Un capitolo chiuso Oggi mi sento come il
replicante Roy Batty quando dice: - Io ne ho viste
cose che voi umani non potreste immaginarvi... E tutti quei momenti andranno
perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia... Forse, prima di tornare
al lavoro, avrei dovuto concedermi un paio di giorni di decompressione. Le
vacanze mi fanno male. Mi abituo troppo in fretta ad immedesimarmi in un
perdigiorno. Credo di aver ereditato dal nonno un metabolismo da ricco. Alla Pink Panther Investigazioni hanno deciso di assumere un altro
segugio. Osram, il mio collega, è in forte calo di
notorietà. Se non si dà una mossa, rischia il posto di lavoro. Nel frattempo
si è preso anche lui un periodo di riposo. È giusto. Alla fine non ho
resistito a leggere la mail di Mauro, che conteneva innocui ringraziamenti
alla Pink Panther Investigazioni per il rilevante e
sollecito contributo alle indagini sul caso Lamberini-Mancini.
Formale. Ufficiale. Ed io che non volevo nemmeno leggerlo. L’ho inoltrato ai
miei capi. Ne sono stati contenti. Ed in fondo anch’io, che non sono stato
costretto a prendere laceranti decisioni. Sono a cena con alcuni
vecchi amici, in una cascina subito fuori città, quando entrano un paio di
persone, che si siedono ad un tavolo di fronte al nostro. Lo sguardo mi cade
sui nuovi arrivati e il cuore si gioca un paio di battiti. Due soli, poi
ricomincia a pompare. Mauro della Corte e
Alessandro Barbaro sono seduti uno di fronte all’altro. Non hanno l’aria
felice, ma sono qui, insieme. Mi domando se la loro storia sia ricominciata o
se siano rimasti amici. Si può? Sì, volendo si può. Noi paghiamo il conto e
usciamo. Mauro non mi ha visto e io ho finto di non vedere lui. La soluzione
perfetta. I miei amici vogliono
continuare la serata in un locale, ma io accampo la solita scusa. Domani devo
alzarmi presto. Lo faccio ogni volta, poi loro mi convincono a seguirli
oppure no. Stasera no. Stasera mi siedo in
macchina e mi aggiro vagabondo per la città. Non ho sonno, non mi va di
tornare a casa, ma neppure di infilarmi in qualche bolgia piena di ubriachi.
Non mi va di star solo, ma non c’è nessuno con cui vorrei stare. Ci risiamo,
Danilo. Non cambi mai. Che ci faceva Mauro con
Alessandro? No, Danilo, smettila, smettila. Mauro è un capitolo chiuso. Passo sotto casa di
Renato. O meglio, quella che una volta era casa sua. Nessuno sa dove sia
finito. E nemmeno voglio saperlo. Dimentica, dimentica. Va bene. È meglio che me
ne torni a casa. Stasera non è serata. Spingo il portone e
resto di stucco. È chiuso. Chiuso davvero. Chi non ha le chiavi non potrà più
entrare. Una volta tanto la raccolta di firme ha sortito il suo effetto.
Quasi non posso crederci. Già. Ma ora nemmeno io ho le chiavi. Come entro? Mi
decido a citofonare al Bottini, che ha voluto la mia firma, e mi accorgo che
al citofono è attaccato un biglietto: per le chiavi citofonare Bottini. Era
proprio quello che volevo fare. Mi dice di aspettarlo, poi mi apre il
portone. - È tutto il giorno che
faccio su e giù. Ecco la chiave. - Allora, ce l’abbiamo
fatta. Grazie mille. Menomale che non sono tornato più tardi, mi sarebbe
dispiaciuto disturbarla. - A questo proposito
avrei pensato di chiederle un favore. È rimasto solo il suo vicino. Può dargliela
lei la chiave? Mettiamo un biglietto sul citofono per avvertirlo. - Va bene, non c’è
problema. Il problema c’è. Dov’è
finito il mio vicino? Se vado a letto e mi addormento, poi lo sento il
citofono? Non credo. Mi conviene restare in piedi ancora un po’. Mi siedo in
poltrona a leggere un libro che trovo divertente. Parla di un investigatore
privato che affibbia nomignoli a tutti, all’incirca come me. Ma lui risolve i
suoi casi con l’aiuto di un sacco di collaboratori. Io viaggio più o meno da
solo. Nella vita e nel lavoro. Sto bene così. Sì, certo. A chi la racconti,
Danilo? Meglio soli che male accompagnati. Ma guarda! A che punto sono
arrivato, a nascondermi dietro ai proverbi. Sto proprio toccando il fondo. Mi salva il citofono.
Finalmente posso andarmene a letto, dopo la consegna della chiave. - Scusami per l’ora, ma
non sapevo che avessero cambiato la serratura. - Nemmeno io.
Buonanotte. - Ti senti bene? - Sì, perché? - Hai una faccia strana.
Sei abbronzato o solo nero di rabbia? Spiritoso, il mio
vicino. Ad ogni buon conto vado
a guardarmi allo specchio. Sì, sono piuttosto scuro. Il sole ha preso bene.
Tono su tono con le occhiaie che mi sono venute stasera, direi. Tutto il
resto è immutato. Una noia mortale, questa faccia sempre uguale… Mauro invece, a
guardarsi, chissà che soddisfazione deve provare. Bello è bello. Basta! Mauro
è un capitolo chiuso. A letto, che poi non dormo più. In agenzia c’è fermento.
Sono iniziate le selezioni per assumere il nuovo attivo. Con tutto ‘sto casino
non riuscivo a concentrarmi, quindi, caso più unico che raro, mi sono chiuso
la porta, al solo scopo, probabilmente, di dare al Tovaglia il piacere di
buttarmela giù a pugni, verso sera. - Avanti! – urlo. La porta si spalanca. - Danilo, ti presento la
nuova recluta, Marco Salvi. Inizia da lunedì. Ciò detto, si allontana
lasciandoci soli. - Ciao, Marco,
benvenuto. - Ciao. Se sei
impegnato, facciamo conoscenza un’altra volta. - No, vieni. Siediti.
Paolo ti ha già spiegato tutto? - No, mi ha detto di
parlare con te. - Beh, più che con me,
dovresti parlare con Osram, cioè, volevo dire, con
Giulio Sorrentini, l’altro attivo sul campo, ma
adesso è in ferie. - Hai detto Osram? - No, è stato un lapsus. Marco ride. Non ci
crede. Fa una smorfia simpatica. - Dai, perché lo chiami Osram? - No, veramente, stavo
pensando ad altro. Qui c’è molto lavoro. Giulio non ce la fa. Io ogni tanto
gli ho dato una mano, ma non posso occuparmi di entrambe le cose. - Tu fai le ricerche,
giusto? - Esatto. - E in base a quello che
scopri tu, poi noi agiamo. - Può essere anche il
contrario. In base a quello che scoprite voi, io poi faccio le ricerche. Come
ama dire Armando, il nostro è un lavoro in sinergia. Siamo tutti collegati. È la prima volta che
lavori in questo campo? Il plinplon
di un messaggio in arrivo c’interrompe. - Scusa un attimo. Apro la posta. Mauro.
Cosa vuole, ancora? Vuole sapere se la mia
vacanza è andata bene. Ma soprattutto se ho deciso per quel cinema. No, non
ho deciso. O meglio, ho deciso che non voglio andare in nessun cinema. O
meglio ancora, che non voglio più vederlo. Che ci faceva ieri sera con
Alessandro? Questo vorrei sapere. Ma di certo non glielo chiedo. Anzi, per il
momento non gli rispondo affatto. Mauro è un capitolo
chiuso. - Problemi? - No, scocciature. Bene.
Di qualunque cosa tu abbia bisogno, rivolgiti pure a me. - Grazie. Allora ti
lascio lavorare. Ci vediamo lunedì. - Sì, a lunedì. Marco sembra un tipo a
posto. Vedremo. Risbuca il Tovaglia. - Che te ne pare? - Come faccio a dirlo? È
stato qui due minuti. Ma voi come lo avete scelto? - Se avessi parlato con
gli altri, capiresti. - Siete andati per
esclusione? Avete scelto il meno peggio? - Non infierire. Stasera
sono troppo depresso per sopportarlo. Lavorava alla Pandora Investigazioni,
quella il cui il titolare si è fatto saltare il cervello. Almeno ha un po’ di
esperienza. - Come come? Non ne so niente di questa storia. - Tu eri all’altro capo
del mondo a rosolarti al sole, quando è successo. - E si sa perché si è
ammazzato? - I giornali hanno fatto
vaghe ipotesi, ma non ne hanno più parlato. Lo conoscevo, Lorenzo Tamigi,
avevamo collaborato in un paio di occasioni. Non mi sarei mai aspettato una
cosa del genere da lui. Era un tipo pieno di energia, ottimista, non si
arrendeva mai. Ci sono rimasto di merda, quando ho letto che si era
suicidato. - Sicuro che non
l’abbiano fatto fuori? Paolo mi guarda. - L’ho pensato anch’io,
ma è solo un dubbio. Gli investigatori staranno facendo sicuramente tutto il
possibile per arrivare alla verità. - Certo. Probabile, più che
certo. Trombetta si dà molto da
fare. Ormai lavora con noi da due settimane. Lo chiamo Trombetta per il suo
modo di ridere. È alquanto ridicolo e quindi ancor più trascinante e
contagioso. Questa mania di affibbiare soprannomi a tutti, me l’ha passata
mio nonno. Però mi ha anche insegnato a non divulgarli, perché non sta bene.
