Nelle tenebre

 

iMMAGINE3

 

Il carceriere lo spinge con violenza. Francesco barcolla, le catene ai piedi e alle mani gli impediscono di recuperare l’equilibrio. Cade malamente. Cerca di mettere le braccia avanti, di attutire la caduta, ma non può vedere. Urta contro la parete con la testa e sente una lacerazione alla guancia. Un po’ di sangue cola.

- Alzati, pezzo di merda!

Francesco obbedisce, a fatica: ha la febbre, sollevarsi da terra gli costa uno sforzo enorme. Riesce a rizzarsi in piedi. Ma il carceriere lo spinge una seconda volta e Francesco finisce di nuovo sul pavimento. L’uomo si sta divertendo, gli piace vederlo cadere. La sua voce è quasi ossequiosa, ora:

- Ma non sapete neanche stare in piedi, principe?

L’uomo ride, una risata sonora. Poi lo afferra per i capelli e lo solleva di peso. Francesco soffoca un urlo di dolore.

- Cammina, principe del cazzo!

Francesco procede lungo il corridoio, le mani protese in avanti, per scansare gli ostacoli che non può vedere. Il carceriere gli molla una pedata. Francesco riesce a mantenere l’equilibrio, ma dopo pochi metri inciampa in un ostacolo e cade di nuovo. Il carceriere gli molla un’altra pedata, mentre è a terra.

- E muoviti, pezzo di merda. Non ho la mattina da perdere.

A fatica Francesco si rialza e riprende a camminare. A un tratto sente un vuoto sotto il piede. Si ferma.

- È la scala, principe. Non è bella come quella del vostro palazzo…

L’uomo ride e gli molla un calcio. Francesco si appoggia contro la parete e riesce a non cadere. Abbassa il piede e trova il gradino. Allora incomincia a scendere, facendo scorrere le mani sul muro. È una scala a chiocciola. Francesco cerca di muoversi in fretta, per quanto glielo consentono le catene, per evitare di irritare il suo carnefice, ma ad un certo punto l’uomo gli molla uno spintone e Francesco rotola lungo la scala. Mancano pochi gradini al fondo, la caduta di Francesco si arresta sul pavimento. Francesco sente un dolore al braccio. Cerca di rialzarsi, ma l’uomo gli molla un altro calcio che lo rimanda subito a terra.

Il carceriere ride, poi lo afferra di nuovo per i capelli e gli urla nelle orecchie, con rabbia:

- Manco sai stare in piedi, principe del cazzo.

Lo trascina in avanti, poi, quando Francesco riesce a sollevarsi, lo spinge contro la parete. La testa di Francesco urta la pietra. Un forte dolore alla tempia. La pelle che si lacera. Altro sangue che cola.

Francesco sente il rumore di una serratura, poi di una porta che si apre. Una zaffata di aria fetida lo investe. Francesco ha la sensazione che il respiro gli manchi.

Il carceriere lo prende di nuovo per i capelli, lo trascina dentro e gli molla un violento calcio che manda Francesco al suolo, mentre nella cella si sentono risate. Il pavimento è lercio, Francesco sente contro la faccia qualche cosa di umido ed appiccicaticcio.

- Un nuovo ospite. È un principe, fategli la riverenza.

Ride di nuovo. Poi Francesco sente che la porta viene chiusa e la chiave gira nella serratura.

Francesco cerca di mettersi a sedere, ma non ci riesce. La testa gli gira. Rialzarsi dopo le cadute ha esaurito tutte le sue forze.

- Di’ un po’, è vero che sei un principe? Che ci fai qui, con noi che siamo la feccia del Regno?

La voce è beffarda, ostile. Francesco volta la testa nella direzione da cui proviene la voce.

- Mi accusano di aver complottato contro il re.

- Ed allora ben ti sta! Chi te l’ha fatto fare di metterti contro il Re?

Chi ha parlato è un altro. Francesco sente un mormorio di assenso.

Di nuovo la voce di prima:

- E perché sei qui? I politici stanno ai piani alti, non li mettono mica insieme a noi.

- Qui ci stanno i criminali comuni. Gente del popolo, mica gente che mangia carne a volontà.

Francesco sa perché lo hanno trasferito lì: è un’umiliazione. Il re sta perdendo il trono e lo sa. Vuole vendicarsi di chi aiuta i garibaldini che stanno avanzando in Sicilia. Ma Francesco si rende conto che è inutile parlarne.

Francesco è stanco. Rimarrebbe volentieri disteso, ma il pavimento è lercio. Con uno sforzo riesce a mettersi a sedere. Vorrebbe appoggiarsi al muro.

- Dove posso mettermi?

- Scegli tu il posto… Non siamo mica alla tavola di un principe. Qui ognuno si prende quello che è capace di prendersi.

