viaggio di ritorno. Quando ripartono da St.
  John, costeggiando Terranova verso Nord, il capitano invita Owen a cenare con
  lui. Owen è stupito: Lawrence lo ha sempre ignorato, perché mai adesso
  d’improvviso diventa così gentile da invitarlo? La cena è certamente
  migliore di quella a cui Owen si è abituato, il capitano è cordiale. Owen si
  chiede se non ha valutato in modo sbagliato Lawrence: in fondo la severità è
  necessaria per controllare l’equipaggio in un viaggio così impegnativo.
  Eppure i tanti episodi a cui ha assistito indicano una buona dose di ferocia
  nel capitano. Il capitano si fa
  raccontare da Owen come mai ha accettato di viaggiare, nonostante la sua
  mancanza di esperienza per mare. Owen spiega che non è stata una scelta. Dopo cena rimangono a
  parlare. - Adesso incomincia la
  parte più difficile del viaggio. Dobbiamo partire senza attendere che i
  ghiacci si siano sciolti completamente, non possiamo perdere tempo prezioso , anche se quei cagasotto della
  ciurma vorrebbero aspettare l’estate. L’idea certo non piace ad Owen, ma non può farci nulla. Il capitano gli poggia una
  mano sulla sua e dice: - Ma non ti preoccupare, ragazzo. Sei in buone mani.  Owen guarda la grossa mano
  del capitano, il dorso coperto da una leggera peluria bionda. Ha capito, anche
  se spera di aver frainteso. Alza il viso e risponde, incerto: - Grazie, signor capitano. Il capitano si alza e si
  mette davanti a lui. Owen vorrebbe alzarsi, ma il capitano è talmente vicino
  che incombe su di lui. - Alzati. Il tono di voce è cambiato. Owen si alza ed il capitano lo afferra. - Mi lasci! Mi lasci! - Su, piantala,
  troietta! Lo vuoi anche tu. Le mani del capitano
  stanno già aprendogli la giacca. - Mi lasci! Owen ha urlato. Il
  capitano si stacca e lo guarda, ostile. - Bada, ragazzo, il viaggio
  è lungo ed i pericoli sono tanti. Vattene, ora, ma
  pensa a quello che fai. La minaccia è ben chiara.
  Owen esce precipitosamente e si rifugia nella sua cabina. Non si guarda
  intorno, ma gli pare di scorgere Hagen con le
  spalle alla murata. In camera Owen si stende
  sul letto e chiude gli occhi. Mille pensieri gli attraversano il cervello. Sa di desiderare gli
  uomini, anche se non ha mai avuto rapporti e non se lo è mai detto
  esplicitamente. Il capitano è un bell’uomo, ma un rapporto imposto gli
  ripugna. E il capitano stesso gli appare detestabile.
  La sua vita è nelle mani del capitano. Quando saranno più a nord, che cosa
  succederà? Quell’uomo può liberarsi di lui in mille modi, se non si piega ai
  suoi desideri. Il capitano non fa più
  cenno a quanto è successo. Sembra ignorare Owen, che si sente sollevato, ma
  sa che è solo un rinvio. La nave si dirige verso il
  Nord, tenendosi abbastanza vicino alla costa. Ogni tanto incrociano grandi
  iceberg. Owen osserva sbalordito quelle montagne di ghiaccio azzurrino che si
  muovono silenziose verso il Sud. Le segue finché scompaiono all’orizzonte o
  vengono nascoste da una sporgenza della costa. Più volte avvistano balene che
  paiono accompagnare la nave per un tratto di percorso. La costa è coperta di
  foreste, ma pochissimi sono gli insediamenti umani: piccoli villaggi di
  indiani o, più a nord, di esquimesi. I giorni passano. Nulla
  sembra mutato. Owen incomincia a sperare che il capitano abbia cambiato idea.
  Di certo, se ha rinunciato al suo progetto, si vendicherà del rifiuto di
  Owen. Le giornate si allungano, ma le temperature non salgono, anche se ormai
  la primavera ha lasciato il posto all’estate. Le foreste diventano più rare e
  infine vengono sostituite dalla tundra. Ormai non vi è più nessun segno di
  vita umana lungo la costa. Le notti sono brevissime, poco più di un lungo
  tramonto. I giorni interminabili. Sulla nave c’è un silenzio innaturale. Owen
  si dice che è un silenzio di morte. Owen effettua le sue
  rilevazioni. Dovrebbe scendere a terra, per raccogliere altri dati, ma il
  capitano non sembra intenzionato a fermarsi. Owen chiede consiglio a Hagen, che gli dice di non sognarsi nemmeno di parlarne,
  se non vuole essere abbandonato a terra. Owen sa che al suo ritorno
  avrà dei problemi con la Società per non aver svolto per intero il suo
  compito, ma questo gli sembra il meno. Non sa nemmeno se tornerà, se non
  verrà violentato. Al diavolo la Società Scientifica! Dopo alcuni giorni di
  navigazione tranquilla, avanzare diventa difficile. Grandi blocchi di
  ghiaccio coprono ancora buona parte della superficie del mare e il rischio di
  rimanere bloccati o danneggiare lo scafo è forte. La tensione sulla nave sale
  ancora quando il capitano impone di proseguire, nonostante la situazione. Gli
  uomini mugugnano: vorrebbero aspettare che i ghiacci si sciolgano.  Diversi marinai vengono
  puniti per mancanze vere o presunte. La disciplina sembra diventare ogni
  giorno più severa, per spezzare ogni resistenza. Heighter
  è sempre presente, pare che non dorma mai, non tollera la minima distrazione,
  il ritardo più insignificante nell’eseguire i suoi ordini.  Ad Owen la sua presenza appare sempre più
  demoniaca. Hagen a volte interviene, cercando di
  mediare, ma Lawrence dà sempre ragione a Heighter.