Per il ragazzino che ero, voleva quasi dire: combinane pure di tutti i
colori, ma non farti beccare. La sua educazione consisteva in una forma di
anarchia morale, sostenuta da energici principi di libertà consapevole. Una
follia. Per fortuna avevo anche due genitori intelligenti, che mi hanno
saputo tenere in riga, nonostante la devastante influenza di mio nonno. Sto valutando i
risultati della mia ricerca, quando arriva Marco. Mi stupisco. - Il ragazzino è già
rientrato? - Sì. Ha avuto una lite
nella sala giochi e i suoi amici lo hanno trascinato via. Lo hanno
accompagnato fino a casa. Forse volevano essere sicuri che ci andasse davvero
e che non ritornasse invece a picchiarsi con gli altri. Ho l’impressione che
sia proprio lui una piccola testa di cavolo. I suoi amici sembrano tutti a
posto. - Chi glielo dice ai
genitori? - Paolo è perfetto per
questo ruolo. Se non fosse per le camicie che gli guastano l’immagine… - Lascia stare, sono
anni che tento di convincerlo a cambiare look. Ma tu sei sicuro che il
ragazzino non esca di nuovo? - Dici che lo lasciano
uscire di sera? - Mi pare che il
problema fosse proprio quello, che i genitori non riescono a tenerlo. Fa
quello che vuole e non li ascolta proprio. Vogliono sapere dove va, cosa fa e
chi frequenta. - Allora è meglio che
vada a fare ancora un giro dalle sue parti. - Ormai l’hai perso,
lascia stare. Ricomincia domani. - Ma tu, Danilo, non ce
l’hai una casa? - Eh? - Sono quasi le nove.
Non stacchi mai? - Sì, ho quasi finito. - Beh, allora io vado. A
domani. Torno alla mia ricerca.
Lorenzo Tamigi è stato trovato riverso sulla sua scrivania, dal primo
collaboratore arrivato quel mattino in agenzia, Marco Salvi. Pare sia stato
anche l’ultimo ad averlo visto vivo. Poco dopo aveva un appuntamento,
annotato come I. x T. Roma, sulla sua agenda. Ma nessuno era riuscito a
risalire a chi fosse davvero colui che doveva incontrare. Qualcuno che veniva
da Roma? Dai giornali non ricavo
niente. È inutile che stia qui a scervellarmi su un caso che non mi compete. Proprio mentre inizio ad
annoiarmi, torna a farsi vivo Mauro. Ha bisogno di informazioni veloci per un
caso di omicidio di cui si sta occupando, guarda caso avvenuto di nuovo nel
Quartiere degli Alberi. Credo proprio di essergli stato utile, dal momento
che ho trovato la colpevole. Voleva offrirmi una cena, ma un blocco di
cemento mi si è piazzato sullo stomaco. Non posso. Non posso rivederlo. Finalmente, dopo una
settimana di stasi, inizio a lavorare con Paolo ad un caso di probabile
spionaggio industriale, per una società che si chiama Roma Isolanti Termici S.n.c.. È un'azienda leader nel settore degli isolanti
termici e acustici. Mi torna immediatamente in mente I. x T. Roma. Può avere
a che fare con l’ultimo l’appuntamento di Lorenzo Tamigi? Ma perché I x T e
non semplicemente I T Roma? Quel x non ha senso. No, non c’entra niente. Roma
poi può significare molte cose. Troppe. Sta di fatto che la mia
immarcescibile curiosità mi spinge a chiedere: - Paolo, per caso si
sono rivolti alla Pandora, prima che a noi? - Non lo so. Perché? Glielo spiego. - Sembrerebbe solo una
coincidenza, ma comunque lo chiederò all’ingegner Minetti. - Grazie. Sono giunto alla
conclusione che la rivale Isosystem, abbia effettivamente sottratto dati
tecnici rilevanti alla Roma I T, quando Paolo mi fornisce la risposta. - Avevi ragione tu,
Danilo. Lorenzo Tamigi stava lavorando per loro, quando si è ammazzato. Pare
che l’ispettore della Corte sia andato a fare due chiacchiere con Minetti. Ma non ho insistito, perché in fondo non sono
affari che ci riguardino. - No, certo. Era solo
una curiosità. Però un chiodo mi si è
conficcato nel cervello. E di nuovo riappare
Mauro. Non può essere l’unico ispettore in attività al Commissariato di
Piazza Euganei. Perché me lo ritrovo di nuovo tra i piedi, proprio nel
momento in cui mi sembra di potermene dimenticare? Piantala, Danilo. Ma ho le allucinazioni?
Sento persino la sua voce in corridoio, sento i brontolii di Toroseduto. Mi alzo come un sonnambulo dalla mia
poltroncina girevole e vado nella stanza del capo. Affaccio appena la testa.
Mauro è là, in tutto il suo splendore. Cazzo. Era meglio se me ne restavo al
computer. Lui è di spalle e non può vedermi. - Se scoprite qualcosa
che può essere collegato al caso, vi prego di farmelo sapere. Non sono
convinto che si sia trattato di un suicidio. - Anch’io penso che
l’abbiano ammazzato. – mi sfugge. Lui si volta lentamente
verso di me, con uno sguardo di profonda avversione e con la stessa
espressione di Humphrey Bogart quando in Casablanca
dice: - Sam, non ti avevo detto di non suonarla più? E invece mi dice: - Hai già pronta una
delle tue teorie? - Non ne so ancora
abbastanza, ma ho forti dubbi. - I dubbi, che non siano
sostenuti da prove, non servono a un cazzo. Me lo dice con astio. Il
suo tono è fortemente aggressivo, il suo sguardo di ghiaccio. Torna a rivolgersi a Toroseduto. - Se dovesse capitarvi
qualche informazione coerente con quello che cerchiamo, documentata,
ovviamente, vi sarei grato se me la comunicaste subito. Armando gli assicura la
sua più sollecita collaborazione e lo saluta amichevolmente. Mauro lo
ringrazia e si congeda con un cordiale ‘buona serata’. Poi mi passa davanti
senza degnarmi di uno sguardo, come se fossi trasparente. Per lui non esisto.
Meglio così. Meglio così. Ho fatto bene. Mauro è un capitolo chiuso. - Gli hai detto che
Marco Salvi adesso lavora da noi? – chiedo a Toroseduto. - Sì, perché? - Così. Così, accidenti. Così.
Cosa cazzo c’entra Marco? È stato semplicemente l’ultimo a vederlo vivo. Il
primo a vederlo cadavere. Così. Che cazzo c’entra? Niente. Non c’entra
niente. Il chiodo che ho nel cervello mi lancia messaggi incomprensibili.
Pressa tra i neuroni, senza trovarmi risposte. Devo parlare con Marco.
È lui che può darmi le risposte che cerco, oppure procurarmi altre domande. Sto cazzeggiando come un
cretino, in attesa che mi venga abbastanza sonno da andarmene a letto. Clicco
qua e là a caso tra i miei files, quando mi torna
davanti la foto di Mauro. No, cazzo. Devo cancellarla. Devo. Invece il dito
sul mouse resta paralizzato, il mio sguardo inchiodato alla foto. Mi torna in
mente quella sera in cui mi ha detto: “eppure sono sempre stato convinto che
qualcosa avrebbe potuto riempire il vuoto che ho dentro”. Mi ricordo del suo
tono, del suo sguardo, della sua espressione. Era diverso, come se una
maschera indossata per molto tempo gli fosse caduta dal viso. Come se volesse
mostrarmi qualcosa di sé che non mostrava né spesso, né volentieri. Ma non è
questo che devo ricordare, è il modo in cui mi ha guardato oggi, il tono con
cui mi ha parlato, il suo passarmi accanto fingendo che neppure ci fossi,
dimostrandomi quanto avessi ragione a non fidarmi. Il vuoto resta sempre
vuoto. La memoria come antidoto alla nostalgia. Mauro è un capitolo chiuso. Trombetta è seduto
davanti a me. Stiamo commentando la conversazione che Paolo ha appena avuto
con i genitori del quattordicenne pestifero, quando appare sulla porta Mauro.
Mi sento una strizzata allo stomaco, improvvisa, crudele. Questa storia deve
finire. - Signor Salvi, le
potrei parlare un attimo? - Sì, certo. – risponde
lui. - In privato. –
sottolinea l’ispettore. - Vi lascio l’ufficio. –
dico, levandomi dai piedi. Mauro mi guarda appena,
giusto per accertarsi che esca davvero. Io vado nell’ufficio di Toroseduto, afferro un microfono per audiosorveglianza,
lo accendo, lo punto e infilo l’auricolare. Il tutto in trenta secondi. - Lei ha lavorato al
caso della Roma Isolanti Termici? - Più che altro, ci
stavano lavorando il signor Tamigi e un altro collaboratore, Luigi Zaccaria. - Però le è capitato di
incontrare Carlo Fanetti, un dipendente della
Isosystem. - Mi è capitato per
caso. Non sapevo neppure che lavorasse presso quell’azienda. - Dove lo ha conosciuto? - In un locale. Avevamo
amici in comune. Sono stati loro a presentarci. - E dopo quell’occasione
vi siete visti altre volte? - Sì, qualcuna. Sempre
in locali, per caso. Frequentiamo gli stessi ambienti. - Avete mai parlato del
vostro lavoro? - No. Cos’avremmo dovuto
dirci? Lui è un tecnico. Io un investigatore. Non abbiamo nulla in comune. - Lo vede ancora? - Nell’ultimo mese non
l’ho più incontrato. - Cos’ha pensato quando
ha visto il cadavere di Tamigi? Qual è stata la sua prima impressione? - Ho pensato che lo
avevo visto molto stressato negli ultimi tempi. Non sembrava più lui. Non
sembrava riuscisse più a mantenere quel ritmo. - Lei ci ha detto che
non sapeva chi dovesse incontrare quella sera. Le avevo chiesto di
ripensarci, di formulare qualche ipotesi. Lo ha fatto? - Continuo a non averne
idea. Tamigi mi ha solo detto che aspettava qualcuno. E che poi finalmente
sarebbe andato a casa. Era stanco. Mi ha anche detto che il giorno seguente
sarebbe arrivato tardi, perché tanto non aveva appuntamenti in mattinata.
