Passaggio a Nord-Ovest Owen Kintyre
percorre il lungo corridoio immerso nella penombra e raggiunge la stanza del
dottor McPherson. Esita un
attimo, poi bussa alla porta. Da dentro si sente la voce del dottore. - Avanti. Owen apre e saluta McPherson. - Siediti, Owen, siediti. La voce del dottore è
cortese, quasi melliflua. Owen si accomoda sulla sedia davanti alla grande
scrivania. McPherson gli fa i complimenti per la laurea. Owen
ringrazia ed attende. Sa che non l’hanno convocato
per fargli le congratulazioni. - Siamo orgogliosi di te,
Owen. Eravamo sicuri che ti saresti impegnato al massimo
per dimostrare di meritare l’aiuto che la Società ti ha dato e non hai
tradito le nostre aspettative. - Grazie, dottor McPherson. - Tuo padre sarebbe
contento di te, se potesse vederti. Owen annuisce. Se suo padre
fosse ancora vivo, Owen non avrebbe dovuto accettare l’aiuto della Società per poter completare gli studi, sopportando tutta una
serie di umiliazioni: gli hanno fatto pesare non poco i quattro anni di
studi, come se il denaro speso fosse stato un atto di grande generosità, ma
Owen sa benissimo che adesso presenteranno il conto. - Noi intendiamo
continuare ad occuparci di te, Owen. Un giovane
serio e studioso come te, merita tutto l’appoggio della Società. - Grazie, dottore, ma
avete già fatto molto. - E continueremo a fare.
Tu hai una vasta preparazione teorica, ma ti manca l’esperienza. Noi ti
daremo l’occasione di fartela. McPherson sorride, come se stesse per offrire ad Owen un meraviglioso regalo. - Sono a vostra
disposizione. Owen non può dire altro,
anche se taglierebbe volentieri i ponti con la Società. - Non è un’occasione da
poco, quella che ti offriamo. Tra tre settimane
partirà una spedizione per il Canada. La Count of Essex
esplorerà l’area dove dovrebbe trovarsi il passaggio a Nord-Ovest. Owen si sente gelare.
L’ultima spedizione, quella di sir John Franklin, è svanita nel nulla. Non ne
è stata ritrovata traccia, nonostante alcune ricerche: di certo tutti gli
uomini, circa 130, sono morti nell’inverno, di freddo e di stenti. McPherson prosegue: - Una grande occasione di
raccogliere dati scientifici rilevanti: un viaggio come questo contribuirà a
darti fama e ti aprirà molte porte. Per un giovane come te è l’ideale. Molti
vorrebbero essere al tuo posto. Owen si dice che di certo
nessuno degli studiosi della Società vorrebbe essere al suo posto: non
manderebbero lui, se così fosse. Nessuno vuole rischiare di morire. McPherson finge di non accorgersi del silenzio di
Owen. Sa benissimo che la sua proposta è infame, ma sa altrettanto bene che
Owen non può dire di no. E infatti il giovane dice: - La ringrazio,
dottore. Il dottore fornisce alcune
indicazioni pratiche. Owen dovrà presentarsi al capitano della nave la
settimana prossima e preparare tutto l’occorrente per la partenza. Owen esce dallo studio del
dottore e si avvia lungo il corridoio. Quando raggiunge la porta
dell’edificio, si ferma. Gli pare di non essere in grado di affrontare la
luce primaverile che illumina la città. Vorrebbe tornare indietro, dire che
non intende partire, che non hanno il diritto di mandarlo a morire, che
sarebbe stato meglio non pagargli gli studi e lasciare che si guadagnasse da
vivere come impiegato, piuttosto che esporlo ai rischi della spedizione. Se fosse impiegato in
qualche ufficio pubblico o in una ditta, oggi non rischierebbe la vita.
Guadagnerebbe poco, ma che importa? Non ha molte esigenze. E magari
troverebbe il tempo per dedicarsi a scrivere, come ha sempre desiderato fare. Owen barcolla: gli sembra
di non riuscire a stare in piedi. Cerca di riprendersi: non vuole che il
custode si accorga del suo turbamento. Scende lentamente la scalinata. Dovrà
dirlo a sua madre. Owen sente una stretta al cuore. Era così contenta quando
lui si è laureato. Intravedeva per lui un futuro di ricercatore, di studioso,
anche solo di professore, che li avrebbe riscattati dalla miseria in cui
erano piombati negli ultimi anni, dopo la morte del padre. Per la
partecipazione alla spedizione Owen riceverà una discreta somma di denaro,
che permetterà a sua madre e sua sorella di vivere durante la sua assenza. Ma
se non dovesse tornare? E in ogni caso, come affronteranno
le due donne la sua lontananza, sapendolo in pericolo? Deve farsi forza,
nascondere la realtà e dire che la spedizione non presenta rischi, in modo
che sua madre non si preoccupi. Owen fa un lungo giro a piedi prima di
rientrare a casa sua. Sale al castello, passeggia
per le strade della città alta. Il movimento calma la sua agitazione. Quando
infine è sicuro di poter fingere, ritorna a casa. Sua madre lo accoglie
sorridendo. - Allora, che cosa ti ha
detto il dottore? - Mi hanno trovato un
lavoro. Il sorriso di sua madre si
allarga. Batte le mani, contenta. - Che bello! Che lavoro è?
Quando incominci? Owen sorride, cercando di
essere il più convincente possibile. - È una spedizione di
esplorazione. Avrò modo di studiare il clima, la flora e la fauna delle coste
settentrionali dell’America, raccogliendo dati interessanti. Il viso di sua madre
cambia espressione. Il sorriso svanisce. Ora appare inquieta. Owen si mette a
ridere, sperando di riuscire a essere convincente. - Perché fai quella
faccia? - Starai via a lungo.
Avevo sperato che tu avessi un lavoro qui in città…
e poi… non è pericoloso? - Il viaggio sarà lungo,
sì, certamente. Però sarà una bella esperienza. Pericoloso no, che pericoli
vuoi che ci siano? Non sono abbastanza grasso da farmi divorare dagli orsi
polari. Owen cerca di ridere alla
propria battuta. Sua madre sorride, ma non è contenta. Neanche Owen lo è, ma
c’è poco da fare: non può dire di no. Sale a bordo e si rivolge
al marinaio sul ponte. - Buongiorno, sono Owen Kintyre. Sono lo studioso che parteciperà alla spedizione
per conto della Società Scientifica. Vorrei presentarmi al capitano. L’uomo non gli dà il
benvenuto, non ricambia neppure il saluto. Si limita a fare un cenno in
direzione del castello, dicendo: - Il capitano è nella sua
cabina. Ma è occupato. Owen esita: - Ne avrà per molto? - Non so. - È con qualcuno? - No. - Non può chiedergli
quando è disponibile a ricevermi? - Non ama essere
disturbato. Owen esita. Che cosa può fare?