  Non c’è un buon rapporto tra Lawrence e Hagen. La nave si infila nello
  Stretto di Hudson, tra la Terra di Baffin e la costa canadese. La navigazione
  è molto lenta, perché in alcuni tratti il canale è ancora parzialmente
  ostruito dai ghiacci e occorre procedere con cautela. Dopo due giorni scoppia
  una nuova tempesta. È assai meno violenta di quella che ha investito la nave
  nell’Atlantico, ma Owen preferisce rimanere in
  cabina. Quella notte Heighter scompare. Il mattino dopo non lo si trova più.
  Lawrence e Hagen provvedono ad
  un’inchiesta. Tutti gli uomini devono presentarsi sul ponte e vengono
  interrogati. Nessuno ha visto nulla. Nessuno sa nulla. Fin verso l’una Heighter era sul ponte, poi è scomparso. Non è certo scivolato per
  errore in acqua, questo è chiaro a tutti: un ufficiale esperto come lui non si
  sarebbe fatto sorprendere da un’onda. Qualcuno deve averlo ammazzato,
  buttando poi il cadavere tra i ghiacci.  Lawrence ammonisce la
  ciurma e raddoppia la vigilanza. A tratti appare ancora più feroce di Heighter. Se Hagen prende le
  difese di qualche marinaio, Lawrence lo insulta davanti a tutto l’equipaggio.
  Una volta minaccia di farlo impiccare perché cerca di opporsi al suo ordine
  di dare cinquanta frustate ad uno degli uomini.
  Un’altra lo colpisce al viso. Hagen non reagisce. Il senso di oppressione di
  Owen aumenta ogni giorno che passa. Pochi giorni dopo, nel
  pomeriggio un marinaio avvisa Owen che il capitano lo invita a cenare nella
  sua cabina. Gli comunica l’ora ed esce. Non è un invito, Owen lo sa
  benissimo. È un ordine. Il capitano non lo invita per il piacere della sua
  compagnia. O, meglio: lo invita per il piacere della
  sua compagnia, ma non della sua conversazione. Che cosa vuole Lawrence, Owen
  lo sa benissimo. Adesso la scelta è tra accettare quella che di fatto è una violenza e rischiare di morire, magari
  abbandonato lungo la costa con qualche pretesto. Owen si chiede che cosa
  fare. Non vuole questo rapporto. È meglio far sapere a Lawrence che non
  intende cenare con lui? O presentarsi e poi rifiutare? Che cosa è peggio? Di subire la violenza non ha nessuna intenzione.
  Potrebbe parlarne con Hagen? Hagen
  è scostante e Owen si vergognerebbe a esporre il suo problema. Che cosa
  potrebbe fare Hagen? Il capitano non lo ascolta. Owen si sente angosciato,
  ma non ci sono vie d’uscita. Decide di presentarsi a cena. Cercherà di
  parlare al capitano. Lawrence lo accoglie
  sorridendo, il sorriso del lupo che ha trovato la preda. - Hai fatto bene a venire,
  ragazzo. Sei stato saggio. Lawrence è convinto che
  Owen si sia rassegnato. Forse ha fatto male ad accettare l’invito, avrebbe
  dovuto rifiutare.  Appena la cena è finita e
  il marinaio di servizio ha portato via i piatti, Lawrence ghigna e dice: - Bene, adesso passiamo a
  quello che ci interessa di più. Si avvicina a Owen, che
  dice: - Capitano, io… Lawrence gli ha già messo
  le mani addosso. Owen cerca di difendersi, ma il capitano è un ercole.  - E piantala, lo vuoi
  anche tu! Malgrado la sua resistenza, in un attimo Owen si
  trova steso sulla cuccetta, mentre il capitano cerca di calargli i pantaloni. In quel momento la porta
  si apre e un gruppo di marinai irrompe nella cabina. Si precipitano su
  Lawrence. Per un attimo Owen pensa che siano venuti in suo soccorso. È libero, si rialza, si rassetta gli abiti. Ad un passo da lui c’è una mischia
  feroce: il capitano sta lottando contro gli uomini che lo stringono. Owen
  vede che alcuni di loro hanno un coltellaccio. Intuisce e arretra, fino a
  toccare la parete. In quel momento Lawrence
  emette un suono, una specie di sordo grugnito. L’hanno colpito. Si dibatte
  ancora, nonostante la ferita. Un rumore secco. Un secondo grugnito. Owen
  sente che le gambe non lo reggono più. Il capitano lotta, ma non riesce più a
  difendersi. Un terzo e poi un quarto colpo. Due suoni sordi. Una bestemmia.
  Ancora altri colpi, gemiti, un urlo di gioia. Uno dei marinai si volta e
  vede Owen. - Adesso facciamo fuori
  anche questa troia. Owen apre la bocca, ma il
  terrore gli toglie la parola. E in ogni caso, che cosa potrebbe dire per
  cercare di fermarli? In quel momento la porta
  della cabina si apre e Hagen entra. - Che è successo? Cazzo!
