Attenti al cane

 

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a One e Neu

 

Esterno giorno, tramonto. Tamerlano era un bellissimo dobermann, che stava per portare a spasso Leonardo Patti, per gli amici Leo. Quello che stava arrivando di corsa invece era Luca Ricciardi, il suo nuovo dirimpettaio. Con lui, per il momento, solo ‘buongiorno e buonasera’. Non sembrava molto socievole. Sarà che Tamerlano, la prima volta che se l’era visto di fronte sul pianerottolo delle scale, si era precipitato ad auscultargli le palle. Leo gli aveva spiegato che il suo cane voleva solo fare amicizia, ma forse Luca non gli aveva creduto, tanto è vero che da allora li evitava.

-       Buongiorno. - disse Leo mentre quello sfrecciava dentro il portone.

-       Bngiooooorn. - rispose Luca, senza frenare e senza nemmeno un grazie per averglielo tenuto aperto.

“La prossima volta glielo faccio sbattere sul naso.” pensò Leo.

Gli avevano riferito che faceva lo chef da qualche parte, ma lui non era stato a sentire. In quel condominio nessuno sembrava conoscere l’undicesimo comandamento: fatevi i cazzi vostri. Per Leo invece era sacrosanto. Per questo non stava mai molto attento quando lo bloccavano sul portone per raccontargli le ultime novità degli abitanti dell’intero palazzo, cinque piani più attico, con giardino condominiale. Non è che se ne fregasse del mondo intero. Piuttosto preferiva avere notizie di prima mano, dai diretti interessati, ma solo nel caso che questi non potessero proprio fare a meno di raccontargliele.

Tamerlano lo trascinò a viva forza verso il parco. Leo era sempre più convinto che soffrisse di deficit di accudimento, ma lui non poteva fare di più: già passava tutto il suo tempo libero con quel cane. Per fortuna, aveva un lavoro. Certo, era un po’ rischioso, ma fino ad allora gli era andata bene.

Quando giunsero all’area riservata ai cani, sganciò il guinzaglio dal collare, lasciando che Tamerlano si lanciasse in una folle corsa. Già non lo vedeva più. Lo seguì con metodica calma, con il passo rilassato e pigro di quando era fuori servizio. Accese una sigaretta e si guardò intorno. Vide le solite facce, a cui associava automaticamente l’immagine dei cani di cui erano i padroni. Quella però era un’espressione che lo faceva un po’ sorridere. Era infatti sempre più convinto del contrario, e cioè di essere lui lo schiavo di Tamerlano. Non sapeva come buttasse per gli altri, ma per lui la tirannia del suo quadrupede si era manifestata chiaramente sin da subito. Quando lo guardava, sembrava dicesse ‘Ehi, amico, non t’illudere, il capo sono io.

Dopo l’ultima storia andata a male, quando il suo compagno, Andrea, gli aveva preferito un altro più giovane di lui, ritornare ogni giorno nella sua casa vuota lo stava deprimendo. Così, alle soglie dei quaranta, invece di cercarsi un nuovo amore, attività per cui non si sentiva più disponibile, aveva deciso di prendersi un cane, un compagno più fedele dell’altro, che potesse ritrovare sempre in casa quando rientrava dal lavoro. Non era stata una cattiva idea. Tamerlano gli aveva cambiato la vita. Quarantacinque chili di affetto tutto per lui, distribuiti per un’altezza di settanta centimetri, che lo aspettavano ogni sera dietro la porta del suo appartamento, con due scopi ben precisi, dimostrargli la sua gioia di rivederlo e attendere pazientemente il mezzo chilo di carne e i trecento grammi di riso con verdure che Leo gli avrebbe preparato per cena. Tamerlano gli stava sempre vicino, tranne quando, come in quel momento, si sentiva libero di scorrazzare nel parco. Ma non è che si dimenticasse di lui, Leo lo sapeva bene. Lo teneva sempre d’occhio, da lontano, e se si avvicinava qualcuno per scambiare due chiacchiere, nel giro di un nanosecondo se lo ritrovava accanto, per controllare che andasse tutto bene. Se non c’era pericolo, si allontanava, ma restava comunque nei paraggi, come un monito all’audace che si era permesso di avvicinarsi a lui senza il suo consenso. Forse Tamerlano era persino geloso, ma di questo Leo non era sicuro. Forse si trattava di un’ulteriore dimostrazione dell’istinto di difesa del territorio. Leo era il suo territorio. Uno schiavo, appunto, di sua proprietà. E a questo si era ormai rassegnato.

 

-       Accidenti! Ho finito il sale. E adesso? - disse a Tamerlano.

Ma il suo amico lo guardò con l’espressione chiusa di una sfinge. Poi gli voltò le spalle, come a dire “arrangiati.”

Fino a poco tempo prima, avrebbe bussato alla porta della signora Rosa. Lei aveva sempre tutto ed era ben contenta di aiutarlo. Gli diceva: “Qualche volta perché non viene a prendersi un caffè da me, così facciamo due chiacchiere?”

Questo era successo dopo che Andrea se n’era andato. Prima, lo guardava  con una certa disapprovazione, però era sempre stata gentile. E adesso che di fronte abitava quel tizio dall’aria sospetta, non pensava certo di andargli a chiedere un po’ di sale. E poi quello non c’era mai, tranne il lunedì.

“Ma è lunedì!” pensò Leo.

Quando infine si decise, chiuse la porta in faccia a Tamerlano, dicendogli che tornava subito. Fece i quattro passi che lo separavano dalla porta dell’interno numero 6 e suonò il campanello, senza molte speranze di ricevere una risposta. Nel momento in cui stava già per tornare indietro, la porta si aprì sulla faccia seria di Luca Ricciardi, che, con una bandana rossa in testa e un grembiule dello stesso colore avvolto intorno ai fianchi, brandiva minacciosamente un cucchiaio di legno dall’aspetto robusto. Leo pensò che, anche bardato così, il suo vicino manteneva tutta l’apparenza di un pessimo soggetto.

-       Ciao. Scusami se ti disturbo. Avresti un po’ di sale? - gli disse Leo, senza badare che fino a quel momento si erano sempre dati del lei.

-       Sì, vieni in cucina, prima che mi si attacchi tutto.