Tornare a casa e poi ripassare un altro giorno, rischiando magari di trovare
il capitano nuovamente occupato? Deve prepararsi per la partenza, non sta
andando a Londra: rimarrà via uno o due anni. Ha bisogno di avere
informazioni. Infine si dirige verso la
porta che gli è stata indicata. Al massimo il capitano gli dirà quando
tornare. Bussa. Una voce tuona: - Che cazzo c’è? Ho detto
di non rompermi i coglioni. Di bene in meglio. Owen dice, ad alta voce: - Sono
Owen Kintyre, lo studioso che segue la spedizione. Il tono della voce
tradisce l’impazienza. - Avanti. Il capitano è seduto al
tavolo. Non si alza. Lo squadra, dalla testa ai piedi. È un colosso, con
capelli e barba biondi. Davvero un gran bell’uomo, ma quegli occhi azzurri
sembrano di ghiaccio. Il capitano riprende a
esaminare le carte che ha sul tavolo, come se lui
non esistesse. Owen rimane a guardarlo, incerto su come comportarsi. Dopo
qualche minuto si schiarisce la gola e prova a dire: - La disturbo? - Puoi aspettare un
momento, no? Non vedi che sono occupato?! Owen respira a fondo. Non
si attendeva di essere accolto a braccia aperte, ma con un minimo di
cortesia, di civiltà, questo sì. Non gli ha neanche detto di sedersi. Passano altri minuti. Owen
vorrebbe andarsene. Infine il capitano solleva
lo sguardo. - Che cosa vuoi? - Volevo presentarmi,
visto che farò parte della spedizione. - Va bene, ti sei
presentato. C’è altro? Altro ci sarebbe: avere
qualche informazione in più sui tempi; sapere dove sarà alloggiato; avere una
conferma su ciò che deve portarsi dietro, oltre a ciò
che gli è già stato detto. Gli sarebbe piaciuto anche avere un sorriso di
incoraggiamento, visto che è il suo primo vero viaggio in mare, ma di certo è
pretendere troppo. Owen non trova le parole. Rimane zitto. Il capitano ora è
chiaramente irritato. - Non farmi perdere tempo.
Che cazzo vuoi? Owen inghiotte e dice: - Posso sapere dove
dormirò e che cosa devo portare con me? - O cazzo, ma non sei mai
stato su una nave!? Blackbridge! Il nome è urlato. Il
marinaio arriva subito. Non è quello che stava alla scaletta. - Blackbridge,
prenditi cura di questo rompicoglioni qui, ché io non ho tempo da perdere. E senza nemmeno salutare,
il capitano si rimette a consultare le carte. Escono dalla cabina. Il marinaio
lo guarda, aspettando che lui parli. Owen incomincia a dirgli che cosa
vorrebbe sapere, ma in quel momento dalla scaletta sale un uomo, con la
divisa da ufficiale. Anche lui, come il capitano, è robusto, ma meno alto.
Capelli e barba di un biondo rossiccio, un viso non bello, dai lineamenti
forti, occhi chiari il cui sguardo pare trapassare Owen. L’uomo si rivolge al
marinaio: - Va’
pure, Blackbridge. Me ne occupo io. Il marinaio saluta
l’ufficiale, che si rivolge a Owen. Ha una voce aspra, ma non è scortese: - Quindi lei è lo studioso
che si occuperà delle rilevazioni scientifiche. Owen fa cenno di sì. - Sì, sono venuto a
presentarmi. - Benvenuto a bordo. Io
sono il secondo, Vincent Hagen. Hagen è il primo a dargli un benvenuto,
l’unico. Owen gliene è grato, anche se lo sguardo duro dell’uomo lo mette in
soggezione. Hagen gli fa vedere la cabina: uno spazio
minuscolo, in cui non sarà facile fare stare la strumentazione che Owen deve
portarsi dietro. Owen chiede, ma non ci sono altri locali di cui può
usufruire, anche se la Società Scientifica è uno dei finanziatori della
spedizione. - Non so se riuscirò a far
star tutto. C’è poco spazio. - Siamo su una nave. Lei
ha a disposizione più spazio di chiunque altro, escluso il capitano. La voce è dura, come lo
sguardo. Owen è a disagio. Prima che abbia il tempo di chiedere altro, Hagen incomincia a fornirgli una serie di indicazioni
pratiche. Owen pone qualche domanda. L’ufficiale risponde in modo preciso ed
esauriente. Owen lo ringrazia. Vorrebbe ancora chiedergli dei rischi della
spedizione, ma lo sguardo dell’uomo non l’invoglia a insistere. Hagen è corretto ed abbastanza
cortese, ma non sembra esserci nessun calore umano in lui. Owen scende dalla nave angosciato. L’incontro con il capitano ha
aumentato le sue ansie. Che razza di viaggio sarà quello,
con un capitano villano ed arrogante, che lo ha trattato a pesci in faccia,
un secondo che non gli ha regalato neppure un sorriso? Che vita farà, a
bordo? La partenza avviene alla
fine della primavera. La nave attraverserà l’Atlantico fino a Terranova e poi
di lì navigherà verso Nord, non appena le condizioni climatiche lo
permetteranno. Sul ponte Owen guarda il
profilo della città allontanarsi e avverte un dolore cupo. Si chiede se rivedrà mai Edimburgo, sua madre, sua sorella, coloro che
gli vogliono bene. Nel migliore dei casi sarà di ritorno a fine autunno,
perché la nave non deve cercare il passaggio a Nord-Ovest, ma solo esplorare
alcune aree. Non è però da escludere che il viaggio duri più a lungo. Owen pensa che forse non
sarà mai di ritorno: non sarebbe né la prima, né l’ultima spedizione che si
perde tra i ghiacci del Canada. Owen volta le spalle alla costa, perché
guardare la città che svanisce in lontananza è troppo doloroso.
Il suo sguardo incrocia quello di Hagen. Per un
attimo gli pare di scorgere una scintilla di pena in quegli occhi chiari, ma
scompare subito. Nei primi giorni il mare è
mosso. Owen non ha mai affrontato lunghi viaggi per nave ed è subito preda del mal di mare. La nausea dura un giorno, in
cui Owen non riesce neppure a nutrirsi, poi si attenua, ma Owen fa fatica a
rimanere in piedi, si sente senza forze, la testa gli gira. Passa molto tempo nella sua cabina, dove un
marinaio ogni tanto gli porta il cibo. Chris Kildare
ha capelli rossi e occhi verdi. Quando, dopo quasi una settimana, incomincia
a sentirsi meglio, Owen parla un po’ con lui. - Quando raggiungeremo la
costa americana? - Non so, ci vogliono
ancora parecchi giorni. Dipenderà dalle condizioni del vento e del mare. Chris è giovane e sembra
amichevole. Owen chiede: - È un viaggio pericoloso? - Certo che lo è, da
quelle parti se capita qualche guaio e non si riesce a
tornare indietro si è fottuti. Di navi ne sono già scomparse
parecchie. Owen annuisce, senza
parlare: ha un groppo alla gola. Owen incomincia a
trascorrere più ore fuori dalla cabina. Si sta abituando al continuo rollio,
che ormai non gli dà più molto fastidio. Non ha quasi niente da fare: le sue rilevazioni
incominceranno quando saranno giunti a Terranova. Per il momento si limita a
registrare nel diario il passare dei giorni e a prendere nota di temperatura,
coordinate geografiche, direzione e velocità del vento. Owen guarda il mare. Non
ha mai attraversato l’Oceano, non gli è mai capitato
di non vedere da nessuna parte la terra. Mare, mare,
mare. Ora agitato dal vento, in grandi onde che fanno danzare la nave, ora
più calmo. Ora azzurro come il cielo sereno, ora di
un grigio plumbeo sotto un manto di nuvole, ora nero come la notte. Owen trascorre ore a
guardare incantato il movimento delle onde o le vele che il vento tende.