  Lo avete ammazzato! - Sì, questo figlio di
  puttana ha smesso di rompere i coglioni. I marinai si sono scostati
  e sul pavimento, in un lago di sangue, giace il capitano, bocconi. Si muove:
  non è ancora morto, ma lo sarà presto. Lawrence si tiene il ventre con la
  sinistra ed il braccio destro è teso in avanti. La
  mano si contrae, come se volesse afferrare qualche cosa. Owen fissa quella
  mano coperta di sangue, paralizzato. Blackbridge aggiunge: - E ora sbudelliamo anche
  la sua troia. Owen guarda il marinaio.
  Non c’è via di scampo. Ma Hagen interviene: - No, non ha fatto niente. Owen ascolta. Un barlume
  di speranza si accende in lui. Hagen ha un notevole
  ascendente sui marinai: se lo difende, forse lo ascolteranno. Sempre che i
  marinai non decidano di uccidere anche Hagen, in
  quanto ufficiale. Ross insiste: - Se lo lasciamo vivo, ci
  denuncia. La replica di Hagen spegne ogni speranza di Owen: - Allora lo molliamo su
  una scialuppa. Abbandonato su una
  scialuppa, come successe a Hudson. Tanto vale che lo ammazzino subito. - Tu vatti a vestire,
  ragazzo, ti molliamo qui, tanto in un amen sei a terra. Certo, in un amen Owen
  sarà a terra. E poi? Nessun insediamento per centinaia e migliaia di miglia.
  Nessuna idea di dove dirigersi. Nessuna speranza. Sulla nave c’è una grande
  agitazione. I marinai vanno avanti e indietro. Owen scende in cabina e si mette gli abiti più pesanti. Prende il poco che può
  servirgli. Avrebbe bisogno di ben altro: cibo, strumenti, armi, carte. Ma ha
  solo una carta in cabina e di certo non gli permetteranno di procurarsi il
  necessario. Quando torna sul ponte,
  vede il cadavere del capitano. Rabbrividisce. I marinai sono tutti intorno.
  Alcuni ghignano, altri lo maledicono, qualcuno tace guardandolo. Lawrence ha
  uno squarcio alla gola e giace in una pozza di sangue: lo hanno sgozzato sul
  ponte, per mettere fine all’agonia. - Lo gettiamo ai
  pescecani? - Io lo appenderei per il
  collo. Ho voglia di vederlo dondolare mentre navighiamo. - Se incrociamo una nave,
  siamo fottuti. Meglio farlo sparire subito. - Sì, David ha ragione. Owen rimane in disparte.  Uno dei marinai lo vede e
  dice: - E quello? Conviene farlo
  fuori. Li buttiamo in mare assieme. - No, Hagen
  dice di abbandonarlo su una scialuppa. Può remare fino a casa. Tutti ridono. Hagen arriva in quel momento.  - Preparate la scialuppa,
  che io intanto sistemo le ultime cose. Ritorna dopo un momento
  con due borse in mano, quelle di Owen, e le mette nella scialuppa che gli
  uomini si apprestano a calare. - Adesso gli diamo i suoi
  strumenti, così può fare le sue rilevazioni. Owen guarda Hagen: non si aspettava da lui quella crudeltà. Che se ne
  farà dei suoi strumenti? Un peso inutile. Lo mandano a morire e ancora lo
  prendono in giro. I marinai ridono. - Sali, ragazzo. Owen non dice nulla: sa
  che sarebbe del tutto inutile. Sale sulla scialuppa. Hagen
  dà ordini e la fa calare in acqua. - Aspettate ancora un
  momento. Hagen scompare una seconda volta e ritorna
  poco dopo, con un’altra borsa ed un fucile. Con la
  scala di corda scende nella scialuppa. Poi scioglie la gomena e
  dice, piano: - Rema in fretta verso
  quegli scogli, dacci dentro, se non vuoi crepare subito. Owen non capisce, ma ha
  afferrato i remi e incomincia a darsi da fare. Dalla nave qualcuno
  chiede. - Hagen,
  che cazzo fa? - Lo accompagno.
