Il cacciatore di
pergamene 1224 Il saio era
gettato in terra, in un angolo della cella in cui, a volte, dormivano gli
ospiti del monastero. Il cordone pendeva come un cappio da un grosso chiodo infisso
nel muro, visibile a stento alla vaga luce della luna, che filtrava dalla
finestrella inferriata. Il monaco Ermanno ansimava e mugolava, incapace di
trattenersi. -
Taci, o ci farai scoprire. - lo pregò il
novizio, sussurrando. Ermanno sembrò
non sentire, continuando imperterrito a penetrare con ritmo regolare il bel
culo della sua giovane vittima, che si era offerta volontariamente alla
concupiscenza dello scrivano, e che ora soffriva in silenzio. -
Fai piano. Se avessi saputo che hai quella bestia,
sotto il saio, non sarei mai venuto. Infine la
galoppata accelerò e giunse all’apice, mentre un sonoro grugnito sottolineava
il traguardo raggiunto. Nello stesso istante, la porta si aprì senza rumore e
l’abate del monastero di Podlažice entrò nella
cella buia. I suoi occhi abituati a vedere anche l’invisibile, gli mostrarono
l’accaduto in tutta la sua oscena nudità. Nell’oscurità la sua espressione
era carica di disgusto e condanna. Ciò che aveva di fronte, meritava la pena
capitale. 2007 Il Monaco Nero
distese il manoscritto sulla vasta scrivania. Era in pelle d’asino,
perfettamente conservato dopo ottocento anni. Solo a lui e a pochi altri era
concesso di toccare quella pergamena. All’improvviso,
qualcosa nei disegni che lo ricoprivano prese vita. I simboli sembrarono
sollevarsi dalla pagina per andargli incontro. Un suono stridente invase il
suo studio, scaturendo dall’aria intorno a lui. E una voce, anch’essa
stridente, scandì alcune parole, a malapena riconoscibili per il suo udito,
ma perfettamente chiare per la sua anima. Dopo secoli di
riposo, il potere dei simboli era tornato attivo. Il Monaco Nero seppe che il
Codex era vicino. Il Monaco Nero
risalì la ripida via Nerudova, poi svoltò a destra
verso Ke Hradu. Ignorando
il fiatone, che lo faceva soffiare come un mantice, osservò l’entrata
principale del Castello di Hradschin, dove si era
già raccolta una discreta coda di persone curiose di vedere il Codex Gigas, che sarebbe
rimasto in mostra per quattro mesi. Il Monaco Nero ci veniva per la terza
volta. A differenza delle altre, aveva portato con sé la pergamena. Tutti si
affollavano a vedere l’impressionante disegno del diavolo che occupava
un’intera pagina. Da sempre era la più richiesta. Per questo i margini
avevano assunto un colore più scuro che sulle altre. Colpita da una quantità
di luce maggiore, durante gli otto secoli di vita, la pergamena di quella
pagina si era come bruciata. Quando il
Monaco Nero raggiunse il Codex, ne sfiorò una
pagina, sentendo sotto i polpastrelli un’incongrua vibrazione. In quel
momento comprese che a crearla era l’attrazione tra il grosso tomo e la
pergamena che aveva infilata in un tubo di cartone, nascosta in una tasca
interna del mantello. Quello che la voce stridente gli aveva detto,
rispondeva al vero. 2009 L’ispettore
Erik Nilsson osservò il corpo riverso ai piedi del
grosso albero, mentre un collega scattava foto all’impazzata. Quando finì,
gli andò vicino lasciandogli via libera con un cenno del capo. L’uomo era
stato spogliato, e abbandonato in boxer e canottiera. Il medico legale aveva parlato di strangolamento. -
Portatelo via. - ordinò. -
Potrebbe essere l’uomo che mancava all’appello?
- chiese il suo vice. -
Vista la stazza, temo proprio di sì. Alla Biblioteca
Reale di Svezia, a Stoccolma, non si muoveva foglia senza l’autorizzazione
della dottoressa Britta Ek,
che per questo motivo era sempre impegnatissima. Ma
quel mattino li ricevette senza costringerli a fare anticamera. Il furto del Codex Gigas aveva la priorità
assoluta. -
Allora, signori, avete scoperto qualcosa? -
Le avevamo detto che dalle registrazioni delle
telecamere interne avevamo appurato che nessun estraneo si era introdotto
nella sala. Abbiamo interrogato tutti i dipendenti dei servizi di pulizia, che
sono gli unici ad avervi avuto accesso. -
Mi avevate anche detto che ne mancava uno, se
non sbaglio. -
Infatti. Siamo qui per questo. L’abbiamo
trovato, poco distante da qui. È stato ucciso e gettato ai piedi di un
albero, qui nel parco. -
Volete dire che ha rubato il Codex
e poi è stato ucciso dai suoi complici? -
No, è stato ucciso prima, da qualcuno che l’ha
spogliato della sua tuta per sostituirsi a lui e, senza insospettire nessuno,
compiere il furto. -
Dovete prenderlo. Assolutamente. Dalle
registrazioni sarete in grado di riconoscerlo, no? -
In un certo senso non è uno che passi
inosservato, data la mole, ma purtroppo ha fatto in modo di non mostrare mai
il suo volto. E ormai sono passati tre giorni. Temo che non lo prenderemo
più. In ogni caso, rimangono in allarme tutte le forze di polizia. Ma se
fossi in lei, non ci spererei troppo. Naturalmente, abbiamo avvisato l’Interpol. E se qualcuno tentasse di venderlo, gli saremmo
addosso. -
Signori, il Codex non
è facilmente trasportabile. Non è un libro qualunque: pesa 75 chili ed è
grande come una valigia. È unico al mondo. Si è trattato sicuramente di un
furto su commissione. Nessuno sarebbe mai tanto stupido da tentare di
rivenderlo. -
Allora non lo rivedremo più. A meno di un gran
colpo di fortuna. Britta Ek pensò che, tutto sommato, il vero colpo di fortuna
sarebbe stato non sentirne parlare mai più. 2010 Sul Lungotevere
le foglie cadevano a pioggia, gialle, arancioni, violacee o già secche,
strappate ai rami da un vento tenue, ma pungente. Il commissario Marco Lama, sollevò il colletto della giacca,
osservò il fiume ingrossato dai temporali dei giorni precedenti, poi sollevò
gli occhi al cielo, di un azzurro limpido e profondo, che ormai non illudeva
più nessuno. L’estate era morta e sepolta. Gli sarebbe piaciuto fare una
passeggiata, come facevano tanti, in quel mattino frizzante di metà
settembre, ma non poteva permetterselo. Era lì di passaggio. L’avevano
chiamato per un omicidio, ed era solo lunedì. Con un sospiro, attraversò la
strada e si diresse verso il portone davanti al quale due agenti in divisa lo
stavano aspettando. Il medico
legale, Romana Festa, i cui genitori dovevano essere poco sobri, al momento
d’iscriverla all’anagrafe, era già china sul cadavere. Sentendone i passi,
sollevò la testa, sparandogli in faccia il suo inimitabile sorriso di
benvenuto. -
Ciao, Lama. Tutto bene? -
Eh, da sballo! E qui che si dice? -
Ti presento Roberto Pollak.