Invece, quando sono arrivato, alle otto, ho visto la luce accesa nel suo
studio. Per questo mi sono incuriosito e sono entrato. Volevo prenderlo un
po’ in giro. - La ringrazio, signor
Salvi. Se dovesse tornarle in mente qualcosa che può esserci utile, anche se
le sembra banale, mi contatti. - Non mancherò. Sento dei passi. Mi
tolgo l’auricolare e mollo il mio attrezzo sulla scrivania. Afferro un foglio
di carta, come se fossi immerso nella lettura. Ma poi sento chiudersi la
porta. Mauro se n’è andato. Toroseduto sta
lavorando, concentratissimo. Credo non si sia neppure accorto di me. Torno
nella mia stanza. Anche Marco è sparito. Va bene, Danilo,
concentrati, non sei in pausa pranzo. Carlo Fanetti.
Vediamo un po’ cosa posso trovare di questo signore. Carlo Fanetti, alla Isosystem, è uno stretto collaboratore del
socio fondatore, Roberto Lisanti. Hanno allo studio un innovativo sistema di
isolamento, uno schermo assolutamente rivoluzionario. Mi ricorda molto da
vicino un sistema che la Roma I. T. S.n.c.. sta per
brevettare. Questo rientra a pieno titolo nella nostra indagine. Sono
autorizzato a continuare. Trovo molti dati senza importanza, ma li metto da
parte perché non si sa mai. Decido di farmi un po’ anche gli affari suoi. La
sua posta elettronica è un immenso serbatoio. Decido di iniziare da due mesi
fa. Ma non c’è assolutamente nulla che possa aiutarmi. Poi, però, arriva una
nuova mail. Il mittente si chiama Marvi e dice
così: “Ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo. Consegna stasera al
Faro.” Il chiodo mi lancia
saette nel cranio. Marvi. Chi sei, Marvi? Risalgo all’origine. Non avevo dubbi. Marco Salvi.
Non passano dieci minuti che il messaggio viene cancellato. Lo so che in questo
momento non sono nelle sue grazie, ma devo rispondere alla sua richiesta di
collaborazione, o no? Mando a Mauro il
messaggio, con mittente e destinatario. Dove sia questo Faro, non lo so, ma
in fondo sono affari suoi. Poco dopo mi suona il
cellulare. Mauro? - Senti, Danilo, ho
bisogno di un favore. La sua voce mi sembra
alquanto fredda, ma faccio finta di non accorgermene. - Dimmi. - Stasera tutte le
squadre sono già impegnate. Avrei bisogno di un po’ della vostra attrezzatura
per seguire la conversazione di Salvi e Fanetti al
Faro. - Dov’è questo Faro? - A una ventina di
chilometri dalla cascina Ruga, dove sei andato a mangiare il mese scorso. Tu
eri con tre amici. Già, e tu con Alessandro
Barbaro. - Hai finto di non
vedermi. - Anche tu. Meglio cambiar discorso. - Cosa ti serve? Audio e
video? - Sì. - Con registrazione? - Sarebbe meglio. - Dove ci vediamo? - Alla cascina tra
un’ora? - Va bene. Che faccio? Gli porto l’attrezzatura
e me ne vado? Resto per dargli una mano? Tanto per cominciare devo dirlo a Toroseduto. Gli spiego tutto,
sintetizzando al massimo. - Prendi questi e questi
e il registratore tascabile. Mi consegna tutto come
se fosse un’indagine nostra. - Non ti dispiace che
faccia usare questa roba all’ispettore? – gli chiedo. - Gli ho dato la nostra
massima disponibilità. Non è che adesso mi possa tirare indietro, ti pare? E
poi questa è anche una nostra indagine, non te ne scordare. Fanetti potrebbe avere a che fare con la sottrazione di
dati alla Roma Isolanti Termici. - Certo. Dicevo per
dire. - Marco non sta
lavorando a questo caso, però, se deve incontrare Fanetti,
probabilmente è implicato in qualche modo. Dobbiamo saperlo. Adesso Marco
lavora per noi. Voglio sapere con chi abbiamo a che fare. - Certo. Vado. - Salutami l’ispettore. Sì, te lo saluto. Vado a
casa a prendere la macchina. Ho giusto un quarto d’ora per darmi una
rinfrescata e cambiarmi. Stranamente oggi fa un caldo infernale. Quando arrivo alla
cascina, sono appena le sette e mezza. Vedo la sua macchina nel parcheggio,
ma Mauro non c’è. Forse è entrato. Vado a dare un’occhiata. Il locale è
stranamente deserto. Mauro è seduto ad un tavolo, vicino al finestrone che
affaccia sul frutteto. Quando mi vede, mi fa a stento un cenno col capo. - Ho pensato che è
ancora presto. Tanto vale mangiare qualcosa, prima di andare. Hai
l’attrezzatura? - Certo. - L’hai lasciata in
macchina? - No, ce l’ho nelle
tasche del gilet. Mauro mi fissa. - Armi di piccolo calibro… - Miniaturizzate, ma
potenti. - Le sai usare? - Certo. Faccio questo
mestiere da dieci anni. Non sono sempre stato dietro ad una scrivania. - Bene. Non c’è calore nella sua
voce. Anzi, sembra quasi infastidito di dovermi rivolgere la parola. Guarda
fuori, verso il frutteto. Dietro gli alberi il sole è appena calato. Il cielo
è tinto di arancione. Io osservo Mauro mio malgrado. Non vorrei, ma non
riesco a distogliere il mio sguardo dal suo volto serio ed impassibile. Nel
pesante silenzio che ci avvolge, la voce del cameriere mi fa sobbalzare. Ordiniamo in fretta,
distrattamente. Siamo qui solo per nutrirci. Non è importante quello che ci
porterà. Ho sempre quella domanda
da fargli, ma non mi sembra in vena di conversazione. - Che ci facevi con
Barbaro, qui, quella sera? So che ho pronunciato le
parole, che non le ho solo pensate. Ma contro ogni logica, spero che Mauro
non mi abbia sentito, che sia tanto immerso nei propri pensieri da non aver
fatto caso che abbia aperto bocca. - Potrei dirti che sono
cazzi miei. – Il suo sguardo duro mi
fa desiderare di essere altrove. - Voleva dirmi che mi
aveva mentito, che sapeva che Lamberini stava
progettando di uccidere la moglie. Alessandro ci teneva a farmi sapere che
era contrario, che comunque fossero andate le cose, lui non ne sarebbe mai
stato complice. - Non ho mai capito
perché Lamberini avesse lasciato la macchina vicino
al locale. - Questo non l’ha capito
nessuno. Ci portano la bistecca.
Mangiamo in silenzio. Dietro ai vetri cala la sera. Il locale comincia a
popolarsi. Le voci di sconosciute conversazioni mi fanno compagnia. Mi sento
più solo che se fossi solo. Mauro è su un altro pianeta, anche se ce l’ho di
fronte e posso vederlo. Mauro è un capitolo chiuso. Siamo nel parcheggio
ormai buio. -
Andiamo con la mia. – mi dice. È un ordine. Io lo seguo
senza fiatare. - Dobbiamo evitare di
farci vedere. - Certo. – rispondo. Mauro accende il motore
e parte. Mantiene una velocità moderata. Non c’è fretta. Chissà a che ora
andranno al Faro? Non so nemmeno che tipo di posto è. - Cos’è il Faro? Un
ristorante? - No, è un piano-bar. A
volte ci fanno piccoli concerti jazz. La musica può essere un problema per le
registrazioni. Ma ci devo provare. Poi magari, sulle registrazioni si potrà lavorare
con i filtri. - Sei tu l’alieno? - Eh? - L’incontro ravvicinato
del terzo tipo. - Ah, sì. Potrei essere
io l’alieno. Il silenzio cala di
nuovo, soffocante. Vorrei aprire il finestrino. Mi manca l’aria. Eppure c’è
il climatizzatore acceso. Cazzo, che fatica questa
serata. Vorrei non aver risposto al cellulare. Neppure un po’ di musica
mi aiuta. Da qualche tempo mi ha abbandonato. Il mio cervello se ne resta in
silenzio, come se volesse punirmi. Entriamo nel parcheggio.
Il Faro sembra un magazzino. Architettura spartana, colore neutro. Nulla che
attiri lo sguardo, tranne l’insegna al neon. Dall’esterno sembra un locale
squallido. Forse per questo non ho mai fatto caso alla sua esistenza, anche
se da qui sono passato molte volte. Ci fermiamo proprio accanto alla
costruzione. Tiro fuori il microfono direzionale, che ha un campo di venti
metri. Voglio vedere come funziona. Male. - Ci vorrebbe una
finestra aperta. - Questo posto non ha
finestre. - Allora dobbiamo
trovare un buco, una fessura, un varco. Ho una microspia, ma bisogna che
abbia un contatto con l’ambiente. - Cazzo. Andiamo a
vedere nel retro. Scendiamo dalla
macchina. Nel retro si aprono le finestrelle dei bagni, ma sono in alto. C’è
anche un’uscita di sicurezza, subito dopo. - Se entrassimo da qui?
