Fantasie serali - Enzo, lunedì il secondo
corso B2.2 lo prendi tu. Guardo Micaela, un po’
spaventato. - Un corso B2.2? Non l’ho
mai fatto. Fino a ora ho lavorato con
allievi che conoscono solo un po’ la lingua (livello A2 o B1). Le classi dei principianti
(A1) e quelle di livello superiore (B2 e C1) sono sempre state seguite da insegnanti
esperti. - Te la caverai benissimo.
Il libro è dello stesso corso che usiamo per il B1. Te ne do una copia, così
puoi guardartelo. Annuisco. Non dovrebbe
essere così difficile. Per certi versi dovrebbe essere persino più facile:
gli allievi parlano abbastanza bene l’italiano. Sarà un po’ più pesante la
correzione dei compiti, questo sì, perché al livello B2 sono in grado di
scrivere testi più lunghi. Questa è una scocciatura, perché noi insegnanti
abbiamo quasi tutti un corso il mattino e un corso il pomeriggio. “Noi insegnanti”. Mi fa un
po’ ridere. Non sono un insegnante, sono (per poco ancora, spero) uno
studente. L’anno prossimo dovrei prendere il dottorato di ricerca e
concludere gli studi per iniziare una brillante carriera di disoccupazione o
sottoccupazione a lungo termine. Ho insegnato tutto l’anno,
due volte la settimana, in un corso per migranti presso un centro d’accoglienza
gestito dalla Caritas. Puro volontariato. Così ho conosciuto la
coordinatrice, Micaela, una donna in gambissima. All’inizio di giugno,
chiacchierando con lei, le ho detto che contavo di cercarmi qualche lavoretto
a luglio e agosto. L’anno scorso ho fatto il corriere per una delle varie
aziende che consegnano cibo a domicilio, ma ho lavorato tanto e ho guadagnato
pochissimo. Micaela mi ha proposto di lavorare alla Dante, una scuola per
stranieri che vogliono imparare l’italiano. In estate ci sono sempre parecchi
iscritti e gli insegnanti fissi non sono sufficienti, per cui assumono
personale esterno. L’offerta è fantastica. Non pagano molto gli insegnanti,
ma rispetto a quanto prendevo consegnando pizze, è uno stipendio da nababbi. Gli allievi sono del tutto
diversi da quelli dei corsi alla Caritas: in maggioranza si tratta di uomini
e donne che hanno contatti di lavoro con l’Italia e che devono venire spesso
nel nostro paese per affari oppure di studenti, ad esempio quelli che
intendono iscriversi al Politecnico in autunno e hanno bisogno di migliorare
il loro italiano. C’è anche qualcuno che lo fa solo per proprio gusto
personale e nell’ultimo corso avevo un uomo che conta di sposarsi tra tre
mesi con un’italiana. Adesso riparto con due
nuovi corsi: una classe A2.2, in cui ci sono diversi allievi che già hanno
frequentato il corso precedente con me, e questo nuovo corso B2.2, che mi
spaventa un po’. La classe del livello B2.2
è formata da sedici persone, cinque donne e undici uomini, perlopiù tra i
venti e i quaranta. Sono tutti nuovi arrivati nella scuola, mentre l’altro
corso B2.2 è formato in prevalenza da chi ha appena concluso il livello
precedente, il B2.1. Come al solito, nella
prima lezione mi presento io e poi li faccio lavorare in gruppi di quattro.
Ognuno deve presentarsi ai componenti del gruppo, i quali dovranno poi
raccontare agli altri che cosa hanno scoperto dei propri compagni. Io li osservo un momento,
poi passo da un gruppo all’altro. Ogni tanto qualcuno mi chiede un termine.