Dev’essersene andato verso mezzanotte. A prima
vista non ci sono segni di violenza. -
E allora com’è morto? -
Sarei propensa a credere che sia stato
avvelenato, anche se non ci sono i segni tipici. Dopo l’autopsia ti saprò
dire di più. -
Quanto ci vuole? -
Te lo dico domani, se me lo fai portare subito. -
Avete finito con le foto? - chiese il
commissario alla squadra presente. -
Sì, finito. - rispose Biella, mentre armeggiava
con la sua reflex. -
Puoi portartelo via, dottoressa. -
Aspetta un attimo, voglio prima mostrarti una
cosa. -
Che c’è? -
Guarda qua. Romana Festa girò
la mano della vittima in modo che il commissario potesse osservarne i
polpastrelli. Lama
s’inginocchiò accanto a lei, sollevò sulla fronte gli occhiali scuri e
avvicinò il viso alla mano. -
Mi è calata la vista o quest’uomo non ha
impronte digitali? -
La tua vista è perfettamente a posto. E quelle
che tu chiami impronte digitali sono dermatoglifi. -
Quello che sono. Se l’è fatte cancellare? -
Non lo so. Devo fare delle analisi. Per questo
ci vorrà più tempo, però. -
Fai del tuo meglio. -
E tu del tuo. Alla prossima. - disse lei,
rimettendosi in piedi ed uscendo. -
Vieni, Biella, lasciamo lavorare la scientifica.
E intanto, fammi un riassunto. Biella glielo
spiattellò fuori dalla porta. -
Nessuna traccia di effrazione, ma la porta non era
chiusa a chiave. L’ha trovato la domestica, questa mattina. Ha cenato da
solo, c’è ancora il piatto a tavola. Ha bevuto del vino. Dalla bottiglia
manca un bicchiere abbondante. L’appartamento è incredibilmente ordinato.
Sembra che non manchi nulla, ma naturalmente non possiamo esserne certi. -
Naturalmente. -
E il resto ce lo racconteranno loro. Marco Lama, che
per carattere non si fidava di niente e di nessuno, tornò indietro. Indossava
ancora tuta, guanti e soprascarpe, motivo per cui lo lasciarono entrare senza
fare storie. Con le mani intrecciate dietro la schiena, come per vincere la
tentazione di toccare qualcosa, si aggirò per l’appartamento guardando ogni
cosa. Giunto nello studio, osservò la vasta libreria. Le file dei volumi
erano maniacalmente ordinati per altezza. Il genere
di ordine ossessivo che lui aveva sempre deprecato. Sulla scrivania, un solo
libro, lasciato aperto con una matita tra le pagine. Nel portapenne, altre
due matite e tre bic, rossa, nera e blu. Tornando
indietro, il commissario cercò automaticamente lo spazio lasciato libero da
quel volume, tra i libri ordinatamente allineati. Un vuoto c’era, ma era
molto più ampio dello spessore di quel libro. Si sarebbe detto che
all’appello ne mancassero altri due. Che fine avevano fatto? Marco Lama
continuò a guardarsi intorno ancora a lungo, senza trovare la soluzione
dell’enigma. A Lugano erano
le 22:00 di una bellissima notte limpida e senza luna. Lorenzo Becker mise
giù il telefono. Perché Roberto non rispondeva? Si sentivano regolarmente
ogni lunedì, dopo le dieci di sera. Era mercoledì e ancora non riusciva a
contattarlo. Decise di chiamare Tomas, con cui aveva un appuntamento
telefonico quella sera. Ma neppure lui rispose. Si sentì invadere dallo
sconforto. Malediceva la monotonia di quella vita prigioniera di un passato
remoto che per lui rimaneva ossessivamente presente. Aveva in mano il
testimone di una staffetta. Toccava a lui correre, ora, ma quella gara
sarebbe mai finita? Anelava da tempo a un cambiamento. Uno qualunque. Desiderava
poter compiere scelte sue, inseguire i propri desideri, fare progetti. Amare.
Ma anche quello gli sembrava impossibile. Il commissario
Lama si tolse gli occhiali scuri, che portava giorno e notte. Lo aiutavano a
concentrarsi, diceva lui. In realtà lo aiutavano a nascondere l’imbarazzante
eterocromia delle sue iridi, una delle quali si era decisa per il verde,
mentre l’altra aveva preferito un color miele. L’effetto complessivo era distraente per i suoi interlocutori, ma non al telefono.
Strinse la cornetta, appoggiandola bene all’orecchio. La voce del medico
legale aveva un tono piuttosto basso, si sarebbe detto contrassegnato dalla
stanchezza. -
Secondo te, Pollak si
è ucciso? -
Il cianuro è stato utilizzato spesso a questo scopo,
ma non saprei dirti. Questa è la parte che spetta a te. Ah, a proposito, l’adermatoglifia di Pollak è
genetica. È nato così. -
Va bene, Festa, ti ringrazio. -
Dovere. Marco Lama si
chiese perché in casa non fossero state trovate altre impronte oltre a quelle
della colf. La scientifica aveva stabilito che il cianuro era nel vino.
Neppure sulla bottiglia erano state rilevate impronte. Come ci era finita
quella bottiglia in casa di Pollak? Ce l’aveva
portata qualcuno che indossava i guanti? Oppure, Pollak
aveva fatto tutto da solo? Ma in tal caso, perché? Aprì di nuovo
il file con la biografia di Roberto Pollak. 45
anni, nato nella Repubblica Ceca, quando ancora si chiamava Cecoslovacchia.
Aveva finito gli studi a Roma. Viveva solo. Non risultava che avesse amici.
Paleografo, accreditato presso la Biblioteca Vaticana, studiava da vent’anni
testi medievali per conto di vari istituti europei di ricerca storica.
Risultavano contatti regolari con studiosi di vari paesi. Lama si era fatto
fare una lista. A Vienna: Karel
Perutka, a Parigi: Jan Krejcar, a Lugano:
Lorenzo Becker, a Salamanca: Artur Baginsky, a Norimberga:
Gabriel Nowak, a Coimbra: Tomas Pavel. Tutti collegati
a Roberto Pollak. E tutti, a vario titolo, studiosi
di testi medievali. Lama aveva
deciso di contattarli, per apprendere qualcosa di più della vittima. Ma con
il telefono non fu molto fortunato. Non gli rispose nessuno. Cominciò allora
una ricerca su internet, tanto per non lasciare nulla d’intentato. Ma non
ebbe risultati fino a quando non arrivò all’ultimo della lista, Tomas Pavel.