– propongo. - E come fai ad aprirla? - Se per te va bene,
l’apro. Anche stavolta mi lancia
un ordine, secco, insofferente. - Apri. Armeggio con i miei
attrezzi. Li uso soltanto nelle emergenze, ma me li sono portati dietro,
perché non si sa mai. Apro. Guardo all’interno
con cautela. C’è un corridoio buio davanti a noi. Accendo una torcia ed
entro. - Anche la torcia, ti
sei portato. - Fa comodo, a volte. - Lo vedo. Il corridoio è
completamente vuoto. Se restiamo qui, nessuno ci vedrà. Nessuno ha motivo di
entrarci, a meno che non scoppi un incendio. Sotto la porta
d’ingresso al locale, c’è lo spazio sufficiente per far passare l’antenna. Ci
sediamo in terra, dietro la porta. Collego i cavetti al ricevitore con
registratore e consegno l’auricolare a Mauro. Nel piccolo monitor appaiono le
prime immagini. - Sposta l’antenna per
vedere e ascoltare nella direzione che vuoi. Con questo puoi regolare il
volume. - Va bene. Puoi spegnere
la torcia. - Restiamo al buio, con
l’unico chiarore del monitor, che sembra quello di un cellulare. - Non sono ancora
arrivati. - Grazie per avermi reso
partecipe. - Puoi guardare, se
vuoi. E poi non potevi portarti un altro auricolare? – dice irritato. - Se ne può collegare
uno solo. - Peccato. Dovrai
fidarti di me. - Mi fido. Io sto
lavorando per la Roma Isolanti Termici. Questa storia interessa anche a me. - Lo so, ho parlato con Minetti. Dopo la chiusura della Pandora, hanno dovuto
rivolgersi ad un’altra agenzia e hanno scelto proprio voi. Lo dice con tono
indispettito. È stata proprio una sfortuna che io gli sia di nuovo capitato
tra i piedi. E tu allora? Sei l’unico ispettore del Commissariato? Proprio a
te dovevano affidare il caso Tamigi? In una situazione del
genere, con un altro seduto di fronte a me, al buio, con l’unico chiarore di
questo palpitante minuscolo monitor, mi sentirei eccitato, emozionato, e
chissà quale altro “ato”. Invece una specie di gelo
mi è calato addosso, nonostante la temperatura. Qui l’aria condizionata non
arriva. Appoggio la testa al
muro e chiudo gli occhi. Tanto, a tenerli aperti, che ci guadagno? Indovinare
Mauro in questa vaga luminescenza, me lo fa apparire ancora più estraneo.
Davvero un alieno. Passa del tempo. Quasi
mi addormento. - È arrivato il tuo collega.
Si è seduto ad un tavolo qui davanti. Che culo! - Bene. – rispondo con
voce piatta. - Non esagerare con
l’entusiasmo. Potrebbe scoppiarti una vena. - Dì, ispettore. Perché
non la pianti? - Senti, bello, ho
cercato il tuo aiuto solo perché sono stato costretto. Ma non credere che mi
piaccia star qui. Sto lavorando anche per te. Se la registrazione è buona e
ne caviamo tutti e due qualcosa, ti fa schifo? - Certo che no, ma cosa
vuoi che faccia? Che mi metta a saltare e ad urlare di gioia? - Vorrei che smettessi
di fare lo stupido. Tu non lo sei. Ammutolisco. Mi sta
provocando. Vuole che reagisca. Sì, è proprio questo che vuole, ma io non ci
casco. Vedo Mauro farsi
attento, osservare con attenzione lo schermo. - Adesso zitto. È
arrivato l’altro. Non avevo la minima
intenzione di parlare. Piuttosto mi faccio saltare la lingua con un colpo di
denti. Me la ricorderò questa serata. Me la voglio ricordare, come antidoto
ai rimpianti. Appena arrivo a casa, cancello la sua foto dal computer. E se
pure dovessi scoprire altro, col cavolo che lo condividerò con lui. - Fanetti
sta uscendo. - Cosa si sono detti? - Fanetti
ha dato una busta a Salvi e ha detto “Quanto mi costerà ancora questa
stronzata?” Salvi non gli ha neanche risposto. Accendo la torcia. In pochi secondi
scollego l’attrezzatura e la ridistribuisco nelle tasche del gilet. In breve
siamo fuori, nascosti dietro l’angolo. Vediamo una macchina
immettersi sulla statale. Subito dopo esce Marco, che sale sulla sua auto e
se ne va. - Allora? - Non abbiamo ottenuto
molto direi. Solo una busta che passa di mano in mano. Sembrerebbero soldi. - Perché? - Non lo so. - Roma I T. Ecco,
perché. - Che cosa vuoi dire? - Luigi Zaccaria non
poteva essere l’unico a lavorare al caso. Lui raccoglieva informazioni, come
me. Anche Marco deve aver indagato, sul campo. E deve aver scoperto qualcosa.
Probabilmente il coinvolgimento di Fanetti, che pur
di salvarsi il culo ha promesso dei soldi a Marco. E stasera ha pagato. - Farò mettere sotto
controllo questo Fanetti. E anche Salvi, mi
dispiace. - A me no. C’è qualcosa
che non mi convince in quello lì. - Ci risiamo. Hai prove?
Documenti? Foto? - Non ho niente, ma… - …Allora
riparliamone quando avrai qualcosa di concreto. Mi avvio verso la
macchina. Mauro mi riporta alla cascina a prendere la mia. Ci salutiamo
appena. Mentre torno a casa,
accendo la radio. Voglio un po’ di musica. C’è una canzone che non sentivo da
tempo. Una carezza per l’anima stanca. È giunta
mezzanotte, si spengono i
rumori, si spegne anche
l’insegna di quell’ultimo
caffè. Le strade son
deserte, deserte e
silenziose, un’ultima
carrozza cigolando se ne va… Riverso la scarna
registrazione su una memory card e mi domando come
farla giungere a Mauro. Ma non è che sia poi di questa fondamentale
importanza. Toroseduto solleva gli occhi verso di
me, con gli occhiali appollaiati sulla punta del naso. - Come facciamo a sapere
per quale motivo Fanetti lo ha pagato? - Hai sentito la
registrazione. Da questa non caviamo nulla. Non lo so. Marco è del mestiere,
non può essere tanto sprovveduto da aver lasciato tracce in giro. Comunque
posso tentare una ricerca. - L’ispettore ha detto
che lo mette sotto controllo, ma se scoprono qualcosa, a noi chi lo dice? - A noi nessuno. - Danilo, è giunto il
momento di giustificare perché ti pago tanto. - Senti, Armando… Passi lungo il
corridoio. Mi sembra di riconoscerne la cadenza. Ammutolisco. - Buongiorno a tutti. - Ciao, Marco. - C’è lavoro per me? - Sì, ho un caso
complicato. Con te ci vediamo dopo, Danilo. Intanto vammi a fare quella
ricerca. Mi allontano con la memory in mano. Come diavolo faccio a consegnarla a
Mauro? Tanto vale che lo contatti per chiederglielo. Mi siedo alla scrivania.
Cellulare o mail? Forse è meglio un messaggio sul cellulare, così non sono
costretto a sentire la sua voce. Tutto mi aspetto, tranne
che vedermelo davanti dopo dieci minuti. Entra, chiudendo la porta. Si siede.
- Abbiamo messo sotto
controllo Fanetti e Salvi. - Guarda che Marco è
nell’ufficio di Armando. - Non credo che possa
sentirmi. - Io ho sentito
benissimo la tua conversazione con lui, l’altro giorno. Mauro mi sbarra gli
occhi in faccia, praticamente due fari antinebbia. - Qui è pieno di
attrezzature sofisticate. – gli spiego. - Sei uno stronzo. - Lo so. Comunque, anche
tu non scherzi. Mauro accavalla una
gamba sull’altra, mettendosi comodo. - E va bene. Mettiamoci
d’accordo. Se tu mi passi le informazioni che trovi, io ti passo quelle che
trovo io. Tiro fuori dal cassetto
una cartella. C’è dentro tutto quello che ho raccolto finora. Vado alla
fotocopiatrice e copio tutto. - Per ora questo è
quanto. Non so se può esservi utile, ma di sicuro vi risparmia del tempo.
Almeno sapete cosa non cercare. Gli metto tutto in una
busta e gliela consegno, appoggiandoci sopra la memory. - Sono le registrazioni
di ieri sera? - Sì. - Va bene. - Armistizio? Mauro mi guarda con
un’espressione che si divide tra il disgusto e la rassegnazione. - A una piena
collaborazione, consegue una momentanea sospensione delle ostilità. - E per trattare una
pace definitiva? - Temo che sarà
difficile. Ci guardiamo negli occhi
per qualche istante. Mi si strizza lo stomaco, come al solito. Perché deve
farmi quest’effetto? - Vuoi che ti chieda
scusa? - Le tue scuse non mi
servono. Mauro si alza. Prende la
memory e la busta e arriva alla porta. Con voce
priva di espressione mi dice: - Teniamoci informati. Lo so che sono un
coglione. Uno dei miei maggiori pregi è di ammetterlo senza difficoltà. Sono riuscito ad
introdurmi nel computer di Marco. Mi sento un po’ in colpa, ma gli ordini
sono partiti dall’alto ed io, in fondo, sono un semplice esecutore. Lo facevo
più furbo. I suoi files sono tutti a libero
accesso, nemmeno una password a rallentarmi. Non teme incursioni. Si sente
sicuro. Questo può avere due spiegazioni: 1) non ha niente da
nascondere 2) pensa che nessuno
possa beccarlo All’improvviso si spegne
tutto. Cazzo. 3) Ha un sistema
antintercettazione. D’accordo. Resterà
traccia dell’assalto, ma devo passare alle maniere forti. Clonazione
completa. Ci vuole un po’ di tempo, ma è un programma sicuro. Mi rilasso. Intanto mi viene in
mente che è davvero strano che la Pandora, per evitare l’emorragia di dati,
non abbia subito dotato la Roma Isolanti Termici di sistemi
antintercettazione. Oppure li aveva? Vado a chiederlo al Tovaglia. - L’ingegner Minetti mi ha assicurato che è stato il primo intervento
di Tamigi. - Quindi i dati sono
stati sottratti prima. - No, alcuni anche dopo. - Allora c’è una talpa
alla Roma I. T. - Sembra proprio di sì. - E perché non me l’hai
detto subito? - Sono io che sto
lavorando al caso. A te avevo solo chiesto di farmi quelle ricerche. - Armando ti ha
informato degli sviluppi? - Sì. So dell’incontro
di Fanetti con Marco. - E sai anche chi è la
talpa? - Non ancora. - Supponiamo che uno dei
due sia Fanetti. Supponiamo che Marco abbia
scoperto lo scambio di dati tra Fanetti e il signor Mistero. Fanetti se n’è accorto e ha deciso di pagare il suo
silenzio. Marco sa chi è la talpa. E magari sta vendendo il suo silenzio
anche a lui. Oppure li sta semplicemente ricattando. La chiave di tutto è
Marco. Aggiungiamoci pure che è stato l’ultimo a veder vivo Tamigi e il primo
a denunciarne la morte. - Dici che Tamigi lo
aveva sgamato? - Io credo che sia
andata proprio così. Togliendo di mezzo lui, ha salvato il culo a Fanetti, alla talpa ed il proprio. E per di più si è
riempito le tasche. - Riempito quanto? - Cazzo, non ho
controllato. - Vedi di farlo subito. - In questo momento il
mio computer è impegnato. Posso usare il tuo? - Fai. Io intanto vado a
parlare con Armando. Quando Paolo ritorna nel
suo ufficio mi chiede cosa ho trovato. Niente, ho trovato. Forse i soldi se
li tiene sotto il materasso. Oppure ci riempie i cuscini. È stato pure
segnalato al Centro Allarme Interbancario per un assegno scoperto, due anni
fa. Torno nel mio ufficio.