-       Scusa ancora, ma ero convinto di averne un pacco intero, e invece...

-       Non c’è problema. Eccolo, su quella mensola. - indicò Luca, mentre tornava a mescolare qualcosa in un tegame.

Leo guardò sulla mensola, restando disorientato. C’erano otto barattoli di qualcosa che assomigliava vagamente al sale, ma ciascuno di un colore diverso. Leo lo guardò in cerca d’aiuto. Luca si voltò a fissarlo, poi lasciò rassegnato il mestolo e si avvicinò. Quindi, con un dito, gli indicò i barattoli, uno ad uno, chiamandoli per nome e presentandoglieli come fossero suoi amici.

-       Sale nero di Cipro, sale dell’Atlantico francese, australiano del fiume Murray, sale di Bali, rosso delle Hawaii, bianco grosso di Cipro, sale rosa dell’Himalaya, sale marino integrale delle antiche saline di Trapani.

-       Io, veramente... Mi serviva del comune sale da cucina.

-       In nessuna cucina ci dovrebbe mai essere nulla di comune. - sentenziò Luca, seriamente.

-       A parte che nella mia. Allora, è vero che sei uno chef?

-       È questo che si dice di me?

-       Già.

-       Sì, è vero. Da chi l’hai saputo?

-       Scusa, non è che di solito faccia caso ai pettegolezzi, comunque non me lo ricordo. Fa differenza? È un segreto?

-       No, è un lavoro. Per me è anche la passione della mia vita.

Solo in quel momento, guardando i suoi occhi che brillavano, Leo si accorse che erano di un bel verde intenso.

Attraverso le pareti sottili, si udì l’abbaiare di un cane.

-       Accidenti, Tamerlano mi reclama. Devo andare. Allora, se non ti dispiace, il sale?

-       Quel tuo cane è un terrorista.

-       Ma no, è buonissimo, solo che gli ho detto che sarei tornato subito e la sua idea di ‘subito’ dev’essere appena scaduta.

-       Come faccio a darti il sale giusto se non mi dici cosa stai cucinando?

-       A dire il vero, ancora niente.

-       Così è impossibile!

-       Dai, dammi quello integrale, male non può fare.

-       Facciamo così, visto che ancora non hai nemmeno iniziato, vai a far tacere quell’accidente di cane e poi torna qui, così ti faccio assaggiare una cosa.

Leo guardò Luca con sospetto. “Quell’accidente di cane” non doveva dirglielo.

-       Grazie, ma ancora non ho preparato la cena per Tamerlano. Sarà per la prossima volta. Adesso me lo dai un po’ di sale, per favore?

-       Come vuoi. - grugnì Luca, afferrando bruscamente un piattino e lasciandoci cadere un paio di manciate di puro sale integrale di salina.

-       La strada la sai. - disse, scontroso, tornando ai fornelli.

Leo rispose sbrigativamente - Grazieeciao. - mentre fuggiva come un ladro da quella cucina aliena e sconcertante. Tornato nel suo appartamento, Tamerlano si calmò subito. Per farsi perdonare, Leo gli mise il cd che gli piaceva tanto, i Notturni di Chopin.

 

Dopo la storia del sale, i loro rapporti di buon vicinato progredirono: quando s’incontravano, si dicevano “ciao”.

Di lì a poco, a Leo fu assegnato un turno che finiva intorno alle due di notte. Doveva essere lo stesso orario di Luca al ristorante, perché s’incontravano quasi tutte le notti. Leo era sempre poco incline alla conversazione e Luca, perennemente imbronciato, era uno che se ne restava graniticamente sulle sue. Quindi, passarono al “ciao” sul portone, all’ostinato silenzio in ascensore e al “buonanotte” sul pianerottolo del terzo piano.

Dopo il turno di notte, Leo aveva diritto a due giorni di riposo e capitò che uno di questi fosse un lunedì. Stava rientrando dal parco con Tamerlano, quando incontrò sul portone Luca. Lasciò che entrasse per primo.

-       Davvero è buona quella belva? - gli chiese Luca, tenendogli il portone aperto.

-       Stai attento a quello che dici. Capisce tutto. Comunque, sì, è un cane buono. Molto curioso, attento e intelligente.

-       Sarà, ma mi mette in uno stato d’ansia.

-       Non ne vedo il motivo. Prendilo tu l’ascensore, se ti disturba. Noi possiamo aspettare.

-       Ma no, dai, salite.

Il silenzio calò nel piccolo vano in movimento. Si sentiva solo il respiro pesante di Tamerlano, che aveva corso come un pazzo.

Con le chiavi già nella toppa, Luca si voltò e gli disse:

-       Ti va di cenare con me?

Leo si stupì dell’invito. Niente nei loro freddi incontri casuali aveva dato a Leo l’idea che potessero diventare amici. Lui di sicuro non ci teneva. Senza contare che il costante broncio di Luca non faceva presagire alcuna svolta di quel tipo. Però non voleva offenderlo con un rifiuto, che sarebbe stato il secondo. Non gli piaceva l’idea di averlo per nemico, uno così. Quindi decise di accettare.

Leo guardò Tamerlano, come per chiedergli il permesso.

-       Sei molto gentile, ma dovrò prima preparare la cena per lui.

-       Certo, sennò chi lo sente? Quando hai finito vieni pure di qua.

-       Va bene, grazie. A dopo.

Mentre gli preparava da mangiare, Leo spiegò al suo cane che sarebbe uscito. Sperava che non facesse storie. Del resto erano stati insieme tutto il giorno. Di sicuro non si sarebbe sentito abbandonato.

Al momento di uscire di casa, decise di non presentarsi a mani vuote. Il suo amico e collega Marco gli aveva portato una bottiglia di liquore alla liquirizia che facevano in Calabria, proprio dalle sue parti. Gliel’aveva decantato come un ottimo digestivo, ma Leo non si era ancora deciso a stappare quella preziosa piccola bottiglia nera.

Luca gli aprì la porta con la solita bandana rossa e un grembiule nero con scritto ‘boss’ in caratteri rossi.

-       Cosa mi porti?

-       Liquore alla liquirizia. Non so se è degno della tua cucina, ma mi hanno assicurato che è buonissimo.

-       Bene. Lo proveremo.

Leo, che fino a quel momento si era sentito molto teso, si rilassò visibilmente.