Era nominato in un articolo di cronaca nera. Tomas Pavel era
stato ritrovato cadavere il giorno precedente, in un appartamento di Coimbra. Era il curatore della Biblioteca
dell’Università. Quando non si era presentato al lavoro, i suoi assistenti si
erano stupiti che non avesse avvertito, poi si erano preoccupati, perché non
rispondeva al telefono. Quella sera, erano andati a cercarlo in casa, dove
viveva da solo, temendo che fosse stato colto da una malore. La porta non era
chiusa a chiave. Tomas Pavel era stato avvelenato. L’articolo terminava con
una nota curiosa: l’uomo era privo di dermatoglifi. Come Roberto Pollak. Marco Lama si
grattò la profonda fossetta sul mento e cominciò a pensare di essere
incappato in una cosa più grande di lui. Il Monaco Nero
imboccò l’oscuro corridoio, portando con sé due preziosi contenitori, un tubo
in cuoio ed uno in cartone rinforzato. Il battito del suo cuore era
accelerato. Sulla grande scrivania lo attendeva il manoscritto più grande di
tutti, in cui si concentrava uno sconosciuto potere. Una bomba che aspettava
l’innesco. Per la verità, un innesco in otto piccole frazioni. Una era già al
suo posto, altre due le teneva sotto il braccio, mentre con mano tremante per
l’eccitazione, accendeva le numerose candele che avrebbero rischiarato
l’ambiente. Marco Lama
ripeté come un automa la serie dei numeri di telefono che stava ormai
imparando a memoria. Per la prima volta, il suono di chiamata s’interruppe e finalmente
qualcuno rispose. -
Becker. -
Pronto, signor Lorenzo Becker? -
Ja. -
Sono il commissario Marco Lama, della Polizia di
Stato italiana. -
Mi dica, commissario. -
Sto indagando sulla morte del dottor Roberto Pollak, avvenuta lunedì notte. So che vi conoscevate e a
questo proposito avrei bisogno di porle alcune domande. -
Anch’io vorrei sapere cosa gli è successo. -
È stato avvelenato. Lei lo conosceva bene? -
Abbastanza. -
Le risulta che avesse qualche problema? -
No, non credo. -
Pensa che il dottor Pollak
avesse nemici? -
No. Era una persona tranquilla, uno studioso. -
Signor Becker, lei conosce un altro studioso di
nome Tomas Pavel, a Coimbra? -
Sì... -
È stato avvelenato anche lui, a un solo giorno
di distanza da Pollak. Becker tacque,
forse per digerire la notizia. Marco continuò: -
Sa di cosa si stavano occupando? -
Solo in parte. -
Potrebbe dirmelo? Becker rimase
ancora in silenzio per qualche istante. -
È una storia piuttosto complessa. Dovrei
parlargliene di persona. -
Signor Becker, ci sono già stati due omicidi. Ho
qui una lista di persone che avevano contatti regolari con il dottor Pollak. Vorrei sottoporgliela per sapere se conosce anche
loro. E m’interesserebbe ascoltare la sua storia. Sarebbe disponibile ad
incontrarci? Di nuovo un
lungo silenzio. -
Signor Becker... -
Sì. Potremmo incontrarci, ma in questo momento
non posso allontanarmi. Dovrebbe venire lei a Lugano. -
Per me va bene. Marco Lama
partì il giovedì pomeriggio per raggiungere Milano. Dormì in un albergo lungo
la tangenziale, poi, al mattino del venerdì, seguendo la coda delle auto che
varcavano il confine, raggiunse la Svizzera. Il navigatore satellitare lo
fece perdere per le vie di Lugano, ma alla fine giunse in via Bertaccio, dove abitava Lorenzo Becker. Il commissario
bussò alla sua porta alle 10:00, in perfetto orario. Non voleva che si
dicesse che gli italiani fossero meno puntuali degli svizzeri. E dire che
odiava gli stereotipi. Come poteva esserci caduto? Oltre ad orologi e
cioccolata, in ogni caso, gli svizzeri avevano prodotto anche quel Lorenzo
Becker che gli aprì la porta con un sorriso di benvenuto, alto, ben piantato,
un viso armonico, con pizzetto e baffi che conferivano appena un’ombra più
chiara alla pelle abbronzata, i capelli lunghi, di un biondo scuro schiarito
da ciocche più chiare. Si sarebbe detto un marinaio olandese. Sicuro che
fosse uno studioso? Lorenzo Becker
gli strinse la mano con energia e lo fece entrare. Marco si guardò intorno.
Dalle grandi vetrate senza tende entrava il sole a fiotti. Pareti, pavimenti
e divani erano bianchi. La maggior parte degli oggetti distribuiti sui mobili
di legno scuro erano anch’essi bianchi, persino le cornici dei quadri.
Davanti a tutto quel candore, non si tolse gli occhiali. -
Si accomodi, commissario. Marco Lama si
sedette sul lato del divano, mentre Lorenzo Becker preferì la poltrona ad
angolo. Così le loro ginocchia quasi si toccavano. Il commissario
estrasse dalla tasca un foglietto con la sua lista di nomi. -
Le spiace se andiamo subito al dunque? -
No, mi dica. -
Lei conosce questi uomini? - gli chiese,
porgendogli il foglio. Lorenzo li
scorse, annuendo col capo. -
Sì, tutti. -
Può dirmi di cosa si stanno occupando, e se è la
stessa che ha fatto finire avvelenati Pollak e
Pavel? -
Sì. È una lunga storia. Ma non so se può
servirle a capire chi è stato. -
Lei ci provi lo stesso. Se non le spiace prendo
appunti. -
Faccia pure. Non gradirebbe intanto un caffè?
Così avrò il tempo di pensare bene a come fargliela digerire. -
È una storia così lunga? -
Lunga, certamente, ma soprattutto poco
credibile. -
Vada per il caffè. Quando Lorenzo
tornò dalla cucina, portava un piccolo vassoio con due tazzine e una
caffettiera da sei in porcellana. Lo appoggiò sul tavolino ad angolo e gli
chiese se ci voleva dello zucchero. -
No, grazie, va bene così. Lorenzo gli
offrì la tazzina e Marco osservò per caso i suoi polpastrelli. Prese la
tazzina con la destra, afferrando il polso di Lorenzo con la sinistra. Appoggiò
nuovamente la tazzina e voltò la sua mano dai polpastrelli lisci. Poi lo guardò
in faccia. -
Come Pollak e Pavel. -
commentò. -
Fa parte della lunga storia che vuole sentire. Marco si tolse
gli occhiali, senza liberarlo dalla sua stretta. Osservò ancora la mano di
Lorenzo, una mano forte, calda, grande, con il palmo e le dita solcate da
linee regolari. Solo i polpastrelli ne erano privi. Poi, finalmente, gli
lasciò il polso. Lorenzo lo
guardò dritto negli occhi, insistentemente. La sua espressione manifestò un
lieve stupore. -
Anche lei ha qualcosa che la contraddistingue. -
commentò. Marco sospirò
brevemente, assuefatto a quel genere di effetto. -
Mi racconti la sua storia. -
D’accordo. Non si stupisca, se parte da molto
lontano. Per farle comprendere quello che sta accadendo, ho bisogno di partire
dall’inizio. Nel 1224, nel monastero di Podlažice,
in Boemia, un monaco di nome Ermanno, si impegnò in un’opera dalle
caratteristiche eccezionali, un grande libro che racchiudesse in sé la Bibbia
ed altre opere fondamentali. Si sono costruite molte leggende, intorno a
quest’opera. -
Mi racconti tutto quello che ci potrebbe essere
d’aiuto. -
Il problema è che lei non crederà alla verità. -
commentò Lorenzo, senza mai smettere di guardarlo dritto negli occhi. -
Come fa a dirlo? -
Lei è una persona razionale? Dev’esserlo,
uno che fa il suo mestiere. -
È naturale. -
Ma quello che sto per raccontarle io, non lo è. -
Non è razionale? -
Per niente. Le sembrerà assurda. - disse
malinconicamente. -
Proviamoci lo stesso. Vada avanti. - lo invitò
Marco, con un sorriso. -
D’accordo, come vuole. Tutti gli studiosi che
hanno potuto esaminare il Codex Gigas,
hanno affermato che il monaco è stato l’unico artefice dell’opera. Il loro
stupore risiede nel fatto che si è calcolato un tempo di esecuzione dai venti
ai trent’anni, mentre la sua calligrafia resta sempre immutata, senza le
variazioni naturali che il tempo immancabilmente produce. In realtà questi
studiosi non potrebbero mai convincersi di come le cose siano andate in
realtà. Il monaco Ermanno, infatti, ha completato il Codice in un solo anno.