Tutti ridono.

Francesco dice:

- Non vedo. Sono diventato cieco.

- Cercati un posto. Le mani le hai.

Francesco si alza a fatica. Fa due passi, ma inciampa contro una gamba che qualcuno ha teso e finisce di nuovo a terra. Un boato di risate. Francesco non riesce ad alzarsi, le forze gli mancano. Rimane fermo. Non dice più nulla. Qualcuno lo provoca, ma Francesco risponde appena, a monosillabi. Spera solo che finisca in fretta, che la morte arrivi. La febbre sale e Francesco prova una sensazione di nausea.

Passano a dare da mangiare un po’ più tardi. Danno una scodella a testa, da lappare come cani. Francesco riesce a mettersi a sedere. L’uomo che distribuisce le razioni gliela mette tra le mani. Francesco ringrazia. La porta si è appena chiusa, quando qualcuno gli strappa la scodella.

- Questa la prendo io. Tu hai già mangiato abbastanza nel tuo palazzo.

Nessuno interviene. Francesco non dice nulla.

Le ore scorrono, interminabili. Nessuno gli rivolge la parola, se non per sfotterlo. Gli altri prigionieri parlano tra di loro, come se lui non esistesse. A un certo punto ha bisogno di andare al cesso: nelle celle collettive di solito c’è un buco in un angolo. Chiede dov’è, ma nessuno gli risponde. Incomincia a cercare. Qualcuno gli dà indicazioni, ma sono contraddittorie. Francesco si becca qualche sputo e due calci. Infine trova l’angolo e, tra le risate degli altri, riesce a fare quello che deve.

Poi si stende, completamente privo di forze. La febbre sale di nuovo. Francesco sprofonda in un torpore in cui il mondo circostante svanisce completamente.

La sera la distribuzione del cibo avviene allo stesso modo e nuovamente un prigioniero gli prende la scodella. Francesco ha appena fatto in tempo a bere un sorso. Ha sete e fame. La febbre non lo molla. Francesco cerca di dormire, ma ha la gola riarsa. Ogni tanto geme. A un certo punto gli arriva un violento calcio nelle costole.

- Piantala di spaccare le palle.

Francesco si sforza di trattenere i gemiti.

L’indomani mattina li portano fuori: un’ora d’aria nel cortile. La febbre è un po’ calata, come spesso gli succede il mattino. Francesco riesce ad alzarsi. Durante il cammino gli altri lo spingono, gli fanno lo sgambetto, si divertono a vederlo cadere e rialzarsi a fatica. Come gli è successo tante altre volte in questi giorni, Francesco si augura che la morte venga presto, che le tenebre in cui sprofonda da tempo le inghiottano definitivamente. Altro non desidera, per altro non c’è spazio.

L’aria fresca del cortile gli restituisce un po’ di energia. Rimane immobile: non osa muoversi. Ci sono molti prigionieri, sente diverse voci. Nessuno si occupa di lui. Francesco sa che ci sono alcune vasche a cui i prigionieri attingono acqua per lavarsi, ma non sa dove sono. Sente vicino a lui delle voci diverse da quelle dei compagni di cella. Si rivolge a quegli sconosciuti per chiedere acqua.

Una voce dice:

- Ma chi è ‘sto cieco che puzza di merda?

- E che ne so?

I due riprendono il discorso interrotto. Francesco sente un bisogno violento di piangere.

Al ritorno il tanfo della cella gli toglie il fiato.

La distribuzione del rancio si conclude come il giorno precedente. Francesco cerca di resistere. Una parte del contenuto della scodella gli si rovescia addosso. Un calcio in faccia gli ricorda che non può difendersi. Il sangue gli cola dal naso. Chiede almeno un po’ d’acqua. Nessuno lo ascolta.

La febbre lo assale di nuovo. Non riesce più nemmeno a mettersi a sedere. La sera non prende la scodella: un altro prigioniero la riceve dal carceriere che distribuisce il cibo. A Francesco pare di avere la gola in fiamme. A tratti delira. Chiede ancora acqua. Qualche calcio ben assestato lo mette a tacere.

Il mattino dopo il delirio è continuo. Francesco mormora parole senza senso, chiede acqua, si lamenta. Ogni tanto qualcuno gli molla un calcio, ma Francesco non è più in grado di capire, di controllare i gemiti. Brividi gli percorrono tutto il corpo.

Più tardi portano un nuovo prigioniero. Francesco quasi non se ne accorge. Nuovamente chiede:

- Acqua, acqua…

Qualcuno gli solleva la testa e gli versa un po’ d’acqua in bocca. Francesco singhiozza, l’acqua gli cola sul mento. L’uomo gli dà da bere, poco per volta, con cautela. Francesco ha un attimo di lucidità e ringrazia lo sconosciuto, poi il delirio riprende.