-       Dai, entra, non ti mangio mica.

Leo sorrise.

-       In effetti, non mi aspettavo questo invito.

-       Per uno chef mangiare da solo è una sofferenza. Senza nessuno che ti dica bravo, beh, è davvero dura. - gli disse, sorridendo con ironia.

-       Allora basta dirti bravo, per conquistarti?

-       Perché? Mi vuoi conquistare? - ribatté con sguardo ammiccante e malizioso.

-       Intendevo... - annaspò Leo, odiandosi per quella battuta inopportuna.

-       ... Dai, scherzavo. Sai, devi davvero imparare a rilassarti. - lo interruppe Luca.

-       Ci sto provando.

-       Siediti.

Al centro dell’enorme cucina bianca e quasi asettica, c’era un’isola con l’ampio piano cottura, il lavabo e un tagliere di almeno un metro, che sembrava di legno di ulivo. Appoggiato al lato esterno c’era un mensolone con alti sgabelli, dove Leo si sedette, proprio di fronte a Luca. 

-       Mentre finisco qui, ti va di bere qualcosa?

-       No, grazie.

-       Non dirmi che sei astemio.

-       No, no. Altrimenti il mio amico non m’avrebbe portato quella bottiglia.

-       Ah, è vero.

-       Però bevo raramente, soltanto durante i pasti e quando non sono in servizio.

-       In servizio dove? Che fai?

-       La guardia giurata per un istituto di vigilanza, la SecurityPol.

-       Ah, beh, certo che ti conviene restare sempre sobrio e vigile.

-       Aiuta, in effetti.

-       Io invece sono un depravato, ma per il buon esito dei miei piatti non fa molta differenza. Ho uno staff ben addestrato. Sanno quello che devono fare anche se qualche volta mi distraggo.

-       Sei tu il capo?

-       Col mio carattere mi sarebbe difficile sopportare di non esserlo. Sono un vero despota.

-       Soltanto in cucina o anche nella vita?

-       Boh, la mia vita è la cucina. Quindi sono a posto. Poi da quando mi sono trasferito qui, non è che abbia trovato il tempo per farmi degli amici.

-       Dove stavi prima? - gli chiese Leo, osservandolo pestare in un mortaio alcuni granelli colorati. Dall’odore doveva trattarsi di pepe.

-       In giro per il mondo. Ho iniziato sulle navi da crociera, poi sono stato un po’ a zonzo, Parigi, Londra, New York...

-       Dev’essere stato magnifico sulle navi da crociera.

-       Mica tanto. Eravamo centoquattordici cuochi e facevamo turni di venti ore. Non scendevo mai a terra. Quand’ero libero mi limitavo a dormire, giorno o notte che fosse. Ma allora ero un ragazzo. Potevo sopportarlo. Poi è diventato tutto troppo pesante e ho deciso di cercare fortuna sulla terraferma. Devo ammettere che di fortuna ne ho avuta tanta. Ho lavorato con i migliori. Sono entrato in contatto con chef del calibro di Joel Robuchon, Federic Bau, George Blanc, Alain Ducasse, tutti tre stelle.

-       Mi dispiace, non conosco nessuno di quell’ambiente.

-       Beh, ti assicuro che si tratta di pezzi da novanta.

-       Sono felice per te.

Luca lo guardò con un misto d’irritazione e incredulità.

-       No, invece, non te ne frega niente. Perché mi dici cazzate?

-       È un modo di dire. Intendevo che mi fa piacere che ti sia andata bene.

-       Non mi piace la gente falsa.

-       Se preferisci, posso stare zitto.

-       Mi danno sui nervi quelli che cercano di blandirmi a tutti i costi.

Leo si alzò di scatto.

-       Senti, chef, io non ti conosco, ma mi pare di capire che hai un carattere di merda. Io ho già il mio da tenere sotto controllo, quindi, se non ti dispiace, me ne torno a casa mia, dove non devo pesare le parole col bilancino.

 Luca gli bloccò la strada con un mestolo.

-       Facciamo così. Io ti chiedo scusa e tu torni a sederti. Cercherò di evitarle io, le cazzate, dal momento che sei tanto permaloso.

-       Permaloso, io?

-       Allora, vogliamo dire ipersensibile?

-       Mi sa che non dovevi avere tanti amici nemmeno dove stavi prima.

-       Touché. - commentò Luca, ridendo.

La serata proseguì con Luca che cercava di mantenere la conversazione entro confini accettabili e Leo che restava sulle spine, pesando con accuratezza le parole. Ma la cena fu sublime, per lo meno per Leo, che non era affatto abituato a certe prelibatezze. I suoi commenti, però, furono misurati e volutamente molto succinti, espediente che privò Luca della benché minima soddisfazione. Del resto se l’era cercata. Assaggiarono anche il liquore di Marco. Leo ne fu entusiasta, ma non disse una sola parola. Luca mantenne un’espressione del tutto indifferente, ma Leo catturò il lampo di appagamento che per un attimo aveva attraversato lo sguardo dello chef.

Prima di andarsene, Leo si decise a fare un passo che forse era un po’ prematuro, ma a cui teneva molto.

-       Da quando ho Tamerlano temo che se mi succedesse qualcosa, lui resterebbe privo di assistenza. Alla signora che abitava qui prima di te, avevo lasciato le chiavi di casa mia. Così almeno c’era qualcuno che poteva entrare in casa e portargli da mangiare in mia assenza. Ti andrebbe di tenerle tu, adesso?

-       Il tuo cane mi odia.

-       Non è vero.

-       Ha tentato di mangiarsi i miei gioielli di famiglia.

-       Non dire cazzate. Voleva solo fare amicizia.

-       Ah, davvero? È così che fa amicizia?

-       Memorizza l’odore delle persone, così può distinguere gli amici dai nemici. Adesso conosce il tuo odore e ti riconosce. Quando sei sul pianerottolo non abbaia mai, mentre quando si avvicina un estraneo dà subito l’allarme.

-       Ah, è così?

-       È così.

Luca sospirò.

-       È solo un rito scaramantico il tuo, vero? Beh, allora dammele, ste chiavi. Tanto, se dovesse proprio servire, ci manderò qualcun altro. Non mi fido del tuo cane. A proposito, se ti succede qualcosa io come faccio a saperlo?