  Cavatevela da soli, io con voi non c’entro. C’è qualche imprecazione. Hagen ha un fucile in mano e guarda la nave. Sta
  controllando che qualcuno non prenda un’arma per
  sparare su di loro. Intanto ripete, tra i denti, piano: - Dacci dentro, prima che
  si rendano conto. Owen rema con energia. Non
  capisce che cosa stia succedendo, ma l’idea di non rimanere da solo, di
  essere con Hagen, gli dà sollievo. Hanno quasi raggiunto gli
  scogli, quando dalla nave si alza un clamore. Hagen
  si china e prende gli altri due remi. Incomincia a remare anche lui. Si
  sentono alcuni spari, ma rapidamente la barca vira oltre i roccioni affioranti e scompare nell’estuario di un
  piccolo fiume. - È meglio che ci
  spingiamo verso l’interno il più possibile, per essere sicuri che non ci
  vengano a cercare. - Perché dovrebbero
  cercarci? - Perché, sapendo che
  abbiamo provviste, munizioni, carte ed armi, hanno
  paura che possiamo salvarci e non vogliono finire impiccati. Provviste, munizioni,
  carte, armi? Dove diavolo sono tutte quelle cose? Hagen gli legge nella testa, perché dice: - Penserai mica che abbia davvero preso i tuoi fottuti strumenti? Li
  ho gettati a mare. Ci serve ben altro per cercare di reggere per qualche
  tempo da queste parti. Owen di certo non rimpiange
  i suoi strumenti. L’idea di avere il necessario per sopravvivere in quelle
  terre lo solleva, ma è soprattutto la presenza di Hagen
  a lenire la sua angoscia. Remano per una mezz’ora,
  senza parlare, poi, su indicazione di Hagen,
  accostano dietro alcune rocce. - Non ci verranno a
  cercare fin qui. Comunque rimaniamo in guardia. È ormai quasi notte, la breve notte
  artica.  - Se vuoi riposare,
  stenditi e dormi. Io rimango di guardia. Owen scuote la testa: è
  troppo agitato per pensare di dormire. Guarda Hagen. - Crede che… ce la faremo? - Owen, voglio essere
  chiaro con te: non sarà facile. Ci vorrà un mese, forse due, di marcia per
  arrivare fino ad un insediamento inglese. E i
  pericoli sono infiniti. Non abbiamo cani da slitta per muoverci e solo un
  telo per costruire una tenda di fortuna. Che non è molto per sopravvivere a
  questa latitudine. Owen annuisce.  E poi la domanda gli viene
  alle labbra: - Perché? - Perché che cosa? - Perché non è rimasto
  sulla nave? Hagen sorride. È la prima volta che Owen lo vede
  sorridere. Il suo viso diventa meno truce. - Perché non potevo
  accettare che ti ammazzassero. E poi, anche se detestavo Lawrence, non sono
  un assassino. Rimanere con loro, significava diventare loro complice,
  accettare di raccontare che Lawrence era morto di malattia o scomparso in una
  tempesta o cose del genere. No, non mi va bene. - Grazie. È la seconda
  volta che mi salva la vita. - Magari avrai l’occasione
  di salvarla tu a me, Owen. Dopo un attimo di pausa, Hagen aggiunge: - Mi chiamo Vincent. - Grazie, Vincent. Più tardi Owen si stende e
  dorme. Vincent lo sveglia dopo qualche ora, quando è di nuovo giorno. Prima
  di lasciare il posto in cui si sono fermati, Vincent cammina lungo la riva
  del fiume fino a un punto in cui si vede il mare. La nave è scomparsa. Hanno
  rinunciato a cercarli, convinti che non riusciranno a sopravvivere. Vincent tira fuori il
  materiale. Fa vedere a Owen dove sono e dov’è la base inglese più vicina:
  Fort Chimo, della Compagnia della Baia di Hudson. Si dividono
  il materiale da portare. Lasciano alcune cose che sarebbero utili, ma
  rallenterebbero troppo il loro cammino. Abbandonano anche la barca: non
  possono tornare via mare. Owen guarda il territorio,
  in prevalenza pianeggiante, che si stende davanti a loro. Si sente sgomento,
  ma non c’è altra via. La marcia è lenta. Si
  fermano per cacciare qualche animale, per raccogliere uova nei nidi delle
  sterne, per mangiare alcuni frutti che paiono commestibili. Ogni sera devono
  cercare sistemazioni adatte per la notte, che offrano un minimo di
  protezione. Per fortuna nei primi giorni non piove e non nevica, anche se il
  cielo è spesso nuvoloso. Non è rimasta molta neve sul terreno, si può
  precedere bene. Vincent controlla
  continuamente carta e bussola, ma non sempre possono seguire la via più
  breve: il terreno presenta rilievi, non alti, ma
  sufficienti a imporre deviazioni; un problema ancora più serio è costituito
  dai corsi d’acqua, tutti fortunatamente di dimensioni molto ridotte, ma non
  sempre facilmente attraversabili.  A tratti Owen si
  scoraggia, ma Vincent lo rassicura: gli dice che ce la faranno, che non deve
  cedere. Appare molto diverso da com’era sulla nave, più cordiale e attento
  alle esigenze di Owen, anche se ugualmente taciturno.  Al suo fianco Owen scopre
  presto di sentirsi sereno, per quando angosciosa possa essere la loro
  situazione. Nei primi giorni non si
  imbattono in animali pericolosi. Il sesto giorno però incontrano
  un orso polare che viene nella loro direzione. L’animale non è lontano.