Quando arriva il momento di uscire dalla cella, qualcuno lo fa alzare e lo sorregge, ma Francesco non riesce a camminare. Allora l’uomo lo solleva di peso, prendendolo in braccio. Nel cortile l’aria fresca desta Francesco dal suo torpore. Si rende conto che l’uomo lo ha portando a una delle vasche. Lo sconosciuto gli toglie la camicia lacera e lo lava. Gli dà di nuovo da bere. Poi gli rimette la camicia e gli cala i pantaloni. Lo pulisce con cura, davanti e dietro. Francesco è stremato, la febbre gli toglie le forze, ma prova una gratitudine infinita per questo sconosciuto che gli ha dato da bere e ora gli sta restituendo un po’ di dignità.

Sente la voce di uno dei compagni di cella, Saro, che dice:

- Pulisciglielo con la lingua, il culo, così viene meglio.

L’uomo non dice nulla. Quando ha finito, riveste Francesco, poi lo fa sedere contro il muro. Francesco ne sente la presenza al suo fianco.

Al momento di rientrare, l’uomo lo aiuta a mettersi in piedi: appoggiandosi a lui, Francesco riesce a raggiungere la cella. È esausto. L’uomo lo sistema in un angolo e gli si mette vicino.

Al momento di distribuzione del pasto c’è una discussione tra Saro e l’uomo che lo ha aiutato. Le voci sono aspre. Poi l’uomo gli porge la scodella e lo aiuta a mangiare. Quando Francesco ha finito il contenuto, l’uomo gli dà ancora del cibo. Francesco ha l’impressione che l’uomo gli stia dando anche la sua razione, ma mangia con avidità.

Più tardi l’uomo gli chiede se ha bisogno di andare al cesso. Francesco annuisce. L’uomo lo accompagna. Gli altri si scambiano qualche battuta, sfottono il principe e il suo infermiere personale, chiedono all’uomo se gli farà anche da becchino ed a Francesco che cosa farà quando il suo accompagnatore sarà impiccato. Saro ride e dice:

- Allora, principe, quando impiccano il tuo amico e gli viene duro, tu che fai? Ti siedi sul suo cazzo, così riesci a stare in piedi? O gli bevi la piscia quando se la fa addosso? Così non hai più sete.

Tutti ridono. L’uomo non dice nulla. Anche la sera aiuta Francesco a mangiare.

Nei giorni seguenti, Francesco rimane incosciente buona parte del tempo. Ogni tanto emerge dal delirio e si rende conto che l’uomo gli sta dando da mangiare, lo fa bere, lo pulisce, lo aiuta ad andare al cesso, lo solleva, lo lava.

Francesco ricorda quando sua madre gli parlava dell’angelo custode. Quello sconosciuto è davvero il suo angelo custode. Francesco pensa che almeno non morirà abbandonato come un cane, che una piccola luce lo accompagnerà nel suo viaggio verso le tenebre.

 

La febbre cala. Francesco è debole, ma non delira più. Non riesce ancora ad alzarsi per uscire, ma l’uomo lo prende tra le braccia, lo solleva e lo porta in cortile.

Tre giorni passano così. Francesco si sta riprendendo. Lui e l’uomo parlano poco: quando si dicono qualche cosa, gli altri sghignazzano e commentano, trovando doppi sensi osceni in ogni loro dialogo. Francesco avverte il loro disprezzo, il loro odio, ma poco gli importa. In realtà sono soprattutto Saro e Tano a prenderlo in giro, a insultarlo. Sono due siciliani, condannati a morte per aver stuprato e ucciso una ragazza di buona famiglia, a Portici. Gli altri a volte si uniscono a loro, ma poco gli importa del principe e dell’uomo che ora lo aiuta e lo protegge.

L’uomo si chiama Antonio D’Alessandro. È abruzzese. Non ha parenti, ma una donna ogni tanto gli porta del cibo e del vestiario. Gli altri dicono che è la sua amante, che è una giovane di buona famiglia. Fanno commenti osceni. Antonio divide tutto quel che riceve con Francesco.

Il quarto giorno Francesco è in grado di camminare. Antonio lo aiuta, ma non deve più portarlo o sorreggerlo.

Pochi giorni dopo il carceriere annuncia che alcuni prigionieri saranno trasferiti in un’altra cella. Ci sono Tano e Saro, i due condannati a morte: per loro il giorno dell’esecuzione si avvicina. Poi viene chiamato Antonio e Francesco si sente mancare. Una disperazione cupa lo assale: Antonio va in un’altra cella, forse verrà impiccato. Francesco non può sopportare l’idea che Antonio muoia, né il pensiero di essere nuovamente abbandonato a se stesso, tra l’ostilità degli altri. Ma sente ancora pronunciare il proprio nome e ritorna a vivere. Non è credente, ma gli viene da ringraziare Dio per non averlo separato da Antonio. Non importa se significa che forse entrambi moriranno, purché sia insieme.