Questo era il tempo che si era concesso per pagare i suoi peccati, in cambio
della vita. -
Quali peccati? -
Sodomia. Era stato condannato a morte dai suoi
confratelli, ma lui ha proposto un’altra penitenza. Sarebbe stato recluso volontariamente
per un anno, impegnandosi a consegnare loro, entro quel tempo, un’opera
colossale di cui non esisteva l’eguale al mondo, rendendo famoso il
monastero. I confratelli naturalmente non gli credettero,
ma decisero di metterlo alla prova ugualmente, rimandando di un anno
l’esecuzione della pena. Purtroppo, giunto a metà, Ermanno si accorse che non
sarebbe riuscito nel suo intento. Fu allora che decise d’invocare il diavolo
stesso, per farsi aiutare. -
Il diavolo? - dubitò Marco, con un sorriso ironico. Lorenzo annuì,
senza smettere di fissarlo. -
Il diavolo. Non sia scettico. Ermanno lo invocò
e il diavolo si presentò, aiutandolo a terminare in tempo la sua opera, ma
ponendo alcune clausole al contratto. Oltre alla sua anima, pretese un
ritratto, più otto pagine da lui stesso vergate. Il suo ritratto è a pagina
577. Le otto pagine sono state in seguito sottratte da alcuni monaci molto
particolari. Erano gli unici che potevano toccare quelle pergamene, senza
correre rischi. Nessuno di loro possedeva solchi nei polpastrelli delle dita. -
Mi scusi, perché era necessario toglierle dal
libro? -
Perché quelle pagine possedevano un immenso
potere distruttivo non solo per la cristianità, ma oserei dire per il mondo
intero. I monaci si dispersero, per custodire le otto pagine l’una lontana
dall’altra e soprattutto lontane dal Codex, che già
in sé contiene un potere anormale, ma con la presenza di quelle pagine si
potrebbe trasformare in una vera arma di distruzione. -
È una storia vera? - chiese Marco Lama,
osservando con attenzione l’espressione di Lorenzo Becker, senza riuscire a
nascondere il suo scetticismo. -
Io le sembro vero? Il commissario
constatò che lo svizzero appariva sincero. Quello che gli stava raccontando
aveva dell’assurdo, ma non poteva dubitare che lui ne sembrasse davvero
convinto. -
Che fine hanno fatto i custodi? -
La confraternita di Podlažice
esiste da quando esiste la bibbia del diavolo. Sin dall’inizio, ha dovuto
mutare la propria Regola per adempiere al suo scopo. I fondatori hanno dovuto
rompere il voto di castità, per mettere al mondo un figlio con le medesime
caratteristiche e consegnargli in eredità la custodia della pagina, impegno
che si è ripetuto nel corso dei secoli. Tutti i custodi che si sono
succeduti, si sono sempre tenuti in contatto, fino ad oggi, e si sono sempre
ritenuti confratelli, anche se ormai sono quasi tutti laici. -
Lei è uno dei custodi? -
Vedo che ci è già arrivato. -
E naturalmente, lo sono anche tutti quelli della
lista. -
È esatto. -
Ma non ne manca uno? Mi diceva che le pagine sono
otto. -
Mi fa piacere che mi stia seguendo. Manca nella
lista un custode, che vive a Praga. Vladislav Jesensky. Io l’ho incontrato una sola volta, ma avrei
preferito non incontrarlo mai. Si è sempre rifiutato di avere contatti con
noi. È un misantropo. Anche i suoi studi ci sono oscuri. -
Capisco. Riassumendo, c’è un grosso libro
medievale, a cui sono state sottratte otto pagine scritte dal diavolo. Poi ci
sono otto custodi che le conservano, e c’è qualcuno che adesso ha deciso di
ridurne il numero. Perché? Insomma, tutto questo dove ci porta? -
Ci arrivo. L’anno scorso il manoscritto, che si
trovava nella Biblioteca Reale di Svezia, a Stoccolma, è stato rubato.
Ovviamente tutti i custodi sono stati allertati. Non sapere dove si trovi è
molto pericoloso: come le ho detto, le pagine devono restare lontane dal
codice. Anche se i miei confratelli non erano d’accordo, io temevo che il
furto del Codex fosse l’inizio di qualcosa di
terribile. Però adesso, con l’omicidio di due di noi, si sono convinti anche
loro che siamo tutti in pericolo, soprattutto perché le pagine di cui si
occupavano Pollak e Pavel sono scomparse. -
Come lo sa? -
Jan Krejcar è andato a
controllare. -
Non avete idea di chi possa averle rubate? -
Di sicuro lo stesso che ora possiede il Codex. -
Se è così, siete davvero tutti in pericolo. Che
succede se il libro viene ricomposto? -
Quand’è stato trasferito a Praga, in prestito
per quattro mesi, eravamo molto preoccupati, così abbiamo scritto una
lettera, consigliando a Vladislav di allontanarsi,
ma lui non ci ha nemmeno risposto. Mentre il Codex
era a Praga, un bibliotecario che si era trattenuto dopo la chiusura, ha
visto libri svolazzare nell’aria. E pensi che soltanto una delle pagine era
vicina. Questo episodio mi è stato riferito dalla dottoressa Britta Ek, responsabile della
Biblioteca Reale di Stoccolma, che si è occupata del trasferimento. Quando il
bibliotecario l’ha raccontato, nessuno gli ha creduto, ma noi sì. Era la
stessa cosa che capitava nel monastero di Podlažice.
-
Mi scusi, ma avete montato tutto questo casino
per un semplice caso di telecinesi o di poltergeist? - lo interruppe Marco. Lorenzo
s’incupì. -
Ovviamente capitavano anche eventi più
sconcertanti. Gliene descrivo un altro, tanto per permetterle di farsi
un’idea. 1225 Il buio della
navata era a malapena rischiarato da gruppi di candele che ardevano davanti
alle effigi dei santi e sull’altare. I cappucci calati nascondevano i volti
dei confratelli raccolti in preghiera a metà della notte. Nel monastero si
seguiva la Regola di S. Benedetto: la celebrazione dei divini Offici avveniva
alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro, a Compieta e nel
mezzo della notte. Non sempre questa era la più sentita delle preghiere,
poiché il sonno spesso li coglieva, là dove si trovavano, sia che fossero in
piedi o seduti. Ma quella notte, il monaco Ermanno sembrava indemoniato. Non
riusciva a star fermo, si agitava e smaniava, spostando continuamente il peso
da un piede all’altro. E
all’improvviso, non si seppe da dove, giunse un vento caldo che scoprì le
teste, facendo cadere i cappucci all’indietro, sciolse i cordoni, poi
s’infilò sotto i sai, gonfiandoli, sollevandoli, sfilandoli, fino a che, tra
le urla di spavento e i gemiti di quanti si ritrovarono nudi, si videro i sai
volare nell’aria, gonfiarsi, ondeggiare e infine andare a sbattere lungo le
pareti fino ad appendersi ad ogni sporgenza, chiodo o gancio del sacro
tempio. Mani invisibili e calde presero ad accarezzare i corpi, sfiorandoli
dapprima con delicatezza, e poi, progressivamente, con sempre maggior
decisione, invitando gli attributi virili a sollevarsi come per un marziale
comando di attenti. Il monaco Ermanno fu il primo ad approfittare del vento
caldo che li spingeva nudi gli uni contro gli altri, incitando e mugolando, saltando
dall’uno all’altro, come a volerli provare tutti, e in ogni modo possibile.