Il PC sta ancora lavorando. Devo prenderne un altro. Gliel’ho già detto a Toroseduto. Prove. Ci vogliono
prove, documenti. Questo solo conta per Mauro. Entra Paolo. - Piazziamo qualcuno
alle costole di Marco? - Qualcuno chi? - Un collega di un’altra
agenzia. - Ma la polizia lo tiene
già sotto controllo. - Lo so, ma è meglio
darci da fare pure noi. - Conosci qualcuno? - Sì. Adesso gli telefono. Questo caso sta
diventando un casino. E per giunta abbiamo il nemico in casa. Quando la clonazione è
completata, è ormai così tardi che mi rifiuto di fare altro. Metto tutto
sotto chiave, spengo e me ne torno a casa. Anche se si tratta di
scarse informazioni e qualche congettura, scrivo una relazione per Mauro e
gliela invio. È probabile che lo farà incazzare. Sorrido. Una cosa che,
davanti a lui, non mi riesce più di fare. Sarà che è sempre talmente serio,
che pare affetto dalla sindrome di Moebius. Avevo
deciso di cancellare la sua foto, ma ogni volta che ci provo mi si blocca la
falange dell’indice. Dalla velocità con cui
mi risponde, capisco che anche Mauro è davanti al computer. Ha parlato con Luigi
Zaccaria, il quale ricorda vagamente che Marco ha lavorato al caso Roma IT.
Dice che la sua relazione era sul computer di Tamigi. Ma non risulta.
Qualcuno deve averla cancellata. Mauro ha già chiesto di approfondire. Mi
farà sapere. Bene. Qualcosa si muove.
Marco può tranquillamente averla cancellata, dopo aver ucciso Tamigi. Mi
resta in sospeso la domanda: chi doveva incontrare quella sera Tamigi? E poi
lo ha incontrato davvero o ha bussato inutilmente alla sua porta? E perché
non si è fatto vivo, quando ha saputo che era morto? Forse perché si è parlato
sempre di suicidio. Finora nessuno ha cambiato versione. Cosa accadrebbe se
sui giornali apparisse la notizia che Lorenzo Tamigi è stato ucciso? Devo ripartire da capo.
La cosa più importante è scoprire chi è la talpa. Intanto ho sottomano i files di Marco e mi studio questi. Sono arrivato in
agenzia prestissimo, perché non riuscivo a dormire. Tanto vale buttarsi
subito sul lavoro, senza Marco tra i piedi. Trombetta ha strani
gusti in fatto di musica, una quindicina di e-books,
pochissimi amici, foto scattate in giro per il mondo. Qui del suo lavoro non
c’è nulla. Nada, rien, nichts,
nothing, niets. Zero. Ho
buttato via un sacco di tempo senza combinare un cazzo. Ha una nota per le
spese, affitto, luce, gas, benzina, varie ed eventuali. Il saldo è
devastante. È sull’orlo della bancarotta. Se questi dati sono reali… Se questi dati sono
reali stiamo cercando nel posto sbagliato. Arriva Paolo. Lo blocco
subito. - Ho la vaga sensazione
che siamo fuori strada. È alla Roma I T che dobbiamo cercare. - È quello che sto
facendo. - Minetti
non ha nessun sospetto? - Lui sospettava di un
tecnico, un certo Vullo, ma l’ho tenuto d’occhio
per un po’, senza ricavarne niente. - Perché non mi hai
chiesto di fare ricerche anche su di lui? - Pensi di essere più in
gamba di me? - Penso alla famosa
sinergia di Armando. Mi sembra che tu stia cercando di escludermi dal caso. - Senti, Danilo, te lo
devo proprio dire. È stato l’ispettore della Corte che ci ha chiesto di
tenertene fuori il più possibile. - Cosa? Cosa cosa cosa? - A quanto pare, non è
molto soddisfatto dei tuoi metodi di indagine. -
Ah, beh! Questa è proprio bella! Chiede il mio aiuto ogni
cinque minuti e poi mi sotterra d’ingratitudine. Che bastardo! - E adesso cosa intendi
fare? - Intendo andare fino in
fondo. - Allora buttati su Vullo e vedi se riesci a cavarne fuori qualcosa. E se non
è lui, ci sono altri due tecnici che lavorano al nuovo brevetto, Tolentini e Romeo. - Mi puoi dare la
documentazione che hai raccolto? - Certo. Paolo sembra
soddisfatto, come se non aspettasse altro e si fosse finalmente alleggerito
di un peso. Ispettore dei miei
stivali, ti faccio vedere io come si conduce un’indagine. Stronzo. Marco arriva in perfetto
orario, come sempre. Viene direttamente da me e si siede al di là della
scrivania, appoggiandoci sopra una busta. Mi sembra proprio di averla già
vista, quella busta. - Buongiorno. – diciamo
in coro. - Che cos’è? – - Senti, Danilo, lo so
che lavoro qui da poco e dovrei attenermi ai compiti che mi affidate, ma io… ecco, ho sentito che la Roma Isolanti Termici è un
nostro cliente. È un caso a cui stavo lavorando anch’io, con Tamigi. In
realtà eravamo appena agli inizi, ma dopo la morte di Lorenzo, io ho
continuato. Pensavo che sarei andato a parlarne alla polizia, ma visto che
anche voi ci state lavorando sopra, credo sia giusto darli a voi. - Che cosa? Soldi? Che dovremmo
farne di questi soldi? - Sono le copie dei
documenti che un dipendente della Roma I T ha consegnato a Roberto Lisanti,
il titolare della Isosystem. Per ottenerli, un mio amico ha rischiato molto.
Senza contare che sicuramente perderà il posto di lavoro se Lisanti finisce
in galera. - Fanetti? - Come lo sai? - Intuito. Perché
all’ispettore della Corte hai detto che non lo vedevi? - È vero. Non lo vedo. - Non ti ha dato la
busta? - Ci siamo incontrati
solo per questo, ma per il resto, abbiamo evitato accuratamente di farci
vedere insieme. E tu come lo sai? - Ero al Faro, l’altra
sera. - Non ti ho visto. – Poi
si immobilizza. – Mi hai pedinato. Ho fatto di peggio. Ho
letto la tua mail e ho clonato il tuo PC. - C’era anche
l’ispettore. - Ecco perché adesso mi
seguono. - Te ne sei accorto? - Non è difficile. Prendo la busta e
l’apro, tirandone fuori alcuni fogli pieni di formule e disegni. - Sai dove Lisanti tiene
gli originali? - Io no, ma basta
chiedere a Carlo. Ho anche questi – dice – tirando fuori un foglietto dalla
tasca. - Di che si tratta? - I conti di Vullo e di Lisanti. Puoi paragonare entrate e uscite dei
loro conti. Mi butto immediatamente
sul computer. Lisanti, uscita. Vullo, entrata.
Lisanti, uscita. Vullo, entrata. Lisanti, uscita. Vullo, entrata. Questa storia va avanti da sei mesi, a
colpi di tremila euro a botta. A occhio e croce sono novantamila fino ad
oggi. Corruzione rateale, per non incappare nei controlli del fisco. Chissà
quanti ancora gliene deve, Lisanti. - Danilo, l’ultima volta
che ho visto Lorenzo vivo, mi ha detto che doveva incontrare qualcuno della
Isosystem. Era sicuro di aver risolto il caso. Però sull’agenda che aveva sul
tavolo c’era scritto I x t Roma. Mi sono scervellato su questa cosa e credo
che intendesse I per informazioni e t per talpa. Insomma, “informazioni sulla
talpa della Roma Isolanti Termici”. Chiunque abbia incontrato quella sera,
non c’era andato per fornirgli informazioni, ma per scoprire quanto Tamigi
sapesse. E quando ha capito che sapeva troppo, l’ha ucciso, simulando un
suicidio. Ha anche cancellato ogni traccia delle informazioni che avevamo
raccolto. Ha fatto un bel lavoro di pulizia. Ma io ho ancora tutto qui. Marco mi mostra una
chiavetta. - Quindi tu pensi che
l’abbiano ucciso. - Ne sono convintissimo.
