Libertas

 

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   Quando Giove vide il biondo Ganimede

bagnarsi in mezzo al sen del vasto mare,

tutto ignudo, le belle terga al vento,

delle natiche rotonde, bianche e dolci

la smania gli infiammò i divini lombi.

Immane e poderosa, a dismisura,

si fee gigante la sua mentula divina

a raggiungere dell’aere il tetto bronzeo,

né più potea dar pace al cosmo intero

pria quelle mele d’addentar con bocca

e in mezzo ad esse di trovar riposo,

e lui per primo il nettare divino

suo mescere nel culo del coppiere.

 

Il ragazzo continuava a cantare con voce innocente la sconcia filastrocca in versi greci, come gli era stato comandato di fare, ormai rassegnato e dimentico dell’imbarazzo. Completamente nudo, con indosso la sola corona d’alloro da poeta che gli ricadeva sui riccioli bruni, sedeva sul suo tripode pizzicando le corde della lira, la cui montatura era troppo sottile perché lo spessore potesse coprire le sue pudenda in bella mostra. Il bel corpo ormai non più efebico, già ben sviluppato, sebbene completamente glabro, la pelle ambrata che tradiva le sue origini orientali, tutto era esposto agli occhi lascivi dei commensali. Nella sua terra d’origine era stato un grande onore per lui apprendere il greco, le lettere, la poesia. E adesso a cosa gli serviva se non ad intonare motteggi osceni per il divertimento di ricchi viziosi? Forse il rossore gli tingeva ancora il bel viso, tra la sua gente sarebbe stata un disonore infame essere esibito nudo in pubblico a quel modo, loro non erano impudici come i Greci. Ma lui ormai non se ne curava più. Da tempo si era rassegnato all’idea che unico suo compito fosse quello di obbedire. Non c’era ragione alcuna di provare vergogna, senso di colpa o turbamento, emozioni superflue che non gli erano richieste. Delle proprie azioni ci si può vergognare o pentire. Se un uomo fa una scelta deve sopportarne con forza le conseguenze. Ma a lui nessuna scelta era richiesta. Non era la sua volontà ad agire attraverso le sue mani o a parlare attraverso la sua bocca, né doveva esserlo. Se il Dominus aveva comandato non stava a lui rammaricarsi o vergognarsi dei suoi ordini. Bastava eseguirli e pensare ad altro o, se possibile, non pensare affatto. Questa era e doveva essere la natura di uno schiavo.

Per fortuna gli ospiti, tutti uomini, erano già abbastanza euforici da non far più di tanto caso a lui. Stravaccati tra i cuscini, sui loro triclini, ridevano e si scambiavano lazzi levando le coppe in aria. Le lampade d’argento ardevano fievoli a velare nella penombra le nequizie della natura umana. Entrarono i dolci: torte al miele caldo, ricci di mare canditi, frittelle di pasta e uova, uccelletti alla salsa farciti con fior di farina e frutta secca. I convitati spilluzzicavano dai piatti che venivano trasportati in giro per la sala dei banchetti dagli schiavi, senza esimersi dallo stuzzicare i portatori stessi. Tutti ragazzi quella sera, scelti con cura dal maior domus graeculus per quel simposio per soli uomini in stile elleno. Era questo che la conquista della Grecia e dell’Oriente aveva portato un secolo prima nella Repubblica: classe, stile, sontuosi banchetti, cucina prelibata, arte raffinata, poesia altisonante e il vizio elleno, la passione sfrenata per i ragazzi e per le loro chiappe. E poi navi cariche di schiavi, schiavi come lui, pensava triste il ragazzo. Ma l’età degli schiavi quella sera era maggiore di quella che ci si sarebbe aspettata da un pathicus, un invertito atto al divertimento in un banchetto. Tutti, come il suonatore, avevano superato la pubertà, avevano fisici sviluppati e membra più o meno vigorose, che ostentavano a spasso per la sala con solo un cingilombi a coprire le loro vergogne. A loro almeno era concesso quello. Alcuni già avevano peli sulle cosce e i segni della barba sulle guance. Ma il ragazzo sapeva che non c’era di che stupirsi: evidentemente gli ospiti di quella sera condividevano con il Dominus gusti e preferenze sviluppati in anni di servizio nell’esercito. E il ciambellano sapeva bene come compiacere e ossequiare il suo padrone. Il ragazzo non aveva mai visto un eunuco, uno di quei castrati che nelle regioni donde veniva si diceva servissero a corte al tempo dei re Persiani, ma era convinto che il vizioso e grasso maior domus dalle mammelle pendule somigliasse molto ad una di quelle strane creature. E il fatto che, a quanto si diceva, avesse ancora tutti i batacchi attaccati non sembrava fare molta differenza.

Uno degli amici del Padrone, un colosso dalle possenti spalle taurine, abbastanza giovane ma già tendente alla calvizie e alla rotondità, trattenne un giovane e bel coppiere attirandolo sul proprio triclinio. <<Ehi schiavo, vuoi essere il mio Ganimede?>> gli fece ridendo. Lo schiavo gli riempì la coppa, fingendo di non capire cosa intendesse. Tutti risero divertiti.

<<Fabritius, forse dovresti spiegare bene al bimbo il seguito del mito!>> lo apostrofò un altro convitato. L’uomo sbottò in una grassa risata e calò la mano sul cingilombi dello schiavo a strizzargli le natiche.

E pensare che quegli uomini potevano vantarsi di aver servito Roma con onore sino a qualche anno prima, combattendo nella portentosa legione Valeriana al servizio di Pompeo Magno, che con la sua ormai leggendaria forza e abilità non solo aveva sconfitto il terribile Re del Ponto, Mitridate, ma aveva conquistato sterminate terre in Asia sottomettendo una volta per tutte alla Repubblica la provincia di Siria. Quel pensiero scosse il ragazzo rievocandogli il turbamento che sempre gli dava il pensiero dei soldati e delle armi. Ma cosa restava alla fine del campo di battaglia e della gloria? Un gruppo di avvinazzati, discinti tra i cuscini, con le tuniche scomposte, intenti a schiamazzare motivetti turpi. La maggior parte erano già in preda al delirio di Bacco, gli occhi vitrei e il volto paonazzo. Il vino scorreva a fiumi e da qualche parte bruciava il fumo azzurrognolo di una lampada all’oppio.

Un altro convitato afferrò con brutalità uno schiavo facendo cenno di volergli imboccare un dolciume. <<Ti piace?>> gli domandò vezzeggiandolo <<Non sai quali altre dolci prelibatezze vorrei farti assaggiare stasera!>> E lo strinse a sé attirandoselo sulle ginocchia, probabilmente per fargli sentire la propria potenza sotto la tunica.

    <<Faglielo sentire tutto!>> lo incitò Fabritius.

Il suonatore sentì un impercettibile tremito, imbarazzo o pietà, nella propria voce, che si sforzò prontamente di dissimulare. Ma percepì istantaneamente gli occhi del Dominus su di sé, simili a ghiaccio incandescente, pronti a sondare ogni suo pensiero. Forse era l’unico convitato ancora sobrio quella sera. Lo schiavo vide la luce vigile nei suoi occhi. Occhi azzurri come il cielo, che sembravano quasi fuori posto sul suo viso scuro e cotto dal sole. Macchia alla purezza della stirpe patrizia, un perenne ricordo del sangue misto germanico che gli veniva dalla madre. Il Dominus li detestava, sebbene rendessero così bello il suo maledetto viso. Un tempo quegli occhi si erano posati sullo schiavo con espressione del tutto diversa, ma era ormai da tempo che il ragazzo non vi vedeva regnare che crudeltà. Eppure quegli occhi che percorrevano indagatori le sue grazie ignude ed esposte al pubblico scherno lo facevano arrossire. Il padrone leggeva bene l’imbarazzo sul suo viso, sapeva bene la vergogna cui lo stava sottoponendo, ciò che significava per un uomo del suo popolo, e ne sembrava divertito.

Poi il Dominus distolse lo sguardo e tornò a sorridere ai suoi commensali. Il ragazzo sapeva a cosa mirava: far perdere a un uomo i propri freni, condividere con lui l’intimità del vino e dell’amore degli schiavi, tutti assieme, quello era il modo per vincolarlo a sé. Quella era la politica. Se nei banchetti pubblici si intrattenevano i cavalieri e i senatori assieme le loro mogli per intrecciare i vincoli tra le famiglie della società dabbene, in quelle riunioni segrete, e nelle orge che vi seguivano, si mantenevano i legami tra gli amici, quelli che un tempo erano stati fratelli d’arme. Non c’era niente in tutto questo che la mente del Dominus non calcolasse. Quella mente letale, affilata come una lama, e fredda come il ghiaccio dei suoi occhi. Almeno il più delle volte.

A detta degli schiavi che si erano occupati di lui, quel giorno non aveva affatto voglia di intrattenere i suoi commensali. Aveva indugiato più a lungo del solito nel bagno mentre loro lo detergevano e lo massaggiavano e aveva espresso a voce alta la stanchezza e la scarsa voglia di far bagordi. Eppure era là. Questo dicevano gli schiavi, il ragazzo non c’era. Da tempo quello non era più il suo compito, era stato dispensato dal doversi occupare della toletta del suo padrone, dal ripulirgli il sudiciume di dosso. Dal massaggiare quelle membra muscolose, forti, temprate dal sole e dalle battaglie.

Infine il Dominus ordinò che venisse portato il suo Falerno di migliore qualità. Due schiavi nerboruti condussero al centro della Sala un meraviglioso cratere greco, d’oro tempestato di gemme preziose e sbalzato con immagini del forte Ercole, la pelle di leone drappeggiata sulle membra nude, che affrontava le sue dodici fatiche. Tutti gli astanti restarono ammirati, mentre i coppieri, immerse le brocche al cratere, come era d’uso negli antichi simposi elleni, si aggiravano per la sala a riempire le coppe, inespressivi, simili a condannati consapevoli del supplizio che li attendeva.

<<Che bella coppa!>> lo apostrofò uno dei commensali.

<<Non aspettavi altro che di mostrarla, eh, Iulius?>> fece ridendo Sextus, un grasso patrizio ormai un po’ attempato che troneggiava al centro di un triclinio.

<<Per tutti gli dei, dove accidenti l’hai trovata?>> chiese un altro.

<<Conquistata con la spada e con l’onore!>> rispose fiero il Dominus ostentando falsa modestia.

<<Bottino di guerra?>> chiese Fabius, un propretore dal viso fiero e dallo sguardo acuto e beffardo che ricordava quello dello stesso Dominus. Aveva fama di essere uno dei suoi migliori amici sin dall’inizio del servizio militare, al termine del quale si era poi dato alla politica e aveva accumulato ingenti ricchezze.

<<Per le palle di Ercole!>> intervenne il rozzo Fabritius <<ma io riconosco quella coppa! Era il cratere della sala reale della fortezza di Sinforio in Armenia!>>

<<Già era là, quando entrammo dopo ore di assedio, dopo che Stratonice, la puttana di Mitridate aprì le porte al comandante!>> replicò un altro <<Ricordate che giornata? Facemmo loro sputare sangue! Ma ci furono degne ricompense dopo le intere stagioni passate nel Caucaso a combattere i selvaggi e inseguire il re fuggitivo.>>

<<E una consolazione prima della marcia nel deserto sino a Gerusalemme!>>

<<E ricordate tutto l’oro in quella sala? E tutto l’oro che la cagna donò a Pompeo?>>

<<Già, e che goduria le donne e i fanciulli che ci prendemmo!>> rise Fabritius perdendosi nei ricordi. Ma poi si riprese e intervenne con piglio irato: <<Già! Ma, quella coppa... era parte del mio bottino...>>

<<Già! È la coppa per cui litigammo noi tre quel giorno dopo la vittoria!>> soggiunse Fabius, con l’aria di realizzare all’improvviso.

<< È la mia coppa!>> sentenziò il Dominus, ostentando un’aria rilassata e amichevole <<Ce l’eravamo giocata e io vinsi...>>

<<Andiamo, amico mio, è mia quella coppa!>> replicò Fabritius già rosso in volto, forse per il troppo vino bevuto.

<<In verità>> intervenne Fabius pacato, rivolgendosi agli astanti come da una tribuna del Foro <<l’avevo vinta io! Ma il legato decise di togliermela per darla a lui, perché... all’epoca aveva una predilezione per lui... un’alquanto chiacchierata predilezione...>>

<<Si trattava del legato di cui anni dopo avesti... la fortuna di prendere il posto?>> chiese, maligno, un altro ospite.

<<Amico mio!>> il Dominus frenò le parole di Fabius, con un sorriso ma con voce tagliente come un gladio <<Non v’è ragione alcuna che tu m’offenda in casa mia. Meritammo tutti questo e altri cimeli, distinguendoci in battaglia! E non vale la pena litigare per un bottino, per quanto prezioso, dopo ciò che abbiamo passato assieme! Giusto?>> Li guardò e tutti si zittirono. <<Abbiamo combattuto e rischiato la vita assieme! Siamo stati come fratelli e voglio che continuiamo ad esserlo!>>

<<Anche per me, come per tutti gli altri, sei un fratello!>> replicò Fabius mellifluo <<Ma allora, dimmi, perché ci sbatti quella coppa sotto il naso?>>

<<Via, via, non litighiamo!>> rispose il Dominus placido <<Ma, vedi, con un fratello si condivide ogni cosa. E io voglio mostrarvi la mia lealtà condividendo con tutti voi quel cimelio che vincemmo assieme e che tutti ci meritammo!>>

<<E come pensi di fare? La spacchiamo in parti uguali?>> chiese Fabritius perplesso.

Il Dominus lo fissò e sorrise: <<Ce la giocammo allora, possiamo giocarcela lealmente di nuovo! E il vincitore la prenderà! Qui, adesso, che ne dite?>>

<<Ti giocheresti la coppa?>> chiese Fabritius incredulo. Fabius sorrise senza parlare.

<<Certo! Con chiunque ne abbia coraggio! Chi la vuole si faccia avanti!>> si voltò passando in rassegna tutti gli ospiti con sguardo di sfida.

<<E quale sarebbe la sfida?>> chiese Fabritius.

<<Non dirmi che un raffinato signore di città come te, vorrà mettersi ancora a giocare a dadi?>> chiese Sextus divertito.

<<Andiamo!>> replicò il padrone di casa <<Non siamo più sotto le tende dell’esercito!>>

<<Fai combattere tre schiavi e scommettiamo!>> propose con sguardo ardente un altro ospite, un gentiluomo dalla voce sibilante e dalle mani ingioiellate.

<<Andiamo!>> li incitò il Dominus <<Siete così rammolliti da non volervi cimentare di persona?>>

<<Non ci dirai che il tuo columella graeculus ha allestito anche una partita di cottabo?>> chiese Sextus incredulo.

<<Lanciare gocce di vino per far cadere un piattello dalla cima di un’asta?>> replicò il Padrone guardandolo di sbieco <<Andiamo, questo andrà bene per degli Elleni effeminati. Senza contare che i fondi dei vostri calici sono senza dubbio prosciugati e secchi come il conno di mia nonna! In verità, avevo in mente di farvi versare qualcos’altro...>>

<<Per il prepuzio di Priapo, si può sapere cos’hai in mente?>> ruggì Fabritius impaziente.

<<Interessante scelta di parole!>> replicò il Dominus <<Amici, ciò che vi propongo è una sfida da veri uomini! Una gara di resistenza!>>

<<...di che genere?>> chiese Fabius aggrottando la bella fronte.

Il Dominus fece cenno di ignorarlo, ma per tutta risposta si rivolse agli schiavi battendo le mani <<Portate un altro triclinio al centro della sala!>> sentenziò.

<<Temo di non capire cosa accidenti...>> fece Fabritius innervosito.

<<È semplice!>> replicò il Padrone allargando le braccia come un istrione che narra storie al suo pubblico <<Ogni concorrente scelga lo schiavo che preferisce! Poi ciascuno se lo fotterà finché gli reggono il cuore e i lombi. Chi rilascerà il seme per ultimo sarà il vincitore e prenderà il premio che è  sul piatto!>>

Tutti scoppiarono in un coro di fragorose risate.

<<Tu sei fuori di senno!>> gli fece Fabritius sconvolto.

Il Dominus si fece d’un tratto serio e lo fissò glaciale: <<Hai paura? O forse ti vergogni?>> lo apostrofò.

<<Paura io?>> replicò l’amico improvvisamente furioso <<Per il cazzo di Giove, sai con chi stai parlando? Io che ho sfondato tutti i culi e i conni della Siria, della Celesiria e della Fenicia! Preparati a baciarmi le natiche quando capitolerai distrutto!>>

<<Anch’io ci sto! Se c’è da godere!>> fece Fabius senza scomporsi con un sorriso sghembo <<Ma... non dirmi che cederesti la coppa per niente!>>

<<Beh, come ho detto ai fratelli sono pronto a cedere ogni cosa.>> replicò con fermezza il Dominus <<Ma, certo, sarebbe una sfida più interessante, e più equa, se ciascuno dei partecipanti aggiungesse qualcosa sul piatto! >>

<<Puoi scommetterci! E cosa vorresti da me?>> lo apostrofò fiero Fabritius.

<<Non saprei... Qualche richiesta?>> replicò l’amico voltandosi verso gli astanti.

<<La tua ultima schiava frigia!>> replicò Fabius a Fabritius rilanciando la sfida <<Quella con i fianchi che sfidano quelli di Venere! Che vada al vincitore!>>

<<Ehi, la vorresti per te, razza di bestia?!!>> replicò l’amico fremente.

<<Ehi, per favore! È un gioco! Continuiamo a sorridere senza litigare!>> li trattenne il Dominus.

<<E Fabius, cosa si giocherà?>> replicò Fabritius bramoso di avere soddisfazione.