Ma ben presto anche gli altri non furono da meno. Offrirono le proprie terga,
penetrarono quelle altrui, o ambedue le cose nel contempo, travolti da una
frenesia che li eccitava senza appagarli, privi all’improvviso di qualunque
remora o ritegno. Come ebbri, dimenticarono dove si trovassero e quali voti
stessero calpestando, usando il loro corpo come mai avrebbero immaginato. Nel
buio rischiarato a malapena in poche limitate zone, si videro ammucchiate
frenetiche di corpi luccicanti di sudore, riversi sulle panche, coricati in
terra, appoggiati alle colonne, carponi sui gradini dell’altare. I pochi che
improvvisamente ritrovarono il lume della ragione e si provarono a fuggire,
furono rincorsi e afferrati da mani rapaci, costretti carponi e sottomessi ai
loro aguzzini, che in coppia li penetrarono chi nell’ano e chi nella bocca. I
più audaci e lussuriosi passarono di gruppo in gruppo, senza tralasciare
d’introdurre il proprio insaziabile randello in ogni orifizio disponibile. Fu
così che la preghiera della notte, quella notte, si trasformò in un’orgia di
proporzioni bibliche, e che i consueti canti rituali furono sostituiti dal
coro di urla di godimento, grugniti, sospiri, gemiti, querimonie, ansiti,
lamenti e mugolii di quanti parteciparono attivamente a comporre quel confuso
ammasso di corpi nudi, vibrante d’inesauribile eccitazione. L’abate,
l’unico a restarne indenne, urlò i suoi esorcismi dall’altare con tutto
l’impeto di un santo guerriero che guida all’attacco le truppe celesti per
combattere il maligno. Ma non furono questi ad ottenere il ripristino della
calma e della pace, bensì l’inevitabile sfinimento che coglie qualunque uomo,
dopo quattro ore d’intensa attività fisica e dopo aver versato il proprio
seme per un numero imprecisato, ma certamente smodato di volte. Tuttavia, al
monaco Ermanno, che possedeva un membro di proporzioni abnormi, e le cui
forze non sembravano venir meno, fu necessario strappare di sotto il povero
confratello sul quale infieriva brutalmente da tempo e che in seguito a quel
trattamento dovette essere trasportato in infermeria, in compagnia di coloro
che avevano osato opporre resistenza e su cui, forse per questo, ci si era
maggiormente accaniti. 2010 Marco Lama si
chiese fin dove gli fosse possibile credere a quella storia, che aveva in
ogni caso ottenuto come effetto secondario quello di eccitarlo, suo malgrado.
Ricomponendosi, pensò che di sicuro c’erano già due morti. E a questo doveva
credere. Chi era l’assassino? Perché si accaniva contro questo gruppo di
studiosi? -
Tutti i custodi sono stati avvertiti? - domandò,
riprendendosi. -
L’ho fatto non appena mi ha comunicato ch’era
stato ucciso anche Pavel. Jesensky non ha risposto,
ma del resto non lo fa mai. Agli altri invece ho espresso i miei dubbi. Forse
si tratta solo di una coincidenza, ma io, vede, alle coincidenze non ho mai
creduto. Le pagine scomparse sono la prova che sta accadendo qualcosa di
grave. -
Questo è certo. Che poi sia collegato con lo
strano racconto che mi ha fatto, questa è un’altra questione. Lorenzo guardò
il commissario, dritto negli occhi. Forse, se l’avesse vista, gli avrebbe
creduto più facilmente. -
Vuole vedere la pergamena? Il commissario
non aveva osato proporlo. -
Se non è pericoloso... -
Non lo è, se si limita a guardarla. Non deve
toccarla, per nessun motivo. -
Mi dica, in tutto questo tempo, nessuno ha mai
tentato di distruggerle? -
Naturalmente. 1225 Quella fu
l’ultima volta che i monaci videro Ermanno, che l’abate considerò colpevole
di aver richiamato sul monastero le potenti forze degli inferi, attraverso
l’esecuzione della sua opera, quel Codex che
giaceva ora nel suo studio, in attesa di essere giudicato degno. Troppe cose
sinistre ed oscure accadevano da quando l’aveva terminato. L’abate sentiva
che c’era in esso una forza soprannaturale e maligna. Ermanno fu di nuovo
recluso, murato vivo, e questa volta, non di sua volontà, e fino alla morte.
A tutti gli altri fu inflitta la pena di una penitenza perenne. I monaci
l’accettarono come giusta, ma alcuni di loro erano stati segnati per sempre
dall’esperienza della carne, che in gran segreto e a rischio della morte,
rinnovarono in più occasioni. Con la logica e
l’intelligenza che lo distinguevano, l’abate comprese di essere immune al
potere del tomo, grazie al suo tocco privo di appigli. Egli possedeva
infatti, a differenza di ogni altro confratello, polpastrelli del tutto
lisci. Studiò con cura il libro, ricavandone l’impressione che otto delle
ultime pagine fossero di natura demoniaca. Decise quindi di staccarle dalle
altre e distruggerle. Ma ciò che accadde a tutti coloro che tentarono di
bruciarle, pur non avendole mai toccate, fu raccapricciante. L’abate aspettò
un segno dal cielo, pregando con fervore. E forse fu proprio il cielo a
rispondere, quando, pochi mesi dopo, si presentarono al monastero due dei
suoi fratelli, anch’essi monaci. A loro raccontò la tragedia che stavano
vivendo, chiedendo di cercare aiuto presso qualche convento vicino. Ma quelli
trovarono una soluzione che sembrava la migliore. Poiché essi stessi e molti
dei loro cugini erano privi di solchi sui polpastrelli, avrebbero potuto
occuparsi di quelle pagine dannate, senza correre pericoli. Avrebbero portato
con sé le pergamene, distribuendole ai parenti che avessero voluto farsene
carico. L’abate ne fu commosso, ma raccomandò di tenerle lontane le une dalle
altre e soprattutto di non avvicinarle mai più al monastero, dove avrebbero
continuato a custodire il Codex. 2010 Lorenzo Becker
si alzò ed uscì dalla stanza. Quando tornò, teneva tra le mani un tubo di
cuoio. Ne aprì un lato e ne estrasse la pergamena, con estrema cautela. Poi
la distese su un tavolo, tenendola ferma con entrambe le mani, invitandolo a
raggiungerlo. -
Vede questi simboli? Marco si
avvicinò a Lorenzo, pur rimanendo leggermente indietro, per precauzione,
osservando il manoscritto da sopra le ampie spalle del custode. -
Sì. Non ho mai visto nulla di simile. -
Nemmeno tutti gli studiosi che si sono succeduti
nei secoli, alla ricerca di qualcosa che vi assomigli. -
Perché cercate qualcosa del genere? -
Per capire. Ha presente i geroglifici? Prima
della stele di Rosetta, nessuno sapeva decifrarli. C’è bisogno di una