Scopre con stupore di amare questo mare sconfinato, di cui prima di partire
temeva la violenza. Altre volte la sua mente vaga,
sogna le avventure che vorrebbe scrivere. Owen assiste volentieri
anche alle manovre, che sono dirette dal capitano stesso o dai due ufficiali,
Hagen e Heighter. Heighter è un uomo forte, con larghe spalle e grandi
mani. Ha capelli di un rosso acceso ed un viso
butterato dal vaiolo. Appare infaticabile, sempre presente ovunque, sempre
attento a ciò che succede, sempre insoddisfatto di come i marinai svolgono il loro lavoro. La disciplina è molto
severa e già il secondo giorno che Owen passa sul ponte, vede frustare due
marinai per un errore di manovra, che Heighter
imputa a pigrizia e codardia. La punizione avviene sotto gli occhi degli
altri marinai, che appaiono impassibili, ma Owen coglie una forte tensione.
Non c’è certamente un clima sereno sulla nave. Man mano che i giorni
passano, la situazione sembra peggiorare. Il capitano è durissimo nei
confronti dei marinai. Non tollera nessun errore, il minimo sbaglio è punito
con la frusta. Più di una volta Owen lo vede minacciare qualche marinaio di
farlo impiccare. Heighter sembra divertirsi a
umiliare e ferire gli uomini dell’equipaggio. Owen lo evita il più possibile. Anche Vincent Hagen è molto severo ed esigente, ma ha rapporti migliori
con l’equipaggio. Owen, se ha bisogno di qualche cosa, chiede a Hagen, che gli procura ciò che gli serve e gli dà le informazioni necessarie. Però l’ufficiale è alquanto
scostante e non invoglia certo ad avviare una conversazione. Owen preferisce
evitarlo, perché gli incute timore. D’altronde abitualmente Hagen lo ignora, limitandosi a salutarlo quando si
incrociano per la prima volta nella giornata. Durante tutta la
traversata dell’Atlantico, il capitano non rivolge la parola ad Owen. Anche i marinai non si occupano di lui: solo con Kildare gli capita di scambiare due parole. Le punizioni corporali
sono all’ordine del giorno ed è quasi sempre Heighter
a fissarle: il capitano ha delegato a lui questo compito. Owen avverte l’odio
dei marinai nei suoi confronti. Un giorno, mentre stanno frustando uno degli
uomini, Owen sente un altro bestemmiare sottovoce e mormorare: - Pagherà anche questo,
quel figlio di puttana! Sono appena all’inizio del
viaggio. Che succederà quando navigheranno tra i ghiacci e dovranno
affrontare ogni giorno gravi pericoli e difficoltà? Come reagirà un
equipaggio che già ora sembra sul punto di esplodere? Per fortuna l’America non
è lontana: forse ritrovarsi a navigare lungo la costa rasserenerà il clima. Dopo un’ennesima
fustigazione, Owen chiede a Chris se su tutte le navi la
disciplina è così severa. Chris scoppia a ridere. - Nella marina la
disciplina è molto severa, ma non tutti i capitani sono come Lawrence. - In che senso? - Ha visto anche lei come
si comporta. Non gli va bene niente e al minimo errore, scatta subito una
punizione. - Certo che non è
piacevole essere agli ordini di un capitano così severo. - Nessuno vorrebbe
viaggiare con Lawrence. E Heighter è ancora… Una voce aspra li
interrompe: - Kildare,
tieni a freno la lingua. Hagen è dietro di loro. Owen non si è accorto
del suo arrivo. - Sissignore. Mi scusi, signore. Kildare si allontana. Hagen
fissa Owen. I suoi occhi sembrano volerlo trafiggere. - Signor Kintyre, in quanto passeggero di questa nave e membro
della spedizione, sarebbe doveroso che evitasse di sparlare degli ufficiali. Owen si sente a disagio
sotto quello sguardo ostile. Hagen sarà meglio di Heighter, ma non è certo una persona piacevole. - Non intendevo sparlare.
Mi scuso. La costa americana
dovrebbe apparire presto, ma una tempesta è in arrivo. Il mare è sempre più
mosso e Owen legge sui visi degli uomini una crescente preoccupazione. Ben
presto la pioggia incomincia a scendere, mentre il vento soffia impetuoso.
Owen è affascinato dal mare in tempesta, ma rimanere sul ponte è pericoloso e
Hagen gli intima di scendere in cabina e rimanerci.
Owen obbedisce. Nella sua stanzetta gli
sembra che gli manchi l’aria. Owen si stende nella cuccetta. Hanno avuto mare
mosso in diverse occasioni, ma nulla di paragonabile
ad oggi. La cabina oscilla paurosamente e Owen è di nuovo assalito dalla
nausea, come non gli capitava da parecchi giorni. Anche rimanere disteso non
basta a dargli sollievo. Il movimento della nave è sempre più violento e la
nausea cresce. Insieme monta anche la paura. La nave resisterà alla tempesta?
O l’oceano la inghiottirà? Owen sente che tra poco
vomiterà. Non vuole farlo in cabina, perché l’aria diventerebbe
irrespirabile. E forse stare un momento all’aperto gli farà bene. A fatica si
alza, apre la porta, la richiude e sale. Appena ha raggiunto il ponte,
spazzato dalla pioggia e dalle onde, il brusco movimento della nave lo fa
cadere. Cerca di aggrapparsi, ma non trova un appiglio. Rotola. Gli pare di
precipitare nell’abisso. Finirà in mare. È perduto. Owen non vede nulla,
accecato dall’acqua. Sente solo che qualche cosa lo trattiene. L’onda passa. A bloccarlo è un braccio,
mentre la voce di Hagen gli sibila all’orecchio: - Testa di cazzo! Vuole
ammazzarsi? Hagen lo solleva. Owen vomita, più volte. Hagen lo regge, impedendogli di cadere di nuovo, gli
tiene una mano sulla testa. Quando i conati si sono calmati, Hagen lo trascina fino alla sua cabina. Lo fa entrare, lo
aiuta a mettersi a letto e gli dice: - Non metta più il naso
fuori. Ha capito? Owen annuisce. - Grazie. Mi scusi. - Ha bisogno di qualche
cosa? - No, grazie. Hagen esce senza dire altro. Owen chiude gli occhi. È
esausto. Si è comportato da idiota. Per fortuna Hagen
era presente e gli ha salvato la vita. La tempesta si calma nella
notte. Quando spunta l’alba, la
costa americana è ormai visibile. Owen si alza dalla
cuccetta e sale sul ponte. Immediatamente si accorge di una grande agitazione
tra i marinai. Pensa che sia dovuta all’aver infine raggiunto l’America, ma
la causa è un’altra: Heighter accusa un marinaio,
Walter Crane, di aver cercato di ucciderlo durante
la tempesta. Il marinaio nega, dice di essere finito addosso a Heighter per aver perso la presa e di non aver avuto
nessuna intenzione di spingerlo in mare. Owen si dice che il
marinaio verrà consegnato alle autorità sull’isola di Terranova, visto che la
costa non è lontana e di sicuro si fermeranno a St. John’s
per far rifornimento prima di proseguire il viaggio. Ma il processo si tiene
sulla nave, il giorno stesso, in pochi minuti. Lawrence condanna Crane a morte. Lo sgomento di Owen
diventa ancora maggiore quando scopre che Crane
verrà impiccato in giornata. Un’ora dopo
l’equipaggio assiste, in un silenzio di piombo, all’impiccagione del
marinaio. Quando gli mettono il cappio al collo, Crane
maledice Heighter e gli augura di crepare presto. Heighter segue l’agonia di Crane
con un ghigno di soddisfazione stampato in faccia. Quando Crane
ha finito di agitarsi e il suo cadavere dondola ancora solo per il movimento
della nave, il capitano si rivolge ai marinai: - Chiunque di voi può
essere il prossimo. Badate a quello che fate. Il senso di oppressione
che Owen avverte diventa ogni giorno più forte. Owen vorrebbe scendere a
Terranova. Nessuno lo tratterrebbe, nessuno fa caso a lui. A fermarlo è la
coscienza che non avrebbe neppure di che pagarsi il viaggio di ritorno. Quando ripartono da St.