<<Ciò che volete...>> rispose quello allargando le braccia in gesto di disponibilità.

<<Voglio il tuo gladius!>> rispose secco il Dominus.

<<Quello che ti avevo vinto ai dadi?>> Fabius ridacchiò <<Ti accontenteresti di quel ferro arrugginito?>>

<<Ma come? Eri tanto fiero di avermelo sottratto! Era soltanto per il gusto di avermelo tolto?>>

<<Non capivo perché ci tenessi tanto...>>

<<Vuoi giocartelo o no?>>

<<...se era così importante avresti potuto pensarci prima di giocartelo in cambio di... un elmo d’oro, uno schiavo, una ragazza, un bel paio di natiche? Che cos’era, per le poppe di Giunone? Non ricordo più!>>

<<Ha importanza?>> rispose il Dominus secco.

<<Probabilmente no! Non ricordo più neppure cosa fosse!>>

<<Magari qualcuno con un bel culo!>> lo apostrofò uno degli ospiti ridendo.

<<Chissà! Ma doveva essere un gran bel culo, se ne è valsa la pena!>> replicò Fabius.

<<Ti giochi il gladius o no?>> lo incalzò il padrone di casa.

<<Certo, per le palle di Marte! Che io sia dannato se mi tiro indietro! Ma voglio vedere la garanzia della frigia di Fabritius!>>

<<Portategli papiro e calamo!>> ordinò il Dominus agli schiavi.

<<E sia, miserabili canaglie!>> concluse l’energumeno mentre gli porgevano il materiale scrittorio <<Tanto la mia verga farà mangiare polvere a entrambi i vostri cazzi mosci!>>

<<Nessun altro vuole cimentarsi?>> fece cenno agli altri ospiti voltandosi tutt’attorno, mentre Fabritius sottoscriveva il documento che veniva poi appoggiato accanto alla coppa, seguito dal gladius che l’attendente di Fabius aveva prontamente portato dal vestibolo dove era stato lasciato.

<<No, grazie!>> declinò l’uomo dalle mani ingioiellate <<Basterà lo spettacolo a rendere speciale la serata!>>

<<D’accordo, allora daremo piacere ai vostri occhi di effeminati!>> li sbeffeggiò Fabritius.

<<Ehi!>> levò la voce risentito un ospite più giovane. Ma Sextus rise e lo sguardo amichevole del padrone di casa addolcì gli animi, curiosi di godersi la serata goliardica.

<<Schiavi!>> sentenziò il Dominus battendo le mani <<Allineatevi contro la parete!>>. I giovani schiavi, rassegnati, obbedirono. Il suonatore di cetra assistette con un senso di pietà mentre vedeva quella fila di bei giovani avanzare verso la parete interna della sala mettendosi in riga. Il Dominus si volse indietro e lo schiavo tremò vedendo lo sguardo di ghiaccio posarsi su di lui.

<<Tutti!!!>> sentenziò secco. Lo schiavo si alzò e obbedì.

Quando si furono allineati tutti, gli occhi degli ospiti si posarono su di loro. Lo schiavo gettò un’occhiata in tralice ai propri compagni. Erano davvero uno spettacolo variegato. Ragazzi nel fiore della pubertà e altri che erano già giovani uomini. Chiome brune, altre fulve, incarnati candidi, altri bronzei, altri bruniti. Italici bassi e dalle membra tozze, epiroti e graeculi dai bei visi, dai corpi flessuosi e dalle movenze eleganti, biondi teutoni con grossi e ben sviluppati muscoli di ferro, punici dallo sguardo fiero, asiatici come lui dalla carnagione ambrata e persino un paio di numidi con la pelle d’ebano e verghe enormi, mal trattenute a fatica dai cingilombi. Ma tutti erano accuratamente selezionati. Bei visi, guance lisce, altre già segnate da barbe rasate. Bei corpi, alcuni efebici e slanciati, altri possenti e torniti. Alcuni avevano pelli glabre, altri erano già coperti di peli sul petto. Toraci robusti, gli uni larghi come pianure, altri prominenti di muscoli di tutte le forme, capezzoli grossi, altri piccoli e sporgenti.

<<Denudatevi!>> sentenziò il Dominus. Gli schiavi abbassarono gli occhi ed eseguirono. Tutti quelli che ancora indossavano il cingilombi lo sciolsero, lasciandolo cadere e scoprendo le loro vergogne allo sguardo divertito dei commensali. Ora che erano tutti nudi il giovane citaredo si sentì meno osservato. Era un pensiero egoista, di cui si vergognò, ma che non poté trattenere.

Erano tutti allineati sotto la luce spietata delle lampade, come una corte di legionari all’appello del centurione. Ma senza alcuna armatura, equipaggiati delle sole aste che penzolavano dai loro inguini. Peni e scroti di tutte le dimensioni e fogge: piccoli, belli e delicati, altri più grossi e penduli, altri enormi e sgraziati come quello del dio Priapo.

I tre “concorrenti” li scrutavano con un sorriso beffardo sulla faccia.

<<Siete miei ospiti, dunque a voi la prima scelta!>> esclamò il Dominus allargando la mano in un cortese gesto di offerta <<Quello che sceglierete per stanotte sarà il vostro schiavo. Se vorrete potrete dargli il nome che preferite!>>. Gli altri due osservarono le prede divertiti. Fecero voltare alcuni di loro per ammirarne il lato posteriore. Natiche tonde e morbide, altre tornite e marmoree. Gli occhi dei Padroni vagarono a ispezionare la generosa mercanzia come in una fiera al banco degli schiavi. E di quello si trattava, sebbene in quel momento nessuno fosse in vendita, ma solo in prestito per il gioco di una sera.

Per primo li passò in rassegna Fabritius. Lo schiavo lo guardò, a valutare quello che gli sarebbe potuto toccare. Quell’uomo aveva un aspetto selvaggio, come i suoi modi. Era enorme, più alto di una testa di tutti gli altri convitati e aveva il corpo di un toro, spalle gigantesche, membra smisurate. La tunica esomide, portata alla cinica, gli lasciava in mostra un braccio muscoloso e metà del petto robusto e alquanto villoso. Era quasi calvo e aveva un viso rubizzo e rotondo, sgraziato, con uno sguardo burlone, negli occhi scuri, che tradivano degli appetiti animaleschi. Passò in rassegna anche il ragazzo siriano, lo fece voltare e gli mollò uno sganassone sulle natiche, a saggiarne la consistenza. Lui si sentì infiammare di dolore. Ma poi Fabritius passò oltre. Infine il suo sguardo si posò sul biondo coppiere che aveva importunato prima. Lo afferrò per i capelli, gli strattonò la testa di lato e gli passò la lingua sulla guancia con lussuria animalesca. <<Ha un buon sapore!>> fece ridendo. Poi gli afferrò con lascivia le natiche nude.

<<Voglio questo!>> sentenziò <<Sarà il mio Ganimede!>>.

A un cenno del Dominus lo schiavo fece un passo avanti a occhi bassi.

Poi fu il turno di Fabius, che sfilò, guardando gli schiavi con aria indagatrice e uno sguardo acuto negli occhi scuri. I suoi modi ricordavano quelli del Dominus, sebbene non avesse altrettanta crudeltà nello sguardo. Aveva i capelli chiari, tendenti al fulvo, quasi rasati, a memoria della moda dei legionari. Il suo viso era duro, squadrato, sarebbe stato bello se non fosse stato segnato da una cicatrice di battaglia su una guancia. Aveva un portamento fiero ma un po’ ingessato e un’autorevolezza da ufficiale dell’esercito. Palpeggiò un paio di schiavi. Nel suo sguardo c’era qualcosa che intimorì il ragazzo allorché se lo trovò davanti. Lo scrutò, come se l’avesse già visto. Quello sguardo ricordò al ragazzo la sabbia del deserto, l’arsura del sole asfissiante sul suo corpo nudo, un rozzo vociare di uomini, non così differente da quello che regnava nella sala adesso. E un nodo di paura gli attanagliò la bocca dello stomaco. Abbassò lo sguardo. Ma anche Fabius lo superò. Si soffermò davanti a un ragazzo numidico, gli palpeggiò il petto scuro e poi discese a stringergli e soppesargli il membro.

<<Voglio il negro!>> concluse. Il Dominus fece un cenno del capo e lo schiavo avanzò. <<Natiche d’ebano!>> l’appellò l’uomo sghignazzando. Fabritius e Fabius si avvicinarono ridendo a un lato del triclinio centrale.

Infine, fu il turno del Dominus. Lo schiavo lo guardò, memore dei trascorsi che avevano condiviso. Guardò i lineamenti raffinati e nobili del suo bel viso e la sottile e immensa ferocia che era impressa in essi. L’ombra scura sulle guance della barba non rasata da giorni, decisamente lunga rispetto alla foggia romana. Il suo sguardo che scorreva rapidamente gli schiavi dando l’impressione di non curarsene davvero. Conosceva perfettamente i propri schiavi e certo non aveva bisogno di passarli in rassegna. Di sicuro sapeva già chi scegliere fin dal momento in cui aveva indetto la sfida. Qualcuno che gli permettesse di vincere. Il ragazzo sobbalzò quando sentì la mano del Padrone che gli afferrava la nuca e lo trascinava avanti.

<<Vieni avanti, tocca a te, Bocca di miele!>> gli sussurrò con aria di scherno.

Un tempo aveva amato quell’epiteto, ma adesso i suoi dèi sapevano quanto lo detestava.

Perché lui? Era ormai tempo che il Padrone lo disprezzava e gli preferiva la compagnia di altri schiavi. A volte lo sceglieva come cubicularium, perché custodisse la porta dei suoi alloggi personali. E puntualmente ogni sera il ragazzo lo aveva visto trascinare in camera un altro giovanetto o una fanciulla. E mentre vegliava alla porta, sveglio e vigile, incapace di prendere sonno anche se lo avesse voluto, nel silenzio sentiva levarsi i gemiti intensi e dolenti del piacere sino a notte fonda. Una volta si era accostato alla porta, non visto, per benedizione degli dèi, perché essi solo sapevano quale punizione si sarebbe abbattuta su di lui, e aveva scorto l’ombra del corpo forte del Dominus intento a liberare la propria furia su un giovane greco. Chinandosi su di lui, nella foga dell’amplesso baciava il suo corpo, assaporando la pelle con godimento. Poi di scatto aveva levato lo sguardo vigile verso la soglia. Pareva quasi che sorridesse in tutta la sua crudeltà. Al che il ragazzo, atterrito, s’era subito scostato e, tornato a sedere sul freddo pavimento, era rimasto a fissare l’oscurità. Aveva sentito il proprio cuore tacere, un senso di vuoto e silenzio nel petto.

E poi... le ultime volte che il Dominus lo aveva voluto, si era divertito a maltrattarlo, a infierire su di lui sfogando la meritata ira. Era forse questo che gli sarebbe piaciuto fare ora? Ma se gli piaceva tanto, non avrebbe rischiato di perdere il gioco?

Quel turbinio di pensieri attanagliava lo schiavo, mentre i tre uomini, guardandosi l’un l’altro con occhi divertiti e provocatori, avanzavano verso il centro della Sala del Triclinium.

<<Allora siete pronti?>> fece il Dominus sorridente.

<<Io sono sempre pronto!>> strillò Fabritius. Fabius si limitò ad assentire con un sorriso. Gli altri convitati guardavano divertiti. Il Dominus fece cenno a un ragazzo, ancora nudo, di riempire tre coppe di vino. Quello eseguì.

<<Bene, allora!>> sentenziò il Padrone. <<Queste saranno le regole. Ognuno giocherà su un angolo del triclinio centrale. Si gareggia ignudi, le vesti sarebbero solo di impaccio. Ogni giocatore può fare tutto ciò che desidera col proprio schiavo, ma una volta incominciato, non deve smettere di fottere. È vietato toccare gli altri giocatori o tentare qualsiasi genere di contatto che possa mettere in svantaggio un altro favorendone il piacere!>>

<<Gli altri convitati>> proseguì, voltandosi al resto dell’uditorio <<sono liberi di guardare, acclamare, scommettere sul gioco, o di divertirsi cogli altri schiavi. Ma non devono avvicinarsi ai giocatori, distrarli, né tanto meno tentare un qualsiasi approccio ai loro deretani esposti. Chiunque ci provi, lo farò buttare fuori di casa mia all’istante! Non c’è alcuna clessidra, al piacere non mettiamo fretta, anzi tentiamo di prolungarlo! ...per la gioia di tutti!>> Declamava con la fierezza e l’eloquenza di un oratore. <<Vince chi conserva il proprio seme per ultimo. Quanto agli schiavi, ciascuno si sottometta alla volontà del giocatore che l’ha prescelto! Fino alla fine del gioco quello sarà il suo dominus! Però, è regola che ogni schiavo cerchi in ogni modo di far godere il proprio dominus, pur se questo significa la sua sconfitta!>>

I commensali, gli altri due giocatori e gli stessi schiavi si guardarono interdetti. Qualcuno aveva l’aria più divertita degli altri.

<<Bisogna pur trovare il modo di rendere ardua la sfida, perché il gioco sia interessante. E per il divertimento di tutti, intendo mostrare tutta la mia generosità!>> proseguì il padrone di casa.

Tutti lo guardarono senza capire.

<<Schiavi, perché vi impegniate a fondo io faccio una solenne promessa! Fate bene il vostro dovere e io giuro, per Priapo, di concedere ai due schiavi dei concorrenti che usciranno dal gioco sconfitti la manu missio ! Nonché la somma necessaria per tornare alla propria patria!>>

Un mormorio di incredulità serpeggiò nella sala.

<<Tu sei completamente pazzo!>> fece Fabius scuotendo la testa.

<<Vorresti rinunciare a due schiavi, due bei figlioli come questi... per un gioco serale!>> chiese Sextus divertito.

<<Li affrancheresti solo perché facciano schizzare come si deve un uomo libero?>> osservò un altro.

<<Per gli dei! Allora fai sul serio! Sei davvero un grand’uomo!>>

<<Ma in questo modo lui ci rimetterebbe comunque!>>

<<Lo fa per l’orgoglio?>>

<<Questa non l’avevo ancora sentita! Si guadagneranno la libertà con le doti del proprio buco del culo! Ah ah ah ah ah!!!!>>

Ma gli schiavi, loro erano rimasti immobili, increduli, di fronte a quella promessa: la libertà. La parola del Dominus e sarebbero divenuti liberti, uomini liberi. Era un prezzo fin troppo esiguo quello che era loro richiesto, in confronto a tutto ciò che avevano subìto, ma soprattutto in confronto a ciò che era promesso.

La manu missio.

La libertà.

Bocca di miele ancora non ci credeva. E sarebbe stato ancor più facile per lui che già conosceva, e alquanto bene, il proprio Dominus.

Perché? Davvero gli dèi lo avevano benedetto? Proprio adesso che aveva rinunciato a quel sogno, accettando l’idea di non essere che uno schiavo e di trascorrere la vita tra quelle mura. Gli dèi erano testimoni di quanto l’aveva bramata. La libertà. Ma erano anche testimoni di quanta sofferenza quell’insano desiderio gli avesse portato.

Ricordava ancora il soffio della brezza su di lui, il cielo terso sulla sua testa, fuori dalle porte della domus...  E il fiato rotto, il fuoco nel petto mentre correva come un folle. I passi dei guardiani che lo inseguivano coi cani. Il senso opprimente della disperazione. E infine le ginocchia che cedevano. Lo sterrato duro sotto di lui, la faccia nella polvere. Poi lo schiocco bruciante dello schiaffo sulla sua faccia e il fuoco azzurro della furia negli occhi del Dominus quando, legato, lo avevano ricondotto alla sua presenza.

<<Sono stato buono e gentile con te! Ed è così che mi ripaghi?>> la voce del Dominus era piatta, gelida e tagliente come la sua spada. <<Credo tu abbia vissuto abbastanza tempo tra i Romani da sapere qual è la punizione che spetta a uno schiavo che tenti la fuga!>>.

Il ragazzo non rispose. Lo sapeva e gli si gelò il sangue. “Io sono nato libero! Come te!” avrebbe voluto gridargli. Ma le parole gli morirono in gola. Il Dominus gli mollò un altro schiaffo in pieno viso, facendolo vacillare. Il ragazzo cadde in ginocchio ai suoi piedi senza che neppure glielo avesse ordinato.

<<E non dirmi che sei nato libero!>> soggiunse il Padrone fissandolo gelido negli occhi, senza che lui avesse proferito parola. <<Perché è solo a causa della tua codardia che sei diventato uno schiavo! Non puoi rimproverare che te stesso per essere un effeminato!>>

Lo schiavo si rese conto che stava piangendo. Il Dominus aveva davvero ragione. Eppure lui ormai era avvezzo a sopportare la crudeltà, le percosse, il dolore. Cos’era che lo induceva a disperarsi tanto?

<<E non pensare che le tue lacrime possano intenerire il mio cuore!>> Il Padrone afferrò un gladio e glielo portò alla gola. Lo schiavo sentì il soffio della vita danzare sul filo di quella lama, soffiare sull’orlo della sua bocca, pronto a volare via. Rivide tutta la sua breve esistenza, il suo villaggio nel Ponto, a nord del deserto della Siria, in quelle che un tempo erano state terre dei Re dei Re di Persia e poi dei gloriosi Elleni, sinché le legioni di Roma non erano giunte a metter tutto a ferro e fuoco. Rivide la sua famiglia lontana, che ormai doveva averlo rinnegato, la famiglia più nobile e potente del villaggio, che aveva fatto educare il suo primogenito alle lettere greche e alle armi, anche se lui aveva appreso le une molto meglio delle altre. Rivide i suoi compagni ormai sepolti sotto la sabbia del deserto. E poi ripensò ai brevi attimi di felicità conosciuti anche negli ultimi mesi, tutto volava via assieme alla mancata promessa della libertà. Il Dominus lo tirò per i capelli, gli rovesciò la testa all’indietro come a un capretto pronto per il macello. La lama graffiò la sua gola. Gli occhi del Dominus lo fissavano. Quel mare blu in cui s’era perso nella gioia e in cui ora stava per perdersi nella morte, come un folle naufrago. La morte! Quella era la punizione per la fuga!