traduzione, ma non siamo ancora in grado di eseguirla. Stare alle
spalle di Lorenzo Becker, a così breve distanza che avrebbe potuto baciargli
la nuca solo facendo un impercettibile movimento, turbò Marco, tanto da
costringerlo a dire la prima cosa che gli passò per la testa, pur di spezzare
l’incantesimo. -
Lei ha già chi la sostituirà? Lorenzo si
voltò a guardarlo. I loro occhi erano vicinissimi. -
Ho un figlio con i requisiti giusti, di cui si
occupa la madre. Lei saprà cosa fare, quando sarà il momento. -
Non dev’essere stato facile
convincerla. È un impegno notevole. -
Non lo è mai. In questo momento storico, ancor
meno. Ma quella donna comprende perfettamente l’importanza di quello che
stiamo facendo. -
Non ne dubito. Lorenzo tornò
ad occuparsi della pergamena. Spostò la mano destra, lasciando che si
arrotolasse nuovamente, seguendo il verso in cui si era viziata. La inserì
nuovamente nel tubo e lo richiuse. Poi la riportò fuori dalla stanza. Marco Lama
tornò a sedersi sul divano. Guardò l’orologio e non credette
a ciò che vi leggeva. Era lì da più di due ore, ma com’era possibile? Gli
sembrava di essere appena arrivato. Quando Lorenzo
rientrò nella stanza, gli disse: -
Mi scusi se l’ho trattenuta tanto. La sua storia
era molto avvincente, tanto che il tempo mi è volato. -
Le ho fatto appena sfiorare la superficie di
questa storia. Potrei intrattenerla per tutto il giorno e per tutta la notte,
e ce ne sarebbe ancora. Per fortuna,
Marco comprese al volo che l’implicito invito a passare la notte insieme era
solo una sua folle fantasia. -
Domani dovrei tornare al lavoro. - ironizzò
Marco. -
Oggi è libero? -
Diciamo di sì. -
Anch’io. Allora non se ne vada subito. Potremmo
pranzare insieme. Al commissario
non dispiaceva per nulla, restare ancora un po’ in sua compagnia. -
Con piacere. - rispose. Marco non
immaginava che avrebbero pranzato in casa, ma Lorenzo sembrava tenerci molto,
e quindi decise di non insistere per un ristorante. Era stato naturale
passare a darsi del tu. Lorenzo gli aveva raccontato un po’ della sua strana
vita. Sin dalla più tenera infanzia era stato preparato all’idea di avere un
compito da eseguire. I suoi genitori non vivevano insieme. La madre gli era
mancata, ma una figura di riferimento era stata la sua tata italiana,
Caterina, un donnone dinamico ed energico, che non si lasciava incantare
dalle sue scuse, quand’era ora di portarlo a scuola. L’aveva abituato ad
affrontare la vita senza debolezze, e di questo era grato. Anche se gli erano
mancate la dolcezza e la tenerezza che probabilmente una vera madre gli
avrebbe regalato. Il padre era sempre rinchiuso nel suo studio. Solo quando
aveva compiuto i diciotto anni, gli aveva svelato il segreto della sua
nascita, il vero motivo per cui era al mondo. Lorenzo non l’aveva presa tanto
bene, nonostante fosse già preparato. Dapprima si era opposto, con la
ribellione tipica dell’età, poi aveva compreso le ragioni paterne e
l’ineluttabilità dei suoi doveri. Ma di certo non era stato facile. Marco lo
comprese perfettamente. Anche se in realtà nessuno era davvero libero,
Lorenzo doveva essersi sentito ancor più prigioniero della maggior parte
degli esseri umani. -
Per questo, ancora adesso, a volte ci sono
momenti in cui abbandono tutto e me ne vado per mare. Chiudo la pergamena in
una cassetta di sicurezza e mi allontano per un po’. Ho bisogno di respirare.
- -
Adesso capisco la prima impressione che ho
avuto, vedendoti, quella che tu fossi un marinaio. -
È quello che sono dentro. Lo sarei a tempo pieno
se non avessi la zavorra della pergamena. -
A proposito, non mi hai detto com’è questo Codex. -
È un libro enorme. Il più grande manoscritto
prodotto nel medioevo. È composto da
320 pergamene e pesa 75 chili. Ogni pergamena, come hai visto, è lunga 92
centimetri per 50 di larghezza. In tutto è spesso 22 centimetri. Ha una copertina
di legno, rivestita di pelle, con ornamenti in metallo. Io ne ho guardato
soltanto le foto, non sono mai andato a vederlo di persona, e ormai è troppo
tardi. -
Cosa pensi che possa farne, chi l’ha rubato? -
Non sappiamo fino in fondo quali siano i suoi
poteri. Abbiamo solo i racconti tramandati di padre in figlio, attraverso i
secoli. Di sicuro ha portato distruzione e sconvolgimenti in ogni luogo dov’è
stato conservato, finché non è finito a Stoccolma. -
Che genere di distruzioni? -
Totali. Il monastero di Podlažice
è andato completamente distrutto, non ne sono rimaste che poche rovine.
Intanto era stato trasferito nel monastero cistercense dei frati Bianchi di Sedlec, vicino a Praga. Poiché anche là era causa di
sconcertanti fenomeni, i monaci lo trasferirono in un cimitero consacrato.
Qualcuno pensò che riposto in fondo ad una cripta, non avrebbe potuto causare
danni. Invece, poco dopo, scoppiò la peste. In breve tempo non ci furono più
che morti e scheletri ovunque. Per completare l’opera devastatrice, un
incendio lo distrusse. Il Codex fu trasportato
allora nel monastero benedettino di Brevnov.
Rinchiuso in una cassa di metallo, fu sotterrato in un angolo dell’orto, il
più distante possibile dal corpo della struttura monastica. -
Distrutto anche quello? -
No, fecero in tempo a disfarsene, anche se prima
di quel giorno, dovettero specializzarsi in esorcismi. Non fu un periodo
facile, per i poveri monaci di Brevnov. 1475 Dopo Compieta,
la regola del silenzio, impose al monaco Clemente di non rispondere all’invito
del confratello Gregorio. Notò però lo sguardo lucido, quasi febbricitante,
con cui aveva richiesto la sua presenza nello scriptorium.
Mentre si recava nel dormitorio, seguendo la scia degli altri monaci, decise
che il povero Gregorio doveva essere afflitto da un ben grave problema, se
aveva ritenuto di non poter aspettare il mattino seguente. Così, ben conscio
di trasgredire alla regola, deviò in direzione del locale in cui entrambi
lavoravano come amanuensi. Nel buio più totale, solo una candela era accesa,
in fondo alla sala, sotto una finestra, sullo scrittoio di Gregorio. Clemente
si diresse silenziosamente in quella direzione, ma Gregorio non c’era. Si
guardò intorno, senza poter vedere nulla. Conosceva il locale a memoria e
poteva muoversi senza urtare scaffali e scrittoi, ma non riusciva a vedere.