John, costeggiando Terranova verso Nord, il capitano invita Owen a cenare con
lui. Owen è stupito: Lawrence lo ha sempre ignorato, perché mai adesso
d’improvviso diventa così gentile da invitarlo? La cena è certamente
migliore di quella a cui Owen si è abituato, il capitano è cordiale. Owen si
chiede se non ha valutato in modo sbagliato Lawrence: in fondo la severità è
necessaria per controllare l’equipaggio in un viaggio così impegnativo.
Eppure i tanti episodi a cui ha assistito indicano una buona dose di ferocia
nel capitano. Il capitano si fa
raccontare da Owen come mai ha accettato di viaggiare, nonostante la sua
mancanza di esperienza per mare. Owen spiega che non è stata una scelta. Dopo cena rimangono a
parlare. - Adesso incomincia la
parte più difficile del viaggio. Dobbiamo partire senza attendere che i
ghiacci si siano sciolti completamente, non possiamo perdere tempo prezioso , anche se quei cagasotto della
ciurma vorrebbero aspettare l’estate. L’idea certo non piace ad Owen, ma non può farci nulla. Il capitano gli poggia una
mano sulla sua e dice: - Ma non ti preoccupare, ragazzo. Sei in buone mani. Owen guarda la grossa mano
del capitano, il dorso coperto da una leggera peluria bionda. Ha capito,
anche se spera di aver frainteso. Alza il viso e risponde, incerto: - Grazie, signor capitano. Il capitano si alza e si
mette davanti a lui. Owen vorrebbe alzarsi, ma il capitano è talmente vicino
che incombe su di lui. - Alzati. Il tono di voce è
cambiato. Owen si alza ed il capitano lo afferra. - Mi lasci! Mi lasci! - Su, piantala,
troietta! Lo vuoi anche tu. Le mani del capitano
stanno già aprendogli la giacca. - Mi lasci! Owen ha urlato. Il
capitano si stacca e lo guarda, ostile. - Bada, ragazzo, il
viaggio è lungo ed i pericoli sono tanti. Vattene,
ora, ma pensa a quello che fai. La minaccia è ben chiara.
Owen esce precipitosamente e si rifugia nella sua cabina. Non si guarda
intorno, ma gli pare di scorgere Hagen con le
spalle alla murata. In camera Owen si stende
sul letto e chiude gli occhi. Mille pensieri gli attraversano il cervello. Sa di desiderare gli
uomini, anche se non ha mai avuto rapporti e non se lo è mai detto
esplicitamente. Il capitano è un bell’uomo, ma un rapporto imposto gli
ripugna. Ed il capitano stesso gli appare
detestabile. La sua vita è nelle mani del capitano. Quando saranno più a
nord, che cosa succederà? Quell’uomo può liberarsi di lui in mille modi, se
non si piega ai suoi desideri. Il capitano non fa più
cenno a quanto è successo. Sembra ignorare Owen, che si sente sollevato, ma
sa che è solo un rinvio. La nave si dirige verso il
Nord, tenendosi abbastanza vicino alla costa. Ogni tanto incrociano grandi
iceberg. Owen osserva sbalordito quelle montagne di ghiaccio azzurrino che si
muovono silenziose verso il Sud. Le segue finché scompaiono all’orizzonte o
vengono nascoste da una sporgenza della costa. Più volte avvistano balene che
paiono accompagnare la nave per un tratto di percorso. La costa è coperta di
foreste, ma pochissimi sono gli insediamenti umani: piccoli villaggi di
indiani o, più a nord, di esquimesi. I giorni passano. Nulla sembra
mutato. Owen incomincia a sperare che il capitano abbia cambiato idea. Di
certo, se ha rinunciato al suo progetto, si vendicherà del rifiuto di Owen.
Le giornate si allungano, ma le temperature non salgono, anche se ormai la
primavera ha lasciato il posto all’estate. Le foreste diventano più rare ed infine vengono sostituite dalla tundra. Ormai non vi è
più nessun segno di vita umana lungo la costa. Le notti sono brevissime, poco
più di un lungo tramonto. I giorni interminabili. Sulla nave c’è un silenzio
innaturale. Owen si dice che è un silenzio di morte. Owen effettua le sue
rilevazioni. Dovrebbe scendere a terra, per raccogliere altri dati, ma il
capitano non sembra intenzionato a fermarsi. Owen chiede consiglio a Hagen, che gli dice di non sognarsi nemmeno di parlarne,
se non vuole essere abbandonato a terra. Owen sa che al suo ritorno
avrà dei problemi con la Società per non aver svolto per intero il suo
compito, ma questo gli sembra il meno. Non sa nemmeno se tornerà, se non
verrà violentato. Al diavolo la Società Scientifica! Dopo alcuni giorni di
navigazione tranquilla, avanzare diventa difficile. Grandi blocchi di
ghiaccio coprono ancora buona parte della superficie del mare ed il rischio di rimanere bloccati o danneggiare lo scafo
è forte. La tensione sulla nave sale ancora quando il capitano impone di
proseguire, nonostante la situazione. Gli uomini mugugnano: vorrebbero
aspettare che i ghiacci si sciolgano. Diversi marinai vengono
puniti per mancanze vere o presunte. La disciplina sembra diventare ogni
giorno più severa, per spezzare ogni resistenza. Heighter
è sempre presente, pare che non dorma mai, non tollera la minima distrazione,
il ritardo più insignificante nell’eseguire i suoi ordini. A Owen la sua presenza
appare sempre più demoniaca. Hagen a volte
interviene, cercando di mediare, ma Lawrence dà sempre ragione a Heighter. Non c’è un buon rapporto tra Lawrence e Hagen. La nave si infila nello
Stretto di Hudson, tra la Terra di Baffin e la costa canadese. La navigazione
è molto lenta, perché in alcuni tratti il canale è ancora parzialmente
ostruito dai ghiacci e occorre procedere con cautela. Dopo due giorni scoppia
una nuova tempesta. È assai meno violenta di quella che ha investito la nave
nell’Atlantico, ma Owen preferisce rimanere in
cabina. Quella notte Heighter scompare. Il mattino dopo non lo si trova più.
Lawrence e Hagen provvedono a un’inchiesta. Tutti
gli uomini devono presentarsi sul ponte e vengono interrogati. Nessuno ha
visto nulla. Nessuno sa nulla. Fin verso l’una Heighter
era sul ponte, poi è scomparso. Non è certo scivolato per
errore in acqua, questo è chiaro a tutti: un ufficiale esperto come lui non
si sarebbe fatto sorprendere da un’onda. Qualcuno deve averlo ammazzato,
buttando poi il cadavere tra i ghiacci. Lawrence ammonisce la
ciurma e raddoppia la vigilanza. A tratti appare ancora più feroce di Heighter. Se Hagen prende le
difese di qualche marinaio, Lawrence lo insulta davanti a tutto l’equipaggio.