<<Sarà un peccato, sentire il calore esalare da queste belle labbra di miele!>> sussurrò l’uomo mentre con il pollice della mano sinistra gli sfiorava la bocca. Persino in quel momento il corpo dello schiavo reagì a quel tocco con un fremito. Poi il Dominus gli mollò un calcio nel ventre e lo fece cadere riverso a terra.

<<Incatenatelo!>> sentenziò ai guardiani <<Poi lasciateci soli!>>

Mani dure afferrarono il ragazzo e lo legarono a dei ceppi appesi alla volta di quella cella in penombra, illuminata solo da una torcia e da uno spiraglio di luce che filtrava attraverso la porta. Appeso al soffitto, il giovane era talmente terrorizzato da non riuscire più a muoversi. Infine sentì la porta sbattere dietro di lui e vide di fronte a sé la figura statuaria del Dominus, un’ombra stagliata nel buio, i suoi occhi chiari in quell’oscurità.

<<Cosa credevi di fare?>> chiese l’uomo, una gelida crudeltà nella voce serena e imperturbabile <<Dove speravi di andare?>> Si avvicinò, al punto che il ragazzo poteva sentire il calore del suo respiro sul viso, il gradevole odore del suo corpo. Ripensava ai momenti di intimità che avevano condiviso. Il Dominus si avvicinò sin quasi a sfiorare le sue labbra. Prese di nuovo la lama e gliela puntò alla gola. Poi la fece discendere lungo il collo, fin sull’orlo della tunica. Con un colpo secco di lama segò la stoffa sul petto e sul ventre sino all’altezza dei genitali. La lama sfiorava la pelle nuda, gli pizzicò i capezzoli. Il ragazzo vacillò contorcendosi. Il Dominus lasciò cadere la lama, afferrò quanto restava della veste e la stracciò, lasciandolo completamente nudo.

Con una mano sfiorò il suo corpo con somma delicatezza, gli carezzò il petto, la schiena, le natiche. <<Non avresti dovuto scambiare la gentilezza e la generosità per debolezza, piccolo bastardo!>> gli sussurrò nell’orecchio. Afferrò una natica con violenza e strinse sino a lasciargli il segno. Poi si allontanò di scatto da lui e il ragazzo avvertì improvvisamente il morso del freddo sulle membra nude.

<<Adesso>> sentenziò <<imparerai qual è il dovere di uno schiavo!>> Afferrò una sferza. Il ragazzo tremò e cercò di divincolare i polsi, appesi al soffitto. Ma la catena era salda. Quando capì che era inutile, si fermò e lo fissò. Non volle supplicare. Sapeva che non sarebbe servito. L’uomo uscì dal suo campo visivo. Il ragazzo non poteva voltare la testa, ma percepì chiaramente la sua presenza dietro di sé. Infine sentì l’aria fischiare e la prima frustata abbattersi sulla pelle. La schiena nuda gridò sotto una lama di fuoco, ma la bocca serrata restò immobile. Non un gemito.

La seconda sferzata colpì di nuovo. Stavolta il ragazzo sentì il fuoco rosso inondare la sua schiena e salirgli alla testa, tutto il suo corpo fremette. Il terzo e il quarto colpo s’abbatterono ancora. Di certo i segni avevano escoriato la sua pelle. Il dolore lo infiammò, le lacrime si affacciarono alle sue palpebre, ma a fatica la gola ingoiò i gemiti. Non avrebbe ceduto. Lo aveva fatto una volta e gli era costato tutto. La frusta si abbatté ancora. E ancora e ancora. I colpi erano cadenzati e secchi, ma tutta la rabbia del Padrone si riversava in essi con somma brutalità. Il ragazzo sentì l’uomo ansimare, di furia pensò. Sentì la frusta tornare sulle ferite, sapeva che presto la pelle si sarebbe spaccata e avrebbe sanguinato. Ma il Dominus trattenne la frusta. Con passi cadenzati e felini, avanzò dinanzi a lui.

<<Ne hai abbastanza?>> gli fece. Lo schiavo non rispose, abbassò gli occhi per nascondere le lacrime. Il Dominus gli prese il mento in una mano e gli sollevò il viso a forza. <<Guardami in faccia quando ti parlo!>> gli intimò secco. Il ragazzo fissò quegli occhi, belli come quelli di un dio e feroci come quelli di una fiera. Il Padrone aveva il viso infuocato di rossore e sfigurato in una maschera di furia animale. Lo sguardo iniettato di sangue, quello con cui il guerriero in battaglia ti guarda prima di toglierti la vita. Era quello che l’aspettava, pensò il ragazzo. Il Dominus afferrò ancora la frusta e colpì secco sul petto, lasciandogli un segno rosso. La frusta colpì un capezzolo e il giovane alzò gli occhi al cielo per il dolore. La vista della sofferenza che gli infliggeva dette soddisfazione al Dominus, lo vide dal modo in cui dilatava impercettibilmente gli occhi. Ruotò il polso e la sferza si abbatté ancora e ancora. Sul petto, sulle cosce. Il Dominus respirava pesantemente cadenzando le frustate, la sua bocca era un ghigno mostruoso. E bellissimo. E poi lo colpì di nuovo sulla schiena e sulle natiche. I dolore si propagava sulla sua pelle come cerchi infuocati concentrici. Ormai i gemiti di sofferenza repressa ardevano nella sua gola in silenzio. Il corpo si dibatteva senza controllo, ma era in trappola, incapace di muoversi, alla mercé della furia del Dominus. Gli apparteneva. Adesso capiva perfettamente cosa volesse dire. Poi il Padrone si fermò. Avanzò e si accostò alle sue spalle. Lo schiavo sentì il corpo caldo sotto la stoffa della tunica che lo sfiorava, il dorso escoriato bruciava a quel contatto, un fuoco rosso invase i suoi occhi e la sua testa. Il fiato caldo dell’uomo gli sfiorò un orecchio.

<<Hai imparato la lezione o ne vuoi ancora?>> gli sussurrò. E poi il giovane sentì attraverso la tunica la possente verga del Dominus, contro le natiche. Era eretta e pareva quasi voler sgusciare fuori dalla veste per bussare prepotente al suo orifizio. Allora... non era solo rabbia. Torturarlo gli piaceva, pensò il ragazzo con un fremito di sconcerto.

<<Questo serva a ricordarti a chi appartieni!>> lo apostrofò il Dominus con un crudele compiacimento di cui mai il giovane lo avrebbe ritenuto capace. Il ragazzo tremò per la paura, ma non solo per quella. Anche in quel momento il tocco del padrone gli risvegliò di riflesso le vecchie sensazioni, o il ricordo che di esse poteva restare in quel mare di dolore.

Ma il Dominus si staccò, riprese la sferza e proseguì. Continuò a batterlo con colpi convulsi e brutali sinché il ragazzo non sentì la frusta colpire sulle ferite aperte e il sangue caldo che iniziava a colare. Il dolore possedette tutto il suo corpo e infine sentì le grida erompere sorde dalla sua bocca. Iniziò a piangere senza più ritegno. Lo supplicò di smettere, di ucciderlo e farla finita. Ma il Dominus continuò, incurante di lui. <<Adesso i tuoi gemiti non sembrano più quelli di una cagna vogliosa?>> fu l’unica soave replica che ottenne. Il giovane levò lo sguardo al cielo, supplicò tutti i suoi dèi, ma sopra di lui c’era solo il buio del lurido soffitto della cella. E il silenzio fu l’unica risposta.

      Quando la fiera ebbe esaurito la propria furia, il cucciolo si meravigliò di essere ancora vivo. Aveva subìto di peggio, ma mai gli aveva fatto così male. Mai al cuore.

<<Non ti ucciderò!>> sentenziò il Dominus <<Ma voglio che d’ora in poi ti sia impossibile dimenticarti che sei mio!>>.

<<Lo ricorderò!>> rispose lo schiavo, ormai rotto a ogni umiliazione e incapace di opporsi <<Lo giuro! Farò tutto ciò che vorrai!>>.

<<Voglio esserne certo!>> rispose la voce del demonio dietro di lui. Ciò detto si staccò da lui, lasciandolo solo, nudo e dolorante. Afferrò un’asta di ferro in un angolo della cella e ne avvicinò un’estremità ad una torcia accesa. Lo schiavo vide il fumo levarsi da essa. All’improvviso capì. Sentiva che il suo corpo avrebbe voluto ribellarsi, ma non ne aveva più la forza. Lo supplicò. Ma il Dominus restò inespressivo. Tolse l’asta dal fuoco. Il ragazzo vide una sorta di disco metallico, ora incandescente e fumante, incastonato all’estremità. L’uomo si avvicinò. Glielo accostò agli occhi. Il fanciullo vide le iniziali del nome del Dominus brillare luminose, circondate da altri simboli che non riuscì a leggere, poi vide le scintille accecanti danzargli dinanzi al viso. E udì la propria gola gridare con tutto il fiato che aveva. Il mondo intero sembrava essersi acceso di fuoco, fu certo che avrebbe perso la vista. Ma poi il Dominus scostò il piatto dalla sua faccia e con gesto secco glielo impresse sulla spalla. Il ragazzo strillò di nuovo come un ossesso, sentì il  fuoco vivo, il dolore atroce scuotergli tutte le membra e il puzzo rancido della carne bruciata contrargli lo stomaco.

Quando si riprese e la sua vista si schiarì, tutto quello che vide fu il volto serio e spietato del Dominus. <<Adesso non potrai più fuggire senza che tutti ti leggano addosso che sei uno schiavo. E che sei mio!!!>> soggiunse accostandosi al suo viso. <<Spero tu abbia capito a chi appartieni, adesso! Hai capito?>>

<<Sììì.>> blaterò impercettibilmente il ragazzo.

Il Padrone lo afferrò per i capelli strattonandogli la testa all’indietro: <<Hai capitoooo!!!!?>> urlò.

<<Sì!>> rantolò il ragazzo con quanta voce gli restava.

<<Bene!>> replicò secco. Gli sganciò le catene dai polsi doloranti e il fanciullo cadde esanime, a peso morto, nudo contro il pavimento freddo e umido.

Il Padrone, sopra di lui, aveva tratto fuori la possente verga di sotto la tunica. Il ragazzo credette che volesse una dimostrazione di obbedienza. Era già semieretto, il giovane sapeva che sarebbe occorso poco a completare l’opera e, terribile a dirsi, anche in quel frangente, era pronto. Ma fu grande la sua sorpresa quando vide il getto dorato alla luce delle fiaccole zampillare dal pene sulle sue labbra, fu turbato dal sapore forte e viscido. Il Dominus gli sferrò un calcio nel basso ventre facendolo rotolare supino a terra e ricoprì di piscio tutto il suo corpo nudo. Il liquido caldo bruciava sulle ferite, l’odore acre impregnò la sua pelle. Quando ebbe finito, il Padrone sgrullò il cazzo e incurante di reinfilarlo sotto la tunica lo lasciò pendere in bella mostra. Lo afferrò per i capelli e gli disse secco: <<Ricorda il mio odore! Ti resti addosso a rammentarti che mi appartieni. Le bestie marcano così il proprio territorio e a quanto pare un lurido cinaedus, un invertito senza onore, come te non può capire che la lingua delle bestie!>>. Ciò detto lo gettò a terra e se ne andò.

Il fanciullo era rimasto là, sul pavimento, ferito e umiliato, con l’odore del piscio a dilatargli le nari e il buio e il vuoto a fargli compagnia. Ripensò alla patria e ai propri cari per l’ultima volta e pianse tutte le lacrime che gli restavano. Il Dominus ora gli mostrava tutto il suo disprezzo e così sarebbe sempre stato. Quello era il suo destino. Così aveva rinunciato alla libertà, una volta per sempre.

Fino ad ora.

E adesso, era il Dominus stesso ad offrirgliela. Perché? Guardandolo negli occhi mentre rideva con i compagni capì a cosa bramava il suo divertimento: non gli bastava avere il corpo degli schiavi e sapere che loro, servili, avrebbero obbedito. Voleva comandare la loro anima e i loro desideri, vederli umiliarsi e prodigarsi doviziosamente come meretrici, voleva che bramassero con tutto l’animo di far godere il proprio dominus. Ma perché aveva scelto lui? Se tanto l’aveva deluso, se tanto il Dominus aveva fatto per negargli la libertà, lo aveva punito, gli aveva tolto ogni speranza, perché ora voleva rischiare di premiarlo con la libertà stessa? Proprio lui che avrebbe saputo così bene come farlo cedere al piacere? Lo aveva davvero scelto apposta per mettere alla prova allo stremo la propria resistenza? Non poteva essere solo quello! Quei pensieri, quei ricordi si dibattevano confusi nella sua testa, mentre era immobile, nudo assieme agli altri due giovani schiavi. Mentre i tre Domini, riempite di vino le coppe, libavano alla statuetta del dio Priapo che li fissava da una nicchia, le fattezze pitecomorfe e l’enorme verga eretta. Si vincolavano l’uno all’altro in goliardici e grevi giuramenti, promettendo di giocare lealmente e di cedere quanto stabilito in caso di sconfitta. Gli altri ospiti ridevano.

Poco importava perché! Si disse lo schiavo. Il Dominus aveva giurato e lui si sarebbe guadagnato la propria libertà, quali che ne fossero il modo e la ragione.

<<Siamo pronti allora!>> sentenziò il Dominus, quando ebbero terminato le offerte.

<<Che vinca il migliore!>> sentenziò Fabritius.

<<Allora abbia inizio il gioco!>> concluse il Padrone <<Signori, via le tuniche!>>

Ciò detto gettò a terra la veste, si denudò nel bel mezzo della sala, imitato dagli altri due. Fabritius aveva buona parte del corpaccione possente ricoperta di fitta peluria nera, le spalle e le braccia ancora muscolose, ma un accenno di mammelle sotto il pelo e un ventre abbondante e prominente. <<Lasciato l’esercito non hai abbandonato l’assiduo esercizio nel vino e nella crapula!>> lo sbeffeggiò qualcuno degli ospiti. Lui rise. Aveva l’asta già eretta, mediamente piccola, che pareva quasi scomparire sotto il ventre. Lo schiavo invidiò il giovane biondo che avrebbe dovuto subirla. Fabius aveva carnagione chiara, spalle larghe e fisico prestante da soldato, pochi peli fulvi sul petto prominente e muscoloso e ventre appena leggermente appesantito dagli ultimi anni di ozio, il membro non era particolarmente bello, un po’ troppo grosso e curvato di lato, ma lui ostentava la propria nudità senza remore, con ghigno fiero, pronto alla sfida. Quanto al Dominus, Bocca di miele lo conosceva già bene, e il tempo non lo aveva minimamente scalfito. Il suo fisico possente e cotto dal sole pareva scolpito nel bronzo come quello di una statua di Policleto e non aveva nulla da invidiare all’immagine dell’atleta di marmo che si intravedeva fuori dalla sala, oltre le colonne, eretto tra gli alberi nel giardino del peristilio, rilucente ai raggi del tramonto. Una sola, grande differenza, l’enorme verga pendula, che, ancora a riposo, avrebbe potuto gareggiare piuttosto in lunghezza e spessore con quella di Priapo. Nessuno poté fare a meno di ridere alla vista della minchia che le dimensioni facevano apparire così sgraziata, sebbene all’occhio attento e rassegnato dello schiavo mostrasse una bella forma tornita e una simmetria quasi perfetta. Ma ciò che colpiva il ragazzo era piuttosto un’altra cosa: l’ampio petto marchiato dal segno della prova di forza.

Guardandolo ripensò a una delle prime volte in cui aveva visto il corpo del Dominus. Seduto tra i cuscini del talamo, l’uomo lo cullava sulle ginocchia. Lo schiavo era nudo ma non sentiva alcuna vergogna, il Padrone gli sorrideva e lo riempiva delle gentili attenzioni che gli aveva sempre riservato un tempo. Gli carezzava il viso, gli vezzeggiava il mento. <<Bocca di miele!>> gli sussurrava. E poi il ragazzo ricordava quelle labbra che baciavano il suo corpo. Carnose, vogliose, colme di desiderio. Ricordava il primo contatto col piacevole graffio di quella barba. La bocca dell’uomo gli baciava una guancia, allora ancora imberbe, il collo, una spalla, l’incavo del petto. Poi la lingua giocherellava con un capezzolo che si era rizzato prontamente, sì che subito le labbra si erano serrate a succhiare. Bocca di miele aveva sentito un brivido, come se il suo corpo fosse stato una lira e mani esperte l’avessero pizzicato intonando una melodia dolcissima. Aveva affondato la mano tra le corte chiome corvine e si era stretto quella testa al petto bramando solo che lo titillasse con forza. Poi i denti erano affondati di scatto e il ragazzo aveva gridato. Ma era stato un grido querulo e smanioso a uscire dalla sua bocca. Il Dominus si era staccato e aveva sorriso, gli aveva preso entrambi i capezzoli tra le dita e li aveva strattonati strappandogli un altro gemito di voluttà e di leggero dolore. <<Hai due zizze da femmina!>> gli aveva sussurrato ridacchiando <<E godi come una femmina!>>.