-       Dammi il tuo numero di cellulare.

-       Questa scusa, con me, non l’aveva ancora usata nessuno.

-       E piantala di dire cazzate.

-       E poi dici che non sei permaloso... In ogni caso non c’è problema. Non ti succederà mai niente.

-       Non vorrei che fossero le ultime parole famose.

 

Quando un collega si ammalò, Marco propose di assegnare Leo alla sua squadra. Era da tempo che non riuscivano a fare un turno insieme. Sul furgone portavalori si facevano lunghe chiacchierate. Era così che erano diventati amici, qualche anno prima. Il servizio era più delicato e pericoloso, ma non gli risultava che ci fossero mai stati tentativi di rapina, in tutta la storia della SecurityPol. Questo lo rassicurava parecchio. Quando finivano il turno, a volte si fermavano a bere una birra, per rilassarsi. Marco gli parlava spesso di Sonia, la sua bambina di due anni. Era innamorato di lei. Sua moglie lo prendeva anche in giro, dicendogli che la stava viziando troppo, che ne sarebbe venuta fuori una di quelle donne antipatiche che si credono la principessa sul pisello. Leo gli parlava qualche volta di Tamerlano e di come si sentisse meglio da quando c’era lui nella sua vita.

-       Ma quand’è che ti trovi una donna?

-       Sto aspettando che lei trovi me. - rispondeva Leo.

Sul lavoro non aveva mai avuto la forza di dichiarare la sua omosessualità, nemmeno con Marco, ma pensava che in fondo non avesse alcuna attinenza col servizio. Cosa c’entrava? Che differenza avrebbe fatto? E poi, dopo Andrea, non aveva più cercato nessuno. Preferiva starsene da solo. Quando proprio ne sentiva il bisogno, declamava ironicamente

“Molto egli oprò col senno e con la mano”

quindi chiudeva la porta della camera da letto e, lontano dallo sguardo curioso di Tamerlano, si dedicava a se stesso senza alcun rimpianto. Ultimamente, in quei momenti, gli appariva la fosca immagine del suo odioso vicino in bandana.

Quella settimana gli capitò il primo turno, che finiva alle quattordici e che gli permetteva di fare qualche ora di straordinario. Per quello Leo era sempre disponibile. I soldi gli servivano.

Il lunedì seguente fece addirittura un doppio, perché l’influenza imperversava e c’erano molti colleghi in malattia. Al suo ritorno, trovò Tamerlano con un foglio di carta stropicciato in bocca.

-       Che cos’hai là? Dammelo.

Tamerlano si oppose, mugolando, indignato.

-       Dai, dammelo. - insistette, senza risultato.

-       E va bene. - si rassegnò Leo, andando a prendere la sua palla di gomma preferita.

Tamerlano mollò il foglio, per impossessarsi della palla.

Il foglio era inzuppato di bava, bucato e masticato, ma Leo, svolgendolo, riuscì a leggere un paio di parole scritte a stampatello, che si erano salvate dall’ingordigia del suo cane. VIENI e LUCA. Tutto qui.

Mentre metteva a lessare il riso per Tamerlano, chiamò Luca sul cellulare.

-       Ciao, chef. Credo che tu mi abbia lasciato un messaggio sotto la porta, ma il cane se l’è mangiato. Che c’era scritto?

-       Era un invito a cenare con me. È lunedì, la mia serata libera. Odio mangiare da solo. Che fai? Vieni?

-       Subito non posso.

-       Vieni quando vuoi.

-       Va bene, grazie.

-       Ehi, Tamerlano, lo sai che il nostro vicino è un grande chef? E tra poco io andrò ad approfittarne. E tu non farai storie. Capito?

Il dobermann guaì, con la palla in bocca.

Quando infine Tamerlano abbandonò la palla per buttarsi sul cibo, Leo uscì di casa.

Con Luca non andò meglio della volta precedente, ma Leo, forse perché si sentiva molto stanco, s’incazzò a velocità supersonica, rispondendogli subito per le rime.  Prima ancora di mettersi a tavola, si erano già mandati a cagare un paio di volte.

-       Senti, Bandana Jones, lo sai che hai proprio un carattere del cazzo?

-       Certo, che lo so, ma mi pare che tu mi faccia degna concorrenza.

-       Allora? Che faccio? Mi levo dai coglioni o mi dai da mangiare lo stesso?

-       Allora? Penso che potremmo diventare ottimi amici.

Suo malgrado, Leo scoppiò a ridere.

-       In fondo, ma molto in fondo, anche se sei un vero stronzo, non so perché ma mi stai quasi simpatico.

-       Tu invece mi stai proprio sul cazzo, ma siccome odio mangiare da solo, mi fai il favore di venire a cena qui, tutti i lunedì. Hai capito?

-       Tutti i lunedì? - si stupì Leo, sgranando gli occhi.

-       Tutti.

-       Ma sei normale?

-       No. Non l’hai ancora capito? Sei pure lento di comprendonio.

-       Ti rendi conto che non saprei come sdebitarmi?

-       Ma sei proprio un coglione. Sei tu che fai un favore a me.

-       Hai uno strano modo di ragionare.

-       Non ti spremere il cervello, lascia perdere. Non sempre si può arrivare a capire tutto.

-       Tranquillo. Per una cosa del genere non ho nessuna intenzione di mettere al lavoro neppure un paio dei miei neuroni.

-       Anche perché sarebbe un’impresa improba, visto che sono gli unici due superstiti che ti restano. Di che ti sei fatto, in gioventù, che sei riuscito a sterminarli così?

-       Mai usati stupefacenti.

-       Peccato. Speravo di utilizzare il tuo pusher.

La cena fu all’altezza della precedente. Leo commentò con la medesima moderazione, per far dispetto a Luca. Ma Luca poteva valutare il grado di gradimento di Leo, dalle espressioni estasiate che passavano fulmineamente sulla sua faccia, quando non riusciva a trattenersi.