Se parlano inglese, me mi pongono la domanda in quella lingua, altrimenti
cercano di spiegarsi in altro modo. Tra gli uomini ce n’è uno
che mi piace. Mi ha colpito subito, appena sono entrato in classe. Deve avere
una quarantina d’anni, ha un fisico atletico, la testa rasata e la barba
molto corta. Le braccia sono pelose. Lo guardo un po’ troppo e
lui se ne accorge e mi sorride. Un bel sorriso. Cerco di sorridere anch’io,
un po’ in imbarazzo, ed evito di farmi beccare di nuovo a fissarlo, ma ogni
volta che lo guardo mentre lavora con i compagni sembra che se ne accorga e
alza la testa verso di me. Arriva il momento della
presentazione. Scopro che si chiama Julius. I suoi compagni riferiscono
quello che lui ha raccontato di sé: ha trentadue anni, è belga, ma ha una
nonna, due zii e diversi cugini italiani. Sua nonna Agata era la figlia di
uno dei tanti operai italiani emigrati in Belgio. Un impiegato della fabbrica
si innamorò di lei e la sposò: così Agata rimase in Belgio, mentre i suoi
genitori e i fratelli ritornavano in Italia. Julius ha già girato
l’Italia. Questa volta ha deciso di trascorrere quindici giorni a Milano per
migliorare il suo italiano un po’ incerto. Forse in futuro lavorerà in
Italia, ma è solo un progetto. Per queste due settimane ha fatto uno scambio
con uno dei cugini: gli ha ceduto il suo appartamento a Bruxelles e lui si è
trasferito qui a Milano. Quando si tratta di
presentare gli altri del gruppo, Julius fa la sua parte. A un certo punto non
sa come dire “cognato” e dice: - Il marito della sorella. Come cazzo si dice? Nel corso del pomeriggio
noto ripete “Come cazzo si dice?” più volte e poi mi guarda sempre e sorride.
Spero che gli altri non imparino da lui questa espressione: dovrei mettermi a
spiegare perché in molte situazioni è preferibile evitarla. Per il giorno dopo assegno
come compito una breve presentazione di se stessi. Ho detto “breve”, come se
tenessi conto della loro limitata disponibilità di tempo: hanno solo questa
sera e domani mattina per scriverla. In realtà spero che i testi non siano troppo
lunghi, perché sono io che ho davvero poco tempo per correggerli: dovrò farlo
domani sera o al massimo dopodomani, nella pausa tra le lezioni del mattino e
quelle del pomeriggio. Non è proprio l’ideale. Per fortuna casa mia non è
distante dalla scuola: ci metto appena un quarto d’ora a piedi. A casa ripenso a Julius.
Proprio un bel maschio. Chissà com’è senza vestiti… Secondo me fa la sua
porca figura. Ha le spalle larghe e deve avere un torace muscoloso. A
giudicare dalle braccia dev’essere piuttosto peloso e a me piacciono i maschi
con un po’ di pelliccia. E sotto (non sotto la pelliccia, sotto la cintura,
visto che si parlava di torace)… sotto dev’essere ben dotato, un bel cazzo
vigoroso. Adesso il mio cazzo alza la testa. Gli dico di andare a cuccia, che
è tutta teoria. Lui mugugna un po’, dicendo che si sente trascurato. Lo
blandisco promettendogli che prima o poi gli presterò attenzione. Lui
borbotta che sono tutte promesse da marinaio. Squilla il telefono e vado a
rispondere, interrompendo le sue lamentele. La seconda lezione si
svolge senza intoppi. Mi sento più sicuro e direi che facciamo un bel lavoro.
La classe risponde bene ed è un piacere lavorare con allievi che sono in
grado di formulare frasi di senso compiuto, anche se magari non sempre
corrette. All’inizio della lezione
mi consegnano i compiti. Nell’intervallo, incomincio a correggere. Quando
l’intervallo sta per finire, arrivo al compito di Julius. Scrive le cose che
ha detto ai compagni, ma aggiunge altro: In
giugno il mio compagno ha lasciato dopo otto anni me (metto “mi ha lasciato”). Siamo andati sempre a vacanza insieme
(suppongo che voglia dire “andavamo”; tiro una riga su “a” e metto “in”). Ho deciso che andavo (propongo: “di
andare”) in Italia e studiare (sostituisco
“e” con “a”) l’Italiano (correggo la maiuscola) e dimenticare quella testa di cazzo (l’ha scritto perfettamente).