Quello che ancora non sono riuscito a capire è chi sia stato. Comunque era
qualcuno della Isosystem. Fanetti è convinto che si
tratti di Lisanti. - E tu? - Non ci sono prove. Anche tu con le prove!
Sì, le prove. A questo punto dobbiamo raccontare tutto a Mauro. Che se le
trovi lui, le prove. - Senti, Marco, adesso
ne parliamo con Paolo e poi decidiamo cosa fare. Ma secondo me è meglio raccontare
tutto all’ispettore. - Per me va bene. Ormai,
di più non credo di riuscire a fare. E anche Carlo. Se Lisanti lo scopre ed è
stato davvero lui ad ammazzare Lorenzo, rischia anche lui di fare una brutta
fine. Riunione nell’ufficio di
Armando, che ha appena assestato il suo grosso sedere sulla poltrona. - Niente rogne prima del
caffè! – ci dice, osservandoci entrare in parata. - Dai, Marco, racconta
tutto di nuovo, che io intanto vado a fare i caffè. Quando torno, sono tutti
seduti. Mi tocca restare in piedi. Perché non abbiamo una sala riunioni?
Perché qui non ce n’è mai stato bisogno. Armando mi guarda. - Chiama l’ispettore,
Danilo. Chiedi se gli è possibile venire qui. Quando arriva, io ho
portato altre due sedie, ma Mauro non è solo. Quindi me ne resto in piedi
un’altra volta. Il suo collega ha un’aria spaesata. Forse si tratta di un
novellino. Non dev’essere facile lavorare con
l’ispettore della Corte. Chissà quante gliene fa passare. Mauro sembra
stranamente rilassato. Ha persino sorriso. Forse pioverà. Nel frattempo ho fatto
le copie di tutti i documenti in possesso di Marco, perché servono anche a
noi. Dopo aver ascoltato
pazientemente e con interesse, Mauro interviene. - Anch’io ho una novità.
Stamattina, alle 7:45, è partita una telefonata di minacce dall’ufficio di
Lisanti, diretta al telefono di casa di Carlo Fanetti.
La voce era deformata, ma c’è già un esperto al lavoro per il riconoscimento
vocale. Presto sapremo chi è stato. - Fanetti è in pericolo.
– dice Marco, preoccupato. - Uno dei nostri gli sta
alle costole. - Sarà sufficiente? –
chiedo. Mauro mi guarda, come se
mi vedesse per la prima volta e si chiedesse che ci faccio qua. - Hai le copie di tutta
la documentazione? Io gli consegno la
grossa busta che ho preparato. - Grazie. – mi dice, con
una neonata larva di sorriso. - Andiamo, Sarulli. Raggiungiamo Fanetti
alla Isosystem. Signori, vi terrò informati. Sono passati due giorni
e di informazioni nemmeno l’ombra. Trombetta è contento di aver mollato l’indagine
in mani più autorevoli. Mi ha detto che adesso dorme meglio. Fanetti invece si è dato malato subito dopo la telefonata
e a quanto pare si tratta di un’influenza piuttosto virulenta. Per ora gli
hanno dato sei giorni, durante i quali ha deciso di non mettere il naso fuori
dalla porta di casa. Come al solito sono i
giornali a darci le ultime novità. Gli inquirenti hanno appurato che Lorenzo
Tamigi non si è suicidato. Indagato per omicidio, Roberto Lisanti, è sotto
interrogatorio. Seguono due colonne di supposizioni sul movente. Deve
rispondere anche di altri reati, ma quella è una storia che potremmo
raccontare noi. Sono andato a cena con
Marco. Non saprà mai che gli ho clonato il computer, tanto ho già cancellato
tutto. Mi sono ampiamente ricreduto su di lui. È un bravo ragazzo. E anche in
gamba. Pur continuando la sua indagine privata con Fanetti,
ha lavorato sodo per la Pink Panther, non facendo
minimamente rimpiangere l’assenza per ferie di Osram,
che tornerà lunedì. Trombetta mi piace. Torno a casa con un
allegro cerchio alla testa. Ho esagerato con gli alcolici. Non ci sono
abituato, ma non volevo essere da meno di Marco, che viaggia ad alta quota,
senza risentirne. Dovrei andare a dormire,
ma se mi metto subito in orizzontale, rischio di vomitare. Cazzo, ho la
nausea. Il cicalino del citofono
mi trapana il cervello. Chi cazzo è, a quest’ora? Mauro, proprio adesso.
No, proprio adesso no. - Disturbo? Tu disturbi sempre. - No, entra. Ma dimmi in fretta
quello che hai da dire e vattene senza indugio. Mi siedo in poltrona,
appoggiando la testa. Spero che il mio stomaco regga, ma cazzo, che nausea. - Stavolta hai toppato.
Marco Salvi era dalla parte dei buoni. - Ne sono più che
contento. - Non avevi detto che
non ti convinceva? - Sentivo che nascondeva
qualcosa. - Questo si è rivelato
esatto, te ne dò atto. - Allora, è stato
Lisanti? - È un osso duro, ma
ormai è alle corde. Sono certo che finirà per ammetterlo. Cazzo, sto per vomitare. - Non ti senti bene? - Scusa. Torno subito. Faccio appena in tempo a
correre in bagno. Sudo freddo. Poche volte
sono stato così male in vita mia. Marco, giuro, non mi frega più. Non sto in
piedi. Non so se ce la faccio a tornare in soggiorno. Dietro la porta sento la
voce di Mauro. - Tutto bene? Ha un’intonazione preoccupata.
No, dev’essere una mia impressione. Forse ce la faccio. Mi
muovo ed esco con la massima cautela e me lo ritrovo davanti. Sì, ha
un’espressione preoccupata. - Ti senti male? - No, va un po’ meglio. - Sei verde. Vieni a
sederti. - Scusa. - No, scusa tu se sono
venuto a scocciarti proprio ora. - Tu non scocci mai. Cazzo, l’ho detto ad
alta voce. Sono proprio ubriaco. - Hai del limone? - Che ci devi fare? - Ti faccio un canarino. - Vuoi che vomiti
ancora? - Ma quanto hai bevuto? - Troppo, per i miei
standard. - È meglio che ti lasci
andare a dormire, allora. - Ci vediamo? Mauro sembra perplesso,
come uno che faccia fatica a convincersi di aver sentito bene. E anch’io sono
piuttosto stupito d’averlo detto. - Certo, ci si vede. - Però adesso levati dalle
palle. Mauro ride. Cazzo,
quanto tempo era che non lo vedevo ridere. Nonostante le
rappresaglie del mio stomaco e della mia testa, riesco a sopravvivere al
venerdì di lavoro. Marco invece è fresco come una rosa e questo mi fa
incazzare enormemente. Mi ricordo vagamente di
aver detto a Mauro qualcosa sul vedersi. Ero proprio ubriaco. Mauro è davvero un
capitolo chiuso? Vado a ripescare la sua
foto. Mi fa sempre lo stesso effetto, cazzo. È difficile staccare lo sguardo
dalla sua immagine. E poi non posso negarlo, mi ha fatto piacere rivederlo
sul mio divano. Cosa diavolo c’è che mi impedisce di lasciarmi andare? Se
seguissi il mio istinto sarebbe fin troppo facile. Invece vado a cercare le
mie cicatrici ostinandomi a seguirne i percorsi con un dito immaginario. La
verità è che non voglio più sentirmi così. A cena, Marco mi dice
che mi vede strano. Fantastico, eccone un altro. - Strano come? - Sei depresso?
Preoccupato? Combattuto? - Ma che dici? Sto
benissimo. - Eppure… - Eppure niente. - Come vuoi. Non sei
costretto a parlarne, se non vuoi. - Ecco, appunto. - A volte parlare fa
bene. Ti chiarisce le idee. E poi, se trovi qualcuno che ti fornisce consigli
indesiderati, puoi capire da che parte non vuoi andare. - Saresti tu che fremi
dall’impazienza di regalarmi qualche consiglio gratuito? - Perché no? - Scordatelo. So già
dove non voglio andare. - Vedi che serve
parlare? Poi ride. - Non bevi? - No, grazie. Ho bisogno
di restare sobrio. - Gravissimo errore. –
decreta Marco. Forse ha ragione, ma
stasera sento la necessità di riflettere. Mi sento come se avessi un
sassolino in una scarpa. La sensazione è talmente forte che quando esco dal
locale mi tolgo una scarpa e la agito per farlo uscire. Ma quando la calzo di
nuovo, la sensazione è sempre là. Come al solito tardo a
dormire. A volte, per risolvere
un problema, non basta voltargli le spalle. Questa volta temo che dovrò
affrontarlo. E se intanto Mauro si fosse stufato di aspettare? Se gli chiedo
di vederci e lui mi risponde che è impegnato? E se ho capito male e non è per
nulla interessato a me? E se riesco a spegnere il cervello e a dormirci
sopra, rimandando tutto a domani? Com’è quel proverbio? I
nodi arrivano sempre al pettine. Stupido. Basta non pettinarsi. Oppure usare
una di quelle spazzole che al posto delle setole hanno dei radi cilindretti
che sembrano di legno. Con quelle, quando li becchi i nodi? Avanti Danilo, è
inutile che ci giri intorno. È ora di pettinarti. -
Ciao, Mauro. Sei molto impegnato? -
Non più del solito. Hai bisogno di qualcosa? -
Che ne diresti di un fine settimana in montagna? Silenzio. Uno, due, tre,
quattro, cinque... adesso mi dice di no. Ha un caso che richiede la sua
costante attenzione. Il ferro si batte finch’è
caldo. È sul più bello di un’indagine che deve concludere al più presto...