Il ragazzo lo aveva fissato senza capire. Lui allora si era slacciato la tunica dalle spalle mettendo a nudo il torso muscoloso. Aveva un petto largo e possente, e due grossi capezzoli, rosei contro la pelle color del bronzo, alle cui punte sporgenti erano appesi  due piccoli anelli d’oro. Il ragazzo era rimasto senza fiato al pensiero che carne così delicata fosse stata forata per appendervi dei monili.

<<Cosa sono?>> chiedeva toccandoli e giocherellandoci.

<<Sono la prova della mia resistenza al dolore. Li ho fatti forare da un fabbro dell’esercito, quando ricevetti la nomina a tribuno militare!>>

<<Perché?>>

<<Per mettermi alla prova! E per dare ai miei uomini un esempio di vero valore!>>

<<E non fu doloroso?>>

<<Sì! Ma è virtù dell’uomo e del buon soldato saper sopportare la sofferenza con fermezza. E almeno cento compagni possono testimoniare che non ho emesso neppure un gemito.>>

Il ragazzo aveva pensato che mai avrebbe potuto essere tanto forte.

E lo temette anche ora, guardando quei capezzoli inanellati e poi l’enorme fallo che lo aspettava.

I tre Domini fecero cenno ai rispettivi schiavi di avvicinarsi. Si stagliavano fieri, ignudi in mezzo al Triclinium, come tre atleti elleni sulla sabbia prima di un agone.

Il ragazzo vide gli altri due schiavi lasciarsi prendere docili dai rispettivi domini. Il biondo Ganimede si lasciò condurre prontamente da Fabritius al suo lato del triclinio dove prese a darsi prontamente da fare con l’arte di un vero cinaedus. Si lasciò baciare la bocca, poi scese a baciare il collo taurino e si avventurò con labbra e lingua a esplorare la peluria in mezzo al petto. Fabritius pareva deliziato e gli afferrò la testa sospingendolo in basso verso il suo obiettivo finale. Di certo Bocca di miele non biasimava quel ragazzo pensando a qual era il prezzo delle fatiche.

Fabius iniziò a palpeggiare il corpo muscoloso del numida, a strizzargli le natiche, quello lo lasciava fare. L’uomo gli carezzò le labbrone carnose col pollice.

<<Con questa bocca potrebbe succhiarceli a tutti e tre assieme!>> sentenziò divertito.

<<Non è nelle regole!>> obiettò qualcuno dal pubblico. Fabius rise. Lo schiavo lo guardò con un sorriso malizioso. Aveva bei lineamenti regolari, anche se sembravano scolpiti nell’ebano. Poi afferrò la minchia eretta di Fabius e iniziò a menarla su e giù con un gioco da maestro.

Il Dominus fissò Bocca di miele e si avvicinò a lui. Lo schiavo sapeva cosa lo attendeva, ma non riusciva a sostenere l’attenzione di quello sguardo. Sotto quegli occhi si sentiva avvampare e bruciare. Qualcosa di insano nella sua testa lo spingeva a ripetere quanto già tentato. Con un rapido balzo fuggì. Saltò verso l’angolo della sala che dava sul peristilio, attraversò le colonne e corse via, verso l’aria fresca, gli alberi e il cielo terso, incurante del vento della sera sul suo corpo nudo e dell’erba del giardino che gli solleticava i piedi. <<Dove credi di andare, per il conno di Diana?>> lo schernì il Dominus. Bocca di miele senza ascoltarlo corse via.

<<Attento Iulius, il tuo ragazzo ti è scappato!>> lo sbeffeggiò qualcuno nel pubblico. <<Proprio tu non sai controllare il tuo schiavo?>>

Senza scomporsi a chiamare i guardiani il Dominus gli balzò dietro, incurante della propria nudità e della grossa asta semieretta che gli ballonzolava nella corsa. Tutti risero allo spettacolo dell’inseguimento colle natiche al vento in mezzo al peristilio.

Una coppia di pavoncelle saltellò via al passaggio dello schiavo. Era sempre stato un abile corridore, ma quello era solo un limitato giardino interno e il Dominus era un soldato addestrato. Lui poté correre un po’ in tondo e nascondersi tra gli alberi, ma alla fine inciampò nella fontana e cadde nell’acqua. Il Padrone lo afferrò per i capelli e lo tirò fuori grondante. Lo schiaffeggiò duramente in pieno viso, lasciandogli il segno su entrambe le guance. Lo schiavo lo guardò spaventato. <<Imbecille! Che pensavi di fare!!!?>> lo rimproverò trapassandolo col suo sguardo. Lo schiavo tremò. Aveva fatto una sciocchezza? Il Dominus irritato lo avrebbe fatto imprigionare di nuovo e avrebbe scelto un altro schiavo? Aveva perso la sua unica occasione? L’uomo gli strattonò i riccioli e lo ritrascinò dentro di peso. <<Ho detto che ti fotterò!>> sentenziò <<E adesso, bagnato o no, ti lascerai fottere o ti spaccherò il culo prendendoti a forza! Peggio per te e meglio per la mia vittoria se lo farai contro voglia!>>

<<Bravo Iulius!!>> lo acclamavano i commensali <<Facci vedere come si sottomette uno schiavo!>>

Il Dominus lo gettò sul pavimento del Triclinium. Bocca di miele lo guardò dal basso in alto. Aveva la verga eretta che puntava verso il soffitto e il viso infiammato dall’espressione selvaggia che lo schiavo ben ricordava. Allora la sua mossa aveva funzionato! Aveva capito bene cosa infiammava i desideri del Dominus. Un altro schiaffo in pieno viso lo rovesciò a terra e il Padrone parve eccitarsi ancora. Lo schiavo lo guardò in tralice con uno sguardo da meretrice.

<<Perdonami Dominus. Farò tutto ciò che vorrai!>> lo supplicò con voce querula. Aveva di fronte i grossi piedoni del Dominus calzati di sandali dorati, l’unica cosa che ancora indossasse. Erano due piedi grandi e ben fatti, da atleta, simili a quelli della statua di un dio. Lo schiavo si chinò a baciarli con voluttà. Odoravano di erba e di polvere, l’odore fresco e gradevole di un uomo che ama camminare a piedi nudi. Il Padrone sembrava gradire. Non era la prima volta che lo schiavo si chinava a venerargli i piedi. Nell’oriente donde lo schiavo proveniva era un gesto onorifico che si riservava ai Re, a Roma nessun cittadino libero avrebbe mai concepito l’idea, ma il Padrone andava in estasi vedendo uno schiavo farlo per lui. La Bocca di miele assaporò voluttuosamente la superficie di un piede, lo liberò dal sandalo, assaporò la pianta, l’alluce e poi le altre dita e lo fissò negli occhi succhiandole come stesse simulando una fellatio su ognuna di esse. Fece la stessa cosa con l’altro piede. Il Dominus lo fissava col suo sorriso sghembo, lasciandolo fare. Non si scomponeva in aperti segni di apprezzamento, ma la verga rizzata sopra la testa dello schiavo parlava da sola. La Bocca di miele si arrampicò quindi lungo le cosce tornite assaporando il gusto della pelle sotto la leggera peluria. Con la coda dell’occhio vide che ai bordi del triclinio gli altri due schiavi stavano già fellando i rispettivi domini sotto lo sguardo del pubblico acclamante. Ma non si preoccupò di essere indietro nella gara per la libertà: la voluttà della carne va centellinata, occorre dedicarle il tempo necessario. Arrampicandosi lungo le cosce giunse all’inguine e affondò la Bocca d miele nella peluria. Sentì l’odore di virilità dilatargli le nari. Il Dominus si mosse impercettibilmente. Lo schiavo calò sul grosso scroto e lo leccò. Lavorò entrambe le palle colla lingua, poi le succhiò, sentendo l’eccitazione, la pelle che si raggrinziva, il sapore dell’intimità tra la peluria. Risalì lungo l’asta. La scappellò. La strinse in mano: a dispetto dell’ostentato autocontrollo del suo padrone, era ardente e pulsava di desiderio. La punta era leggermente umida. Per quanto sproporzionata secondo i canoni greci e romani, al ragazzo pareva piena di grazia. Per un attimo l’odore gli invase le nari, l’odore del sudore, dell’eccitazione e del leggero residuo di urina. Quell’odore gli mise sottosopra lo stomaco. Gli ricordò l’oscurità della cella, il dolore delle percosse e il piscio rancido sulla sua pelle, non lavato per giorni di prigionia. Per un attimo ebbe paura di non farcela, sentì un conato che rischiava di risalirgli su per lo stomaco. Forse avrebbe dovuto imitare il coppiere biondo che aveva sollevato un dolciume e ne stava facendo colare il miele sulla cappella di Fabritius per poi degustarlo e ripulirlo ben bene.

No! Si disse. Doveva mostrargli la sottomissione totale, mostrargli che aveva imparato a sopportare e a gradire il suo sapore, che aveva imparato a chi apparteneva, ma al tempo stesso  che le sevizie non l’avevano piegato: una sfida. Allargò la bocca e avvolse quella cappella rossa e pulsante come un’enorme ciliegia. Iniziò a lavorarla con labbra e lingua mentre serrava in pugno lo scettro. L’odore lo invase, lo pervase e all’improvviso ogni barriera che il ricordo della sofferenza aveva eretto si sciolse e il rifiuto dei suoi visceri si rivelò per ciò che era, desiderio che non aveva il coraggio di esplodere. Il giovane iniziò a degustare il sapore amato del suo Padrone, ingoiò quanto più poteva e iniziò a fellare ritmicamente con tutta la goduria di cui era capace. Il Dominus gli affondò le mani tra i riccioli mostrando di gradire. Poi gli prese i capezzoli  e iniziò a torcerli e il giovane sentì la propria voglia lievitare. Serrò il ritmo per accelerare il piacere, cercò di ingurgitare quanto più poteva, ma sentiva la carne bollente lievitare ancora a dismisura nella sua bocca. Avrebbe potuto spaccargli il palato e il cranio per arrivare davvero a sfondare il cielo come quello di Giove... E sarebbe stato un bel modo di morire! Lo voleva, lo voleva tutto. Riuscì a farselo entrare tutto in bocca. Gli strinse le natiche, scolpite nel marmo caldo e sentì che le contraeva ritmicamente per il piacere. Il Dominus iniziò lui stesso a fottere la sua gola a colpi cadenzati. Il ragazzo alzò gli occhi colla bocca piena e vide il viso beffardo che lo sfidava. L’uomo godeva della sua totale sottomissione e, sebbene facesse di tutto per nasconderlo dietro quel viso impassibile e controllato, stava rischiando di goderne un po’ troppo. Lo schiavo si affaccendò ancora, fermandosi a tratti per carezzare tutta la carne colla sua lingua e degustare il sapore maschio della minchia.

<<Ehi, Iulius, sei pronto per cominciare?>> incalzò frattanto Fabritius che aveva già il volto paonazzo e stravolto mentre il suo Ganimede continuava a degustare vino dopo averlo versato sulla sua verga.

<<Stiamo aspettando solo te!>> lo apostrofò Fabius con aria di sfida, stringendosi il membro in tiro mentre il numida assaporava i suoi testicoli.

Il Dominus li fissò col suo sguardo di ghiaccio, impettito e fiero come se nulla fosse. Tirò lo schiavo per i capelli staccandoselo di scatto dalla minchia. Bocca di miele annaspò nel vuoto, si tese d’istinto cercando di riattaccarsi al suo boccone, ma la mano del Padrone lo tratteneva ferrea per la nuca. <<Allora diamoci dentro!>> rispose agli altri due, senza curarsi dello schiavo, come stesse tenendo per il collo un animaletto ammaestrato <<E mi bacerete il buco del culo dopo che sarete schizzati!>> soggiunse con aria di sfida.

I tre trascinarono autoritari i rispettivi schiavi ai lati del grande triclinio. Bocca di miele fu sospinto prono tra i cuscini ad un’estremità del grande letto, le mani ferme del Dominus lo sollevarono per i fianchi, alzandogli il deretano all’aria. Sentì la grossa cappella dell’uomo che si appoggiava tra le natiche. Il suo orifizio, che non veniva  penetrato da tempo, si contrasse d’istinto. Sentì le mani che stuzzicavano il buco e si adopravano per preparare l’ingresso. Respirò e si disse che doveva fare di tutto per favorire il godimento del Dominus. Si concentrò sulla sensazione di piacere che gli davano le sue mani forti, sul ricordo dei fremiti d’estasi che gli avevano donato un tempo. Di fronte a sé vide gli altri due schiavi che, allo stesso modo, venivano sbattuti su altri due lati del triclinio, a quattro zampe nella posizione della leonessa. I rispettivi domini li trattenevano per i fianchi e posizionavano i rispettivi arnesi all’ingresso, in mezzo alle natiche. Invidiò gli altri due che dovevano accogliere randelli assai meno vigorosi nelle proprie carni.

<<Sextus!>> il Dominus apostrofò il grasso ospite che guardava eccitato dal suo divano, intento ad accarezzare i riccioli di uno schiavo <<Sta a te dare il via, ché la gara sia equa!>>

<<Via!>> Sextus batté le mani. Lo schiavo vide gli altri due concorrenti affondare e attaccare la loro cavalcata con furia, gli schiavi gemere e abbassare la testa per incassare il colpo. Ma non fece in tempo a focalizzare la scena che un colpo secco e crudele lo perforò come una lacerazione. La Bocca di miele non poté trattenere un grido di strazio. Un’ondata di dolore nero dilagò nel suo corpo come cancrena e gli salì alla testa, per qualche attimo ebbe la sensazione di essere prossimo alla fine.

<<Povero ragazzo!>> udì ridere Sextus tra il compassionevole e l’ironico <<Deve essere dura prenderselo su tutto quel bestione!>>. Per tutta risposta il Dominus dietro di lui ansimò e lo schiavo ebbe la sensazione che quell’enorme pezzo di carne fremesse e lievitasse ulteriormente dentro di lui. Il Padrone andava fiero del proprio membro priapico, che, a dispetto dell’estetica, lo faceva sentire più uomo. Oppure era il pensiero di fargli male che gli procurava voluttà? Il ragazzo si rese conto che era di nuovo in grado di ragionare. Anche dopo parecchio tempo ricordava come era stato le prime volte. Poi con un colpo secco la bestia lo penetrò fino al limite. Il ragazzo sentì lo scroto dell’uomo sbatacchiare contro le sue natiche. Gridò di nuovo, il padrone incurante lo infilzò ancora e ancora, con colpi ritmici, come una spada che affondava. La mente del giovane rievocò i ricordi del dolore, del puzzo di morte dopo la carneficina della battaglia e della crudeltà dei soldati. Ma scacciò via quel pensiero. In quel momento esisteva solo il piacere di Venere, di Astarte come la chiamavano in Fenicia, e il giovane levò suppliche in silenzio a quella dea della sua terra natia, ché gli desse la forza di guadagnarsi la libertà. Cercò di fare appello a tutta la voluttà che aveva in corpo per dare il meglio di sé

La carne del Dominus dentro la sua era viva e pulsante, i loro corpi erano congiunti, il calore dell’uomo aleggiava su di lui come i raggi bollenti del sole. Mani vigorose percorrevano tutta la sua pelle, lo stringevano, il sudore dell’uomo lo bagnava come rugiada, le palle danzavano tamburellando contro le sue natiche, il poderoso petto  si chinava a toccare la sua schiena, la leggera peluria lo solleticava, sentì il freddo graffio impercettibile degli anelli che pendevano dai capezzoli. E accolse in profondità anche ciò che restava del dolore, come frutto della fonte della sua gioia. Un calore dorato lo pervase, un calore in cui i contorni dei corpi parevano farsi rarefatti ed evanescenti pronti a perdersi l’uno nell’altro. Che fosse davvero la grazia della dea quella che sentiva sul suo capo? Si tese, si divaricò, ad accogliere quanto più poteva di quella carne calda nel suo retto. Sentì le labbra del Dominus sfiorargli una spalla, la bocca barbata affondare nel suo collo e il primo fremito di piacere lo pervase. Ricordava i tempi in cui il Padrone adorava coprirlo di baci, sussurrandogli che la sua pelle dorata sapeva di miele.

Vide l’acqua del mare, dell’immenso Oceano che circonda il mondo, ricamata dalle tessere nel mosaico sul pavimento sotto di lui. Il possente Nettuno e altre mitiche creature vi si dibattevano come avvinghiati anche loro in amplessi divini. Isole fluttuanti emergevano qua e là, come se il mosaicista avesse voluto imprigionare la Terra intera sul pavimento di quella sala. Anche il grande triclinio che sentiva sotto le sue mani e le sue ginocchia era come un’isola in quel mare e lui, là sopra, tra quelle mura era un prigioniero, stretto da un uomo che lo possedeva, in ogni senso. Ma non aveva intenzione di restarlo per sempre

Alzò gli occhi. Vide i volti degli altri due schiavi che, superato anch’essi il dolore iniziale, si concentravano ad assecondare quella danza bramosa. I due domini dietro di loro ansimavano vogliosi. Fabius fotteva il negro, con i muscoli sudati di tutto il suo corpo che si contraevano nello sforzo, ma il volto non abbandonava il ghigno di sfida. Fabritius, rosso in viso, con il fuoco negli occhi, inculava selvaggiamente il biondo, il ventre e le poppe villose che ballonzolavano nella fatica amorosa. E Ganimede dimenava l’intero corpo onde accentuare il suo piacere oltre ogni controllo. Pur nello sforzo, il volto del giovane era una maschera di piacere e di perverso cinismo. Il suo bel viso e i suoi capelli d’oro, il suo bel corpo tornito ma ancora glabro avrebbero facilmente infiammato il rude bestione sino ad una rapida esplosione. Bocca di miele invidiò il distacco con cui il ragazzo sapeva fare uso delle proprie arti per ottenere quanto desiderava, la determinazione con cui si metteva in gioco, la sua stessa bellezza. Non poté far a meno di notare che tra le cosce aveva il membro eretto: a quanto pareva la situazione lo divertiva. Era davvero bello. Fabritius gli passò una mano sulle labbra, rosee e generose come quelle di una donna. Lo schiavo gli succhio voglioso un dito. Fabritius mugolò, poi ritrasse la mano. Bocca di miele si tese in avanti, accostò il viso a quello dell’altro schiavo e lo baciò. Assaporò le sue labbra, tese la lingua a cercare la sua. Un pensiero folle lo guidava, forse sperava di distrarlo, ma quello parve divertirsi, probabilmente sapeva di eccitare il proprio dominus, che sembrava assai incline a lasciarsi sollazzare da quella vista e a perdere il controllo dei propri desideri. Bocca di miele, alzò una mano dal letto, la tese a carezzare l’altro schiavo, la lasciò scivolare sotto il suo corpo, sin tra le cosce, gli afferrò il membro eretto, lo scappellò e iniziò a menarlo su e giù. Sarebbe stato indifferente anche a questo? Guardò Fabritius che gongolava eccitato. E anche Fabius, all’altro capo del triclinio, pur non perdendo il controllo, ebbe un lampo negli occhi. A quanto pareva la vista degli schiavi che si fottevano tra loro li stuzzicava parecchio. E lo schiavo biondo lo assecondava divertito, rispondendo alle carezze della sua lingua con la propria. Bocca di miele si chiese come stesse reagendo il proprio Dominus...