Francesco si appoggia ad Antonio nello spostamento. Gli tiene il braccio e le sue dita sentono, al polso, una cicatrice.

Li portano in una cella molto piccola. Sono solo loro quattro. Di lì Tano e Saro saliranno sul patibolo. Sarà lo stesso anche per Francesco e Antonio? Francesco non ha subito un processo, una condanna. E Antonio?

Francesco chiede. Scopre che Antonio è un patriota, in carcere per aver cercato di raggiungere i garibaldini con alcuni compagni. Anche per lui non c’è stato un processo, ma questo significa poco. Gli dei hanno sete di sangue, in questi giorni in cui la fine di un regno si avvicina.

Nel pomeriggio Antonio viene chiamato dal comandante. Francesco ha paura che lo trasferiscano, che lo giustizino. Ora sta meglio, conosce la piccola cella in cui si trovano, ma l’idea di perdere Antonio lo sgomenta.

Mezz’ora dopo che Antonio è uscito, Francesco sente la voce di Saro.

- Come sarà il culo di un principe?

Tano scoppia in una risata:

- Secondo me è caldo come una fessa.

- Ce lo gustiamo, Tano?

- Direi proprio di sì.

Francesco si sente rabbrividire. Ha desiderato che un uomo lo prendesse, in passato, quando ancora aveva desideri, ma certo non vuole subire una violenza.

Due mani robuste lo afferrano. Altre mani gli calano i pantaloni. Francesco lotta disperatamente, ma i due uomini hanno facilmente la meglio: Francesco è cieco e indebolito dalla lunga malattia. Lo gettano a terra. Francesco sente due dita premere contro l’apertura, su cui Saro ha sputato. Urla:

- No! No!

In quel momento la porta si apre.

- Che succede?

Saro e Tano lasciano Francesco, che cerca di risistemarsi, tremando.

Tano risponde al carceriere:

- Niente. Scherzavamo.

L’uomo esce e richiude la porta. Non gli importa niente di quello che fanno i prigionieri nella cella. Ma la domanda viene ripetuta, da un’altra voce:

- Che è successo, Francesco?

È stato Antonio a parlare: il carceriere lo ha riaccompagnato in cella. Le sue parole restituiscono a Francesco la speranza. Ma è Saro a rispondere.

- Succede che adesso glielo mettiamo in culo. E tu puoi scegliere se unirti a noi o farti fottere anche tu.

La voce di Saro è forte, spavalda. Antonio risponde, senza esitare.

- Se ci provi, ti ammazzo.

Tano dà man forte a Saro:

- Ce lo pigliamo e non ti conviene metterti di mezzo.

Antonio accompagna Francesco, che ancora trema, in un angolo della cella.

Poi c’è un colpo. Una bestemmia. Rumore di altri colpi. Un urlo. Altre bestemmie. Francesco è paralizzato dal terrore. Vorrebbe gridare ad Antonio di non difenderlo: preferisce che lo violentino, che lo ammazzino, ma non vuole che Antonio rischi la vita per proteggerlo.

Un urlo più violento di Saro, un rumore secco, come quando un osso si rompe. Poi un silenzio, interrotto solo dalle bestemmie e dai lamenti di Tano, dai gemiti di Saro.

Antonio si siede vicino a Francesco. Lo abbraccia.

- Tranquillo, Francesco. Non ci provano più.

Tano lancia un insulto, ma si tiene a distanza.

 

Il mattino dopo il carceriere arriva con il prete. Francesco rabbrividisce. Chi di loro salirà sul patibolo oggi? Non Antonio, purché non sia Antonio. Francesco preferirebbe che fosse il proprio turno, piuttosto che quello di Antonio.

Il prete si rivolge a Saro e Tano. Tocca a loro.

Uscendo Tano dice:

- Spero che v’impicchino presto, voi e quelle zoccole delle vostre madri.

Ora che sono da soli nella cella, Francesco e Antonio possono parlare liberamente.

Antonio scopre che Francesco è davvero un principe: credeva che gli altri lo chiamassero così per prenderlo in giro.

Parlano del futuro. Tutti e due sperano che l’impresa di Garibaldi riesca. Antonio è entusiasta, sogna un futuro di libertà ed un mondo più giusto. Francesco non si fa molte illusioni su ciò che succederà dopo: cambiare un re è facile, ma cambiare il paese e la gente gli sembra molto più difficile.