Con la voce più bassa possibile, quasi in un sussurro, lo chiamò. Un colpo di
tosse gli rispose da dietro uno scaffale. Clemente si diresse in quella
direzione. Alla parete, sotto un’altra finestra, gli parve di vedere
un’ombra. -
Gregorio. - mormorò. -
Sì, Clemente, sono qui. -
Che hai? Che ti succede? -
Ho un fuoco che mi divora e non so come
spegnerlo. Clemente si
avvicinò, tendendo le mani come un cieco, per assicurarsi che l’ombra intravista
fosse proprio la sua. Incontrò infine una spalla, nuda. -
Gregorio, il tuo saio? Sai che è vietato
spogliarsi. -
Non potevo più sopportarlo. -
Tu sei malato. Hai sicuramente la febbre. -
È una febbre diversa da quella che ho conosciuto
altre volte. Senti qua. - gli disse, afferrandogli una mano e spingendola sul
basso ventre. -
Gregorio! Prega che non entri nessuno. Rivestiti
immediatamente. - sussurrò, scandalizzato. Gregorio lo
abbracciò stretto e nonostante il buio riuscì a centrare con le labbra quelle
di Clemente, in un bacio che lanciava fiamme. Clemente tentò dapprima di
respingerlo con forza, ma Gregorio, che pure non era mai stato molto robusto,
riuscì a mantenere le sue posizioni. Fu piuttosto lui a girarsi e a mettere
Clemente con le spalle al muro. Subito dopo gli sollevò il saio e riuscì ad
afferrare il suo membro, che nel frattempo si era fatto turgido e si
sollevava spavaldamente nonostante la sua ritrosia. -
Gregorio, lasciami. - mormorò con voce incerta. Ma il confratello,
al contrario, s’inginocchiò davanti a lui, facendo un solo boccone di tutto
ciò che la sua mano aveva stretto fino a un attimo prima. La regola del
silenzio impose a Clemente di non fiatare. Solo il suo respiro si fece più
affannoso, seguendo il ritmo del confratello che un istinto naturale guidava
a succhiare e leccare, stringere e lasciare, andare e venire, procurandogli
un piacere di cui nemmeno conosceva l’esistenza. L’idea che Gregorio dovesse
lasciarlo, gli passò completamente di mente. Il monaco
anziano, Donato, che vegliava sul dormitorio, passò lungo il corridoio tra le
file dei letti, rendendosi conto che due pecorelle mancavano all’appello.
Aspettò un poco, ma poi si disse che l’abate non aveva autorizzato nessuno ad
allontanarsi. Se avesse affidato compiti eccezionali a qualcuno,
gliel’avrebbe detto. Così accese una candela e lasciò la lampada accesa nel
dormitorio, uscendo in silenzio. Fu per puro caso che il primo luogo dove
andò a cercare fosse proprio lo scriptorium. Vide
la candela accesa ed entrò, guardandosi intorno. Niente. Poi fece il giro
degli scaffali esterni. Alla vaga luce della sua fiammella, vide infine
qualcosa che non avrebbe voluto vedere. Uno sopra l’altro, distesi in terra,
nel poco spazio tra il muro e gli scaffali, i due confratelli stavano
consumando l’osceno accoppiamento la cui pena era la morte. Si avvicinò fino
ad illuminare bene i due monaci, con l’intenzione di dividerli, ma quelli,
presi dalla loro folle e insaziabile frenesia, neppure se ne accorsero. Restò
in silenzio a guardarli e qualcosa, anche dentro di lui, prese fuoco. Fu il priore ad
accorgersi dell’assenza di colui che doveva vegliare sul dormitorio. Era
l’ora della preghiera, quella in cui avrebbe dovuto destare tutti. Fu quindi
il priore a svegliare i confratelli, e mentre quelli, assonnati, si
dirigevano verso la cappella, lui andò in cerca del monaco Donato. Soltanto
Gregorio e Clemente furono condannati a morte, mentre Donato, che si ritenne
si fosse limitato a guardare, senza tuttavia intervenire, fu espulso dal
monastero di Brevnov. Ma da quel momento si diedero
tutti un gran da fare per trovare una nuova sistemazione al Codex. 2010 Ciò che lo
rendeva sospettoso, era che Becker scomodasse il diavolo in persona per
giustificare una semplice scopata. Aveva l’impressione che lo stesse
prendendo in giro, narrandogli quegli episodi al puro scopo di eccitarlo.
Dove voleva arrivare? Se aveva intenzione di provocarlo per farsene una con
lui, Marco era prontissimo. -
Per fortuna non siamo più nel medioevo. Oggi due
uomini possono farsi una piacevole scopata senza che l’Inquisizione li
condanni a morte. - commentò Marco, nella speranza di fargli scoprire le sue
carte. -
Adesso abbiamo un’autocoscienza molto più forte.
È lei che deve imporci dei limiti e, semmai, trovare l’autopunizione per
scontare le nostre ignobili colpe. - rispose Lorenzo, con un’espressione
dura. Marco ne fu
pesantemente deluso. Tornò quindi all’argomento principale, imponendosi di
non lasciarsi più distrarre da quelle stuzzicanti divagazioni. -
E poi che ne fu del Codex? -
Dal 1477 al 1571 fu custodito nella libreria del
monastero di Broumov, dove i primi due monaci che
se ne occuparono, furono scelti con grande cura. Non si hanno notizie di
gravi sconvolgimenti, oppure furono tenuti accuratamente nascosti. Quando poi
toccò al terzo, l’abate in carica in quel periodo, ci fu un ulteriore
miglioramento della situazione, perché probabilmente riuscì a bloccarne in
qualche modo il potere. Era un uomo di grande carattere, di fede salda e
fervente. Un santo. Quando però sentì che gli venivano meno le forze, ne
portò a conoscenza un monaco che curava la biblioteca di Rodolfo II, in cui
riponeva grande stima, il quale lo prese in carico, facendolo entrare a
Praga, nella collezione del Castello di Hradschin. -
Chissà come ne sarà stato felice, Rodolfo II!
Non l’ha presa come un attentato alla sua vita o al suo potere? -
Al contrario. All’epoca aveva richiesto un
oroscopo all’astrologo Cosme de Rogier.
Il Codex giunse al castello in concomitanza con l’oroscopo
che gli prediceva la sua prossima ascesa al trono. Ne dedusse che il Codex gli portava fortuna. -
Invece distruzione e morte anche lì? -
In un certo senso. Quando divenne re, poco dopo,
chiamò a corte diversi esperti per farsi aiutare nelle traduzioni del libro.