Odio i telefoni, perché non puoi guardare l’espressione della gente. - Pronto? Ci sei? -
Va bene. Credo di potermi liberare. E ci voleva tanto? Mi
hai provocato un attacco d’ansia. -
Partiamo presto, ti va? -
D’accordo, però andiamo con la mia macchina. Ti vengo a
prendere io. A che ora? -
Alle sette ti va bene? -
Avevi detto presto. -
Per me alle sette è presto. -
Beato te. Allora a sabato. Liscio come l’olio.
Quasi. Il suo silenzio prolungato mi dice che non è stata una decisione
facile. Vado a cercare le chiavi
dello chalet di mio nonno. È in culo al mondo, ma è davvero un posto
magnifico. Ogni tanto, d’estate, ci torno, anche solo per accertarmi che sia
ancora in piedi. Una volta al mese Clara va a dare una pulita, e quando ci
sono problemi mi avvisa. Penso che la prossima
volta potrei portarlo in un agriturismo che conosco, un posticino in riva al
fiume con un vecchio mulino del ‘700. Ma non precorriamo i tempi. Potrebbe
essere la prima e l’ultima volta che ci frequentiamo per più di mezz’ora. Aspetto fino all’ultimo
una sua telefonata di rinuncia. Invece mi stupisce. Mauro arriva in perfetto
orario. Più di tre ore di
macchina, in una giornata di uno splendore assoluto, passano in un lampo.
All’inizio abbiamo viaggiato in silenzio, come se non avessimo proprio nulla
da dirci. Invece, forse, era solo perché non sapevamo da dove iniziare. Poi,
quando abbiamo cominciato a parlare, non abbiamo più smesso. Ci siamo fatti
un riassunto delle nostre vite, come avessimo bisogno di toglierci di mezzo
un’incombenza. Adesso possiamo concentrarci sul presente, che è l’unico tempo
che conta. Parcheggiamo davanti
allo chalet, isolato, in cima a una stradina che si è dimenticata di essere
stata asfaltata, un tempo. Siamo circondati dal verde intenso delle
latifoglie. Lo chalet sembra non
aver subito mutazioni dall’ultima volta che ci sono stato. Entriamo in silenzio. Io
vado a spalancare tutte le finestre, anche al piano di sopra. Mauro mi segue.
Apro la portafinestra del grande terrazzo che si affaccia sulla valle. È uno
spettacolo magnifico. Davanti a noi soltanto la natura incontaminata. - Ci vieni spesso, qui? - Non quanto vorrei. Ci
passavo tutte le estati quando mio nonno era vivo. Stavo più con lui che con
la mia famiglia. Anche in città. Si può dire che a casa andassi quasi solo a
dormire. - Com’era tuo nonno? - Un uomo tutto d’un
pezzo. Per lui le regole erano regole, ma seguiva le proprie più di quelle
degli altri. Aveva tutto un suo modo di ragionare, molto logico, razionale,
lineare, direi quasi matematico. Mi ha insegnato lui ad usare il cervello. - Non si può certo dire
che abbia fatto un buon lavoro. Lo guardo. Mauro ha un
sorrisetto ironico stampato sulla faccia. E anche se sono sul chi vive, questo
sorriso mi scioglie. - Hai più visto
Alessandro Barbaro? Cazzo, perché ritorno
sempre a battere questo chiodo? - No, non ci tengo. Era
una storia vuota. - Al vuoto bisogna
rassegnarsi, Mauro. -
No, io non mi rassegno. Forse potrò anche essere un povero
illuso, ma il sogno di trovare qualcuno con cui far combaciare la mia vita,
non smetterò mai di coltivarlo. - Anch’io avevo un sogno
del genere quand’ero ragazzo. Poi la vita mi ha spiegato che è un sogno
irrealizzabile. Ho vissuto dei momenti così neri che se non avessi avuto il
lavoro su cui gettarmi anima e corpo, non sarei sopravvissuto. - E per questo hai paura
di sperimentare ancora? Ho un brivido. C’è un
leggero vento che mi gela addosso il sudore. - Forse. – rispondo. Sì, forse il mio freno a
mano si è bloccato. - Forse ho deciso di
aver sofferto abbastanza. - Ma vale sempre la pena
di tentare. Sai come si dice, non è finita finché non è finita. - In fondo mi sono
abituato a stare da solo. - Le abitudini si
possono cambiare. - Questo lo diceva
sempre mio nonno. - Che altro ti diceva? -
Che dovevo accettarmi così com’ero. Per lui era facile. Io
ci ho impiegato anni e anni e non sono nemmeno sicuro di esserci riuscito. - Tuo nonno era un
saggio. - Sì, beato lui. - Vogliamo restare qui tutto
il giorno a cazzeggiare, o andiamo a farci una passeggiata? - Certo. Non siamo
arrivati fin qui per stare a guardare il panorama da un terrazzo. Ti porto
nel regno delle fate. Prepariamo gli zainetti,
c’infiliamo gli scarponi e siamo già fuori. Per un po’ camminiamo in
silenzio, fino a che ci troviamo sulla destra di un ruscello e imbocchiamo un
sentiero che sale di fianco a un boschetto. - Come mai hai cambiato
idea? - Su che cosa? - Sul fatto di vederci. Già. Perché ho cambiato
idea? - Forse la sbronza ha
fatto cadere le mie inibizioni. - Ah, grazie. Sei molto
incoraggiante, sai? -
Che importa perché? Mauro ci riflette sopra
per qualche istante. -
Avevo deciso di non vederti più. Ce l’hai messa tutta per farti
considerare uno stronzo. Non ero nemmeno sicuro di accettare questo... come
vogliamo chiamarlo? incontro? Se ci hai messo tanto a deciderti e hai fatto
tanta fatica, vuol dire che non ci tieni molto alla mia compagnia. Quindi,
perché sprecare questo tempo? -
Non è così. Ci tengo a te. - Non mi pare di averlo
notato. Quella sera al Faro, mentre eravamo al buio, avrei voluto saltarti
addosso e strangolarti, oppure… saltarti addosso e… - …Perché
non l’hai fatto? Silenzio. Anche a Mauro,
evidentemente, capita di restare senza risposte. Intanto avvistiamo sulla
sinistra le prime guglie. - Guarda! – dico,
indicando con il braccio teso. - Le piramidi. Erano
almeno dieci anni che non ci venivo. - È un luogo magico. –
sospiro. - Andiamo avanti. Proseguiamo a camminare
nella boscaglia, tra profumi di terra, di foglie e di fiori. Il sole che filtra tra
le fronde degli alberi crea ricami di luce ed ombra. La fatica comincia a
farsi sentire. Sono fuori allenamento. - Ci fermiamo un attimo?
– propongo. - Sei più arrugginito di
me! Mi siedo su un masso
coperto di muschio. - Ogni tanto vado in
palestra, ma il fatto che ogni volta mi chiedano se ho la tessera, ti può
dare un’idea di quanto spesso ci vada. - Eppure cammini molto.
Vai all’agenzia a piedi mi sembra. - Come lo sai? - Per quella volta che
siamo andati a parlare con la madre del portiere. Ti ho accompagnato a casa,
ricordi? Se avessi lasciato la macchina in agenzia, me l’avresti detto. - Logica impeccabile. - Sono uno sbirro. –
commenta, sorridendo. Mauro continua a
guardarmi. Tra queste luci ed ombre nette, i suoi occhi sembrano due gemme.
Devo distogliere lo sguardo. Mi pare che riesca a vedermi nell’anima, che ci
s’infiltri una luce. La mia anima nera non c’è abituata. Vuole restare al
buio. Placida e solinga. - Rilassati. - Perché? Non sono
rilassato? – chiedo più a me stesso che a lui. - No. Sei come un
porcospino in assetto di guerra. Rido di cuore. Ha
ragione. È così che mi sento. - Mi sono ripreso.
Possiamo proseguire. Riprendiamo a salire in
silenzio. All’improvviso appaiono le piramidi di terra, tante, con i massi in
cima. Sembra che siano in bilico e che stiano per cadere da un momento
all’altro. - Sembra davvero il
regno delle fate. - Grazie, Danilo, per
avermi riportato qui. Mentre lo dice, mi
stringe una mano. Poi restiamo immobili e
muti per un’eternità. C’è solo quel panorama di verde e di terra, che si
staglia in un cielo perfetto, quella mano che stringe la mia, il battito del
cuore che mi martella nel petto. E poi una melodia che riaffiora nella mente.
La musica è tornata. Mi piaccion quelle cose che han si
dolce malia, che parlano
d'amor, di primavere, che parlano di
sogni e di chimere, quelle cose che
han nome poesia... Ho messo uno dei vecchi dischi
di mio nonno, la Traviata. Mentre cucino, Mauro mi osserva. - Anche a cucinare ti ha
insegnato tuo nonno? - Quasi tutto quello che
so, mi ha insegnato mio nonno. Era rimasto vedovo a quarant’anni. Ma se la
cavava bene da solo. Prima ha badato ai suoi figli e poi ai nipoti. Ma io ero
il suo preferito. Perciò ha voluto lasciarmi questa casa. E forse anche
perché sapeva quanto l’amassi. - Il nonno o la casa? –
chiede, ridendo. - Tutti e due. - Ho visto i dischi, di
là in soggiorno. Era amante dell’opera? - Era la sua vita. Non
c’era un minuto di silenzio in casa sua. La musica era l’aria che respirava. - E tu? - Io ce l’ho nella
testa. Non ho bisogno dei dischi per sentirla. - Ma non ti ho mai
sentito neppure canticchiare. - Me la tengo dentro. - Troppe cose ti tieni
dentro. - Io sono così. - Mi piacerebbe poterti
leggere nel pensiero. - Cosa vuoi sapere? - Per esempio, come mai
hai scelto proprio la mia foto tra tutte quelle che c’erano nella posta
elettronica di Lamberini e di Alessandro. È come se tutto il
periodo in cui ci siamo affrontati con ostilità non esistesse più, come se
fosse stato soltanto un intermezzo inopportuno e già dimenticato. - Non lo so. Eri l’unico
con i vestiti addosso. Mi sei sembrato così serio. Eri fuori posto. Una mosca
bianca. - Solo questo? - Mi piaceva, quella
foto. - Davvero? - Sì. Mi piacevi. Poi,
quando sei venuto in agenzia e ho scoperto che eri uno sbirro… - Cos’hai pensato? - Che mi piacevi ancora
di più. - Anche a me sei piaciuto
subito, ma ho avuto l’impressione che fossi imbarazzato. - Certo, che ero
imbarazzato! Avevo la tua foto sul desktop e tu eri lì, ad un passo da me.