È ora di incominciare la
lezione. Metto via i compiti: ne rimangono solo tre o quattro. Non ci metterò
molto a correggerli questa sera. Entro nell’aula. Julius mi sorride, come
sempre. C’è qualche cosa di indefinibile in quel sorriso. Una presa per il
culo? Forse. Sono un po’ irritato, non saprei neanch’io dire perché: nel
compito non c’è nulla che giustifichi il mio fastidio e il suo sorriso non è
certo offensivo. Cerco di non lasciare trapelare la mia irritazione: non
avrebbe nessun senso. Julius mi piace e proprio per questo il suo modo di
porsi mi mette un po’ a disagio. Tutto qui. Per il giorno dopo assegno
alcuni esercizi sul libro: li correggeremo insieme in classe e questo mi
eviterà di dover impiegare altro tempo a casa. Un altro testo di Julius però
lo avrei letto volentieri. A casa penso di nuovo a
Julius. Lavoro un po’ sull’immagine che mi sono fatto ieri, aggiungendo
qualche dettaglio. Una peluria abbondante anche sul ventre, coglioni belli
grossi. Mi immagino la sua grossa mano pelosa che stuzzica il cazzo. Ovviamente il mio cazzo
alza di nuovo la testa: mai una volta che si faccia i cazzi suoi. Mi
suggerisce di voltare Julius. Perché no? Lui è una testa di cazzo, ma l’idea
è buona. Julius da dietro. Spalle larghe, schiena possente. La preferirei
senza peli. Magari un tatuaggio su una spalla, che so, una testa di lupo
celtica. E un altro tatuaggio sul culo, dal lato opposto, ad esempio nodi
intrecciati, qualche cosa di non troppo vistoso. Oppure no, va bene anche nessun
tatuaggio sul culo. Invece pelo, parecchio. Sulla schiena i peli non mi
piacciono, ma sul culo sì. Il mio cazzo ormai è teso
e mi propone di darmi da fare. Gli dico che se lo può scordare. Ne nasce una
discussione: mi accusa di provocarlo e poi sottrarmi alle mie responsabilità.
Lo ignoro. Lui chiede un minimo di comprensione, ma anche la carta della
solidarietà con me è sprecata. Lascio perdere Julius
(peccato, però) e passo ai compiti da correggere. Il giorno dopo nell’intervallo
alcuni si avvicinano per chiedermi qualche cosa. Julius rimane nei dintorni e
quando non c’è più nessuno e io penso di poter finalmente andare nella sala
per gli insegnanti e rilassarmi un momento, Julius si avvicina e mi chiede: - Cazzone vuole dire che
l’uomo ha un grande cazzo? Mi controllo per evitare
di scoppiare a ridere. - No. È un insulto. Vuol
dire stupido. - Ah! Cazzone è come testa
di cazzo? - Sì, è la stessa cosa. - E cazzone e coglione?
Quale differenza è? - Nessuna. Tutti e due
vogliono dire stupido. Certo che di parolacce ne sai. Julius sorride. È solo una
mia impressione o c’è qualche cosa di mefistofelico nel suo sorriso? Risponde: - Ho sei cugini in Italia.