  Entrambi prendono il fucile ed attendono, senza
  muoversi. L’orso si avvicina. Owen
  ha l’impressione che il cuore voglia uscirgli dal petto. Vincent gli parla: - Rimani dietro di me,
  Owen, ma tieniti pronto. Se sparo io, spara anche
  tu. E non sbagliare il colpo.  Facile a dirsi: da ragazzo
  Owen cacciava con il padre e sa usare discretamente un fucile, ma non è certo
  un tiratore esperto. Nonostante questo, è contento che Vincent avesse un
  secondo fucile nella borsa: il non sentirsi disarmato lo aiuta a contenere
  l’ansia. Rimangono immobili, mentre
  la distanza che li separa dalla bestia si riduce. Vincent aggiunge: - Se ci attacca e non
  riusciamo a fermarlo sparandogli, allontanati quando mi salta addosso. Owen non dice nulla, ma
  non ha nessuna intenzione di abbandonare Vincent. Ad un certo punto l’orso si ferma e rimane
  un buon momento a guardarli, poi gira la testa e prosegue il suo cammino in
  un’altra direzione. Non si muovono finché l’animale non è molto lontano. Quando infine ritengono di
  potersi muovere senza pericolo, Owen si rende conto di non riuscire a stare
  in piedi. Si siede. Si vergogna un po’ davanti a Vincent, ma questi non dice
  nulla: si limita ad accarezzargli i capelli. I giorni passano. Owen si
  abitua all’interminabile marcia. A tratti si chiede se saprebbe ancora
  immaginarsi una vita che non sia una successione di spostamenti, carta e
  bussola alla mano. Durante la marcia parlano
  solo quando è necessario. Durante le soste incominciano pian piano a
  conoscersi. Vincent racconta brevemente a Owen della sua vita in marina. Ha
  trentadue anni e non ha una famiglia. Owen parla di sé. Tra loro nasce
  lentamente un’amicizia.  Owen è cosciente anche di
  un’altra sensazione, un desiderio confuso che sta prendendo forma in lui.  Lo scopre quando si lavano
  a un piccolo corso d’acqua. Non si spogliano completamente, perché fa troppo
  freddo, ma vedere Vincent a torso nudo lo turba profondamente e quella sera,
  mentre si abbandona al sonno, l’immagine ritorna ossessiva. Nella notte Owen
  sogna Vincent, immagina di abbracciarlo. Quando il piacere esplode, si
  sveglia. Vincent dorme accanto a lui. Owen prova vergogna. Nella luce incerta
  della tenda, Owen guarda il profilo del corpo di Vincent, ascolta il suo
  respiro pesante, ne sente l’odore. Non riesce a riprendere
  sonno.  La marcia procede senza
  grandi intoppi e Vincent appare ottimista. Secondo lui in una settimana o due
  saranno arrivati. La stanchezza però si
  accumula. Una sera Owen regge a fatica fino al momento in cui si fermano per
  la cena. È talmente stanco che non riesce a mangiare più di un boccone.
  Vincent scherza sul fatto che in questo modo risparmieranno sulle provviste, ma Owen gli legge in viso la preoccupazione. Ha
  imparato a conoscere Vincent, ha scoperto la sua umanità, dietro la maschera
  di durezza.  Il mattino dopo Owen non
  riesce ad alzarsi. È febbricitante. Vincent gli dice di non preoccuparsi.
  Rimane con lui tutto il giorno, sistemando meglio il loro accampamento, in
  modo da renderlo più sicuro e confortevole: costruisce un muretto di pietra,
  sistema il telo in modo che protegga completamente da un’eventuale pioggia.
  Gli dà da mangiare, imboccandolo. Lo assiste in tutte le sue necessità. La sera incomincia a
  piovere. I giorni passano. Owen è
  stremato. Vincent non si allontana da lui se non per procurarsi il cibo ed
  esplorare l’area, apportando nuovi miglioramenti al loro accampamento. Owen scherza, chiedendogli
  quando costruirà un letto a baldacchino. Vincent risponde che lo farà non
  appena troverà un albero e un’accetta. 
   Owen si rende conto che stanno perdendo giorni preziosi, ma non è in grado di
  camminare. La febbre cala. Lentamente
  Owen recupera le forze. Vorrebbe partire, ma Vincent si oppone: Owen non è in
  grado di affrontare una lunga marcia. Deve riprendersi completamente. Meglio
  rimanere più a lungo in un rifugio che offre una discreta sicurezza e
  protezione dalle intemperie e dagli animali feroci, piuttosto che procedere
  lentamente. Quando infine Owen si
  sente bene, si mette nuovamente a piovere. Vincent dice che partiranno il
  giorno seguente. La pioggia cade sul telo,
  ma l’interno del rifugio è perfettamente asciutto.  - L’hai trasformato in un
  posto davvero accogliente, Vincent. Vincent sorride. - Temo però che per
  l’inverno artico non sia sufficiente. Owen esita un attimo. - Ce la faremo,
  Vincent? - Sì, a questo punto sì.
  Non siamo più lontani e tu ti sei ripreso. - Non è troppo tardi? Non
  abbiamo perso tempo prezioso? - No, non nevicherà
  ancora. Due settimane le abbiamo e per quell’epoca saremo arrivati. Vincent appare sicuro.