Parlano del passato, della loro infanzia, dei loro giochi. Francesco racconta dei suoi studi, della sua famiglia. Antonio evita l’argomento: spiega che in carcere preferisce non dire nulla dei suoi parenti, anche i muri hanno orecchie. A una domanda di Francesco, gli spiega come si è procurato la cicatrice al polso, da ragazzo, quando una pentola messa sul fuoco si è rovesciata ed uno schizzo lo ha raggiunto, ustionandolo.

Poi chiede:

- Quand’è che sei diventato cieco?

- Qui in carcere, qualche settimana fa. In pochi giorni ho perso del tutto la vista.

- Ti sei fatto visitare? Che ha detto il dottore?

Francesco ride.

- Quale dottore? Hai visto come mi trattano. Non posso nemmeno ricevere niente dalla mia famiglia. Quando ho detto che non vedevo più, mi hanno riso in faccia.

Antonio sembra furente.

- Merda! Non è possibile. Non ti curano neanche… Bisogna parlarne al carceriere.

- Quello?

Il carceriere non è lo stesso che ha infierito su Francesco durante il trasferimento, ma di certo non mostra nessun segno di compassione.

- Stanno cambiando atteggiamento, Francesco. Stanno cambiando tutti. Garibaldi è in Calabria. Il re scapperà, ma loro rimangono e sanno che dovranno rendere conto.

Nei giorni seguenti Antonio chiede che Francesco venga curato. Ricorda al carceriere i rischi che corre. Francesco capisce che l’uomo è preoccupato. Nonostante la cecità, anche Francesco percepisce il nuovo clima che si sta creando nella prigione, si rende conto che sono trattati in modo diverso.

Infine arriva la notizia. Domani Francesco sarà trasferito in infermeria, per essere curato.

Francesco non accoglie la notizia con la stessa gioia di Antonio. Ha paura. E, soprattutto, non vorrebbe separarsi da Antonio.

 

È l’ultima notte che trascorrono insieme.

Francesco è angosciato. Non riesce a dormire. Antonio cerca di tranquillizzarlo.

- Vedrai, l’infermeria è un’altra cosa. Sapendo chi sei, ti tratteranno in tutt’altro modo.

Sono stesi uno accanto all’altro.

- Non voglio che ci separino. Come farò…

Francesco non riesce a continuare. Vorrebbe piangere. Antonio lo abbraccia.

- Calmati, Francesco. Pensa che guarirai, recuperai la vista, non dovrai più dipendere dagli altri.

Francesco si stringe contro il corpo di Antonio, alla ricerca di consolazione. Antonio è tutto ciò che ha, non vuole perderlo. Antonio lo abbraccia più forte.

Ora che i loro corpi sono stretti l’uno all’altro, Francesco sente il desiderio prorompere, prepotente. È troppo tardi per cercare di nasconderlo, per staccarsi: la carne lo tradisce, il corpo che preme contro quello di Antonio è quello di un maschio in calore. Francesco prova vergogna, ma quel corpo che lo stringe lo inebria e le sue mani cercano la bocca di Antonio, in una carezza che è una richiesta. Antonio capisce e lo bacia. Quando le loro labbra si incontrano, Francesco sussulta di gioia.

Ora Antonio è su di lui e i loro baci diventano frenetici. Le loro lingue si sfiorano, si accarezzano, i denti mordono leggermente. Le mani di Antonio scendono ad accarezzare il corpo di Francesco. Francesco esita, poi le sue dita scorrono lungo la schiena di Antonio e il contatto con la stoffa gli trasmette i brividi. Antonio si stacca un attimo, poi Francesco sente le sue mani che gli sollevano la camicia. Sono tizzoni ardenti sulla pelle, quelle dita che sfilano l’indumento, che accarezzano la pelle, che stringono i capezzoli.

Antonio si stende di nuovo su di lui. Si è tolto anche lui la camicia e le mani di Francesco possono accarezzare la schiena, scivolare fino ai fianchi.

Si baciano ancora, a lungo, poi Francesco sussurra:

- Prendimi, Antonio.

 

Dopo rimangono stretti l’uno all’altro, finché si mettono a dormire, abbracciati. Francesco sente un benessere infinito avvolgerlo, tra quelle braccia forti.

L’indomani la separazione è una sofferenza lancinante. Francesco vorrebbe rinunciare alle cure, ma Antonio non ne vuole sentire parlare.

 

L’infermeria è un luogo tranquillo. Le suore trattano Francesco con grande gentilezza, il cibo è migliore di quello che Francesco ha ricevuto in prigione. Il dottore incomincia le cure. Francesco non nutre grandi speranze, ma due giorni dopo si rende conto che il buio non è più così completo, distingue delle ombre. In una settimana recupera completamente la vista.