Tutti maschi. Tutti cazzoni. Ride. Io annuisco, dico
che devo andare via un momento e mi allontano. In sala insegnanti mi viene da
sorridere ripensando alle parole di Julius. La seconda parte della
lezione si svolge senza intoppi. Julius non interviene molto, ma non è
neppure uno di quelli che non parlano mai. Sul suo viso però mi sembra sempre
di vedere un’espressione beffarda. Sono io che me l’immagino? Per l’indomani assegno
come compito un testo su come trascorrono la giornata in questo periodo. La sera ripenso a Julius
(sono ripetitivo, lo so). Mi piace, parecchio, lo devo ammettere. È gay, in
questo momento non ha un compagno e sembra essere interessato a me. Forse è
solo un’impressione, è possibile. Ma credo che le sue domande nell’intervallo
fossero un modo di stuzzicarmi. È un bel maschio. Mi piacerebbe davvero
vederlo senza vestiti. Mi accorgo di una certa tensione negli slip. Farei
meglio a pensare ad altro, ma non c’è nessuno, non ho programmi per la serata
e perciò provo di nuovo a spogliare mentalmente Julius. Spalle larghe, abbiamo
detto; fisico atletico, questo lo diamo per assodato, come pure il pelo. Approfondiamo
il discorso sui tatuaggi. Non mi dispiacciono, purché non siano troppo
estesi. Qualche cosa su uno dei pettorali, magari una rosa, sì, me lo vedo
bene con una rosa, che sottolinea per contrasto la sua virilità. E sulla
schiena? Qualche cosa ci starebbe bene, magari un serpente su una scapola. O
un motivo astratto su un fianco. Proseguiamo con l’esame. Il cazzo? Grosso,
di sicuro, l’avevo già pensato (diamo per scontato anche questo, tanto non
avrò modo di verificare). Circonciso o no? Non ho particolari preferenze.
Anche i coglioni sono grossi. Culo? Muscoloso e sodo, abbastanza peloso (già
detto anche questo, lo so). Adesso il mio cazzo ha alzato la testa, ma non
conti su di me, non intendo collaborare. Lui s’incazza (il che ci sta anche),
osserva che l’ho messo io in queste condizioni e adesso è compito mio
rimediare. Io gli rispondo: “Col cazzo! Non è colpa mia se sei una testa di
cazzo e ti accendi per niente.” Lui si finge offeso, mi fa notare che non gli
do la minima soddisfazione da parecchio e propone una collaborazione con la
mia mano destra. Dice che hanno lavorato insieme tante altre volte e che si
sono sempre trovati bene l’uno con l’altra. Io lo mando a cagare. Lui mi fa
notare che quello non è il suo compito: spetta al culo. Ne approfitta per
farmi notare che anche il culo non è che abbia molte soddisfazioni dalla vita
in questo periodo. Mi dà sempre fastidio quando mi fanno notare che la mia
vita sessuale è alquanto carente, per cui chiudo la conversazione. Accendo il televisore e
intanto rifletto un momento sulla situazione. Anche se Julius mi piace
parecchio, non ho nessuna intenzione di prendere l’iniziativa. È vero che in
questo caso non ci sono i classici problemi della relazione tra insegnante e
allievo: a parte il fatto che siamo tutti e due maggiorenni (lui assai più di
me), non ho nessun potere su di lui, non approfitterei della mia posizione.
Alla Caritas la situazione era del tutto diversa e nei tre incontri di
formazione era stato anche affrontato il tema dei rapporti personali con gli
allievi, che devono rimanere entro limiti ben precisi. Qui è tutt’altra cosa.
Ma sto correndo troppo con
la fantasia. Con ogni probabilità mi immagino cose perché Julius mi piace. Guardo un film in
televisione e vado a nanna presto: le giornate sono pesanti, a questo lavoro
tengo e non voglio presentarmi a scuola in modalità zombie. Quarta giornata di
lezione. Ritiro i compiti. Quando Julius mi passa il suo, mi sorride
apertamente. Ha un bellissimo sorriso, che illumina quel viso così maschio.
Negli occhi luccica la solita ironia. E sono sicuro che non è solo la mia
immaginazione. Nell’intervallo guardo
subito il suo compito. Parla della vita nella casa del cugino. Poi delle
lezioni. L’insegniante (elimino la “i” con un tratto di penna) è molto simpatico. Si chiama Enzo. È un
bel ragazzo. Ha un bel viso e un bel culo. Cazzo! Non ci gira
intorno! È
molto giovane. Credo che gli piaccio. Guardo la frase. Sospiro.