Quand’ecco che, mentre era ancora impalato, una mano grande e brutale lo schiaffeggiò su una natica con tanta veemenza che il giovane temette di perdere i sensi. Senza smettere di fotterlo a colpi cadenzati, le mani del Padrone lo batterono su entrambe le chiappe più e più volte. Poi lo afferrarono per i capelli staccandolo dall’altro schiavo, traendo su il suo corpo, da carponi in ginocchio. Lo attirò a sé, la schiena contro quel torace possente, immobilizzandolo con le braccia mentre era ancora dentro di lui. Si accostò al suo orecchio, il respiro caldo lo fece vibrare. <<Stanotte ti ho scelto! Tu sei mio, credevo di essere stato chiaro!>> gli bisbigliò <<Dunque, a meno che non ti ordini il contrario, pensa a far godere me e me soltanto! Hai capito?>> la sua voce era affilata come una spada. <<Sì, Dominus>> ansimò lo schiavo sospeso tra il dolore e la voluttà. Il Padrone senza rispondere gli morse l’orecchio. Lo schiavo gridò per la fitta di dolore, sentendo i denti rilasciare la presa giusto in tempo perché la pelle non iniziasse a sanguinare. Il Dominus era infuocato e furioso, proprio come lo schiavo lo voleva. Continuava a muovere i fianchi spingendo il cazzo dentro di lui.

<<Vino!>> sentenziò Fabius ansimante, tendendo una coppa che stringeva in mano. Prontamente uno schiavo coppiere, nudo, gli riempì la coppa. Altri ne riempirono altre due e le porsero agli altri due domini. I tre levarono i boccali alla reciproca salute e tracannarono il vino senza smettere di fottere, trattenendone le natiche dei tre schiavi con la mano libera.

Bocca di miele vide Fabritius rosso in viso, gli occhi vitrei, quasi sfinito e agognante. Purtroppo il suo Dominus era troppo resistente, allenato e troppo freddo perché si lasciasse andare con altrettanta facilità. <<Ti prego, mio Dominus!>> lo supplicò sottovoce con tono sordido. <<Che vuoi, per le palle di Ercole!?>> ansimò l’uomo irritato. <<Tu sei così bello e forte, Dominus! E fai l’amore come un dio! Concedimi di girarmi e mettimi supino, sì che possa godere la vista della tua bellezza mentre mi possiedi a gambe all’aria. Così potrò sentirti ancor più in profondità e il desiderio di cui brucerò alla tua vista mi spingerà a donarti ancor più piacere!>>. Il Dominus rise sprezzante: <<Sei una piccola lingua biforcuta, aduli e allisci come una vera puttana!>> gli bisbigliò nell’orecchio. Poi tirandolo per i capelli, gli sospinse la faccia contro i cuscini, continuando imperturbabile a fotterlo da dietro nella posa della leonessa. Per un attimo il giovane temette che l’avrebbe soffocato, ma poi l’uomo allentò la presa, allora lui volse la faccia di lato, riguadagnando l’aria. <<Naturalmente,>> soggiunse con voce stentorea, con simulato tono di rammarico e di scusa <<se per il mio Dominus non è eccessiva fatica tenermi a gambe all’aria e fottermi da davanti o se non teme così di perdere il controllo con troppa facilità!>>. Sentì il respiro del Padrone farsi pesante per la furia dietro di lui. Aveva parlato a voce alta e sentì gli altri astanti ridere divertiti.

<<Andiamo Iulius, già sei così provato?>> lo apostrofò un amico che sedeva a bere.

<<Non ce la fai più a reggere la sfida?>> lo sbeffeggiò Fabius ironico.

<<Sei tanto invecchiato dai tempi in cui in Siria ti fottevi dieci puttane, uomini e donne, in una notte sola?>> rise l’uomo che aveva parlato prima. Lo schiavo fu al tempo stesso ammirato e atterrito da quell’aneddoto. Ma cercò di convincersi che fosse solo una leggenda ingigantitasi col passare di bocca in bocca.

<<La gara non prevedeva che gli schiavi fossero liberi di far di tutto per dar piacere al proprio Padrone?>> chiese Sextus divertito dal suo triclinio.

<<Mai vorrei negare soddisfazione a una sì gentile richiesta!>> rispose il Dominus con voce amichevole e gaudente <<La mia resistenza è lungi dall’essere fiaccata! Mi sto appena scaldando e sono impaziente di assaporare le nuove voluttà che questo giovane mi promette! Sarà una gioia dar godimento ai tuoi occhi, schiavo!>>

Uscì dal suo retto. Lo schiavo sentì un improvviso senso di vuoto fluttuare dentro di lui, come fosse stato privato di una parte del suo corpo stesso. Le mani del Padrone lo presero per i fianchi e lo voltarono supino. Guardò il Padrone in viso, la sua bellezza, la sua crudeltà, era accaldato ma ancora in forze.

<<E ai vostri, miei gentili ospiti, se è questo lo spettacolo che bramate!>> soggiunse sfidandoli con aria canzonatoria.

Gli sollevò le gambe e si posò i suoi piedi sulle spalle. Fissandolo, lo schiavo vide che, dietro la maschera sorridente, era infuriato per la sfida lanciatagli e che gliel’avrebbe fatta pagare. Bene! Gli uomini come lui non distinguono nettamente la furia dal desiderio e più si infuriava, più sarebbe stato facile fargli perdere il controllo. Con un colpo netto il Dominus strinse le natiche e trapassò il retto del ragazzo. Ormai abituato dalla cavalcata di poco prima, il giovane non provò eccessivo dolore. Guardò il Padrone che si stagliava su di lui, dietro di lui gli ospiti che osservavano con perversa lascivia e sulla sua testa la grande volta a cupola del Triclinium, affrescata come quella del cielo notturno, una luna piena e stelle scintillanti su un fondo azzurro, di una tonalità poco più scura degli occhi del Dominus che lo fissavano. La vista della brama in quello sguardo, che percorreva con occhi di brace il suo corpo nudo sotto di lui, la sua carne calda e palpitante nel suo orifizio lo infiammavano. Il ragazzo allungò le mani a carezzare quel fisico di guerriero, che torreggiava gigantesco sopra di lui. Gli carezzò le guance ruvide di barba, discese sulle spalle forti. Il suo corpo era caldo, il respiro accelerato. Le mani dello schiavo stringevano tutti quei muscoli possenti che si contraevano ritmicamente nel sesso, scivolavano sulle membra sudate, vogliose di percorrerle tutte, di riempirsi della loro forza. Discese lungo il dorso possente, gli serrò le mani sulle natiche di marmo, le strinse con desiderio quasi isterico mentre continuavano a contrarsi e rilasciarsi per dare ritmo all’inculata. Il Padrone sembrava gradire, lo schiavo accostò un dito all’orifizio e lo titillò, il Dominus lo lasciò fare mentre i suoi occhi si facevano vitrei per il piacere.

L’uomo rallentò per un attimo la cavalcata e riprese il controllo. Si chinò su di lui poggiandosi ai gomiti per sorreggersi nello sforzo. Lo schiavo contrasse l’addome per sollevarsi quanto più vi riusciva, allungò il viso verso la spalla del Padrone e iniziò a baciarla, risalì sul collo, poi affondò i denti. Sentì il corpo dell’uomo fremere di nuovo. Quello per tutta risposta gli prese il viso tra le mani e se lo staccò di dosso con dolcezza ma con fermezza. Poi lo schiaffegiò. Lo schiavo volse la testa di lato.

Sull’altro lato del triclinio vide che anche Ganimede era sdraiato gambe all’aria mentre Fabritius di fronte a lui lo possedeva. Lo schiavo sollevava la testa contorcendosi su sé stesso, si accostò al petto villoso, alle poppe ballonzolanti e con la bocca si attaccò a un grosso capezzolone, rosso e rizzato che faceva capolino in mezzo alla foresta di peluria nera. Succhiò come un cucciolo e Fabritius iniziò a mugolare di piacere senza controllo. Bocca di miele tornò a guardare i capezzoli inanellati del Padrone, ormai resi insensibili dal dolore un tempo volontariamente infertosi, e invidiò la fortuna dell’altro schiavo che disponeva di un simile punto debole a portata di mano.

Già, ma c’era piuttosto altro che arrapava il suo Padrone. Mentre continuava a fotterlo, lo schiavo lo fissò adorante negli occhi. Poi si portò gli indici ai propri capezzoli e prese a carezzarli, immaginando che fossero le dita del Dominus stesso a farlo. Li prese tra pollice e indice e iniziò a titillarli. Il suo sguardo di certo tradiva il piacere che provava, perché vide gli occhi del Padrone infiammarsi di desiderio. Con una mano continuò sulla mammella sinistra, colla destra scese sul proprio membro, che iniziava a farsi semieretto, se lo prese in mano e iniziò a darsi piacere. Prima con dolcezza, poi con sempre maaggior vigore. Continuò a fissare negli occhi il Padrone, sognando adorante che fossero le sue mani a toccarlo. Sentì il proprio membro gonfio di piacere contro il palmo della mano. La sua bocca si lasciò sfuggire un gemito. E poi il desiderio del Dominus trascese il suo. Si chinò su di lui. Affondò le labbra sulla sua guancia, tirò fuori la lingua e l’assaporò, poi si chinò sul petto, giocò con i capezzoli, leccò, succhiò, morse. Il ragazzo gemeva di gioia e di estasi. Si lasciò il membro per evitare di rilasciare troppo presto il piacere che lo animava tanto. Ma la mano stessa del Padrone si avvinse attorno ad esso e prese a gingillarcisi. Il ragazzo fece appello a tutto il proprio autocontrollo. Affondò le mani tra i capelli del Dominus stringendoselo al petto in estasi, poi le lasciò nuovamente scorrere lungo il suo corpo. Sentì il desiderio infuocare il Padrone, il tamburo del cuore che risuonava nell’immenso torace riecheggiando sin sotto le spalle, le membra sudate che ansimavano.

Poi il Dominus si staccò e rallentò il ritmo fottitorio per riprendersi. Le mani possenti afferrarono lo schiavo per le spalle sollevandolo in aria. Il Dominus, ansimante, si sedette, appoggiandosi contro i cuscini della spalliera del triclinio, e lo trascinò seduto in braccio a lui. Con abile gesto, se lo riimpalò di nuovo sul membro eretto e con le mani lo afferrò per i fianchi facendogli cenno di riprendere la danza. Lo schiavo si infervorò al pensiero che ora poteva scandire lui il ritmo della cavalcata. Si chinò sul petto del Padrone e iniziò a ricoprirlo di baci. Gli piaceva perdersi sulla pianura sterminata di quel torace forte, ma il Padrone non sembrava particolarmente eccitato.

Frattanto dei gemiti forsennati risuonarono alle sue spalle. Voltandosi il ragazzo vide il viso paonazzo di Fabritius contratto dal piacere, lo schiavo sotto di lui gli stringeva le natiche, un dito si avventurava nel suo orifizio. Forse un po’ troppo in profondità  e stavolta il godimento pareva essere senza ritorno. L’uomo gridò, si aggrappò con una mano a un cuscino, coll’altra alla spalla di Ganimede, ma ormai era andata. Tutti videro il viso sfigurato dalla goduria, i fremiti dell’estasi scuotere il suo corpo, udirono grida di imprecazione contro la terra e il cielo eruttare dalla sua bocca e infine tale doveva essere stato il piacere che il seme lucente e viscoso traboccò dalle natiche dilatate dello schiavo andando a irrorare la stoffa azzurra che ricopriva il triclinio. Infine l’uomo si abbatté sfinito a pancia all’aria, sbattendo i pugni contro il letto. Gli astanti risero. Ganimede si alzò, il volto raggiante: aveva vinto. Sotto di lui il penoso spettacolo della verga dell’uomo, ormai libera e molle, ancora scintillante di piacere alla luce delle lampade, che si ritraeva sino quasi a scomparire nella peluria pubica.

<<Mi spiace, mio caro!>> rise Sextus, arbiter del gioco. <<Complimenti ragazzo, con la tua beltà e la tua troiaggine ti sei appena guadagnato la manu missio! Chi altri sarà altrettanto fortunato?>>

Bocca di miele si volse, speranzoso e preoccupato. Natiche d’ebano era seduto a cavalcioni sul suo dominus impalato sulla sua asta nella posizione della mulier equitans. Fabius era sdraiato supino sotto di lui, anch’egli provato e in attesa di riprendere le forze. Stringeva le chiappe dello schiavo guidando il suo lento movimento ritmico. Guardò il Padrone di casa con rinnovata sfida: <<A noi due allora!>> lo apostrofò. Il Dominus si limitò a replicare con un sorriso sarcastico. Strinse Bocca di miele per le spalle e lo spinse ancor di più verso il basso riempiendogli il retto del propria cazzo. A quanto lo schiavo aveva capito, quei due erano stati compagni d’arme inseparabili. Addestrati assieme, avevano affrontato ogni sfida assieme ed erano in perenne competizione per ogni vana briciola di gloria. Sarebbe stata un’ardua sfida alla pari, difficile dire chi sarebbe capitolato per primo. Ma Natiche d’ebano non sembrava particolarmente prodigo d’iniziativa, mentre lui conosceva sin troppo bene il proprio Dominus e le sue voglie.

Si guardò attorno e vide che anche gli altri ospiti, evidentemente sollazzati dallo spettacolo, pur senza staccare gli occhi da esso, avevano iniziato a prendersi il proprio divertimento assieme agli altri schiavi. L’intera sala si andava saturando di una tensione vibrante. 

Bocca di miele si chinò sul volto del Padrone, quello si scansò leggermente. Lo schiavo non osò baciargli le labbra. Si chinò sulla guancia e sul collo. Il Dominus lo guardò con un sorriso beffardo, godendo del suo vano servilismo, come a dirgli “Sai che queste smancerie con me non sortiscono effetto!”.

<<Sei compiaciuto, Dominus?>> gli chiese con un sorriso adorante.

<<Beh! Fai il tuo dovere!>> si limitò a replicare l’uomo <<Un piacere così lento e lungo rischia quasi di diventare noioso!>> intonò ad alta voce perché la sfida giungesse all’orecchio di Fabius, che frattanto aveva risdraiato il numida per riprendere a fotterselo stando in piedi.

A quelle parole il pensiero che si era affacciato alla mente del giovane prese forma. Non era bravo quanto Ganimede nelle arti amatorie, ma c’era qualcos’altro in cui la sua bocca era esperta.

<<Potrei rendere più piacevole la lunga durata del tuo vigore, narrandoti una storia!>> suggerì.

Il Dominus scoppiò in una risata a quella proposta un po’ insolita: narrare mentre si viene fottuti. Poi si fece serio di scatto e lo fissò di ghiaccio <<Dai, voglio vedere se riesci a cantarmi una storia in versi mentre ti do il tempo con la mia asta su per le tue viscere! E sarà meglio che versifichi bene, perché ogni metro errato sarà uno schiaffo sulle tue chiappe d’oro!>>. Gli serrò lascivo una natica. Il ragazzo sorrise, raccogliendo la sfida.

<<E che storia mi narreresti?>> lo incalzò il Dominus.

Raccogliendo tutta la sua forza di concentrazione, il ragazzo iniziò a intonare un canto in esametri eroici. Era un canto di guerra, narrava di guerrieri che si armavano per scendere in battaglia, per difendere il loro antico reame, le loro stirpi che discendevano dagli stessi dèi.

Fabius rise a sentire il ragazzo che versificava sapientemente in quelle condizioni, anche gli altri astanti risero. Il Dominus si divertiva e iniziò a muovere ritmicamente il proprio fallo scandendo il tempo del battere e del levare della nenia. Ma il ragazzo, senza scomporsi, continuò.

Cantò di come i guerrieri giuravano fedeltà sul grande Fuoco sacro, il signore dei loro dèi, e poi si incamminavano in sterminati battaglioni sui loro palafreni bianchi al suono del canto mistico dei magi. C’erano giovani ragazzi tra loro, figli di casate illustri, addestrati alle armi ma non ancora iniziati al ferro e al fuoco della battaglia. Non ancora i loro corpi, forti ma imberbi, si erano immersi ignudi nel sangue del Toro sotto gli occhi dei misti in maschera, per consacrarsi al dio Mithra. Scendevano sul campo, affrontavano quei nemici, uomini piccoli, scuri, col capo e la barba rasati, ma allineati in compatte falangi, in reparti sterminati che combattevano come un uomo solo. Un’armata invincibile, dalle armature di acciaio e dai manti rossi come il sangue. Aquile d’oro strillavano spietate sui loro vessilli. E scesi in campo massacravano senza pietà.