Intanto la situazione è rapidamente cambiata. C’è molta agitazione nell’infermeria e Francesco si rende conto che nei suoi confronti il personale tende a diventare servile. Garibaldi si avvicina, il re si prepara a fuggire, Francesco sarà presto un uomo libero, è un principe, è stato in carcere per le sue idee, potrebbe diventare un uomo influente. In ogni caso la sua famiglia è potente.

A Francesco poco importa di tutto questo, anche se apprezza la pulizia, la cura con cui è trattato. È felice di vedere nuovamente. Ma gli manca Antonio. Che viso ha Antonio? Alcuni tratti di lui glieli hanno rivelati le dita: è più alto di lui, forte, spalle larghe, un naso pronunciato.

L’annuncio della sua liberazione lo coglie di sorpresa. Fuori ci sono sua madre e suo fratello. Francesco è preso in un vortice di domande e novità, ritrova la casa e gli affetti. Ma la sera stessa manda un servitore a informarsi di Antonio.

Antonio D’Alessandro è stato scarcerato, come gli altri prigionieri politici.

Francesco è felice che Antonio sia libero. Lo fa cercare. Vorrebbe ospitarlo. A sua madre e a suo fratello ha raccontato che Antonio gli ha salvato la vita, che ha un debito di riconoscenza enorme nei suoi confronti.

Nessuno sa dove sia Antonio. Nessuno degli altri prigionieri ne ha notizie: non è strano, probabilmente non era con loro. Ma Antonio verrà al palazzo, di sicuro. Sa dove abita Francesco e poi basta chiedere: chiunque a Napoli è in grado di dirgli dove stanno i Roccamarina.

Antonio non si presenta. I servitori che Francesco sguinzaglia alla sua ricerca non trovano traccia di lui. Francesco non si scoraggia. Combatte l’angoscia che preme. Sa qual è il paese di Antonio. Manda un uomo fidato a chiedere notizie. Antonio è di certo tornato in paese. O comunque sapranno che ne è di lui. Non può essere scomparso nel nulla. Francesco è preoccupato, ma si dice che ritroverà Antonio, certamente.

Il servitore ritorna. Ha notizie. Un uomo di nome Antonio D’Alessandro è morto sei mesi fa, mentre cercava di sfuggire alle truppe borboniche.

Francesco non capisce. Sei mesi fa non aveva ancora conosciuto Antonio. Chi è l’uomo che in carcere si faceva chiamare Antonio D’Alessandro?

 

Sei mesi sono passati. Il principe Francesco di Roccamarina ha accettato di collaborare con il nuovo governo nella pacificazione del Sud: il malcontento serpeggia, si temono rivolte. Francesco cerca di dare il suo piccolo contributo alla costruzione di un mondo migliore, evitando nuovi spargimenti di sangue.

Francesco si sposta spesso, per parlare con i notabili, per raccogliere le loro esigenze, per capire la situazione.

L’attività a cui si dedica, spesso frenetica, è l’unica distrazione dal pensiero assillante che lo perseguita. Un pensiero che riemerge ogni volta che si ferma, ogni volta che la sua mente è libera di vagare. La sua ossessione è un uomo che non ha mai visto e di cui non conosce neppure il nome. Un uomo che ha amato, che ama, con tutto se stesso. Un uomo che gli ha salvato la vita, si è preso cura di lui, lo ha pulito, lo ha difeso, lo ha posseduto, regalandogli il piacere più intenso della sua vita. Un uomo che è scomparso nel nulla.

E un’idea angosciosa riemerge ogni volta: Antonio – l’uomo che per lui è Antonio – non lo ha mai amato. Non lo ha cercato, non si è fatto vivo, neppure per salutarlo. E perché avrebbe dovuto amarlo? Che cosa ha fatto Francesco per lui? Nulla.

A Francesco pare di sprofondare nuovamente nelle tenebre, come quando era in carcere ed aveva perso la vista. Nessuna luce appare all’orizzonte, a indicargli un cammino.

 

Francesco è a Lagonegro, per una delle sue missioni.

È notte, ma Francesco non ha voglia di mettersi a dormire. È irrequieto. Il pensiero di Antonio gli martella in testa.

Francesco esce dalla villa in cui gli è stato assegnato un appartamento. Intorno all’edificio si estende un grande giardino. Francesco passeggia tra le aiuole e gli alberi maestosi: nel silenzio della notte, la luce lunare e le grandi ombre trasformano il parco in un mondo irreale. Francesco percorre i viali, poi si ferma in un angolo dove il buio è quasi completo. Ripensa ai giorni terribili in cui era cieco e si dice che rinuncerebbe alla vista pur di avere ancora vicino Antonio. Il pensiero è tanto angoscioso, che a Francesco sfugge un singhiozzo.