Propongo “credo di piacergli”. Guardo il compito e scuoto la testa. Lui
mi piace molto. Ho l’impressione di
essermi cacciato in un guaio. Non
so se faremo qualche cosa, ma spero che lo faremo. Cazzo! Più diretto di
così, poteva solo scrivere: “ Voglio scopare con te, Enzo!” Metto rapidamente il
compito sotto tutti gli altri. Poi ci ripenso e ne sposto due sotto il suo,
in modo che rimanga confuso in mezzo. Non vorrei che scivolasse a terra o che
rimanesse sulla scrivania quando prendo il pacco di compiti. Preferirei
evitare che qualcuno lo vedesse. Sì, decisamente preferirei evitarlo. Correggo alcuni degli
altri lavori. Il suo me lo guarderò questa sera con calma. Ma il compito di
Julius è una tentazione (Oscar Wilde: “Posso resistere a tutto, ma non a una
tentazione”). Do un’occhiata intorno. Ci sono solo due colleghi e nessuno
bada a me. Riprendo il compito e finisco di leggerlo, ma non c’è più niente
di interessante. Direi che quello che c’è è più che sufficiente. In classe faccio finta di
niente ed evito di guardare verso Julius, ma con la coda dell’occhio vedo che
lui mi sta fissando e sorride. Sa benissimo che ho letto il suo testo.
Probabilmente nel mio ostinarmi a guardare da un’altra parte legge una
conferma del mio interesse. Non so che fare, ma preferisco non pensarci ora.
Vedrò questa sera. A fine giornata assegno un
compito: un testo libero, in cui usare il congiuntivo. E dopo aver scritto il
tema alla lavagna, mi volto e vedo che Julius mi fissa, sempre sorridente.
Questa volta mi sembra di vedere una sfumatura maligna. Credo che abbia le
idee chiare su ciò che intende scrivere. Non appena arrivo a casa,
il pensiero va a Julius. Mi chiedo che cosa fare. Julius è interessato a me e
a me piace molto. E allora? Che cosa mi trattiene? Nulla. E allora? Che cosa
faccio? Non lo so. Oggi ho potuto far finta di non avere ancora letto il suo
testo. Domani non ho più scuse. O l’ignoro o gli do qualche segnale positivo.
Ci sarebbe anche una terza possibilità, naturalmente: dirgli che non deve
scrivere cose come quelle che ha scritto. Mi sembrerebbe ipocrita. Certo che Julius è proprio
un bel maschio, per i miei gusti. Me lo immagino mentre si spoglia, prima di
farsi una doccia (come farò io tra poco): ormai sono diventato bravissimo a
immaginarmi Julius nudo. Si toglie la camicia e vedo la sua schiena, con le
spalle larghe, un tatuaggio sulla scapola destra, forse una salamandra. Poi
si cala i pantaloni. Un culo piuttosto peloso, forte. Magari un tatuaggio più
piccolo sulla coscia, un altro animale, che so, un ragno. Gambe robuste,
anche quelle abbastanza villose. Il mio cazzo si imbaldanzisce: è una testa
di cazzo, non è una novità. Lascio perdere Julius e
vado a farmi una doccia, aspettando che il cazzo abbassi la testa. Ma il
pensiero di Julius ritorna. Me lo immagino sotto la doccia, l’acqua che
scorre sul suo corpo, il pelame bagnato. Poi esce dalla doccia. Non usa un
accappatoio, ma un asciugamano, con cui si strofina ben bene il petto
abbastanza villoso (sul pettorale sinistro il tatuaggio di un leone
stilizzato), poi il ventre, il cazzo e i coglioni (indugiando un po’ troppo,
per cui il suo cazzo incomincia a rizzare la testa) e infine il culo,
sfregando bene (e il suo cazzo alza ancora di più la testa). Anche il mio
cazzo, che notoriamente è una testa di cazzo, alza la testa, lui dice per
solidarietà. Io lo ignoro. Esco dalla doccia e immagino
Julius che appende l’asciugamano. Me lo vedo di schiena, le natiche robuste,
ben tornite, coperte da un velo scuro. A questo punto il mio cazzo vorrebbe
che io mi occupassi un po’ di lui. E te pareva! Gli dico che era solo un
ripasso dei pensieri delle sere precedenti. Lui mi fa notare che se voglio
tenerlo a riposo, ho solo da dedicarmi ad altro, che so, guardare un film in
TV (non un film porno), leggere un buon libro (non porno), girare su Internet
(non sui siti porno). Lo ignoro (oltre tutto mi
dà fastidio che mi faccia passare per uno che pensa solo al sesso). Intanto immagino
Julius che si volta di nuovo verso di me. Ha un gran bel cazzo, lungo e
voluminoso, non del tutto a riposo. E due coglioni pelosi. Con la mano si
accarezza il cazzo, che alza la testa. A questo punto il mio cazzo
reclama di nuovo attenzione e collaborazione (da parte della destra,
preferibilmente, ma eventualmente gli andrebbe bene anche la sinistra). Io continuo
a ignorarlo. Lui si incazza. Peggio per lui. Non intendo dargli nessuna
soddisfazione, ho altro da fare: devo correggere i compiti dell’altra classe. Quinto giorno, venerdì.