  Owen sa che anche lui ha dei dubbi, ma la sua serenità lo tranquillizza. Più tardi il sole torna a
  splendere, ma non vale più la pena di mettersi in marcia. La sera cuociono
  una lepre che Vincent ha ucciso. Nel rifugio il fuoco ha creato un gradevole
  tepore. Sono rimasti in camicia. Vincent pulisce ciò che hanno usato per
  mangiare. Owen lo aiuta. Ad un certo punto le loro
  mani si incrociano. Owen appoggia la sua su quella di Vincent e la stringe. Vincent alza il capo e lo
  guarda. Il gesto di Owen è stato
  del tutto istintivo e non era altro che un segno di affetto, un
  ringraziamento. Ma negli occhi di Vincent brilla un’altra fiamma e Owen sente
  il desiderio avvampare, improvviso. Il suo sorriso diviene incerto,
  ma Owen non lascia la mano di Vincent, finché questi non avvicina il
  suo viso e le loro labbra si incontrano. Si baciano, piano, timorosi,
  staccandosi quasi subito. Poi si baciano nuovamente, con trasporto, lasciando
  che il desiderio guidi i loro gesti. Vincent si stacca e si spoglia, rimanendo
  a torso nudo. Owen scorre le mani su quel torace possente. Poi anche lui
  inizia a spogliarsi, ma Vincent lo previene. È bello lasciare che le
  mani di Vincent gli sfilino gli indumenti. È bello sentirle sulla pelle,
  forti e delicate, come sa essere Vincent. È bello sentire di nuovo le labbra
  di Vincent sulle proprie. È bello lasciarsi avvolgere dall’odore maschio di
  Vincent. Le mani di Vincent non si
  fermano. Slacciano la cinghia, calano i pantaloni e ben presto Owen si
  ritrova nudo. Allora Vincent lo stringe forte tra le sue braccia,
  accarezzandolo.  Vincent lo stende sul
  giaciglio, poi finisce di spogliarsi. Owen lo guarda. Alto, imponente, lo
  sovrasta. Owen fissa il sesso teso, con la cappella purpurea, i coglioni
  ricoperti da una peluria bionda. Owen deglutisce. Di colpo gli pare di avere
  la gola secca. Vincent si stende su di
  lui, lo bacia ancora, mentre le sue mani lo accarezzano, scorrendo lentamente
  dalla testa alle cosce. Vincent mormora il suo nome. Owen risponde mormorando
  quello di Vincent. Altro non dicono. A lungo rimangono così, i
  due corpi stretti in un abbraccio. Ora i baci diventano morsi, le mani di
  Vincent stringono con forza, scendono dietro il culo di Owen, stuzzicano
  l’apertura.  - Lo vuoi,
  Owen? - Sì, Vincent. Vincent solleva un attimo
  la testa e lo guarda negli occhi. - Lo vuoi davvero? - Sì. È così. Owen lo desidera.
  Desidera che Vincent lo possegga. Vincent si solleva,
  mettendosi cavalcioni sul corpo di Owen e sedendosi sulle sue cosce. Lo accarezza,
  gli stuzzica i capezzoli stringendoli tra le dita, gli scompiglia i capelli.
  Poi abbassa il viso, lo bacia, gli spinge la lingua in bocca, gli accarezza
  il torace, morde prima un capezzolo, poi l’altro. Le sue mani avvolgono il
  sesso di Owen, un dito lo percorre, solleticandolo. Poi Vincent si bagna con
  la saliva il palmo della mano e lo passa sulla cappella. Owen sussulta.
  Vincent scivola indietro. China il capo. Sembra guardare affascinato il
  sesso. Con lentezza vi passa sopra la lingua, dai coglioni alla cappella.
  Owen ha un nuovo guizzo di piacere. Poi Vincent si solleva un
  po’, afferra i fianchi di Owen e lo guida a voltarsi a pancia in giù.  Owen sa che sta per
  avvenire. Lo desidera e lo teme. Si irrigidisce. Sente le dita di Vincent,
  umide, scorrere lungo il solco, poi allontanarsi e ritornare, indugiando un
  attimo sull’apertura. Un dito percorre l’anello, lentamente, spingendosi
  dentro. Owen sussulta.  La manovra viene ripetuta
  più volte. La tensione si allenta. Owen si abbandona al piacere che quel dito
  risveglia dentro di lui. Poi avverte un forte morso al culo, un secondo.
  Ride.  Vincent è su di lui, gli
  morde la spalla. E mentre Owen gli dice: - Se hai fame, c’è ancora un po’ di
  lepre – sente che Vincent sta entrando dentro di lui, lentamente. Vincent si ferma. Owen
  chiude gli occhi. Si tende nuovamente, ma Vincent lo accarezza e la tensione
  svanisce. Allora Vincent lentamente avanza, spingendo più a fondo. Carezze e
  morsi accompagnano l’avanzata. Owen geme. - Ti faccio male?  - No, no. Non è vero. Fa male. Ma
  quel dolore è anche piacere. Vincent si ferma. Le sue
  mani accarezzano la testa di Owen, poi scendono al culo. I suoi denti mordono
  una spalla, il lobo di un orecchio. La sua lingua scorre dietro l’orecchio,
  sul collo. Poi l’avanzata riprende e
  Vincent prende pieno possesso del territorio. Owen si abbandona completamente
  a lui. Vincent gli lascia un momento di respiro, poi inizia a muoversi avanti
  e indietro, mentre le sue mani accarezzano i capelli di Owen o forse li
  stringono. Owen sente il piacere
  crescere, più forte del dolore che avverte. Geme nuovamente. Vincent si
  ferma, poi riprende il movimento, a cui imprime ora un ritmo più deciso. Owen
  urla il nome di Vincent. Vincent non si interrompe,
  ma bacia il collo di Owen e la sua guancia. E infine, con una serie di
  spinte decise, che paiono durare un tempo infinito, Vincent viene dentro di lui. Ora che il sesso di
  Vincent perde volume e consistenza, il sentirlo dentro di sé è puro piacere. Vincent afferra Owen e si