 

      Luca non riusciva a capire bene che tipo fosse Leo, ma gli piaceva. Gli piaceva molto. Prima di tutto, perché sapeva tenergli testa e quindi discutere e litigare con lui gli dava una vera soddisfazione. Secondo, perché lo trovava affascinante. L’unico neo era che doveva imporsi di andarci piano, perché aveva capito subito che non era della sua parrocchia, anzi, gli dava fastidio qualunque allusione. Quindi, vietato farsi strane idee. Non che ci fosse questo pericolo. Dall’ultima volta che gli era capitato d’innamorarsi erano passati vent’anni. Luca era sicuro di non esserne più capace. Meglio così. Ma una bella amicizia ci poteva stare.

 

      L’appuntamento del lunedì sera divenne un’abitudine. Una sera, però, Tamerlano fece ostruzionismo. Non aveva visto Leo per tutto il giorno, e la sera precedente, a causa della pioggia, aveva dovuto accontentarsi di un rapido giretto intorno all’isolato. Tamerlano si sentiva trascurato. Quando Leo gli disse che andava a cenare dal vicino, cominciò ad abbaiargli contro, sbarrandogli la strada.

-       Smettila, Tamerlano!

Ma il cane sembrava non avere alcuna intenzione di smetterla.

-       Starò via solo un paio d’ore.

Ma il dobermann non ne voleva sapere. Neppure i Notturni di Chopin sortirono l’effetto desiderato.

Dopo cinque minuti di quella solfa, suonarono alla porta. Nel vano delle scale apparve Luca, con l’espressione più incazzata che mai.

-       Allora, la vuoi smettere di abbaiare, rompiscatole? - urlò, rivolto al cane.

Tamerlano si zittì immediatamente.

-       Come hai fatto? - gli chiese Leo, con lo stupore dipinto sul viso.

-       Sono più incazzato di lui. Si vede che è davvero intelligente. L’ha capito.

-       Senti, chef, non posso lasciarlo da solo, stasera. Si sente abbandonato.

-       E tu portalo, tanto ha già mangiato. Non credo che rischieremo di farci rubare il cibo dai piatti. L’hai addestrato, no?

-       Ma certo.

-       Allora venite di là. Se per avere te devo sopportare anche lui, per una volta farò un sacrificio.

Quando furono tutti in cucina, Luca indicò un angolo e ordinò al cane:

-       Tu vai a cuccia!

Tamerlano lo guardò, poi si voltò verso Leo, poi guardò di nuovo Luca, che indicava insistentemente l’angolo, quindi ancora Leo. Comprendendo che da lui non avrebbe potuto ottenere alcun aiuto, capitolando, si accucciò nell’angolo, appoggiando la testa alle zampe, con la rassegnata espressione di un martire.

-       Oltre che da chef, hai studiato anche da addestratore?

-       Che differenza c’è? In un caso e nell’altro è bene mettere subito in chiaro chi comanda.

-       Me ne ricorderò.

Tra una discussione e l’altra, anche quella cena fu da oscar. Leo, forse perché addolcito dalla concessione di potersi portare dietro il cane, non poté esimersi, una tantum, dal complimentarsi con Luca.

-       Non mi deludere così. Eri l’unico che mi dava il dispiacere di non leccarmi il culo.

-       Senti, chef, per i miei gusti, stasera hai superato te stesso. Ma visto che sei il solito stronzo, non te lo dirò mai più, nemmeno se crepi.

Luca scoppiò a ridere.

-       Bene! È così che ti voglio!

A Leo quella frase rimase impigliata nella mente, trasformandosi in un piccolo tarlo dispettoso, che rodeva un po’ di qua e un po‘ di là, a seconda della direzione in cui lo scacciava. 

Alla fine della cena, Luca riesumò la bottiglia di liquore alla liquirizia.

-       Ce n’è ancora? Non ci posso credere. - si stupì Leo.

-       Te l’ho conservato, visto che ti è piaciuto tanto.

-       Chi l’ha detto?

-       Io lo dico. Chiedi al tuo amico dove diavolo l’ha preso, così faccio un ordine per il ristorante.

-       Dici sul serio?

-       Su argomenti di lavoro non scherzo mai.

-       Glielo chiederò.

-       Bravo.

 

 Come gli accadeva sempre più spesso durante il servizio, il suo pensiero rincorreva le conversazioni con Bandana Jones, del lunedì precedente. Ma solo quando arrivò al giovedì, Leo si ricordò di chiedere a Marco la provenienza esatta di quel liquore, abbandonando per un momento il controllo della strada.

-       Ti è piaciuto, eh?

-       Sì, è buonissimo. Ma l’informazione non è per me. Lo vuole sapere uno chef che l’ha assaggiato e pensa di ordinarlo per il suo ristorante.

-       Sono contento. Lo produce un mio amico. Finora l’ha sempre venduto solo a clienti privati della zona. Non so se ne fa abbastanza per una distribuzione più vasta, comunque ti scrivo l’indirizzo, così il tuo chef lo può contattare.

-       Non è il mio chef. - rispose Leo, incazzato.

Si rese immediatamente conto di aver esagerato.

Marco lo fissò, un po’ stupito.

- Era un modo di dire. Certo, non intendevo...

Leo si sentì arrossire. Per fortuna la scarsa luce all’interno del furgone non avrebbe permesso a Marco di vederlo.

-       Scusa. - disse Leo.

-       Non c’è bisogno che...

-       ... Marco, se sono un po’ suscettibile, a volte, non farci caso. Sono proprio uno stronzo.

Marco gli porse il biglietto su cui aveva scritto l’indirizzo.

-       Che c’è, Leo?

-       Niente.

Per la prima volta Leo sentì la necessità di confidarsi con Marco. Stava già per aprire bocca, per parlare, quando una frenata brusca inchiodò il furgone, sballottandoli uno sull’altro. Nel medesimo tempo, il loro collega alla guida urlò:

-       Ci assaltano! -

Poi alcuni colpi di kalashnikov colpirono il furgone. Per fortuna la blindatura tenne. Si erano distratti per un attimo e non si erano accorti di niente. Era colpa sua. Leo si maledisse. Estrassero le pistole e scrutarono l’esterno, dove un gruppetto di individui vestiti di pelle nera, armati, e con il volto nascosto da caschi integrali, si stava avvicinando di corsa. C’era qualcosa di strano in quell’immagine, ma Leo non ebbe il tempo di soffermarsi su quel fugace pensiero. Uno di loro trasportava una tanica di benzina, mentre un altro brandiva un accendino di quelli grandi, da barbecue.