Una volta minaccia di farlo impiccare perché cerca di opporsi al suo ordine
di dare cinquanta frustate a uno degli uomini. Un’altra lo colpisce al viso. Hagen non reagisce. Il senso di oppressione di
Owen aumenta ogni giorno che passa. Pochi giorni dopo, nel
pomeriggio un marinaio avvisa Owen che il capitano lo invita a cenare nella
sua cabina. Gli comunica l’ora ed esce. Non è un invito, Owen lo sa
benissimo. È un ordine. Il capitano non lo invita per il piacere della sua
compagnia. O, meglio: lo invita per il piacere della
sua compagnia, ma non della sua conversazione. Che cosa vuole Lawrence, Owen
lo sa benissimo. Adesso la scelta è tra accettare quella che di fatto è una violenza e rischiare di morire, magari
abbandonato lungo la costa con qualche pretesto. Owen si chiede che cosa
fare. Non vuole questo rapporto. È meglio far sapere a Lawrence che non
intende cenare con lui? O presentarsi e poi rifiutare? Che cosa è peggio? Di subire la violenza non ha nessuna intenzione.
Potrebbe parlarne con Hagen? Hagen
è scostante e Owen si vergognerebbe a esporre il suo problema. Che cosa
potrebbe fare Hagen? Il capitano non lo ascolta. Owen si sente angosciato,
ma non ci sono vie d’uscita. Decide di presentarsi a cena. Cercherà di
parlare al capitano. Lawrence lo accoglie
sorridendo, il sorriso del lupo che ha trovato la preda. - Hai fatto bene a venire,
ragazzo. Sei stato saggio. Lawrence è convinto che
Owen si sia rassegnato. Forse ha fatto male ad accettare l’invito, avrebbe
dovuto rifiutare. Appena la cena è finita e
il marinaio di servizio ha portato via i piatti, Lawrence ghigna e dice: - Bene, adesso passiamo a
quello che ci interessa di più. Si avvicina a Owen, che
dice: - Capitano, io… Lawrence gli ha già messo
le mani addosso. Owen cerca di difendersi, ma il capitano è un ercole. - E piantala, lo vuoi anche
tu! Malgrado la sua resistenza, in un attimo Owen si
trova steso sulla cuccetta, mentre il capitano cerca di calargli i pantaloni. In quel momento la porta
si apre e un gruppo di marinai irrompe nella cabina. Si precipitano su Lawrence.
Per un attimo Owen pensa che siano venuti in suo soccorso. È libero, si rialza, si rassetta gli abiti. Ad un passo da lui c’è una mischia
feroce: il capitano sta lottando contro gli uomini che lo stringono. Owen
vede che alcuni di loro hanno un coltellaccio. Intuisce ed
arretra, fino a toccare la parete. In quel momento Lawrence
emette un suono, una specie di sordo grugnito. L’hanno colpito. Si dibatte
ancora, nonostante la ferita. Un rumore secco. Un secondo grugnito. Owen
sente che le gambe non lo reggono più. Il capitano lotta, ma non riesce più a
difendersi. Un terzo e poi un quarto colpo. Due suoni sordi. Una bestemmia.
Ancora altri colpi, gemiti, un urlo di gioia. Uno dei marinai si volta e
vede Owen. - Adesso facciamo fuori
anche questa troia. Owen apre la bocca, ma il terrore
gli toglie la parola. E in ogni caso, che cosa potrebbe dire per cercare di
fermarli? In quel momento la porta
della cabina si apre e Hagen entra. - Che è successo? Cazzo!
Lo avete ammazzato! - Sì, questo figlio di puttana
ha smesso di rompere i coglioni. I marinai si sono scostati
e sul pavimento, in un lago di sangue, giace il capitano, bocconi. Si muove:
non è ancora morto, ma lo sarà presto. Lawrence si tiene il ventre con la
sinistra e il braccio destro è teso in avanti. La mano si contrae, come se
volesse afferrare qualche cosa. Owen fissa quella mano coperta di sangue,
paralizzato. Blackbridge aggiunge: - E ora sbudelliamo anche
la sua troia. Owen guarda il marinaio.
Non c’è via di scampo. Ma Hagen interviene: - No, non ha fatto niente. Owen ascolta. Un barlume
di speranza si accende in lui. Hagen ha un notevole
ascendente sui marinai: se lo difende, forse lo ascolteranno. Sempre che i
marinai non decidano di uccidere anche Hagen, in
quanto ufficiale. Ross insiste: - Se lo lasciamo vivo, ci
denuncia. La replica di Hagen spegne ogni speranza di Owen: - Allora lo molliamo su
una scialuppa. Abbandonato su una
scialuppa, come successe a Hudson. Tanto vale che lo ammazzino subito. - Tu vatti a vestire,
ragazzo, ti molliamo qui, tanto in un amen sei a terra. Certo, in un amen Owen
sarà a terra. E poi? Nessun insediamento per centinaia e migliaia di miglia.
Nessuna idea di dove dirigersi. Nessuna speranza. Sulla nave c’è una grande
agitazione. I marinai vanno avanti e indietro. Owen scende in cabina e si mette gli abiti più pesanti. Prende il poco che può
servirgli. Avrebbe bisogno di ben altro: cibo, strumenti, armi, carte. Ma ha
solo una carta in cabina e di certo non gli permetteranno di procurarsi il
necessario. Quando torna sul ponte,
vede il cadavere del capitano. Rabbrividisce. I marinai sono tutti intorno.
Alcuni ghignano, altri lo maledicono, qualcuno tace guardandolo. Lawrence ha
uno squarcio alla gola e giace in una pozza di sangue: lo hanno sgozzato sul
ponte, per mettere fine all’agonia. - Lo gettiamo ai
pescecani? - Io lo appenderei per il
collo. Ho voglia di vederlo dondolare mentre navighiamo. - Se incrociamo una nave,
siamo fottuti. Meglio farlo sparire subito. - Sì, David ha ragione. Owen rimane in disparte. Uno dei marinai lo vede e
dice: - E quello? Conviene farlo
fuori. Li buttiamo in mare assieme. - No, Hagen
dice di abbandonarlo su una scialuppa. Può remare fino a casa. Tutti ridono. Hagen arriva in quel momento. - Preparate la scialuppa,
che io intanto sistemo le ultime cose. Ritorna dopo un momento
con due borse in mano, quelle di Owen, e le mette nella scialuppa che gli
uomini si apprestano a calare. - Adesso gli diamo i suoi
strumenti, così può fare le sue rilevazioni. Owen guarda Hagen: non si aspettava da lui quella crudeltà. Che se ne
farà dei suoi strumenti? Un peso inutile. Lo mandano a morire e ancora lo
prendono in giro. I marinai ridono. - Sali, ragazzo. Owen non dice nulla: sa
che sarebbe del tutto inutile. Sale sulla scialuppa. Hagen
dà ordini e la fa calare in acqua. - Aspettate ancora un
momento. Hagen scompare una seconda volta e ritorna poco
dopo, con un’altra borsa e un fucile. Con la scala di corda scende nella
scialuppa. Poi scioglie la gomena e
dice, piano: - Rema in fretta verso
quegli scogli, dacci dentro, se non vuoi crepare subito. Owen non capisce, ma ha
afferrato i remi e incomincia a darsi da fare. Dalla nave qualcuno
chiede. - Hagen,
che cazzo fa? - Lo accompagno.