Consegno i compiti. Julius lo prende, molto serio, ed esamina con cura gli
errori. O forse fa solo finta, perché quando ho finito di distribuire i
testi, mi sta guardando e sorride. Ho l’impressione che abbia colto perfettamente
il mio imbarazzo e si diverta. Intanto ritiro i compiti
che hanno svolto per oggi. Il suo sorriso non mi lascia dubbi: il suo testo
mi tocca da vicino. Ha un bel sorriso, ma gli spaccherei la faccia
volentieri. Nell’intervallo mi rifugio
nella saletta per gli insegnanti. So che non dovrei guardare il compito di
Julius. Dovrei lasciarlo al fondo e correggerlo a casa. Ma sono curioso. Questa
notte ho sogniato Enzo, il professore di italiano. Lui è venuto a casa mia,
in via Pastrengo 7. Ha suonato il campanello con il nome Rovati alle sette.
Io prendevo la doccia. Ho indossato l’accapatoio. Ho aperto. Enzo non ha
detto niente. È entrato. Io l’ho abracciato. Lui ha tolto l’accapatoio a me. Ci sono diversi errori, ma
non li correggo. Mi dico che non ha usato il congiuntivo. Guardo il testo.
Proseguo con la lettura. Abbiamo
scopato. I sogni non sono veri. Però un sogno può essere vero. Spero che il
mio sogno sia vero, magari oggi, e che scopiamo. Io abito via Pastrengo 7.
Spero che oggi Enzo vena. Domani e domenica il corso non c’è. Però Enzo e io
possiamo divertirci. Ha usato il congiuntivo, anche
se con qualche errore, devo riconoscerlo. Ma in questo momento non mi sembra
così rilevante. Via Pastrengo 7, alle
sette di sera. Julius ha fatto la sua mossa. Ora tocca a me. Mi chiedo che
cosa fare adesso che riprende la lezione. La risposta è semplice: niente,
farò finta di non aver letto il compito. Voglio avere il tempo di pensarci
con calma. Rientro in classe. Julius
mi guarda e sorride. Mi piace il suo sorriso, ma la voglia di mollargli un
pugno c’è, non posso negarlo. Anche altre voglie ci sono, non posso negare
neanche quelle. In qualche modo la lezione
finisce. C’è solo un’ora di pausa prima di riprendere con il gruppo del
pomeriggio. Mangio un boccone e poi correggo i compiti. Durante la lezione
pomeridiana approfitto di un momento di tempo, mentre gli allievi lavorano in
gruppo, per riflettere. Che cosa voglio fare? Ho voglia di scopare con
Julius, questa è la verità. E allora, perché non dovrei farlo? Non faccio
nulla di male, non violo nessun codice etico. Sono le sei quando finisco
la lezione del pomeriggio. Tempo di andare a casa, farmi tranquillamente una
doccia, cambiarmi e raggiungere l’appartamento di Julius, che non abita molto
lontano: in venti minuti ci arrivo (anche meno, se prendo la bici, ma non so
se troverei un posto sicuro per lasciarla e non voglio correre il rischio che me la
fottano: mi è già successo l’anno scorso – e dire che la mia bici era un
pezzo da museo). Oppure potrei andare a casa, farmi una doccia e sedermi sul
divano. A questo punto il cazzo osserva che se lo facessi, sarei davvero una
testa di cazzo (chi di testa di cazzo ferisce…). Anche il culo interviene:
gli piacerebbe, per curiosità, sapere se il cazzo di Julius è davvero come me
lo sono immaginato io. È proprio solo una curiosità… Discutiamo tornando a
casa. Il cazzo mi diventa duro. Gli faccio presente che è inutile fare la
voce grossa: non mi faccio intimorire. Lui allora propone di mettere ai voti.