Era la prima volta che t’incontravo, eppure ti conoscevo a memoria. - Quando l’ho vista a
casa tua sono rimasto di stucco. Mi è venuto un colpo. - È stato imbarazzante
anche per me. - In nome delle pari
opportunità, dovresti anche tu darmi una tua foto. - Non ne esistono. Io
sono fortemente contrario a farmi immortalare. - Posso provvedere io
stesso. - Non credo proprio. Non
ne vale la pena. Mauro si alza dalla
sedia e mi viene vicino. Mi fa girare verso di lui e mi prende il volto tra
le mani. - Se vale la pena lo
decido io. Poi mi bacia. Un bacio
lieve, delicato, come un timido bussare alla porta. Io gli apro. E solo
allora entra come un padrone che ha tutti i diritti. Mi sento sciogliere le
ossa. Non so come faccio a restare in piedi. Forse è solo grazie al fatto che
Mauro mi sostiene. Cazzo, è come se per tutta la vita non avessi aspettato
che questo momento. Come se il destino fosse finalmente giunto ad incrociare
la mia strada ramenga. Il lucchetto si fonde, si
apre, cade e il mio cuore, libero di battere all’impazzata, duole. Duole
felice, innalzando un canto di gioia che non è inciso su nessun disco che
conosca. È una musica nuova, vergine, misteriosa. - Metti via i tuoi
aculei, porcospino, e vieni con me. – dice, staccandosi. Poi spegne i fornelli e
mi trascina via. Un tuffo in un mare
impetuoso. Cerco una zattera a cui aggrapparmi e trovo solo le sue spalle
larghe, il suo torace, i fianchi. Senza neppure collegare il cervello, le mie
mani hanno avuto la capacità di sfilare i bottoni dalle asole. La sua camicia
è a terra, una macchia blu sul parquet, accanto alla mia, che non so come sia
finita là. Ho il cuore in gola,
sono assalito dai fremiti. Le sue mani corrono su di me, trovando tutte le
strade aperte. Non ho più difese, solo un immenso bisogno di annientarmi, di
dimenticare chi sono, di lasciare il mio corpo nelle sue mani. Risalgo lentamente in
superficie. Ricordo il mio nome. Mi sento morto e resuscitato. Mi sento vivo
come non ero da moltissimo tempo. Forse da mai. - Danilo? Sì, è il mio nome. Lui
l’ha pronunciato molte volte. - Sì? - Tutto bene? - Sì, sto bene. Siamo ancora abbracciati.
Il buio è calato. Ormai non si vede più niente. Ti amo, Mauro. È stato
difficile ammetterlo, ma è bastato far tacere il mio cervello, per capirlo. Oh! dolci baci,
o languide carezze, mentr'io
fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per
sempre il sogno mio d'amore...
l'ora è
fuggita, e muoio
disperato! E non ho amato
mai tanto la vita! Perché mi torna in mente
quest’aria? Non è adatta alla situazione. Che razza d’impertinente! La
scaccio via con forza. Mauro è un capitolo
appena iniziato. - Danilo? - Sì? - Forse dovremmo
rimetterci in forze. Torniamo in cucina? - Se è proprio necessario… - È necessario. Mauro sa sempre qual è
la cosa giusta. Finisco di cucinare e
mangiamo in fretta, come temendo che qualcosa possa distoglierci dal pasto.
Qualcosa c’è. È sufficiente che guardi verso di lui, anziché nel mio piatto.
Ma, appena finito, lasciamo tutto com’è, abbandoniamo la cucina e torniamo
alla nostra zattera al piano di sopra. La zattera è diventata un letto, ampio,
comodo, perfetto per la nostra navigazione. Due giorni volano in
fretta, anche due giorni come questi. Che dico? Questi di più. Domenica sera.
Siamo sotto casa mia. Mauro trasferisce il suo borsone dal cofano della mia
macchina a quello della sua. Ci guardiamo. È già tardi, ma io ci
provo lo stesso. - Sali? - Forse è meglio che
vada. No, non è affatto
meglio. Sono deluso. Sapere che sta andando via mi procura un dolore sordo. - Allora ci vediamo. –
riesco a dire. - Puoi contarci. Mauro mi fa quella
specie di pseudosaluto militare. Io lo ripeto come
un cretino. Salgo in casa. Vuota. Mi
manca l’aria. Certo che è vuota. È casa mia. È sempre stata vuota. Solo
perché si è riempito il mio cuore, vorrei che anche tutto il resto si riempisse.
Ma non si può. Non funziona così. Prendiamo a vederci ogni
volta che sia possibile. Ceniamo insieme quasi ogni giorno, anche se a volte
si tratta di dare qualche morso frettoloso a un panino nel bar di fronte al
Commissariato. A volte neanche quello, ma in tal caso Mauro mi raggiunge a
casa e ci resta per tutta la notte. Approfittando di un
momento tranquillo, in cui nessuno ha ammazzato nessuno, ci rifugiamo per il
fine settimana nell’agriturismo in riva al fiume. L’autunno inoltrato ha
dipinto di rosso, giallo e ruggine gli alberi. Nonostante la stagione, le
camere sono tutte occupate. Evidentemente non sono il solo ad amare
quest’angolo di paradiso. Seduti sull’erba, con le
spalle al mulino, Mauro mi abbraccia. -
Avrei voluto conoscerti prima, anni fa. -
Hai pensato che avrebbe potuto non accadere mai? -
Impossibile. Lo sapevo che prima o poi ti avrei trovato. -
Cazzo, e io che ho cercato di evitarti per tutta la vita! Mauro mi salta addosso
con l’espressione di volermi strangolare. Lottiamo rotolandoci sull’erba,
ridendo, finché la sua mano, che mi prende tutta la faccia, non allenta la
presa, trasformandola in una carezza. I nostri volti si trovano a pochi
centimetri l’uno dall’altro. Mi scoppia il cuore. Mauro mi fissa negli occhi,
smettendo di ridere. Il suo sguardo carico di desiderio mi brucia. Mi si
secca la gola. D’improvviso si alza e mi porge la mano perché mi alzi
anch’io. -
Ho dimenticato una cosa in camera. Vieni con me. - dice con
voce roca. La fretta di sbatterlo sul
letto m’impedisce di trovare una battuta ironica. Due ore dopo, mentre
Mauro mi assalta un orecchio, come se non ne avesse mai a sufficienza, mi
sussurra – Ti amo. – Una scossa sismica mi
apre una falla nel cuore. E da lì una felicità ineffabile si riversa per
tutto il corpo, come un’onda di marea, che spazza via ogni remora, ogni
impedimento, ogni preconcetto. - Anch’io ti amo, Mauro.
- Perché? - Ah, no. A questo gioco
non ci sto. - Dai, porcospino, non
sguainare di nuovo i tuoi aculei. - Ti amo e basta, Mauro.
Non lo so perché. Non lo so e non lo voglio sapere. E nemmeno voglio sapere
perché tu ami me. E anche se credi di saperlo, non voglio che tu me lo dica.
Mi piace perdermi in questo mistero. Mi piace vagare in questa foresta di
punti interrogativi. - C’è un poeta nascosto
dentro di te, lo sapevi? - Forse, alla luce
violacea di questo tramonto. Ma domani, quando il sole sarà alto, potrebbe
essere scomparso. Non ti ci affezionare. Mauro ride. - Il mio irsuto porcospino… È stato bello. Sono
riuscito a fidarmi di lui. A fidarmi del suo amore. Ero talmente sicuro di
non riuscirci più, che la sorpresa m’inebetisce. E invece di lui mi fido. Mi
fido del suo amore tanto quanto sono riuscito ad ammettere il mio. Mauro ha
fatto piazza pulita di tutto il mio dolore. Mi ha fatto rinascere a nuova
vita. Sono appena tornato a
casa mia, che già la sua assenza si fa sentire. Mauro mi manca. Mi
mancherebbe anche se fosse nella stanza accanto. Come sempre, ho
l’impressione che mi manchi anche l’aria. Mi passano per la testa
strani pensieri. Sbucano dal nulla strani desideri. Moltiplicare questi due
giorni all’infinito. Sì, forse sono impazzito. Vorrei vivere con Mauro.
Averlo qui ogni giorno. Certo, compatibilmente con i suoi turni. Ma io mi
accontenterei. Mi guardo attorno e inizio ad immaginare come sarebbe. Mi
sembra persino di respirare meglio. Il citofono interrompe i
miei sogni. - Mi apri? Mauro con il suo
borsone. - Ho dimenticato di
dirti una cosa. - Dev’essere
una storia lunga, se ti presenti col bagaglio. - Sì, è una storia
lunghissima. Ci vorranno anni per raccontartela tutta. Inizia così: al solo
pensiero di stare lontano da te, mi sento soffocare. - Resta qui, allora,
così respiro anch’io. Affiora travolgente una
musica che sottolinea il nostro abbraccio. Persino lei è stupita di trovarsi
dentro la mia testa. Volare… oh oh Cantare… oh oh oh oh Nel blu dipinto
di blu Felice di stare
quassù Con te. |