Cavatevela da soli, io con voi non c’entro. C’è qualche imprecazione. Hagen ha un fucile in mano e guarda la nave. Sta
controllando che qualcuno non prenda un’arma per
sparare su di loro. Intanto ripete, tra i denti, piano: - Dacci dentro, prima che
si rendano conto. Owen rema con energia. Non
capisce che cosa stia succedendo, ma l’idea di non rimanere da solo, di
essere con Hagen, gli dà sollievo. Hanno quasi raggiunto gli
scogli, quando dalla nave si alza un clamore. Hagen
si china e prende gli altri due remi. Incomincia a remare anche lui. Si
sentono alcuni spari, ma rapidamente la barca vira oltre i roccioni affioranti e scompare nell’estuario di un
piccolo fiume. - È meglio che ci
spingiamo verso l’interno il più possibile, per essere sicuri che non ci
vengano a cercare. - Perché dovrebbero
cercarci? - Perché, sapendo che
abbiamo provviste, munizioni, carte ed armi, hanno
paura che possiamo salvarci e non vogliono finire impiccati. Provviste, munizioni,
carte, armi? Dove diavolo sono tutte quelle cose? Hagen gli legge nella testa, perché dice: - Penserai mica che abbia davvero preso i tuoi fottuti strumenti? Li
ho gettati a mare. Ci serve ben altro per cercare di reggere per qualche
tempo da queste parti. Owen di certo non
rimpiange i suoi strumenti. L’idea di avere il necessario per sopravvivere in
quelle terre lo solleva, ma è soprattutto la presenza di Hagen
a lenire la sua angoscia. Remano per una mezz’ora,
senza parlare, poi, su indicazione di Hagen,
accostano dietro alcune rocce. - Non ci verranno a
cercare fin qui. Comunque rimaniamo in guardia. È ormai quasi notte, la breve notte
artica. - Se vuoi riposare,
stenditi e dormi. Io rimango di guardia. Owen scuote la testa: è
troppo agitato per pensare di dormire. Guarda Hagen. - Crede che… ce la faremo? - Owen, voglio essere
chiaro con te: non sarà facile. Ci vorrà un mese, forse due, di marcia per
arrivare fino ad un insediamento inglese. E i
pericoli sono infiniti. Non abbiamo cani da slitta per muoverci e solo un
telo per costruire una tenda di fortuna. Che non è molto per sopravvivere a
questa latitudine. Owen annuisce. E poi la domanda gli viene
alle labbra: - Perché? - Perché che cosa? - Perché non è rimasto
sulla nave? Hagen sorride. È la prima volta che Owen lo
vede sorridere. Il suo viso diventa meno truce. - Perché non potevo
accettare che ti ammazzassero. E poi, anche se detestavo Lawrence, non sono
un assassino. Rimanere con loro, significava diventare loro complice,
accettare di raccontare che Lawrence era morto di malattia o scomparso in una
tempesta o cose del genere. No, non mi va bene. - Grazie. È la seconda
volta che mi salva la vita. - Magari avrai l’occasione
di salvarla tu a me, Owen. Dopo un attimo di pausa, Hagen aggiunge: - Mi chiamo Vincent. - Grazie, Vincent. Più tardi Owen si stende e
dorme. Vincent lo sveglia dopo qualche ora, quando è di nuovo giorno. Prima
di lasciare il posto in cui si sono fermati, Vincent cammina lungo la riva
del fiume fino a un punto in cui si vede il mare. La nave è scomparsa. Hanno rinunciato
a cercarli, convinti che non riusciranno a sopravvivere. Vincent tira fuori il
materiale. Fa vedere a Owen dove sono e dov’è la base inglese più vicina:
Fort Chimo, della Compagnia della Baia di Hudson. Si dividono
il materiale da portare. Lasciano alcune cose che sarebbero utili, ma
rallenterebbero troppo il loro cammino. Abbandonano anche la barca: non
possono tornare via mare. Owen guarda il territorio,
in prevalenza pianeggiante, che si stende davanti a loro. Si sente sgomento,
ma non c’è altra via. La marcia è lenta. Si
fermano per cacciare qualche animale, per raccogliere uova nei nidi delle
sterne, per mangiare alcuni frutti che paiono commestibili. Ogni sera devono
cercare sistemazioni adatte per la notte, che offrano un minimo di protezione.
Per fortuna nei primi giorni non piove e non nevica, anche se il cielo è
spesso nuvoloso. Non è rimasta molta neve sul terreno, si può precedere bene. Vincent controlla
continuamente carta e bussola, ma non sempre possono seguire la via più
breve: il terreno presenta rilievi, non alti, ma
sufficienti a imporre deviazioni; un problema ancora più serio è costituito
dai corsi d’acqua, tutti fortunatamente di dimensioni molto ridotte, ma non
sempre facilmente attraversabili. A tratti Owen si
scoraggia, ma Vincent lo rassicura: gli dice che ce la faranno, che non deve
cedere. Appare molto diverso da com’era sulla nave, più cordiale e attento
alle esigenze di Owen, anche se ugualmente taciturno. Al suo fianco Owen scopre
presto di sentirsi sereno, per quando angosciosa possa essere la loro
situazione. Nei primi giorni non si
imbattono in animali pericolosi. Il sesto giorno però incontrano
un orso polare che viene nella loro direzione. L’animale non è lontano.
Entrambi prendono il fucile ed attendono, senza muoversi. L’orso si avvicina. Owen
ha l’impressione che il cuore voglia uscirgli dal petto. Vincent gli parla: - Rimani dietro di me,
Owen, ma tieniti pronto. Se sparo io, spara anche
tu. E non sbagliare il colpo. Facile a dirsi: da ragazzo
Owen cacciava con il padre e sa usare discretamente un fucile, ma non è certo
un tiratore esperto. Nonostante questo, è contento che Vincent avesse un
secondo fucile nella borsa: il non sentirsi disarmato lo aiuta a contenere
l’ansia. Rimangono immobili, mentre
la distanza che li separa dalla bestia si riduce. Vincent aggiunge: - Se ci attacca e non
riusciamo a fermarlo sparandogli, allontanati quando mi salta addosso. Owen non dice nulla, ma
non ha nessuna intenzione di abbandonare Vincent. A un certo punto l’orso si
ferma e rimane un buon momento a guardarli, poi gira la testa e prosegue il
suo cammino in un’altra direzione. Non si muovono finché l’animale non è
molto lontano. Quando infine ritengono di
potersi muovere senza pericolo, Owen si rende conto di non riuscire a stare
in piedi. Si siede. Si vergogna un po’ davanti a Vincent, ma questi non dice
nulla: si limita ad accarezzargli i capelli. I giorni passano. Owen si
abitua all’interminabile marcia. A tratti si chiede se saprebbe ancora
immaginarsi una vita che non sia una successione di spostamenti, carta e
bussola alla mano. Durante la marcia parlano
solo quando è necessario. Durante le soste incominciano pian piano a
conoscersi. Vincent racconta brevemente a Owen della sua vita in marina. Ha
trentadue anni e non ha una famiglia. Owen parla di sé. Tra loro nasce
lentamente un’amicizia. Owen è cosciente anche di
un’altra sensazione, un desiderio confuso che sta prendendo forma in lui. Lo scopre quando si lavano
a un piccolo corso d’acqua. Non si spogliano completamente, perché fa troppo
freddo, ma vedere Vincent a torso nudo lo turba profondamente e quella sera,
mentre si abbandona al sonno, l’immagine ritorna ossessiva. Nella notte Owen
sogna Vincent, immagina di abbracciarlo. Quando il piacere esplode, si sveglia.
Vincent dorme accanto a lui. Owen prova vergogna. Nella luce incerta della
tenda, Owen guarda il profilo del corpo di Vincent, ascolta il suo respiro
pesante, ne sente l’odore. Non riesce a riprendere
sonno. La marcia procede senza
grandi intoppi e Vincent appare ottimista. Secondo lui in una settimana o due
saranno arrivati. La stanchezza però si
accumula. Una sera Owen regge a fatica fino al momento in cui si fermano per
la cena. È talmente stanco che non riesce a mangiare più di un boccone.