Un giovane, da solo, correva disperato oltre il campo, i suoi compagni erano stati massacrati tutti dalla falange spietata. L’ultimo era morto tra le sue braccia sussurrandogli che si sarebbero incontrati nel paradiso dei loro dèi. Ma muto terrore aveva invaso il giovane cuore del combattente. Era solo un ragazzo. Gettò a terra lo scudo e, incurante dell’infamia, fuggì a perdifiato verso le rocce, cercando un riparo tra le ombre della notte. Il fuoco e la morte imperversavano ovunque. I fanti dalle armature di acciaio lo inseguirono senza pietà. Un gigante dal viso di bestia e dallo sguardo spietato lo raggiunse, lo afferrò per i capelli e se lo caricò in spalla. Il ragazzo strillava, si umiliava, chiedeva pietà, ma quello lo schiaffeggiò a sangue sulle natiche sinché non zittì.

Lo schiavo gemette mentre la verga del Dominus affondava, perse il tempo di un verso. Una sculacciata si abbatte sulla sua pelle. Ma lui trattenne il fiato e riprese.

Il ragazzo, quello del canto, veniva condotto al campo nemico. Lo sbatterono sulla sabbia, i soldati gli stracciarono la tunica, lasciando il suo corpo efebico tutto ignudo. Scorse uno strano guizzo negli occhi delle bestie. Il giovane non si accorse di come guardavano le sue grazie, il suo bel viso di giovanetto, la sua pelle ambrata, le sue natiche morbide e succose come due mele. Infine lo trascinarono per i capelli in un’ampia tenda. I figli di Roma erano genti civili e non facevano certe cose sotto il cielo, alla vista di tutti. Il ragazzo si chiese se lo avrebbero impalato sulla punta di una lancia...

Il Dominus trattenne un sorriso, immaginando già dove andasse a parare l’allusione. Ma poi si rifece serio e lo ascoltò incuriosito, senza interrompere il ritmo dei colpi cadenzati della sua asta.

Nella tenda, appena rischiarata dalla luce delle lampade, vi erano molti soldati che giacevano seminudi a tracannare vino sui giacigli. Quando videro il giovane, risero tutti. Quello temette che tirassero fuori le armi per ucciderlo. Ma erano aste di ben altro genere quelle che li vide sfoderare all’unisono.

Alcuni tra gli astanti, orecchiando la storia tra un gemito d’amore e l’altro, scoppiarono a ridere. Solo il Dominus restò serio ad ascoltarlo. Frattanto, anche Fabius esausto si lasciò cadere contro la spalliera del triclinio accanto all’amico. Anch’egli si trascinò Natiche d’ebano in braccio impalandoselo sulla verga. I due domini sollevarono di nuovo le coppe, che i coppieri prontamente colmarono, e si ristorarono le gole riarse mentre le minchie continuavano a bruciare nella fatica. <<La Bocca di miele sa narrare storie dal sapore più forte del garum!>> osservò scherzosamente Fabius. Il Dominus lo guardò ed entrambi scoppiarono a ridere, seduti spalla contro spalla come due vecchi amici che banchettano ascoltando un cantore, quasi dimentichi di essere entrambi nudi e con le verghe infilate nel culo di due amasi.

La Bocca di miele si aprì di nuovo a narrare.

Alcuni soldati si ersero tutti ignudi fuori delle lenzuola, altri tirarono fuori le grosse mentule di sotto le tuniche e presero a giocarci. Sbatterono il fanciullo su un giaciglio colle natiche all’aria. Il ragazzo era tremebondo, turbato dai corpi nerboruti dei guerrieri, su cui danzava la luce delle lampade, e dalle verghe erette che gli uomini si stringevano in mano, che si divertivano a mostrargli e ad avvicinare a lui.  Sentì frattanto mani ruvide e brutali toccarlo dappertutto, calare su di lui a percuotergli il culo. Gli divaricavano le natiche e tentavano un gioco a lui sconosciuto con il suo bocciolo di rosa. Il ragazzo strillò, mani grevi suonarono le sue chiappe sino a zittirlo. Bastoni di carne maleodorante gli furono sbattuti in faccia, al ragazzo parevano enormi. Gli uomini ridevano della sua innocenza. E poi il primo, il bestione che l’aveva catturato, gli sfondò il culo.

Una nota di sofferenza risuonò nella voce del fanciullo mentre narrava. Il Dominus lo guardò in silenzio. Era eccitato, molto eccitato, però gli strinse una spalla, con fermezza ma con gesto stranamente delicato. Il volto del giovane ridivenne una maschera di indecente compiacimento. Narrò del piccolo invertito che strillava come una femminuccia sotto l’asta del legionario, i suoi gemiti da troia riempivano le ombre della tenda, ma non ottenne risposta se non un’altra mentula saporosa che lo zittì infornandosi nella sua bocca aperta.

Fabius sembrava davvero incuriosito dalla narrazione. Bocca di miele, maligno, mentre il Dominus era sotto e dentro di lui, chinò la testa di lato sul torace possente del suo amico. Baciò Fabius in mezzo al petto. La sua pelle aveva un sapore più salato di quella del Dominus. Si chinò a leccargli un capezzolo roseo, più piccolo di quelli del Dominus ma ben più sensibile. La zizza si fece ritta e coriacea all’istante e lo schiavo la succhiò. Natiche d’ebano lo lasciò fare, contento che lo aiutasse a far godere il proprio padrone e Fabius gemette, sembrò gradire quell’ulteriore piacere mentre era intento a fottere il numida. Ma la mano del Dominus calò di nuovo irata su Bocca di miele. Lo afferrò per i capelli, lo scaraventò supino al centro del triclinio. Lo schiafeggiò brutalmente, stavolta in pieno viso.

<<Allora non ti è chiaro quanto ti ho detto, piccola meretrice?>> Ciò detto, si mise in piedi, aveva il membro eretto verso il cielo e lo inculò di nuovo, brutalmente, con furia, facendogli male. Ma ormai lo schiavo non sentiva più dolore. E percepì il piacere del Dominus lievitare di nuovo dentro di lui assieme alla furia, il viso farsi paonazzo, il respiro rotto.

L’intera sala risuonava di un’orgia di ansiti e gemiti animaleschi. Guardandosi attorno il piccolo pathicus vide che il suo racconto stava davvero infiammando gli animi e fornendo infelici ispirazioni al suo gaudente uditorio.  Sextus continuava a puntare gli occhi sui contendenti e sul piccolo narratore con l’attenzione di un arbiter impeccabile, ma frattanto non si esimeva dal trattenere uno schiavetto ricciuto sulle ginocchia, distrattamente la sua mano rovistava tra le sue natiche e sembrava spingersi abbastanza in profondità da cavare al giovane piccoli urletti strozzati. Altri due rispettabili senatori romani avevano afferrato un cartaginese e, messolo carponi in posizione di leonessa, si divertivano ad omaggiarne uno il culo e l’altro la bocca con le loro rispettabili verghe. Un altro uomo robusto e vigoroso s’era denudato e seduto tra i cuscini accoglieva tra le braccia addirittura due ragazzi, accertandosi che l’uno si prendesse cura dei suoi capezzoli e l’altro del suo pene rizzato. E l’uomo dalle mani ingioiellate messo in ginocchio un biondo e nerboruto germano si era sollevato la tunica e gli aveva sbattuto sulla faccia barbuta le proprie chiappe ché la lingua vigorosa si prendesse sapiente e profonda cura del suo orifizio.

 Bocca di miele riprese a narrare.

Tutta la notte i prodi combattenti si erano goduti il piccolo cinaedus. Uno impalava le natiche d’oro, un altro abbeverava la rosea bocca mielata, gli altri tutt’attorno menavano i bastoni incitando la danza, ansiosi che arrivasse il loro turno. Uno dopo l’altro si misero in fila per prendersi il proprio sollazzo. Due a due, uno in culo, l’altro in bocca, condirono il maialino allo spiedo annaffiandolo di crema saporosa.

Ancora e ancora e ancora.

<<E la bestiolina, il giovane pathicus, non apprezzava quella cottura lenta e sapiente?>> chiese il Dominus beffardo e visibilmente arrapato.

Bocca di miele rispose che il ragazzo soffriva dolori atroci, che mai avrebbe creduto si potessero provare, che sentiva la vita abbandonarlo, volare via alla soglia del mondo sotterraneo dove demoni infernali l’avrebbero punito per la sua viltà e la sua vergogna. Ma poi sulla soglia dell’oscurità sentì uno strano godimento risuonare nel fondo delle sue viscere e propagarsi fino alla punta del suo membro che si fece eretto, facendolo annichilire per la vergogna. Quando tutto il battaglione si fu svuotato le palle nei suoi orifizi, non credeva che sarebbe mai più riuscito a stare in piedi. I legionari lo trascinarono fuori, ignudo e colle natiche sfondate e malconce lo legarono a un palo, esponendolo al pubblico ludibrio, mentre il Sole cocente sorgeva a oriente. Il fanciullo pregò quel dio che gli mostrasse la sua grazia. Ma nessuno rispose. Aveva gettato lo scudo, aveva accettato la resa e la vergogna e non c’era risposta che meritasse. I legionari passavano accanto a lui ridendo, alcuni gli sputavano addosso, altri contemplavano divertiti le sue grazie efebiche e il suo piccolo membro pendulo.

I soldati lo volevano. Due centurioni si presero a pugni, ciascuno dicendo di averlo visto per primo. Addirittura un gruppo di illustri ufficiali si raccolse in cerchio per giocarselo a dadi. Lo schiavo li guardò e fu colpito da uno di loro che lo fissava. Due occhi azzurri come schegge di cielo trafissero la sua anima come una lancia, incastonati in un viso cesellato nel bronzo, bello come quello di Apollo ma forte e crudele come quello di Marte.

Lo schiavo guardò il viso incuriosito e divertito del Dominus. L’uomo alzò gli occhi verso Fabius, che si era alzato e stava ingroppando Natiche d’ebano carponi, nuovamente nella posizione della leonessa. Entrambi i domini sembravano provati. Bocca di miele si chiese chi dei due sarebbe capitolato. I due uomini si scambiarono uno sguardo di sfida come due atleti, ignudi, nella ripresa di un incontro di lotta. Avevano lo stesso sorriso sghembo, quasi d’intesa. Forse per loro era solo un divertimento alle spalle degli schiavi. A Bocca di miele venne da chiedersi se negli anni di campagne militari assieme i due fossero mai stati amanti, se continuavano a trarre piacere dal guardarsi l’un l’altro mentre fottevano. E poi memorie confuse di soldati e del campo di battaglia riaffiorarono di nuovo alla sua mente. Ricordi di ferro, urla e dolore. <<Avanti Darayavaush!>> gli gridava un soldato, un altro ragazzo, giovane come lui, bello e dolcissimo. Ormai nessuno lo chiamava più con quel nome. A nessuno importava il suo nome. Ma il ragazzo scacciò quel pensiero e continuò a cantare.

Narrò di come l’occhio del ragazzo avesse scrutato lo sconosciuto guerriero. I dadi erano stati lanciati e il giovane senza neppure saperlo aveva pregato, di nuovo. Le bestie avevan discusso, ma infine il bell’ufficiale si era alzato, guardando sprezzante e compiaciuto i commilitoni. Aveva vinto. E il cuore del ragazzo si era fermato. L’uomo gli s’era avvicinato, l’aveva slegato, se l’era caricato su una forte spalla. Era la risposta alle sue preghiere?

<<E la troietta si eccitò mentre il bel prode la toccava?>> chiese il Dominus sfidandolo col più infame dei sorrisi.

<<Sì!>> replicò lo schiavo. E narrò come al tocco di quelle mani, al contatto di quella carne, il giovane avesse sentito il rossore inondarlo, la lingua farsi spessa e la gola secca. E, incredibile a dirsi, anche in quel mare di paura e di dolore il piccolo membro gli era balzato in piedi e i suoi stessi visceri avevan cantato di gioia, vogliosi d’esser squartati dal gladio che il guerriero nascondeva nel cingilombi. Quel corpo, seminudo sotto la sferza del sole, era forte e bello come quello di Ercole, era caldo nell’arsura della fornace del deserto ed emanava il profumo della voluttà, senza che fosse stato unto con alcun unguento, come si diceva di Alessandro il Grande. La sua voce rimbombava nel petto possente come una tromba da guerra risvegliando coraggio negli amici, cieco terrore nei nemici e turpi voglie da femmina nell’orecchio degli amanti.

Il prode soldato condusse il ragazzo al suo alloggio, sollevò la cortina d’ingresso e il fanciullo smaniò al pensiero delle selvagge torture che quel volto crudele prometteva di infliggergli una volta che fossero rimasti soli sotto la tenda.

Lo schiavo si interruppe sfidando lo sguardo del Dominus. Quello non gli staccava più gli occhi di dosso. Pareva compiaciuto, agognante, stavolta davvero al limite della voluttà. Poi il ragazzo alzò lo sguardo e dietro di sé vide Fabius, ancora nella posizione della leonessa. Anche lui pareva provato, ma non riusciva a vederlo bene, dacché gli dava le spalle. Il sudore gli scivolava lungo i muscoli dell’ampio dorso e sulle natiche. Due natiche sode, che parevano scolpite come quelle del Dominus, coperte di leggera peluria. Bocca di miele le vide ondeggiare ritmicamente a poca distanza dal proprio viso. Non resistette all’idea di stuzzicare nuovamente il Padrone. Allungò la bocca e baciò una chiappa di Fabius. Lo sentì mugolare. Sapeva che così rischiava di farlo capitolare, di far vincere Natiche d’ebano, ma valeva la pena rischiare. Continuò a leccare, si avvicinò al suo orifizio. Aveva un odore acre, di sudore e di interiora umane, ma in quel momento il godimento dei suoi sensi era talmente dilatato che persino quello gli pareva appetibile. Si accostò all’orifizio e iniziò a leccarlo. Fabius gemette di gioia. Ma fu solo un attimo. Il Dominus afferrò il viso dello schiavo e gli sbatté la testa tra i cuscini. Gli schiacciò la sua mano sul viso sin quasi a soffocarlo, poi lo rilasciò e lo schiaffeggiò di nuovo. Stavolta sembrava al limite dell’eccitazione. Lo ricoprì di insulti osceni e gli serrò una mano al collo. Lo schiavo si sentì mancare. La mano forte e furiosa del Dominus pareva volerlo strangolare contro i cuscini. Si sentì fluttuare nell’oscurità, non riusciva più a respirare, lo stordimento gli salì alla testa, il cielo stellato sulla volta del Triclinium roteava vorticosamente sulla sua testa, il volto infuocato e infuriato del Padrone fluttuava nel suo campo visivo, il calore ardente di quel corpo mastodontico chino su di lui lo scuoteva e la sua carne viva lo squartava, dura come ferro rovente nelle sue viscere. Sembrava il dio Marte infuriato nella tempesta della battaglia, torreggiava davvero su di lui come un dio, il suo dio, che stringeva tra le mani il potere sulla sua vita e sulla sua morte. Si chiese se stavolta lo avrebbe strangolato, se lo avrebbe ammazzato davvero. Sarebbe stato davvero un bel modo di morire. Era quello che pensava ancora? A un passo dalla concessione della libertà? E all’improvviso mentre si dibatteva nell’agonia in balia di quel Padrone assoluto sentì il proprio piacere traboccare, invaderlo come onde di fuoco liquido, che dalle profondità delle sue viscere dilatate e urlanti si propagavano rosse e roventi in tutto il suo corpo sino alla punta del pene. Iniziò a gemere. Il suo membro si tese allo stremo, la punta scappellata si strofinò contro il ventre muscoloso del Dominus chino su di lui e iniziò a contrarsi in ripetute spinte di agonia. Il Dominus lo fissò in viso, scorgendo istantaneamente i segni del suo piacere e il desiderio sembrò fluttuare dal corpo dello schiavo al suo. Il padrone lo guardò colmo di desiderio e prese a incularlo con ancora più foga. E fu come se le spinte del suo cazzo gli cavassero il piacere fuori dalle viscere e di risposta il membro dello schiavo iniziò a eruttare getti di seme senza neppure essere sfiorato. D’un tratto il Dominus gli rilasciò la gola, Bocca di miele sentì la benedizione dell’aria riinondare il proprio corpo con la stessa intensità con cui lo saturava l’estasi. Di scatto il Dominus gli serrò le mani sulle piccole mammelle, afferrò i capezzoli eretti, doloranti per il desiderio, e li strattonò. Lo schiavo gridò di dolore e di gioia e si abbandonò alle spinte liberatorie con cui tutto il suo corpo eruttava piacere.

Ancora e ancora e ancora.

Il suo retto in fiamme fremeva tutto e sotto o sopra, o davanti o dietro o dentro di lui sentì il Dominus immobilizzarsi come impietrito tentando di resistere al massaggio delle interiora che si contraevano masturbandolo. Vide la sofferenza nei suoi occhi, ma era un guerriero addestrato a resistere a tutto.

Quando, sfinito, lo schiavo iniziò a riprendersi, udì gli ospiti ridere divertiti.