Riprende a camminare e raggiunge il cancello. Qui si ferma: sa che uscire e allontanarsi sarebbe pericoloso, la zona è infestata da briganti. Gli è stata persino assegnata una scorta per garantire la sua sicurezza.

Può sentire la voce di un soldato che parla, oltre il cancello, nascosto dal muro. Di certo è uno dei soldati di guardia che chiacchiera con un compagno. L’uomo racconta di quando prestava servizio in Calabria. Poi il soldato chiede all’altro dove era prima dell’Unità d’Italia.

L’uomo risponde e per Francesco è un barile di polvere che esplode: Francesco ha l’impressione che il mondo intero si stia dissolvendo in frammenti, cancellato dalla voce che racconta.

Perché quella voce Francesco la conosce, non potrebbe mai dimenticarla. È la voce che ha accompagnato il suo ritorno alla vita in carcere, la voce che lo ha consolato, lo ha incoraggiato, lo ha sostenuto, ha minacciato chi lo attaccava, gli ha sussurrato parole sconce mentre il suo corpo godeva.

Francesco si appoggia al muro: non riesce a stare in piedi. Poi si muove di scatto, preso dal terrore che la voce possa fermarsi, sfuggirgli nuovamente.

È fuori. Vede i due uomini, due sagome che la luce della luna permette di scorgere abbastanza bene. La voce che parlava tace di colpo, ma Francesco sa benissimo che appartiene a quell’uomo alto e robusto che è a due passi da lui.

L’altro uomo lo riconosce:

- Principe…

Ma Francesco ha afferrato il polso destro dell’uomo ammutolito. Le sue dita distinguono il profilo della cicatrice e il cuore si dilata e si restringe, in una vertigine di dolore e speranza, gioia e disperazione.

Francesco sibila:

- Tu…

L’uomo non dice nulla. L’altro soldato è rimasto senza parole, sbalordito dall’apparizione improvvisa del principe, da quel riconoscimento che sembra un atto di accusa.

- Vieni con me.

Antonio – si chiama davvero Antonio? – china la testa, rassegnato all’ineluttabile, e segue il principe di Roccamarina, che gli stringe il polso in una morsa, quasi temendo che possa ancora sfuggirgli di mano e svanire nel nulla.

In silenzio, in assoluto silenzio, ritornano nella villa. Salgono le scale. Raggiungono il salottino di fianco alla camera del principe. Ora, alla luce delle candele, Francesco guarda l’uomo che ama. Se l’è immaginato in mille modi, ma ora che lo vede, sente che non poteva essere che così. I capelli scuri, gli occhi grigi, il viso dai tratti decisi, il corpo forte.

Antonio tiene gli occhi bassi.

- Antonio…

Francesco si interrompe.

- Come ti chiami?

Antonio alza lo sguardo.

- Mi chiamo Nicola, Nicola Sabato.

Francesco non dice nulla. Antonio prosegue e spiega.

- Antonio D’Alessandro era il mio migliore amico, potrei dire mio fratello. Lo avevano allevato i miei genitori, quando era rimasto orfano. Quando abbiamo cercato di raggiungere i garibaldini, è stato ucciso. Io ho preso il suo nome perché sapevo che se mi avessero condannato, avrebbero sequestrato tutte le proprietà della mia famiglia. Non siamo ricchi e non volevo che i miei si riducessero in miseria per colpa mia. Quando sono uscito dal carcere, ho fatto sistemare le cose.

Francesco annuisce. Ha ascoltato e capito a metà, la voce di Nicola è un balsamo sulle sue ferite, un vino che inebria, che impedisce di concentrarsi. Ma ora che Nicola tace, la domanda preme.

- Perché?

Nicola non capisce. O forse non vuole capire.

- Perché che cosa? Non volevo…

Francesco lo interrompe, impaziente:

- Perché non ti sei fatto vivo? Perché non mi hai cercato? Perché mi hai abbandonato?

E di colpo il dolore esplode, incontenibile, e Francesco vorrebbe fuggire, non vedere più Nicola, piangere, lasciarsi morire.

- Vi ho cercato.

Il voi è uno schiaffo. Francesco barcolla, come se davvero Nicola l’avesse colpito. Nicola ha di nuovo abbassato gli occhi.

- Mi hai cercato?

- Quando uscii dal carcere, mi dissero che anche voi eravate stato liberato. Chiesi dove abitavate e mi diressi verso il vostro palazzo. Ma mentre attraversavo Napoli, avevo dei dubbi, mi chiedevo se davvero avevate voglia di vedermi ancora. Io… Quando arrivai davanti al vostro palazzo…

Nicola scuote la testa, in viso un ghigno amaro che Francesco può appena scorgere, perché Nicola ha chinato il capo e sembra fissare il tappeto.