Vincent scherza sul fatto che in questo modo risparmieranno sulle provviste, ma Owen gli legge in viso la preoccupazione. Ha
imparato a conoscere Vincent, ha scoperto la sua umanità, dietro la maschera
di durezza. Il mattino dopo Owen non
riesce ad alzarsi. È febbricitante. Vincent gli dice di non preoccuparsi.
Rimane con lui tutto il giorno, sistemando meglio il loro accampamento, in
modo da renderlo più sicuro e confortevole: costruisce un muretto di pietra,
sistema il telo in modo che protegga completamente da un’eventuale pioggia.
Gli dà da mangiare, imboccandolo. Lo assiste in tutte le sue necessità. La sera incomincia a
piovere. I giorni passano. Owen è
stremato. Vincent non si allontana da lui se non per procurarsi il cibo ed
esplorare l’area, apportando nuovi miglioramenti al loro accampamento. Owen scherza, chiedendogli
quando costruirà un letto a baldacchino. Vincent risponde che lo farà non
appena troverà un albero e un’accetta.
Owen si rende conto che stanno perdendo giorni preziosi, ma non è in grado di
camminare. La febbre cala. Lentamente
Owen recupera le forze. Vorrebbe partire, ma Vincent si oppone: Owen non è in
grado di affrontare una lunga marcia. Deve riprendersi completamente. Meglio
rimanere più a lungo in un rifugio che offre una discreta sicurezza e
protezione dalle intemperie e dagli animali feroci, piuttosto che procedere
lentamente. Quando infine Owen si
sente bene, si mette nuovamente a piovere. Vincent dice che partiranno il
giorno seguente. La pioggia cade sul telo,
ma l’interno del rifugio è perfettamente asciutto. - L’hai trasformato in un
posto davvero accogliente, Vincent. Vincent sorride. - Temo però che per
l’inverno artico non sia sufficiente. Owen esita un attimo. - Ce la faremo,
Vincent? - Sì, a questo punto sì. Non
siamo più lontani e tu ti sei ripreso. - Non è troppo tardi? Non
abbiamo perso tempo prezioso? - No, non nevicherà
ancora. Due settimane le abbiamo e per quell’epoca saremo arrivati. Vincent appare sicuro.
Owen sa che anche lui ha dei dubbi, ma la sua serenità lo tranquillizza. Più tardi il sole torna a
splendere, ma non vale più la pena di mettersi in marcia. La sera cuociono
una lepre che Vincent ha ucciso. Nel rifugio il fuoco ha creato un gradevole
tepore. Sono rimasti in camicia. Vincent pulisce ciò che hanno usato per
mangiare. Owen lo aiuta. A un certo punto le loro mani si incrociano. Owen
appoggia la sua su quella di Vincent e la stringe. Vincent alza il capo e lo
guarda. Il gesto di Owen è stato
del tutto istintivo e non era altro che un segno di affetto, un
ringraziamento. Ma negli occhi di Vincent brilla un’altra fiamma ed Owen sente il desiderio avvampare, improvviso. Il suo
sorriso diviene incerto, ma Owen non lascia la mano
di Vincent, finché questi non avvicina il suo viso e le loro labbra si
incontrano. Si baciano, piano, timorosi, staccandosi quasi subito. Poi si
baciano nuovamente, con trasporto, lasciando che il desiderio guidi i loro
gesti. Vincent si stacca e si spoglia, rimanendo a torso nudo. Owen scorre le
mani su quel torace possente. Poi anche lui inizia a spogliarsi, ma Vincent
lo previene. È bello lasciare che le
mani di Vincent gli sfilino gli indumenti. È bello sentirle sulla pelle,
forti e delicate, come sa essere Vincent. È bello sentire di nuovo le labbra
di Vincent sulle proprie. È bello lasciarsi avvolgere dall’odore maschio di
Vincent. Le mani di Vincent non si
fermano. Slacciano la cinghia, calano i pantaloni e ben presto Owen si
ritrova nudo. Allora Vincent lo stringe forte tra le sue braccia,
accarezzandolo. Vincent lo stende sul
giaciglio, poi finisce di spogliarsi. Owen lo guarda. Alto, imponente, lo
sovrasta. Vincent si stende su di
lui, lo bacia ancora, mentre le sue mani lo accarezzano, scorrendo lentamente
dalla testa alle cosce. Vincent mormora il suo nome. Owen risponde mormorando
quello di Vincent. Altro non dicono. Dopo rimangono distesi sul
giaciglio. Owen vorrebbe restare per sempre così: nulla esiste di più bello
al mondo che rimanere disteso sul corpo di Vincent, essere avvolto tra le sue
braccia. Ma è Vincent a scuoterlo. - Dobbiamo rivestirci, Owen. Fa freddo. Owen non avverte il
freddo, ma sa bene che, anche se nel rifugio c’è un certo tepore, non è
saggio rimanere nudi. Si stacca da Vincent, che lo pulisce con cura, mentre
lo bacia. Poi entrambi si rivestono. Nella notte dormono
abbracciati. Al mattino si svegliano entrambi eccitati,
ma Vincent dice che devono partire. Bacia Owen e poi smontano il rifugio. La marcia riprende. Owen è
in forze, anche se Vincent preferisce rallentare i tempi. Ogni sera ritornano
ai loro giochi d’amore, ma di solito senza spogliarsi completamente, perché i
rifugi di fortuna non sono altrettanto caldi. Dormono abbracciati e prima di
addormentarsi Vincent stuzzica Owen raccontandogli ciò che gli farà la sera
successiva. Una sera infine, dopo avergli sussurrato all’orecchio ogni tipo
di oscenità, Vincent gli dice: - Owen, ti amo. È un’ondata di felicità,
immensa, che lo investe e per un attimo lo lascia senza parole. Poi Owen
mormora: - Anch’io ti amo, Vincent. Quella notte Vincent si
alza ed esce dalla tenda per pisciare. Quando ritorna sveglia Owen. - Che c’è? - Vieni fuori, pigrone. Owen si stringe nel
giaccone ed esce. Fuori il cielo è
attraversato da una luce verde che lo riempie quasi completamente creando un
disegno fantastico. Sulla nave Owen ha visto due volte l’aurora boreale, ma
si è sempre trattato di una piccola area del cielo. Qui è l’intera volta che
appare illuminata. Vincent lo stringe tra le
sue braccia. Rimangono muti, a fissare il cielo, fino a che Vincent decide
che è meglio rientrare. Lo bacia e si stendono a dormire. La meta non dovrebbe
essere lontana, ma un giorno Owen nota che Vincent cammina a fatica. Owen è
angosciato, chiede a Vincent come sta. Vincent dice che è solo un po’ di
stanchezza. Nel pomeriggio Owen impone
di fermarsi, sordo alle proteste di Vincent, che vorrebbe proseguire. Owen
sistema il rifugio per la notte. Vincent non lo aiuta: è chiaramente
stremato. Owen gli tocca la fronte: scotta. Probabilmente la stessa forma
febbrile che ha avuto Owen. Owen si sente morire. Non
ora, non ora che sono quasi alla meta. Non è possibile. Cerca di calmarsi, di
dirsi che come è passata a lui, passerà a Vincent,
che è ben più forte. Il mattino dopo Vincent
cerca di alzarsi, ma non riesce. - Ci fermiamo,
Vincent. Come abbiamo fatto quando stavo male io. Qualche giorno e ti
passerà. - Owen, è meglio che tu
vada. Raggiungi il forte. Poi verrete a prendermi. Owen non ne vuole neanche
sentire parlare. Come ha fatto Vincent quando lui era malato, passa la
giornata a sistemare meglio il rifugio. Il mattino dopo Vincent ha
sempre la febbre molto alta. È agitatissimo. - Vattene, Owen, vattene. Il forte non deve essere lontano, pochi giorni di
marcia e ci arriverai. Poi manderai i soccorsi. Owen sa benissimo che se
tornasse con i soccorsi tra qualche giorno, non troverebbe vivo Vincent.