<<Incredibile!>>

<<Hai visto: lo schiavo ha goduto come una femmina!>>

<<Beh! Con una verga come quella del nostro amico vorrei ben vedere che prova piacere dal culo!>>

<<Perché? Ti piacerebbe provare?>>

<<Ma... sei matto? Io sono un onesto cittadino romano! E ci tengo a continuare a fare oneste cagate senza strillare di dolore!>>

<<Ahahahah!!!>>

<<Bravo Iulius! Sia gloria alla tua minchia!>>

Il Dominus era orgoglioso e fiero, lo fissava con uno sguardo di trionfo e di disprezzo allo stesso tempo. Orgoglio per averlo saputo far godere come una femmina, spregio per un maschio che gode a quel modo... Bocca di miele sentì quella carne che fremeva dentro di lui. Vide gli occhi vitrei del Dominus che lo fissavano tra la vita e la morte, il rossore paonazzo che gli infiammava il viso e il torace, il sudore che imperlava la sua pelle bronzea, sentì il respiro ormai rotto che squassava le membra ansiti d’amore che rimbombavano nel suo vasto petto, la bocca si dischiuse in un gemito. Lo schiavo capì che era giunta l’ora. Era esausto e aveva ormai rilasciato tutto il proprio piacere, ma raccolse tutte le forze per l’ultima fatica. Prese a dimenare e contrarre reiteratamente i fianchi per accelerare il ritmo, gli appoggiò le mani sul petto, le serrò sui muscoli che guizzavano ritmicamente nella fatica. Sentì il cuore che rombava come un tamburo da guerra sotto i muscoli pettorali, robusti come una corazza, che danzavano nello sforzo. I capezzoli erano ritti come due punte di lancia. Lo schiavo afferrò gli anelli che vi erano attaccati e stavolta fu lui a strattonare più forte che poteva. Con lo sguardo sfidò la fermezza e la resistenza del Dominus. Forse aveva perso la sensibilità ai capezzoli, forse aveva una capacità di sopportazione di cui andava fiero, ma proprio questa era la debolezza che gli restava: il suo orgoglio. Il Padrone si lasciò sfuggire un altro gemito cavernoso dal profondo del petto. Il suo cazzo si contrasse dentro lo schiavo. Con uno sforzo il ragazzo vide il suo sguardo vitreo concentrarsi e ritrovare il controllo, ma lui tirò più forte. Sentì gli astanti nei triclinii fermarsi, col fiato sospeso. Lo schiavo serrò le natiche e vide la tragica consapevolezza negli occhi azzurri del Padrone. Il piacere deformò il suo viso. Oltre la testa del Dominus vide l’azzurro firmamento affrescato della volta e oltre le sue spalle il peristilio,  su cui andavano calando le ombre della sera. Sentì lo scroscio della fontana, volle assaporare quel suono familiare per un’ultima volta. Vide gli alberi verdi che ormai sfiorivano all’appressarsi dell’estate, i petali che danzavano nel vento della sera, fuggendo via assieme a una coppia di colombe in volo, oltre il tetto della casa, verso il cielo, chissà dove. Liberi. Sentì la carezza della libertà sfiorare, come il vento, la sua pelle nuda. Aveva vinto.

Guardò gli occhi di ghiaccio infuocato del Dominus, il suo bel viso contratto dallo sforzo e dai prodromi dell’estasi. Fissò quegli occhi come aveva fatto tante volte. Quella sarebbe stata l’ultima. E per un attimo ebbe la sensazione che quello sguardo lo avrebbe seguito ovunque. Oltre le mura di quella domus, oltre il Poerio e la cinta fortificata della città, oltre il mare. Sotto un vero cielo stellato, dipinto dagli dei e non da mani umane, quello sguardo sarebbe rimasto per sempre dentro di lui. Quando sarebbe andato...

..dove sarebbe andato? Sarebbe tornato nel Ponto, dove era nato? Chi lo attendeva là? Lo avrebbero riaccolto nella sua casa? Là era mai stato a casa?

Avrebbe avuto tempo per pensarci si disse, adesso... Il Dominus era ancora più bello quando godeva, il piacere istintivo sembrava dipingere sul suo viso tratti di innocenza che si mescolavano a quelli della crudele virilità. Quel volto aleggiava nei suoi occhi, nel suo cuore in ogni parte del suo essere, sarebbe rimasto impresso dentro di lui per sempre. In altre terre, da uomo libero, avrebbe ascoltato il battito del proprio cuore in silenzio, ricordando come in quegli ultimi istanti lo aveva udito battere all’unisono col cuore del Dominus, sentendolo riecheggiare nel forte petto, sotto il palmo della sua mano. Avrebbe stretto corpi estranei ricordando come in quel momento si era stretto al corpo del Dominus. Avrebbe udito altre bocche ansimare di piacere ricordando quei gemiti simili a stentoree grida di guerra. E nell’ombra di un’altra casa, avrebbe ricordato, solo nella notte, il suo volto. No! Quel pensiero ricolmò i suoi occhi di lacrime! Era la gioia della libertà incombente? O era un dolore, un’impotenza che lo avvolgeva come un baratro scuro, immobilizzando le sue membra, rendendolo incapace di iniziativa alcuna? Il tempo si fermò, il suo corpo si fermò. Immobile, nel silenzio, sentì il Padrone trastullarsi col suo corpo come con un guscio vuoto. Poi sentì il suo ritmo rallentare e non vi furono getti di piacere bagnato, ma solo un ansito di sforzo, di gioia trattenuta come amaro fiele. E testicoli gonfi che ballonzolavano contro le sue natiche. Il ragazzo restò fermo, incapace di muoversi o di fare alcunché, senza sapere più cosa volesse o chi fosse.

      Il Dominus lo guardò di sbieco, perplesso, incredulo alla sua reazione, trapassandolo con lo sguardo indagatore a cui nulla sfuggiva. Era quella la freccia dolorosa del dio che i poeti elleni chiamavano Eros? “Dolce-amara invincibile fiera” lo aveva soprannominato qualcuno, descrivendo il suo sguardo cui non si può sfuggire. Ma era con uno sguardo ben più beffardo che il dio alato fissava lui, azzurro come freddo ghiaccio e ardente come il fuoco, mentre gli era dentro. Forse ad altri mortali  quel nume regalava gioia. Ma a lui aveva dato solo dolore.

      Poi il Dominus distolse lo sguardo da lui, alzò gli occhi. E infine risuonò il grido di strazio e di resa. Il gemito del piacere senza ritorno, alle sue spalle. Era il grido di Fabius. Pochi attimi ancora, e infine era capitolato. Lo schiavo volse la testa. Lo vide gemere, rosso in volto e sul corpo, sudato, stremato e ansimante nell’ultima tempesta di vita. Ansimò ripetutamente con gioia e amarezza e poi uscì dal corpo del numida, sdraiato sotto di lui, e si accasciò tra i cuscini, la virilità grondante di seme bianco.

Lo schiavo fissò il vuoto ancora incredulo.

      Il Dominus interruppe la cavalcata. Levò le braccia al cielo esultante, rendendo grazie agli dei come si addice all’atleta vincitore. Gli amici nei triclini acclamarono la sua vittoria. L’uomo uscì soddisfatto dal corpo dello schiavo. Quello sentì un dolore folle nel retto come fosse rientrato nel proprio corpo dopo aver fluttuato nel vuoto. Il Dominus si girò ancora esultante, ignudo, mostrando a tutta la sala con fierezza la svettante verga ancora eretta. Poi si voltò. Tra le grida di acclamazione, riinculò di scatto lo schiavo, incurante dei suoi sobbalzi di dolore e con pochi colpi si lasciò andare. Ansimò senza ritegno il roboante grido di vittoria mentre con possenti spinte liberatorie esplodeva dentro di lui. Il ragazzo sentì il grosso cazzo contrarsi  estenuato e irrumare a fiotti le sue viscere saturandole di lava bollente sinché le sue piccole natiche non poterono più trattenerle e il seme traboccò tra i cuscini. Sfinito il Dominus si accasciò sopra di lui. Le sue membra esauste si rilassarono, il respiro ansimante rallentò. Quel corpo possente divenne un peso schiacciante sopra di lui. Istintivamente lo schiavo gli strinse le mani sul dorso. E i suoi occhi si persero oltre, sull’intonaco blu e oro del soffitto dipinto.

Stavolta sapeva che sarebbe stato per sempre. Non avrebbe avuto un’altra occasione.

     

Era quasi l’alba e Aulus Iulius Iulus sedeva sveglio, solo, nel suo cubiculum alla luce di un’ultima lampada ancora accesa. Era stordito. Non dal vino, cui aveva imparato a resistere fin troppo bene, né dalla fatica, cui era più che temprato, né dal turbamento del sesso, perché con quel genere di piaceri aveva imparato a giocare con indifferenza...

Stringeva tra le mani un piccolo gladius di ferro vecchio, su cui era inciso il nome di un suo avo. Per centinaia di anni era appartenuto alla sua famiglia. Lo aveva perduto a causa di qualcosa che gli stava a cuore, ma quella sera era tornato nelle sue mani. Avrebbe dovuto essere soddisfatto, eppure quanto era accaduto lo turbava: una vittoria rubata non è una vittoria. Può esserlo agli occhi degli altri, ma lui sapeva che non era così. Aveva passato la vita a fortificarsi, a misurarsi con sé stesso fino all’estremo limite, a rendersi invulnerabile a ogni debolezza. Il suo sguardo si chinò a contemplare gli anelli che erano confitti nella sua carne. Rievocavano ricordi che gli infiammavano ancora la memoria. Si rivide legato per i polsi e le caviglie ai pali, ignudo, l’arsura del deserto infuriato che gli dilaniava la pelle, gli occhi di un intero reparto di soldati puntati su di lui. L’ago arroventato nelle mani di un uomo rude punzecchiava la carne rosea e viva del capezzolo e poi affondava, forava, mordeva a sangue, secco e letale. L’acre piacere diventava straziante fino a fondersi in dolore puro, sottile, infuocato, senza ritorno. Ma le sue labbra erano serrate, il respiro controllato, benché le mascelle tremassero. Tutto il suo corpo tremava, il sudore si liquefaceva e si rapprendeva ma il suo sguardo impassibile sfidava la centuria intera. Gli uomini ammirati, forse alcuni eccitati, lo guardavano attraverso il riverbero tremolante del sole a picco, acclamavano la sua forza, scandivano con le loro ovazioni il ritmo dei colpi del ferro che trapassava la carne e, terminata l’opera, si spostava sull’altro capezzolo e ricominciava. Non si era mai sentito così forte, così fiero, così vicino a un dio, così eccitato. Aveva forse perso la sensibilità erotica ai capezzoli, roba che si addice alle femmine, ma quel ricordo ancora lo galvanizzava.

E adesso, quella sera, quel ricordo di pura forza era divenuto la sua debolezza. Aveva rischiato di essere la debolezza fatale, forse nessun altro se ne era accorto, ma lui lo sapeva e questo gli bastava. Si trattava solo di uno stupido gioco, ma la sua intera vita era stata un gioco, un agone, un’eterna sfida in cui la sconfitta non poteva essere accettata se non come un invito a sollevarsi di un passo ancora per trasformarla in una successiva vittoria. E quella sera la sconfitta evitata per un soffio e la vittoria finale non erano dipese da lui, non erano un frutto del suo valore da poter stringere in pugno. Era questo che lo mandava fuori di testa.

Cosa accidenti passava per la mente di quello schiavo? Era solo un ragazzo, un piccolo cinaedus, eppure in lui c’era qualcosa di incontrollabile. Era questo che lo rendeva tanto irresistibile, la ragione per cui Iulus bramava tanto di perdersi nelle sue labbra di miele o tra le sue deliziose natiche ambrate, di esservi risucchiato più giù e più giù e più giù ancora, in profondità, in quell’abisso di gioia e dolore che gli ardeva negli occhi, in quell’abbandono senza vergogna con cui lo guardava? Lo schiavo lo aveva avuto in pugno, aveva avuto in pugno la propria libertà. La libertà di varcare la porta di quella domus e sparire per sempre. A quel pensiero ebbe una fitta al cuore. Che gli era passato per la testa a coinvolgerlo in quello stupido gioco? Era quello che voleva?  Eppure se c’era una cosa che tutti i suoi maestri di filosofia, e la vita prima tra tutti, gli avevano insegnato era che per liberarsi di una debolezza non basta buttarla fuori dalla porta!

Ma per non si sa quale ragione lo schiavo si era fermato e lo aveva fatto vincere. Perché? Quella domanda lo attanagliava. Dopo che, due anni prima, lo aveva quasi costretto a ucciderlo con il suo tentativo di fuga. Tutto per la libertà. E adesso non la voleva più. Quel ricordo gli risvegliò altri sentimenti sopiti. Aveva mostrato un’insana compassione in quell’occasione, quando aveva deciso di non uccidere il ragazzo, limitandosi a torturarlo. Allora perché si era sentito in colpa? Per aver fatto ciò che era suo pieno diritto, e dovere, fare: frustare uno schiavo ribelle? Era stato anzi fin troppo clemente, gli aveva persino pisciato sulle ferite per impedire che nella prigionia si infettassero. Era stata quella la vera ragione?

Voltando la testa, si vide riflesso nello specchio. Simile a una statua del suo giardino, quella del pugile a riposo, non più così giovane, esausto e segnato dopo le fatiche di una battaglia interminabile. La battaglia che era stata la sua intera vita.

Aveva tentato di espiare donando la libertà a quello schiavo? Eppure la bestiola non l’aveva voluta! Tutto questo non lo convinceva affatto. Aveva appreso sin troppo bene a valutare gli uomini e forse quel pathicus non era un vero uomo, ma non faceva comunque eccezione. Nessun uomo rinuncia alla libertà, alla dignità di essere un uomo vero e completo. Cosa c’era sotto?

<<Alla fine sapevamo tutti che avresti vinto tu!>> Quella frase gli tornò alla mente. Quel serpente di Fabius. Con quelle parole lo aveva salutato. Ma certo. Quella canaglia non diceva mai una frase a caso. Iulus detestava la politica, ma aveva imparato a pararsi le spalle dai suoi intrighi. Ogni punto debole deve essere protetto da un’armatura appositamente forgiata. Dopo anni di campagne e battaglie fianco a fianco, anni in cui l’aveva trattato come un fratello, in cui avevano condiviso davvero ogni cosa. In eterna lotta per primeggiare, ma leali l’uno all’altro fino alla morte. Era forse l’antica eterna gara che aveva esacerbato l’animo di Fabius? No! Era solo politica. A tal punto la politica poteva cambiare un uomo, il seme dell’ambizione poteva corromperlo. Avrebbe voluto urlargli in faccia la sua delusione e il suo disprezzo, da uomo a uomo. Forse avrebbe capito, ma poteri troppo grandi li avevano divisi e Iulus non poteva che continuare a fingere. Da mesi continuava a corteggiarlo, a trattarlo come l’amico che era stato un tempo, a caldeggiare la sua presenza ai propri convivi più intimi, vicino al suo cuore, dove era certo di averlo sotto controllo. Ma sapeva fin troppo bene che genere di uomo fosse diventato. Quella sera Iulus si era preso la perversa soddisfazione di eccitare i suoi desideri e fargli mangiare polvere, umiliando il suo smisurato orgoglio, ma era stata solo una fugace soddisfazione. A quanto pareva non bastava.  Iulus sapeva che in città sarebbero stati in tanti a volerlo morto, ma Fabius era uno dei pochi abbastanza intelligenti da avere i mezzi per riuscire nell’intento. Abbastanza da arrivare a corrompere uno dei suoi schiavi, uno schiavo che per questo sarebbe rimasto accanto a lui abbastanza a lungo da fare ciò per cui era stato pagato, forse. Non voleva crederci. Perché quel pensiero gli faceva così male? In ogni caso era meglio accertarsene. Non lasciare nessuno spiraglio aperto al caso. Sapeva che Bocca di miele gli portava rancore, glielo leggeva negli occhi, da quando lo aveva punito duramente. Il ragazzino non comprendeva quanto lui fosse stato generoso, non capiva ciò che secondo la legge romana avrebbe potuto e dovuto fargli. O forse quella sera di due anni prima lo aveva guardato negli occhi mentre lo puniva. E aveva visto la bestia. La bestia che Iulus lasciava sfogare inarrestabile ogni volta che era in mezzo alla battaglia ad affrontare i nemici e che poi riincatenava in un angolo delle sue viscere. Ma quella non si sopiva mai davvero. Restava là, nell’abisso, nell’oscurità in cui egli stesso aveva paura a guardare in tempo di pace. E forse il terrore della bestia, la rabbia che segue al terrore e la possibilità di vendetta offertagli assieme a un compenso, erano stati più forti del desiderio di libertà.

<<Dominus!>> una voce fuori dalla porta lo distolse dai suoi pensieri. Era uno dei guardiani.

<<Sì!>> replicò.

<<Lo schiavo che avevi richiesto!>>

<<Bene! Potete andare!>> sentenziò il Padrone, certo che avrebbero eseguito.

Il ragazzo venne introdotto nella stanza. Indossava solo il cingilombi, il che lo rendeva più vestito di come era stato per tutta la serata. La luce della lampada a olio danzò proiettando luci e ombre sul viso serio e assorto, infantile e adulto assieme, e sul corpo efebico, etereo e solido al tempo stesso, rendendo l’incarnato dorato ancor più desiderabile. Aveva occhi e guance arrossati. Aveva pianto. Gli avevano riferito che si era recato a salutare con affetto i due schiavi affrancati, che li aveva abbracciati e aveva augurato loro buona fortuna. Cercò di scrutare nei suoi occhi per capire cosa gli passasse per la testa. Vide la paura, quella che nutriva da sempre al suo cospetto, il rimpianto, ma anche il coraggio e una scintilla di ribellione mai del tutto sopita e di contro una remissiva sottomissione e quell’abbandono che mandava Iulus in visibilio. Vide imperversare una gran confusione dietro l’apparente quiete piatta. Ogni Dominus dovrebbe saper leggere i pensieri del proprio schiavo, conoscerlo come conosce ogni sua proprietà. Eppure in quel momento gli sembrava che fosse mille volte più facile capire un uomo libero. In quegli occhi gli pareva di non scorgere nulla oltre il nebuloso velo della bellezza e il riflesso della lampada che illuminava il fondo brunito delle iridi tingendolo di uno spettacolare verde dorato.