In queste faccende non credo molto nella democrazia, ma cedo. Il cazzo vota a
favore dell’ipotesi 1 (andare da Julius), il culo pure. A questo punto sono
in minoranza, per cui non mi oppongo: mi limito ad astenermi e a far notare
al culo, che se il cazzo di Julius è come me lo sono immaginato, potrebbe
pentirsi della sua scelta. Lui mi dice che chi non risica non rosica e che
comunque, non intendendo entrare in convento, gradirebbe che io mi dessi da
fare. A casa mi faccio una bella
doccia, lavandomi con cura. Poi mi metto slip, pantaloni e maglietta puliti,
prendo due preservativi e dico ai miei che esco e che non so se torno a
dormire. Loro ci sono abituati (anche se negli ultimi mesi non è quasi mai
successo). Scendo con un po’ di
anticipo, ma fa caldo e non voglio arrivare tutto sudato, per cui preferisco
prendermela comoda. Mentre cammino mi chiedo
se davvero Julius avrà addosso solo l’accappatoio. Devo dire che mi
piacerebbe. Sono leggermente in anticipo, ma suono lo stesso. E mentre lo
faccio, penso che magari adesso mi risponderà qualcuno, che mi chiederà che
cosa voglio e alla mia risposta “Cerco Julius” mi dirà che non c’è nessun
Julius qui. Un bello scherzo, di che spanciarsi dalle risate. Ma a rispondermi è Julius
stesso, ne riconosco la voce. Non mi chiede chi sono. Si limita a dire: - Terzo piano, Enzo. Prendo l’ascensore: di
solito fino a un terzo piano salgo a piedi, ma mi sembra di essere già un po’
sudato. Julius apre la porta.
Indossa solo l’accappatoio. Non dice nulla. Si fa da parte perché io possa
entrare e quando sono dentro chiude la porta. Sorride e dice: - Sono contento che sei
venuto. Non mi sembra il caso di
correggere il congiuntivo, comunque non ne avrei il tempo: lui mi abbraccia e
mi bacia sulla bocca. “Sulla bocca” forse non è esatto, perché la sua lingua
deve già aver raggiunto le mie tonsille e mi manca il fiato. Poi si stacca e
mi sorride. Io lo guardo e sciolgo il nodo della sua cintura. Gli metto le
mani sulle spalle e faccio scivolare a terra l’accappatoio. Così mi posso
guardare Julius in versione integrale, comprensiva di un signor cazzo teso
come una lama d’acciaio. Dico al mio culo che avrà
male per una settimana almeno, ma lui si limita a rispondere con uno
“slurp!”, che non mi sembra preoccupato. Faccio notare al cazzo che non regge
il paragone, ma lui osserva che intende collaborare e non competere. E allora, che mi rimane da
fare? Godermi la vista, che è una bella vista, una gran bella vista, meglio
delle fantasie di queste sere e, soprattutto, molto più concreta. Lui si lascia ammirare un
momento, poi mi sorride, mette le mani sull’orlo della mia maglietta,
l’afferra e la tira su. Alzo le braccia, in modo che me la possa togliere del
tutto. Poi, senza perdere tempo, mi slaccia i jeans e me li cala, insieme
agli slip. Infine mi abbraccia di nuovo e mi bacia, mentre le sue mani mi
stringono, mi accarezzano, afferrano il culo. Un dito stuzzica l’apertura,
l’altra mano afferra il cazzo e la bocca torna a unirsi alla mia. Non riesco a parlare, ma
che c’è ancora da dire? 2019 |