  volta. Ora Owen è steso su Vincent, che gli sta stuzzicando i coglioni. Poi
  la sua mano afferra il sesso e incomincia ad accarezzarlo. Infine lo stringe,
  muovendosi rapidamente, fino a che il piacere esplode in un urlo. Owen sente
  un’esplosione dentro di sé e ondate di puro godimento che paiono
  attraversarlo tutto, mentre il suo seme si spande sul ventre e sul torace e
  uno schizzo raggiunge la barba.  Owen vorrebbe rimanere per
  sempre così: nulla esiste di più bello al mondo che rimanere disteso sul
  corpo di Vincent, sentirne in culo lo spiedo, essere avvolto tra le sue
  braccia. Ma è Vincent a scuoterlo. - Dobbiamo rivestirci, Owen. Fa freddo.  Owen non avverte il
  freddo, ma sa bene che, anche se nel rifugio c’è un certo tepore, non è
  saggio rimanere nudi. Si stacca da Vincent, che lo pulisce con cura, mentre
  lo bacia. Poi entrambi si rivestono. Nella notte dormono
  abbracciati.  Al mattino si svegliano entrambi eccitati,
  ma Vincent dice che devono partire. Bacia Owen e poi smontano il rifugio. La marcia riprende. Owen è
  in forze, anche se Vincent preferisce rallentare i tempi. Ogni sera ritornano
  ai loro giochi d’amore, ma di solito senza spogliarsi completamente, perché i
  rifugi di fortuna non sono altrettanto caldi. Dormono abbracciati e prima di
  addormentarsi Vincent stuzzica Owen raccontandogli ciò che gli farà la sera
  successiva. Una sera infine, dopo avergli sussurrato all’orecchio ogni tipo
  di oscenità, Vincent gli dice: - Owen, ti amo. È un’ondata di felicità, immensa,
  che lo investe e per un attimo lo lascia senza parole. Poi Owen mormora: - Anch’io ti amo, Vincent. Quella notte Vincent si
  alza ed esce dalla tenda per pisciare. Quando ritorna sveglia Owen. - Che c’è? - Vieni fuori, pigrone. Owen si stringe nel giaccone
  ed esce. Fuori il cielo è
  attraversato da una luce verde che lo riempie quasi completamente creando un
  disegno fantastico. Sulla nave Owen ha visto due volte l’aurora boreale, ma
  si è sempre trattato di una piccola area del cielo. Qui è l’intera volta che
  appare illuminata. Vincent lo stringe tra le
  sue braccia. Rimangono muti, a fissare il cielo, fino a che Vincent decide
  che è meglio rientrare. Lo bacia e si stendono a dormire. La meta non dovrebbe
  essere lontana, ma un giorno Owen nota che Vincent cammina a fatica. Owen è
  angosciato, chiede a Vincent come sta. Vincent dice che è solo un po’ di
  stanchezza. Nel pomeriggio Owen impone
  di fermarsi, sordo alle proteste di Vincent, che vorrebbe proseguire. Owen
  sistema il rifugio per la notte. Vincent non lo aiuta: è chiaramente
  stremato. Owen gli tocca la fronte: scotta. Probabilmente la stessa forma
  febbrile che ha avuto Owen. Owen si sente morire. Non
  ora, non ora che sono quasi alla meta. Non è possibile. Cerca di calmarsi, di
  dirsi che come è passata a lui, passerà a Vincent,
  che è ben più forte. Il mattino dopo Vincent
  cerca di alzarsi, ma non riesce.  - Ci fermiamo,
  Vincent. Come abbiamo fatto quando stavo male io. Qualche giorno e ti
  passerà. - Owen, è meglio che tu
  vada. Raggiungi il forte. Poi verrete a prendermi.  Owen non ne vuole neanche
  sentire parlare. Come ha fatto Vincent quando lui era malato, passa la
  giornata a sistemare meglio il rifugio. Il mattino dopo Vincent ha
  sempre la febbre molto alta. È agitatissimo. - Vattene, Owen, vattene. Il forte non deve essere lontano, pochi giorni di
  marcia e ci arriverai. Poi manderai i soccorsi. Owen sa benissimo che se
  tornasse con i soccorsi tra qualche giorno, non troverebbe vivo Vincent.
  Anche lasciandogli delle provviste, l’acqua e la legna per il fuoco a
  portata, non riuscirebbe a cavarsela e sarebbe facilmente preda del primo
  orso o di un branco di lupi. Owen non sarebbe sopravvissuto se fosse rimasto
  da solo durante la sua malattia. - No, no! Questa febbre
  passerà. Non ti preoccupare. Qualche giorno in più… - Qualche giorno in più è
  la morte. Può nevicare oggi stesso. Se incomincia a nevicare, sarà
  impossibile proseguire. Non siamo attrezzati. Vattene. Per Dio, Owen! Owen legge la disperazione
  negli occhi di Vincent. - Non ti lascerò, Vincent. Ci salveremo insieme o moriremo insieme. Vincent alza un braccio,
  con fatica. Gli accarezza il viso. - Owen, fallo per me,
  vattene, adesso. Owen scuote la testa. Più tardi aggiunge un po’ di
  legna sul fuoco. Deve andare a cacciare. Non vorrebbe lasciare Vincent da
  solo, ma è necessario procurarsi un po’ di cibo. - Io vado a caccia,
  Vincent. Non starò via a lungo. Vincent sorride - Addio, Owen,  - Perché dici addio? Vincent chiude gli occhi.
  Non risponde. Owen esce dalla tenda. Ha
  in cuore un presentimento di morte. Allontanandosi, si volta indietro a
  guardare la tenda. Non starà via a lungo, se non troverà rapidamente
  selvaggina, ritornerà, ma gli pare di avere un lupo che gli azzanna il cuore. Owen rimane nelle
  vicinanze. Spara a un coniglio, ma lo manca. Un secondo colpo va a segno ed un’anatra che si era posata al suolo non si rialza più. Owen raccoglie l’uccello e
  si dirige verso il rifugio. L’angoscia che lo attanaglia sembra decuplicarsi.