Per un attimo lo schiavo sostenne il suo sguardo, poi abbassò gli occhi.

<<Hai perso l’occasione di ottenere la libertà stasera!>> lo apostrofò serio il Dominus. Il ragazzo tenne gli occhi bassi e non rispose.

<<Perché mi hai lasciato vincere?>> chiese Iulus secco, accostandosi a lui quanto bastava per essere certo di turbarlo.

<<Non è così, Dominus!>> si schermì il giovane alzando gli occhi per un attimo e poi riabbassandoli subito di scatto <<Se hai vinto è solo merito tuo!>>

<<Vuoi prenderti gioco di me?>> rispose lui impassibile <<Sono un soldato di Roma, sono stato addestrato alla fermezza in battaglia, e alla politica. So riconoscere un uomo che mente se lo guardo negli occhi. E tu stai mentendo!>>

Il ragazzo alzò lo sguardo, ebbe un lampo negli occhi, un guizzo fugace di gioia, senza che Iulus capisse perché.

<<Hai forse interesse a restare qui?>> gli chiese ironico. Vide lo sgomento sul viso del ragazzo, lo sgomento di chi ha paura di essere stato scoperto. Ma non era lo sguardo del vile che teme di vedere le proprie meschine macchinazioni denunciate, era piuttosto una ferita più profonda, più delicata. Come vergogna, timore di essere messo a nudo. <<Qualcuno ti ha comprato?>> lo incalzò glaciale.

<<No, Dominus, sai che non ti tradirei mai!>> rispose il ragazzo secco. Stavolta sembrava sincero. Ma certo il suo comportamento passato non sembrava confermare le sue parole.

<<Lo so?>> chiese l’uomo beffardo <<Dovrei saperlo? Non mi pare!>> Il ragazzo chinò il viso imbarazzato sentendolo riaffondare in una ferita aperta.

<<Perché?>> gli chiese di nuovo secco <<Voglio sapere la verità!>>

Il ragazzo alzò lo sguardo a sfidare il suo. Il colore dei suoi occhi gareggiava con quello dei cedri della terra dove l’aveva preso. Ma le labbra, quelle belle labbra rosee e tumide, non proferirono risposta.

<<Perché?>> urlò Iulus spazientito. Sollevò la mano e gli schiaffeggiò il viso. <<Dimmi perché!!!!!!!!!>> gridò sentendo improvvisamente una rabbia sorda esplodere. Gli mollò un secondo schiaffo. Il ragazzo cadde riverso sul letto sotto di lui, in silenzio, senza rispondere. Quel maledetto, bastardo, invertito. Infuriato gli scaricò ancora in faccia una serie di schiaffi. Il ragazzo si rannicchiò su stesso, Iulus lo strattonò per i capelli, lo rivoltò e gli mollò uno sganassone sulla schiena, poi uno sulle natiche fasciate dal cingilombi. Il ragazzo emise un grido soffocato contro i cuscini.

<<Adesso parlerai! O giuro per le palle di Ercole che stavolta ti consumo le natiche a schiaffi!>> gridò Iulus furente. Gli strappò di dosso il cingilombi e gli mollò un altro schiaffo. Lo colpì ancora, ancora e ancora, la rabbia gli infiammava i visceri salendo sino a saturargli la testa. La mano gli rimbalzava contro le natiche morbide e sode, segni rossi infiammavano la carne, rossi contro la pelle color delle pesche, rossi come il fuoco che gli ardeva nelle vene. Quel piccolo cinaedus bastardo! Gli avrebbe fatto vedere a chi apparteneva!

<<Dimmi perché accidenti mi hai lasciato vincere!!!!>> strillò con tutta la furia che aveva in corpo.

Il ragazzo singhiozzava con voce querula, si lagnava come una puttana. Si voltò tentando di divincolarsi, peggio per lui se voleva prenderle in faccia! Quegli occhi colmi di lacrime lo fissarono. Quei meravigliosi occhioni verde dorato, gli occhi di un tenero vitellino condotto al macello senza pietà, gli stessi con cui lo aveva guardato anni prima nel deserto, nudo e inerme come adesso. Con quell’abbandono rassegnato, pronto alla sottomissione e alla resa, pronto a tutto, senza pudore, incapace di odiarlo davvero, neppure mentre gli faceva del male. Un nodo gli serrò la gola, il suo cuore si fermò e la mano pronta a colpire ricadde nel vuoto. Era quella la risposta? L’unica risposta che quegli occhi riflettevano?

La rabbia era volata via, restò solo la vergogna per l’istinto animalesco ch’essa gli aveva risvegliato, per il fallo semieretto in bella vista. Perché provava vergogna a sentirsi così? Era il sano istinto di ogni uomo, bramare il sangue e la morte sul campo, stuprare donne e ragazzi dopo la vittoria. Ma a lui non bastava, lui aveva sempre voluto soggiogare le anime, tenerle in pugno, assaporare la loro resa. Quella era la sua brama. Non era crudele, era solo la sua natura. Perché se ne vergognava di fronte a uno schiavo?

Ma quello non sembrava curarsene, lo fissava arrendevole, e adorante, e basta.

<<Hai rischiato la vita tentando di fuggire.>> Lo apostrofò in silenzio, addolcendo il tono della voce <<Perché ora che ti ho offerto la libertà non la vuoi più?>>

<<E tu, Dominus,>> replicò lo schiavo fissandolo in viso <<ti sei tanto infuriato quando tentai di andarmene. Perché ora che sono tuo vuoi liberarmi e non mi vuoi più?>> Il Dominus non poté trattenere un’amara risata. Era la risposta che meritava, e sapeva che non ce ne sarebbe stata altra. Non poteva esserci. Non tra un padrone e uno schiavo.

<<Sai!>> replicò in tono paterno e quasi scherzoso <<Se il ragazzo del canto che hai intonato stasera al banchetto fosse stato bravo con le armi quanto lo era con le parole, credo che il suo destino sarebbe stato diverso.>>.

Il ragazzo lo guardò e ricambiò d’istinto il suo sorriso. Era davvero bello quando sorrideva. Iulus si allontanò e lo lasciò andare. Era esausto. Forse più dopo quei brevi momenti che dopo tutto il resto della sera. Si lasciò cadere supino sul letto.  Fissò il soffitto intonacato, le mani intrecciate dietro la nuca.

<<C’è altro che posso fare per te, mio Dominus?>> lo apostrofò pacata la voce del ragazzo. Iulus lo fissò. Il fanciullo si era rialzato, aveva raccolto il proprio cingilombi, ma non si era curato di riindossarlo. Iulus si accorse che per un istante quegli occhi verdi avevano lanciato uno sguardo in tralice al suo membro ancora intorpidito e gli venne da sorridere.

<<Per stasera direi che non c’è altro!>> rispose <<Mi hai già prosciugato, come puoi ben ricordare!>> soggiunse con un sorriso beffardo. <<Ora va, piccola lingua biforcuta!>> sentenziò <<Prima che mi penta della mia indulgenza!>>

Lo schiavo fissò di nuovo il pavimento. Pareva deluso. Accennò un inchino con la testa e fece cenno di uscire.

<<Aspetta!>> lo trattenne l’uomo, mentre un improvvisa curiosità si faceva strada nella sua mente.

<<Dominus!>> fece il ragazzo voltandosi con un deferente inchino.

<<Dimmi, Bocca di miele>> lo apostrofò <<come finiva il tuo canto? Forse il nuovo padrone era così bello che appena entrato nella tenda il ragazzo, tutto eccitato, si è inginocchiato e si è offerto a lui, voglioso della sua mentula?>>

Si chiese se fosse riuscito a farlo arrossire. Ma lo schiavo impassibile lo guardò con un malizioso sorriso e rispose con la sua disinvolta lingua da filosofo: <<No. In realtà il ragazzo continuò a chiedersi se il bel tribuno non fosse un povero folle. Aveva scommesso un’alta posta con i suoi commilitoni per averlo, e una volta ottenutolo l’unica cosa che fece fu elargire tutta la propria paga al medicus affinché guarisse le ferite di uno schiavo, di un prigioniero di guerra. E non dette segno di voler sfiorare il ragazzo neppure con un dito. Solo quando le ferite migliorarono si decise a fargli qualche carezza e attese ancora  altri mesi prima di decidersi a concedergli un po’ di mentula.>>.

Il Dominus sorrise di tanta impertinenza, quasi non riconosceva l’innocente fanciullo che lo aveva fissato poco prima.

<<Forse>> soggiunse <<fu ancora più pazzo e pur avendo perso ai dadi, decise di comprare comunque il ragazzo barattandolo in cambio del proprio gladius, dono di suo padre e del padre di suo padre prima di lui! Un dono che riconquistò solo molti anni dopo, con un rischioso stratagemma.>>

Così dicendo riprese il gladius posato sul cuscino, vinto quella sera assieme a tutto il resto, e lo strinse in mano, felice che il suo tesoro fosse di nuovo a casa. Che entrambi i suoi tesori fossero a casa. Finalmente vide la sorpresa esterrefatta sul volto del giovane. Gli piaceva quello sguardo adorante, gli allargava il cuore.

<<Bocca di miele!>> lo apostrofò sorridendo.

<<Dominus!>>

<<Sono saturo di amore per stasera!>> soggiunse <<Ma il mio letto è freddo! Vieni a scaldarlo!>>

Un sorriso illuminò il volto dello schiavo. Avanzò e si sedette accanto a lui. Il Dominus gli fece spazio. Lasciò che si sedesse contro i cuscini, e si sdraiò supino appoggiandogli la testa in grembo.

<<Vuoi che ti canti qualcosa?>> chiese il ragazzo.

<<Oh no! Basta canti per oggi!>>

Aveva davvero consumato tutto il proprio piacere, ma il contatto dei loro corpi nudi era delizioso, morbido, caldo, lo faceva star bene. E le carezze dello schiavo, quelle mani amorevoli sul suo viso, sulle sue spalle, sul suo torace erano una deliziosa nenia della buona notte. Il suo tocco era dolce, ma fermo. Le mani non tremavano. Iulus si chiese con ammirazione come facesse ad accarezzare con tanta naturalezza e dedizione le membra che più di una volta erano state sul punto di ucciderlo. Il potere e l’abbandono. Loro due erano opposti, per questo non sapeva resistergli. Mente chiudeva gli occhi lo sentì giocare con uno dei due anelli. Era dannatamente gradevole, non poteva restituirgli il piacere dei capezzoli ma era come se lo avesse fatto.

Forse il ragazzo aveva scovato il suo punto debole? Dopo averlo guardato davvero negli occhi, Iulus sentiva di non doversene preoccupare.

<<Bocca di miele!>> gli sussurrò <<Qual era il tuo nome, prima che divenissi uno schiavo?>>

<<Ha importanza?>> chiese il ragazzo. Iulus aprì un occhio, sorpreso dall’audacia di quella risposta. Non si arrabbiò, non ce n’era ragione. Gli piaceva sentirlo così diretto.

<<Ogni uomo deve ricordare il proprio nome.>> replicò serio.

Sentì un’esitazione nel respiro del giovane << ...Darayavaush!>> articolò infine.

<<Un nome persiano?>> chiese il Dominus.

<<Sì, in Elleno è Dario!>>

<<Il nome di un Re!>> rispose il romano pensieroso, ma non stupito <<Di un grande Re!>>

<<Un Re che però, infine, fu sconfitto e sottomesso dagli Elleni!>>

<<Da Alessandro il Grande!>> Iulus aprì gli occhi e sollevò la testa.

<<L’uomo... dalla pelle profumata!>> replicò lo schiavo carezzandogli la pelle del petto. La sua bocca articolava così melodiosamente ogni suono, con quelle belle labbra rosee. Iulus si sollevò, tese le proprie e lo baciò. Gustò per un po’ il sapore di miele. Gli affondò una mano tra i riccioli e lasciò che le loro bocche divenissero una, che le lingue si carezzassero. Poi riappoggiò la testa sul tenero petto del ragazzo e chiuse gli occhi, ebbro ed esausto. Aveva quasi dimenticato le sue braccia. Con lui l’eterna sfida del mondo sembrava dimenticata. Si sentiva in pace. E anche per il ragazzo era così. Glielo leggeva negli occhi, finché i suoi restavano ancora aperti.

 

Quando il Dominus si addormentò, Darayavaush restò sveglio alla luce della lampada. Adesso il bel viso dell’uomo era rilassato come quello di un bambino, Ogni traccia di crudeltà era svanita dai suoi lineamenti. In fondo, pensò lo schiavo, cos’è la libertà se non essere dove vorresti essere nel momento in cui vorresti esserci?

Infine sentì il dolce sonno calare sui suoi occhi. Si allungò a spegnere in un soffio la fiamma che ancora ardeva e poi si adagiò accanto all’uomo. Si strinse nell’oscurità contro il calore di quel corpo forte e si lasciò andare alla fluttuante marea dei sogni e alla ninnananna regolare del battito di quel cuore, crudele e infinitamente buono allo stesso tempo. Per la prima volta nella sua vita si sentiva a casa.

 

 

 

BREVI NOTE STORICHE

 

·           La Repubblica di Roma condusse la Terza Guerra Mitridatica contro Mitridate IV Eupatore re del Ponto (corrispondente alla regione dell’attuale Mar Nero) e suo genero Tigrane I re di Armenia tra il 74 e il 63 a.C. Il console Gneo Pompeo Magno ne condusse le operazioni a partire dal 66 a.C. Sconfisse Mitridate a Nicopoli, lo inseguì sin nel Caucaso, dove debellò le popolazioni locali, in seguito discese a sud dove sottomise vaste regioni del Medio Oriente, Siria, Celesiria, Cilicia, Fenicia e infine Palestina, e costituì la vasta Provincia romana di Siria. A questa fase della guerra risale la conquista della fortezza di Sinforio in Armenia Minore (64 a.C.). La guerra si concluse con la morte di Mitridate, suicidatosi o secondo altri eliminato da una congiura di palazzo. Il protagonista della storia è stato sconfitto e catturato in un momento imprecisato di tale conflitto.

·           Alessandro il Grande conquistò la Persia e i territori d’Asia sino al fiume Ifasi affluente dell’Indo in una lunga campagna militare (334-24 a.C.) nel corso della quale, nel 331 a.C., sconfisse Dario (Darayavaush) III Re di Persia a Gaugamela.

·           Che presso molti popoli mediorientali, che i Greci consideravano barbari, fosse ritenuto causa di vergogna non solo per una donna ma anche per un uomo essere visto nudo lo testimonia Erodoto (I, 10, 3).

·           manu missio: atto legale tramite il quale il padrone (Dominus) concedeva la libertà di uno schiavo che da quel momento godeva della condizione di libertus.

·           maior domus, columella: schiavo addetto alla funzione di ciambellano e al comando degli altri schiavi.

·           cubicularium: schiavo addetto alla sorveglianza della camera da letto (cubiculum) del padrone.

·           graeculus: termine utilizzato per definire gli schiavi di origine greca, spesso uomini colti.

·           Il verso greco della poesia epica che narra i miti degli dei e le gesta guerriere degli eroi è l’esametro. Trattandosi di un verso non ben riproducibile nelle lingue moderne, nel canto iniziale è stato reso con endecasillabi sciolti.

·           penis, hasta, virga, phallus (dal greco phallos), mentula (da cui ital. ‘minchia’, ma in contesti poetici ho conservato l’originale latino), fascinus: nomi utilizzati dagli antichi Romani per definire i genitali maschili. Talvolta ho utilizzato pure sinonimi moderni per dare maggiore coloritura emozionale.

·           cunnus (da cui ital. ‘conno’): genitali femminili.

·           futuere (da cui ital. ‘fottere’): termine latino indicante il rapporto sessuale.

·           fellare, fellatio: termini latini indicanti il rapporto orale praticato su un uomo.

·           vizio elleno: omosessualità, pederastia, con particolare riferimento alla passione di un uomo adulto verso un giovanetto. I Romani si servivano di questa definizione per indicare un costume importato dalla Grecia. A un cittadino romano era consentita una grande libertà nei costumi sessuali e nella scelta dei partner, ma l’onore imponeva che egli mantenesse ruolo esclusivamente attivo nel rapporto sessuale e passivo nel rapporto orale (la bocca era strumento della parola e dunque della politica e non doveva essere in alcun modo “sporcata”). Per questo al ruolo di omosessuali passivi erano solitamente delegati i soli schiavi.

·           cinaedus, pathicus: ‘invertito’, termini latini indicanti in senso dispregiativo l’omosessuale passivo, solitamente uno schiavo.

·           mulier equitans (donna a cavallo): nome romano della posizione dello ‘smorza-candela’.

·           ‘leonessa’: nome romano della posizione della ‘pecorina’.

·           Il fatto che la pratica del piercing ai capezzoli fosse diffusa come prova di forza tra i centurioni dell’esercito romano è in realtà una leggenda metropolitana che fu diffusa negli anni ’70 del ‘900 da Richard Simonton (alias Doug Malloy), storico promoter del moderno body piercing sulla base di una statua di Versailles, raffigurante un ufficiale romano abbigliato di una corazza anatomica con due anelli atti a trattenere la cappa in corrispondenza dei capezzoli. Tuttavia l’esistenza di statue come questa, forse rifacentisi a veri modelli romani lasciano ipotizzare che tale pratica non fosse del tutto ignota ai Romani. Nel racconto è inserita come “licenza poetica” per dare colore alla storia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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