-       Cazzo! Ci vogliono dare fuoco! - urlò Marco. - Usciamo! Usciamo da qui! -

Si era fatto prendere dal panico. Era già con la mano sul maniglione, prima ancora che Leo riuscisse a dirgli di non fare cazzate.

- Fermo! - urlò Leo.

Troppo tardi. Quando Marco scese dal furgone sparando, a Leo non restò altro che seguirlo. L’autista stava urlando alla radio di mandare rinforzi. Leo non capì più niente. Da una parte tentava di coprire Marco, dall’altra cercava di non farsi ammazzare. Aveva sganciato il cervello, agendo solo d’istinto. L’adrenalina lo faceva muovere sparando all’impazzata, mentre i suoi sensi registravano contemporaneamente la provenienza dei colpi, le urla, l’odore della polvere da sparo e il suono dei proiettili che fischiavano intorno a lui. Senza sapere come ci fosse arrivato, si ritrovò al riparo dietro un furgone parcheggiato a pochi di metri di distanza. Per un attimo aveva perso di vista Marco. Si guardò intorno e lo vide, a qualche passo da lui, riverso sul marciapiede. Un rivolo di sangue si stava allargando sull’asfalto.

- Marco! - urlò.

Avrebbe voluto avvicinarsi, per accertarsi che non fosse nulla di grave, ma appena messa fuori la testa dal suo riparo, un proiettile si piantò nel furgone, a dieci centimetri dai suoi occhi, mentre un altro gli si conficcava nel braccio come una saetta di fuoco. Il bruciore lo fece vacillare, togliendogli il respiro. Poi, nel giro di pochi minuti, due auto di grossa cilindrata sgommarono fuggendo a tutta velocità, e ritornò il silenzio. Dimenticando il dolore, Leo si precipitò su Marco, chiamandolo. Ma Marco non poteva sentirlo. Non avrebbe più sentito nessuno. Il colpo lo aveva centrato alla testa.

 

Il suo braccio andava molto meglio, ma la sua testa continuava a rifiutarsi di funzionare. Dopo l’intervento che gli aveva eliminato il piombo dal braccio, l’avevano attaccato a una flebo e gli avevano somministrato un calmante.  Bloccato sul suo letto d’ospedale, si limitava a ripetersi che era colpa sua. Soltanto colpa sua. Nonostante il giubbotto antiproiettile, si era fatto cogliere da un terrore indescrivibile. Rivedeva l’intera scena, come al rallentatore. Marco che correva davanti a lui, quei bastardi che lo prendevano di mira, lui che sparava a casaccio per difenderlo, mentre intanto cercava un riparo.  Lo stupore che Marco non fosse già dietro il furgone, la scoperta che l’avevano colpito. Ma c’era dell’altro. Quelle figure nere che volavano intorno al furgone come calabroni impazziti, erano donne. Sì, ne era sicuro, erano donne quelle che avevano assaltato il blindato. Quattro in tutto, con le voci metalliche attutite dai caschi e alterate da qualche congegno elettronico. Ma Leo non poteva essere di alcuna utilità per ritrovarle. Non avrebbe mai potuto riconoscerle.

Lo disse alla polizia, quando vennero ad interrogarlo. Anche l’autista, per quanto gli fu dato di capire, doveva aver fornito la stessa testimonianza.

-       È proprio sicuro che fossero tutte donne?

-       Sì, non ho dubbi.

-       Quante ne ha contate?

-       Erano in quattro. Si muovevano con un’agilità impressionante. Ne ho vista una saltare sul furgone come un’acrobata.

-       Il suo collega ci ha detto che avevano una tanica di benzina.

-       Sì, è così.

-       Sul posto non l’abbiamo trovata.

-       Devono essersela portata via. Ma sull’asfalto avrà lasciato qualche traccia. Ne avevano già versata una parte sotto il furgone, quando ne siamo scesi.

-       È per questo che avete abbandonato il blindato?

-       Il mio collega ha capito che stavano per darci fuoco e probabilmente ha preferito scendere, approfittando del fatto che almeno due di loro erano sul lato opposto a quello della portiera.

-       Avete visto da dove arrivavano le due auto, prima che si parassero davanti a voi?

-       Mi dispiace, in quel momento non stavamo guardando. L’autista ha frenato di colpo, urlando che ci stavano assaltando. Era la prima volta che mi capitava. A dire il vero non ho avuto tempo per pensare. Si è svolto tutto troppo in fretta.

-       Capisco.

Leo immaginò un tono di condanna nella voce del poliziotto e si maledisse per l’ennesima volta.

-       Purtroppo ho anche una brutta notizia da comunicarle. Il suo collega non ce l’ha fatta. Mi dispiace.

-       Lo so. L’ho capito subito.

-       Quando starà meglio, dovrà passare da noi per il verbale.

-       Verrò appena posso.

 

Finalmente Leo si ricordò di Tamerlano. Era il momento di avvertire Luca. Toccava a lui, adesso, portargli da mangiare. Gli seccava chiedergli quel favore, ma non aveva nessun altro a cui rivolgersi. Luca l’avrebbe odiato. E questo era un pensiero che non gli piaceva affatto. Anche se faceva fatica ad ammetterlo, anche se c’era finito dentro senza neppure sapere come, anche se...  Ma poi si rassegnò a farlo. Gli spiegò molto brevemente quello che era accaduto, lo avvertì che avevano intenzione di tenerlo in ospedale per un paio di giorni, e infine, controvoglia, gli chiese di occuparsi del suo cane. Luca sembrava molto preoccupato.

-       Non è niente. Tornerò presto in circolazione.

-       Non è per te che mi preoccupo, ma per quell’accidente di dobermann. Cosa diavolo devo dargli da mangiare?

Leo glielo spiegò per filo e per segno.

-       Che verdure?

-       Quelle che vuoi tu. Fa lo stesso. Comunque, preferisce le carote. Ah, non mettere sale. Non c’è abituato.

-       Che delizia.

-       È un cane. Non mangia come noi.

-       Ma certo, fino a lì c’ero arrivato. E se mi salta addosso quando entro, che faccio?