- La casetta dove abitavamo io, mia madre e mia sorella ha quattro stanze. I terreni bastano appena per vivere. A me già pareva di essere ricco e fortunato, avevo anche studiato… Poi vidi il vostro palazzo. Che ci facevo io lì davanti? Me lo chiese anche il portiere. Io risposi che passavo e volevo vedere il palazzo dei Roccamarina.

C’è un momento di pausa. Poi Nicola conclude:

- Mi sono unito ai garibaldini, poi mi sono arruolato nell’esercito italiano ed ora sono qui. Quando mi hanno assegnato a voi come scorta, ho chiesto al comandante di esonerarmi, ma lui non ha voluto sentire ragione.

Francesco chiude gli occhi. Il dolore è troppo forte. La voce gli trema, quando parla:

- E… non ti sei chiesto che cosa avrei provato io, non vedendoti più. Non ti sei chiesto…

Francesco si volta, fa due passi. Le gambe non reggono. Si siede su una sedia, rivolto verso la finestra. Non può guardare Antonio, no, non è Antonio, è Nicola.

- Nicola!

Fa fatica a pronunciare quel nome sconosciuto.

- Principe…

Francesco si alza di scatto e parla con violenza, controllando a fatica la voce:

- Basta! Ero Francesco quando mi lavavi, quando mi abbracciavi, quando mi imboccavi. Mi davi del tu, mi volevi bene, allora…

Le lacrime sgorgano, Francesco prova ancora a fermarle.

- Ora… non…

- Principe… Francesco… Io… sono un soldato… non ho niente.

Francesco non cerca più di controllare le lacrime, lascia che scorrano, troppo profondo è il gorgo che lo inghiotte. Crolla sulla sedia.

- Sei tutto quello che volevo, Nicola. Sei tutto quello che voglio. Che cosa m’importa… Ma a te non importa nulla di me…

Non è più in grado di parlare. I singhiozzi lo scuotono.

Nicola è vicino a lui.

- Francesco.

Francesco alza il viso e lo guarda.

- Ti amo Francesco. Ho pensato a te ogni giorno, da quando ci siamo lasciati. Ma non potevo…

Francesco si alza, abbraccia Nicola, appoggia la testa sul suo petto, lascia che le mani di Nicola gli accarezzino il capo.

- Anch’io ti amo, Nicola.

È avvinghiato ad Nicola, teme quasi che possa ancora sfuggirgli.

- Rimarrai con me, Nicola. Rimarrai con me, vero?

Nicola lo bacia sulla bocca.

- Se è questo che desideri…

- Tu non lo desideri?

Francesco ha bisogno di sentirselo dire.

- Lo desidero, l’ho sempre desiderato, ma mi sembrava troppo bello.

Si baciano ancora.

Le carezze asciugano le lacrime. Francesco riemerge dagli abissi e lentamente la disperazione svanisce.

Una sensazione di benessere invade Francesco. Ha finalmente trovato quello che cercava. Altro non desidera.

Man mano che entrambi recuperano la serenità, i loro baci diventano ardenti, le carezze più audaci. Ora i loro corpi sono avvinghiati l’uno all’altro e quel contatto li accende di uno stesso fuoco. Allora, ridendo, Nicola solleva Francesco tra le braccia e gli dice:

- Ti faccio vedere che ti desidero. Da che parte è la camera da letto?

Francesco ride, felice di essere tra le braccia di Nicola. Indica la camera.

Nicola entra, getta Francesco sul letto e poi gli salta addosso. Ridono, poi smettono di ridere e si baciano, un bacio ardente. Rotolano sul grande letto, abbracciati. Poi Nicola incomincia a spogliare Francesco. Francesco lo lascia fare e lo guarda. Finalmente può vedere l’uomo che ama. Nicola gli toglie gli abiti e man mano che scopre un braccio, una gamba, il petto, il ventre, il sesso, le sue dita accarezzano e stuzzicano, i denti mordicchiano, le labbra baciano.

E infine Francesco è nudo davanti ad Nicola, che si alza e lo guarda, come paralizzato.

Francesco parla, la voce roca dal desiderio:

- Spogliati, Nicola. Voglio guardarti mentre ti spogli.

Nicola sorride e annuisce.

Si toglie la giacca e poi la camicia, mettendo in mostra il torace, muscoloso, la peluria scura più fitta intorno ai capezzoli. Poi si toglie gli stivali ed infine si cala i pantaloni e le mutande, rimanendo nudo davanti al letto.

Ora Francesco è tra le braccia di Nicola. Nicola lo sta prendendo. Francesco ritrova il dolore ed il piacere di quella notte in carcere e si sente felice. Nicola è suo, non lo perderà più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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