Anche lasciandogli delle provviste, l’acqua e la legna per il fuoco a
portata, non riuscirebbe a cavarsela e sarebbe facilmente preda del primo
orso o di un branco di lupi. Owen non sarebbe sopravvissuto se fosse rimasto
da solo durante la sua malattia. - No, no! Questa febbre
passerà. Non ti preoccupare. Qualche giorno in più… - Qualche giorno in più è
la morte. Può nevicare oggi stesso. Se incomincia a nevicare, sarà
impossibile proseguire. Non siamo attrezzati. Vattene. Per Dio, Owen! Owen legge la disperazione
negli occhi di Vincent. - Non ti lascerò, Vincent. Ci salveremo insieme o moriremo insieme. Vincent alza un braccio,
con fatica. Gli accarezza il viso. - Owen, fallo per me,
vattene, adesso. Owen scuote la testa. Più tardi aggiunge un po’
di legna sul fuoco. Deve andare a cacciare. Non vorrebbe lasciare Vincent da
solo, ma è necessario procurarsi un po’ di cibo. - Io vado a caccia,
Vincent. Non starò via a lungo. Vincent sorride - Addio, Owen, - Perché dici addio? Vincent chiude gli occhi.
Non risponde. Owen esce dalla tenda. Ha
in cuore un presentimento di morte. Allontanandosi, si volta indietro a
guardare la tenda. Non starà via a lungo, se non troverà rapidamente
selvaggina, ritornerà, ma gli pare di avere un lupo che gli azzanna il cuore. Owen rimane nelle
vicinanze. Spara a un coniglio, ma lo manca. Un secondo colpo va a segno e
un’anatra che si era posata al suolo non si rialza più. Owen raccoglie l’uccello e
si dirige verso il rifugio. L’angoscia che lo attanaglia sembra decuplicarsi.
Owen accelera il passo. Quando infine vede la tenda, scende di corsa lungo la
collina. Tutto sembra a posto, ma Owen sa che non è così. Apre la tenda. È vuota. Owen urla,
un urlo di disperazione. Si lancia fuori dalla tenda. Dov’è, dov’è? Vincent
non può essere andato lontano, non riusciva a stare in piedi. Dove può essersi
diretto? Verso il fiume, sì, per
lasciarsi trascinare via dalle acque e morire senza che Owen possa trovarlo.
Owen sente che le gambe non lo sorreggono, ma non c’è un secondo da perdere.
Si lancia di corsa nella direzione del fiume. Non è lontano. No, no, no!
Vincent non può averlo raggiunto. Non può! Corre disperatamente,
il cuore dilaniato dall’angoscia. Non c’è traccia di Vincent. Owen vorrebbe
urlare. Si volta, si guarda intorno. Poi, di colpo, gli sembra di vedere
qualche cosa, tra i cespugli. Lancia un urlo e corre. Sì, è il corpo di
Vincent, steso bocconi. Grida il nome di Vincent,
un urlo di pura disperazione. Lo raggiunge. È inerte. Owen si china su di lui.
Con le mani che tremano lo solleva. Lo sente ancora caldo. Si accorge di aver
incominciato a piangere. Lo volta. Lo guarda. Vincent è
ancora vivo. Owen lo abbraccia. Piange,
non riesce a parlare. - Perché? Perché? Rimane inginocchiato a
terra, stringendo il corpo di Vincent, che trema tra le sue braccia. La voce risuona
improvvisa, alle sue spalle. - Avete bisogno di aiuto? Owen si volta, allibito.
Due uomini lo stanno guardando. Owen è seduto di fianco al
letto su cui riposa Vincent. Il dottore della base è ottimista, dice che ci
sono buone possibilità che superi la crisi, è molto
forte. Owen ha paura, ma non l’avverte. Gli sembra di vivere in un tempo
sospeso, in un vuoto di emozioni. Ha risposto alle domande
del responsabile della base, ha raccontato ciò che è successo sulla Count of Essex, ha spiegato come sono arrivati fino al luogo
in cui alcuni uomini della compagnia li hanno trovati. Ma gli è sembrato che
fosse un altro Owen a fare tutto ciò: è come se lui non si fosse mai mosso
dalla camera in cui Vincent dorme un sonno da cui forse non si sveglierà mai.
Le ore passano, ma Owen
non saprebbe dire se è in quella camera da giorni,
mesi, anni. La sua vita è sospesa, sull’orlo di un abisso. Ma un’unica cosa
conta: che quell’abisso non inghiotta Vincent. Il tempo riprende a
scorrere una mattina, quando Vincent apre gli occhi. Non subito, c’è un
attimo in cui l’universo si ferma, mentre Vincent cerca di mettere a fuoco.
Ma la prima parola che pronuncia Vincent restituisce un senso al mondo: - Owen! Owen gli prende la mano. - Vincent! Grazie a Dio! - Dove siamo? - Alla base di Fort Chimo.
Un gruppo di otto uomini che stava tornando qui con un carico di pellicce ci
ha trovato e raccolto. Dopo che tu hai fatto la follia di cercare di affogarti… Vincent sorride. È
pallidissimo. - Ce l’abbiamo
fatta ad arrivare! E tu non hai voluto saperne di lasciarmi al mio destino… - Direi che ho fatto bene,
no? - Testa dura! Vincent sorride, poi
aggiunge: - Non credevo che ce l’avremmo fatta, Owen. - A me hai sempre detto
che ci saremmo riusciti. - Non volevo che ti
scoraggiassi. Ma era un’impresa impossibile. Poi Owen chiama il
responsabile della base, che interroga Vincent: ciò che Owen ha raccontato è
gravissimo. Vincent risponde alle domande, confermando le parole di Owen e
fornendo altri elementi. Nei giorni successivi
Vincent riprende le forze in fretta. Tra una settimana dovrebbe arrivare la
nave che assicura i rifornimenti al forte e carica le merci: Vincent ed Owen vi saliranno per raggiungere Halifax e di lì la
Gran Bretagna. Parecchi anni sono
passati. La Count of Essex non
è mai tornata in Scozia, nessuno ne sa nulla. Probabilmente l’Atlantico l’ha
inghiottita mentre i marinai cercavano di ritornare a casa o si è persa tra
le isole canadesi e l’inverno l’ha stritolata nella sua morsa di ghiaccio. Il capitano Vincent Hagen ha compiuto diversi altri viaggi di esplorazione
nell’Oceano Artico. È anche riuscito a trovare
tracce della spedizione di John Franklin. Con lui viaggia sempre uno
studioso, Owen Kintyre, che ha pubblicato diversi libri
sulle loro esplorazioni e alcuni romanzi di avventura ambientati nel Grande
Nord. Tutti i suoi testi hanno avuto un buon successo, ma il più amato dai
lettori rimane il primo, il resoconto della spedizione sulla Count of Essex e della traversata a piedi fino a Fort Chimo. Owen Kintyre
ha sempre fornito resoconti veritieri, ma nel narrare quell’impresa e le
successive, ha omesso diversi dettagli, per motivi
che possono intuire i moderni lettori di questa veridica e più completa
relazione. |