-       Tu portagli la cena, vedrai che la preferirà al doversi mangiare te. Non esitare, davanti alla porta. Entra da padrone e chiamalo per nome. E poi parlagli, spiegagli la situazione. Lui capisce. Digli che starò via solo due giorni.

-       Sì, come se i cani avessero il senso dello scorrere del tempo.

-       Tamerlano ce l’ha.

 

Non era vero che Luca non si fosse preoccupato per Leo. La sua voce gli era sembrata provenire dall’oltretomba. Ma quando gli aveva detto che in due giorni sarebbe stato dimesso, aveva fatto un respiro di sollievo. Non poteva essere una ferita grave. Però tra il preoccuparsi per lui e il confessarglielo, ce ne passava. Invece, quel rompiscatole di cane se la doveva vedere con lui. Luca si armò di tutta la pazienza che gli concedeva il suo pessimo carattere, preparò la cena per l’odiato cane, non senza l’inevitabile aggiunta di un tocco da chef, e quando uscì dal ristorante gliela portò. Come gli aveva consigliato Leo, non esitò davanti alla porta, ma irruppe in casa come un Panzer che nessun ostacolo avrebbe potuto fermare. Il dobermann lo accolse in atteggiamento vigile, con le orecchie tese, uno sguardo carico d’incomprensione e la potenza monsonica di una scoreggia.

-       Tamerlano, non mi fai impressione. Se vuoi la guerra, guerra sia. - minacciò Luca, rispondendo con un sonoro rutto emesso con una sorprendente ampiezza di toni bassi.

Il cane lo fissò con evidente rispetto, abbassò le orecchie e poi gli leccò la mano in segno di devota sottomissione.

-       Bene, riconosci un capo, quando lo vedi. Tutto sommato, può darsi che per te ci sia ancora speranza.

Andò in cucina a cercare la scodella del cane, ci versò il cibo e gliela spinse sotto il muso. Intanto riempì quella dell’acqua, che era quasi prosciugata. Quand’ebbe finito, si accorse che il dobermann aveva ripulito fino all’ultima briciola.

-       E no, non m’incanti. Tu sei un buco nero travestito da cane.

Tamerlano sollevò un paio di volte la testa, come a dire “Hai ragione, ma non posso farci niente”, quindi si tuffò a bere come se dovesse fare rifornimento in vista di una traversata del deserto. Luca riempì di nuovo il catino e intanto gli spiegò che Leo non sarebbe tornato per due giorni. Mentre lo faceva, si sentì smisuratamente ridicolo, ma lo sguardo del dobermann sembrava animato da un’intelligenza quasi umana, che lo confortò.

-       Torno domani, rompiscatole.

Il cane guaì.

 

Quando gli permisero di lasciare l’ospedale, Leo si recò direttamente al commissariato per rilasciare la sua deposizione e firmare il verbale. Poi tornò a casa. Tamerlano gli saltò addosso, leccandogli la faccia.

-       Piano, mi fai male. Sì, lo so che sei contento di vedermi, ma ora lasciami andare.

Dopo aver appoggiato la pistola sul tavolo, si spogliò della divisa che aveva dovuto di nuovo indossare al momento delle dimissioni. Era bucata e sporca, ma non aveva potuto evitarlo. Piuttosto che chiedere a Luca di portargli degli abiti puliti, si sarebbe fatto bucare l’altro braccio. Già era in imbarazzo per averlo dovuto pregare di pensare a Tamerlano, sapendo quanto lo odiasse.

Con un senso di oppressione alla testa si distese sul divano. Non riusciva a smettere di pensare a Marco. Immaginò il dolore della sua famiglia. A chi era toccata la triste incombenza di avvertire Marina? Come si faceva a dare una notizia del genere? Lui non ci sarebbe mai riuscito. Si costrinse a telefonare in sede per sapere quando ci sarebbero stati i funerali.

Sarebbe stato un sabato pomeriggio deprimente.

 

Prima che lo diventasse, e prima di recarsi al ristorante, Luca bussò alla sua porta.

-       Hai un aspetto di merda.

-       È esattamente come mi sento.

-       Allora è perfetto. Fa male il braccio?

-       Non tanto. Solo quando me lo tocco. Vuoi provare?

Luca ignorò il suo sarcasmo.

-       Che cazzo è successo? Me lo racconti dall’inizio? Al telefono non ho capito niente.

Leo glielo raccontò, con il maggior numero possibile di dettagli.

-       L’ho sempre detto che le donne sono pericolose. - commentò Luca.

-       Sì, bisogna evitarle accuratamente.

-       È quello che faccio io da una vita.

-       Anch’io.

Luca sollevò un sopracciglio e lo studiò attentamente per qualche secondo.

-       Sei bravo a nasconderlo. Mi avevi fregato.

Leo non aveva alcuna voglia di approfondire l’argomento.

-       Come te la sei cavata col cane?

-       Ho dovuto subito mettere in chiaro chi comanda. Così è andata benissimo.

-       E come hai fatto?

-       Questo è un segreto che resterà tra me e lui.

-       L’importante è che ora andiate d’accordo.

-       Sì, d’amore e d’accordo, ma vedi di non farci un altro scherzo del genere, per favore. Adesso devo proprio andare. Mi raccomando, ti aspetto lunedì a cena.

-       Sì, grazie. E grazie per esserti preso cura di Tamerlano.

-       E piantala di ringraziarmi.

 

Non aveva mai visto la moglie di Marco e nemmeno la figlioletta Sonia, ma Leo le riconobbe subito, quando arrivò in chiesa. Poco dopo la piccolina fu presa in braccio da una donna energica e sbrigativa, che la condusse fuori, lontano dalla vista del dolore inconsolabile della madre.

Leo si avvicinò per farle le condoglianze. La donna non smise di piangere, ma si limitò a ringraziarlo con sguardo vacuo. Non gli sembrò né il caso, né il momento di spiegarle chi fosse. Era per colpa sua che Marco si trovava dentro quella cassa. Non era giusto che lui, che non aveva nessuno, fosse ancora là, mentre Marco, che aveva moglie e figlia, finisse sottoterra. Avrebbe dovuto avvenire il contrario. Sicuramente anche Marina doveva pensarla così.

Tornò a casa infinitamente depresso. Più tardi Tamerlano tentò in tutti i modi di fargli capire che aveva fame, ma Leo era distratto, mille miglia lontano. Alla fine il cane gli spinse ai piedi la ciotola vuota e abbaiò per farsi notare.