  Owen accelera il passo. Quando infine vede la tenda, scende di corsa lungo la
  collina. Tutto sembra a posto, ma Owen sa che non è così. Apre la tenda. È vuota. Owen urla,
  un urlo di disperazione. Si lancia fuori dalla tenda. Dov’è, dov’è? Vincent
  non può essere andato lontano, non riusciva a stare in piedi. Dove può
  essersi diretto? Verso il fiume, sì, per
  lasciarsi trascinare via dalle acque e morire senza che Owen possa trovarlo.
  Owen sente che le gambe non lo sorreggono, ma non c’è un secondo da perdere.
  Si lancia di corsa nella direzione del fiume. Non è lontano. No, no, no!
  Vincent non può averlo raggiunto. Non può! Corre disperatamente,
  il cuore dilaniato dall’angoscia. Non c’è traccia di Vincent. Owen vorrebbe
  urlare. Si volta, si guarda intorno. Poi, di colpo, gli sembra di vedere
  qualche cosa, tra i cespugli. Lancia un urlo e corre. Sì, è il corpo di
  Vincent, steso bocconi. Grida il nome di Vincent,
  un urlo di pura disperazione. Lo raggiunge. È inerte. Owen si china su di lui.
  Con le mani che tremano lo solleva. Lo sente ancora caldo. Si accorge di aver
  incominciato a piangere. Lo volta. Lo guarda. Vincent è
  ancora vivo. Owen lo abbraccia. Piange,
  non riesce a parlare. - Perché? Perché? Rimane inginocchiato a
  terra, stringendo il corpo di Vincent, che trema tra le sue braccia. La voce risuona
  improvvisa, alle sue spalle. - Avete bisogno di aiuto? Owen si volta, allibito.
  Due uomini lo stanno guardando.  Owen è seduto di fianco al
  letto su cui riposa Vincent. Il dottore della base è ottimista, dice che ci
  sono buone possibilità che superi la crisi, è molto
  forte. Owen ha paura, ma non l’avverte. Gli sembra di vivere in un tempo
  sospeso, in un vuoto di emozioni.  Ha risposto alle domande
  del responsabile della base, ha raccontato ciò che è successo sulla Count of Essex, ha spiegato come sono arrivati fino al luogo
  in cui alcuni uomini della compagnia li hanno trovati. Ma gli è sembrato che
  fosse un altro Owen a fare tutto ciò: è come se lui non si fosse mai mosso
  dalla camera in cui Vincent dorme un sonno da cui forse non si sveglierà mai.
   Le ore passano, ma Owen
  non saprebbe dire se è in quella camera da giorni,
  mesi, anni. La sua vita è sospesa, sull’orlo di un abisso. Ma un’unica cosa
  conta: che quell’abisso non inghiotta Vincent. Il tempo riprende a
  scorrere una mattina, quando Vincent apre gli occhi. Non subito, c’è un
  attimo in cui l’universo si ferma, mentre Vincent cerca di mettere a fuoco.
  Ma la prima parola che pronuncia Vincent restituisce un senso al mondo: - Owen! Owen gli prende la mano. - Vincent! Grazie a Dio! - Dove siamo? - Alla base di Fort Chimo.
  Un gruppo di otto uomini che stava tornando qui con un carico di pellicce ci
  ha trovato e raccolto. Dopo che tu hai fatto la follia di cercare di affogarti… Vincent sorride. È
  pallidissimo. - Ce l’abbiamo
  fatta ad arrivare! E tu non hai voluto saperne di lasciarmi al mio destino… - Direi che ho fatto bene,
  no? - Testa dura! Vincent sorride, poi
  aggiunge: - Non credevo che ce l’avremmo fatta, Owen. - A me hai sempre detto
  che ci saremmo riusciti. - Non volevo che ti
  scoraggiassi. Ma era un’impresa impossibile. Poi Owen chiama il
  responsabile della base, che interroga Vincent: ciò che Owen ha raccontato è
  gravissimo. Vincent risponde alle domande, confermando le parole di Owen e
  fornendo altri elementi. Nei giorni successivi
  Vincent riprende le forze in fretta. Tra una settimana dovrebbe arrivare la
  nave che assicura i rifornimenti al forte e carica le merci: Vincent e Owen
  vi saliranno per raggiungere Halifax e di lì la Gran Bretagna.  Parecchi anni sono
  passati. La Count of Essex non
  è mai tornata in Scozia, nessuno ne sa nulla. Probabilmente l’Atlantico l’ha
  inghiottita mentre i marinai cercavano di ritornare a casa o si è persa tra
  le isole canadesi e l’inverno l’ha stritolata nella sua morsa di ghiaccio. Il capitano Vincent Hagen ha compiuto diversi altri viaggi di esplorazione
  nell’Oceano Artico. È anche riuscito a trovare
  tracce della spedizione di John Franklin. Con lui viaggia sempre uno
  studioso, Owen Kintyre, che ha pubblicato diversi
  libri sulle loro esplorazioni e alcuni romanzi di avventura ambientati nel
  Grande Nord. Tutti i suoi testi hanno avuto un buon successo, ma il più amato
  dai lettori rimane il primo, il resoconto della spedizione sulla Count of Essex e della traversata a piedi fino a Fort Chimo.  Owen Kintyre
  ha sempre fornito resoconti veritieri, ma nel narrare quell’impresa e le
  successive, ha omesso diversi dettagli, per motivi
  che possono intuire i moderni lettori di questa veridica e più completa
  relazione. 2011  |