-       Sì, hai ragione. Adesso ti preparo la cena.

Ma una volta finito, si rifiutò di mangiare qualcosa anche lui. Sentiva un nodo che gli legava le viscere. Non avrebbe potuto ingoiare neppure un sorso d’acqua. Si buttò sul divano e si perse nei suoi pensieri deliranti finché non si addormentò.

Non andò meglio per i due giorni successivi.

Dimenticava di mangiare e di bere e aveva finito le sigarette. Vagò per casa in cerca di un pensiero che potesse rimetterlo in carreggiata, ma sembrava che della sua vita precedente non fossero rimasti che vani brandelli. Si mise a pulire la pistola, la sua fedele CZ 75 B, che aveva salvato la sua inutile vita. E Marco era morto per colpa sua.

Tornò sul divano, la pistola ancora in mano. La guardò affascinato. La osservò a lungo, l’accarezzò, ne sentì il consolante peso tra le mani, il buon odore di lubrificante, poi si appoggiò la canna alla tempia.

Tamerlano si mise ad abbaiare come un forsennato. Ma Leo non ci badava, non lo sentiva nemmeno.

Luca invece lo sentì benissimo. Se il cane di Leo abbaiava in quel modo, doveva avere un motivo indiscutibilmente valido. Si precipitò a tutta velocità sul pianerottolo e visto che non c’era nessuno, comprese immediatamente che il pericolo doveva trovarsi all’interno dell’appartamento di Leo. Irruppe in casa nel giro di pochi secondi. Quando Luca lo vide, con l’arma puntata alla testa, piombò su di lui, strappandogli la pistola e schiaffeggiandolo con forza.

-       Che cazzo volevi fare, stronzo? - gli urlò, con una dose di rabbia proporzionata alla paura che si era preso.

Leo non rispose. Grosse lacrime iniziarono a scorrergli sul viso. Tamerlano, che si era zittito non appena l’aveva visto entrare, andò a leccargli una mano in segno di gratitudine.

Luca abbracciò Leo, per confortarlo e per calmarsi anche lui, mentre il cane appoggiava la testa sulle gambe del suo padrone e ogni tanto dava una sniffatina malinconica alla mano di Luca. Rimasero così per un bel pezzo, come se, muovendosi, rischiassero d’infrangere un equilibrio che finalmente sembrava perfetto.

Quando gli sembrò che Leo si fosse un po’ ripreso, gli chiese:

-       Ha mangiato questo cane?

-       No. - rispose Leo, con voce soffocata.

-       Ci penso io. Tamerlano, tu resta qui e se si muove, saltagli addosso, per favore.

Il cane mugolò un assenso, tornando ad appoggiare tutto il peso della sua testa sulle gambe di Leo, ben deciso ad obbedire alle consegne. A scanso di equivoci, Luca raccolse la pistola e se la portò via.

Quando, più tardi, Luca fischiò dalla cucina, Tamerlano s’irrigidì, tese le orecchie e poi galoppò via, nell’istante stesso in cui Luca riappariva in soggiorno, armato di un bicchiere.

-       E adesso tocca a te. Immagino che non avessi alcuna intenzione di venire a cena da me. Ma ora, non ti andrebbe di mangiare qualcosa?

-       No. Non ho fame.

-       Allora mi fai il favore di bere questo e poi ti metti a letto.

-       Che cos’è?

-       Puro fuoco per le budella.

-       Non...

-       Bevi! - gli ordinò con un tono di quelli che non si possono ignorare.

Leo bevve ubbidientemente, a piccoli sorsi, finché un calore incredibile non gli si diffuse in tutto il corpo. A stomaco vuoto, la sua mente si annebbiò in fretta. Luca lo condusse in camera da letto, lo aiutò a spogliarsi, come un bambino, facendo molta attenzione al braccio fasciato, poi lo mise a letto e gli rimboccò le coperte. Leo chiuse subito gli occhi.

Luca restò a guardarlo, si assicurò che dormisse, poi tornò in soggiorno.

-       E adesso, Tamerlano? Che faccio? Mica lo posso lasciare da solo. Se poi si sveglia e si taglia le vene? Che dici, resto?

Il dobermann gli leccò la mano e poi, col muso, lo spinse verso la camera da letto.

-       Va bene, se proprio insisti...

 

Leo si svegliò tra le braccia di Luca. Non capiva come ci fosse finito, ma era una bella sensazione. Si ricordò dell’immane cazzata ch’era stato sul punto di fare la sera precedente. Si ricordò che Luca l’aveva salvato da se stesso. Si chiese come fosse arrivato a desiderare di farla finita, ma le sue idee erano molto confuse. Aveva una gran fame, ma non voleva muoversi da quella posizione prodigiosa. Le braccia di Luca erano calde e forti, il suo petto un cuscino perfetto. Anche Luca era sveglio.

-       Buongiorno. Come va?

-       Benissimo. - rispose Leo.

- Mi fa piacere.

-       Luca...

-       Ti rendi conto che è la prima volta che mi chiami per nome?

-       Davvero?

-       Sì, di solito mi chiami chef, ma una volta mi hai chiamato Bandana Jones. Mi è piaciuto. Cosa volevi dirmi, Leonardo?

-       Tutti mi chiamano Leo.

-       Io non sono tutti.

-       Luca...

Tamerlano saltò sul letto. Luca lo fissò con severità.

-       Che vuoi tu? Non lo vedi che stiamo parlando? Scendi subito!

Il dobermann abbassò le orecchie, ubbidì scendendo dal letto e andò ad accucciarsi in un angolo.

-       Bravo! - gli dissero in coro.

Poi scoppiarono a ridere. E subito dopo gli occhi verdi di Luca, sfoderando un magnetismo irresistibile, si piantarono in quelli castani di Leo. Senza rimanerne neppure sorpreso, Leo fu ben felice di farsi calamitare, mentre Luca lo attraeva con indiscussa perizia. Quando le loro labbra si raggiunsero, Tamerlano guaì, ma restò dov’era, osservando incuriosito quel lungo bacio.

-       Io trovo che sia un buon inizio. - commentò Luca, staccandosi da Leo.

-       E io, un lieto fine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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