Ma poi, col trascorrere del tempo, rimase affascinato dal ritratto del
diavolo. Passava giorni e notti ad osservarlo, e dentro di lui scattò
qualcosa. Ne rimase ossessionato, rinunciando ad allontanarsi dal
manoscritto. Non uscì più dalla stanza, non s’interessò più di governare e
ben presto fu cacciato dal trono. -
E come ci è finito il Codex
alla Biblioteca Reale di Stoccolma? -
Alla fine della Guerra dei Trent'anni, nel 1648,
tutta la collezione di Rodolfo II venne rubata dall'esercito svedese. -
Anche là fu una catastrofe? -
Noi crediamo che in principio trovò un custode
in Cristina di Svezia, a sua insaputa. Probabilmente possedeva, pur
ignorandolo, le caratteristiche per neutralizzarne gli effetti. Il re Gustavo
II, suo padre, che aveva perso due figli maschi, l’aveva educata per salire
al trono, trattandola da uomo. Cristina possedeva un carattere forte e
autoritario. Custodì il Codex nella biblioteca del
suo castello, considerandolo il gioiello della sua collezione. -
E arrivò all’ossessione di Rodolfo? -
No, però qualcosa di strano deve aver causato
anche in lei, perché dieci anni dopo abdicò al trono e si recò in esilio a
Roma, abbandonando il Codex al suo destino. -
Che fu? -
Un grande incendio, in cui perse la vita Re
Carlo XI. -
Ma il Codex si salvò... -
Un servo lo lanciò da una finestra. Sembra un
miracolo che rimase intatto. -
Oppure, a questo punto, una diavoleria... -
Già. Comunque, dell’incendio furono accusati i
servi del castello, che furono torturati e uccisi. Anche lì morte e
distruzione. -
E il Codex? -
Da allora, fino al giorno del suo furto, il
manoscritto è stato conservato nella Biblioteca Reale di Svezia a Stoccolma. -
E là non ha creato problemi? -
Non troppi, che io sappia. -
Comincia a perdere il suo potere? -
Oppure sta preparando un attacco in grande
stile. -
Mi fai venire i brividi. Lorenzo lo
guardò sorridendo con calore. -
Vorrei parlare anche con gli altri custodi.
Sentire che cosa ne pensano. - aggiunse Marco, turbato suo malgrado da quel
sorriso. -
Non ti diranno più di quanto possa dirti io. Sarebbe
inutile. -
M’incuriosisce Jesensky.
Forse, nel suo isolamento, ha sviluppato qualche teoria alternativa. -
Non sono in grado di dirlo. - ammise con una
smorfia. -
Potremmo andarlo a trovare. -
Preferirei evitare. -
Credo di capire che non ti piace. Lorenzo non
rispose, ma i suoi occhi blu s’incupirono come un mare in tempesta, emanando
un’inconsapevole radiazione di odio puro. Ritenendo
essenziale di cambiare argomento, Marco gli chiese: -
Posso farti una domanda personale? -
Certo. -
Vivi da solo? -
Sì. -
Anche Pollak e Pavel
vivevano da soli. E gli altri custodi? -
Sì, anche gli altri. -
Avete continuato a seguire la Regola della prima
confraternita, che ricalca quella monastica? Fa parte del vostro codice di
comportamento? -
Lo è, ma non è vincolante. Nel mio caso è una
scelta personale. A suo tempo, ho fatto il mio dovere e mi sento a posto con
la coscienza. Il Monaco Nero
si ripeté, per l’ennesima volta, le ultime parole del libro. “Soltanto
quando verrà il tempo, sarò nel buio e nelle fiamme, in profondità e
in superficie. Soltanto
vedendomi con occhi diversi l’uomo avrà potere su di me, ma il mondo
ugualmente sarà mio.” Meditava da
giorni su quella frase conclusiva. L’aveva letta più volte, ma non vi trovava
un senso. La sua traduzione doveva essere imperfetta. Avrebbe voluto
decifrare i simboli delle nuove pagine reinserite, ma continuavano a
rimanergli oscuri. Nel frattempo non era accaduto nulla di diverso da ciò a
cui ormai s’era abituato. Gli effetti del Codex
restavano immutati, benché si fossero progressivamente potenziati. Le candele
che si spegnevano e si riaccendevano, il grosso tavolo che si sollevava dal
pavimento, rumori stridenti, strane voci che giungevano contemporaneamente da
più direzioni, calore improvviso, seguito da venti gelidi. E poi, quando
apriva la pagina del ritratto, l’immagine sinistra che gli si precipitava
incontro, gli occhi di brace che emanavano una luce vivida e rossastra, le
sue parole che sembravano graffi di unghie su una lavagna. Quel giorno,
ipnotizzato, aveva perso il controllo di se stesso. Si era ritrovato nudo, in
ginocchio, con la mostruosa sensazione che un martello pneumatico lo scavasse
su e giù per lo sfintere, con inusitata violenza, scandendo il ritmo di un
dolore insopportabile. Non sapeva come fosse finito in quella posizione, non
ricordava di essersi spogliato. Erano state le staffilate di dolore a
risvegliarlo, come una doccia gelida. Aveva tentato di sottrarsi, fuggendo
carponi, ma nodose mani unghiute l’avevano bloccato. Con il suo inconsulto
movimento, non aveva ottenuto altro che il crudele affondare di quegli
artigli nella robusta carne dei suoi fianchi. Terrorizzato, sollevò la testa
per urlare. E allora la vide stagliarsi nera davanti a sé. L’ombra sul muro
era quella cornuta e gigantesca del diavolo su di lui, come un cavaliere in
groppa al cavallo. Poi lo strazio intollerabile delle sue poderose spinte gli
fece perdere i sensi. Quando si
riebbe, ricordò gli ordini che gli erano stati impartiti, ma non fu in grado
di eseguirli immediatamente. Ci volle qualche giorno, prima che fosse
nuovamente in grado di camminare. Per la
protezione di Lorenzo Becker, Karel Perutka, Jan Krejcar, Artur Baginsky, Gabriel Nowak e Vladislav Jesensky, il
commissario Lama richiese l’intervento dell’Interpol.
Si era dovuto inventare una storia di serial killer e di una lista ritrovata
per caso. Ma ignorava se fosse stato abbastanza convincente. Dopo cinque
giorni, la polizia di Praga gli comunicò che di Vladislav
Jesensky non si avevano notizie. Da lungo tempo era
assente dal suo domicilio, tanto che i suoi vicini erano sicuri che si fosse
trasferito. Ricerche subito effettuate, avevano dato esito negativo. Nessuno
sapeva che fine avesse fatto. Lama aveva
trovato il motivo per cui non rispondeva mai alle lettere dei suoi confratelli.
Si convinse che Jesensky fosse stato la prima
vittima del cacciatore di pergamene. Dopo una
settimana gli giunsero notizie ancora più gravi da Parigi. Un cadavere era
stato recuperato nella Senna. Era stato identificato come Jan Krejcar. La protezione non era stata sufficiente, oppure
i colleghi francesi non avevano ritenuto di dare corso alla sua richiesta.
C’erano già quattro morti. Jesensky lo dava infatti
per spacciato. Avvertì
Lorenzo. -
Se hai ragione tu, restiamo solo in quattro. E quattro
pagine sono tornate al luogo d’origine. È una catastrofe. -
Lorenzo, consiglia a tutti di spostarsi altrove,
di nascondersi, se possibile. E anche tu, non restare là. Vieni a Roma. Ti
ospito io. -
Sei molto gentile, Marco, ma... -
Cosa ti lega a Lugano? -
Sto studiando un codice di grande interesse. Fa
parte di una collezione privata. -
Anche qua ci sono un mucchio di libri. -
Mi hai già messo un poliziotto alle calcagna.
Dovrebbe essere sufficiente a proteggermi. -
Preferirei proteggerti io. -
Davvero? Non hai altro da fare? -
Veramente non so che fare. Ho bisogno del tuo
aiuto. Dobbiamo ritrovare il Codex e chi vi sta
ammazzando uno alla volta. Vieni a Roma. -
E la pergamena? -
Portala con te. La metteremo al sicuro. Per Marco Lama
aveva smesso di trattarsi di un puro caso investigativo. Era diventata una
questione personale, da quando aveva conosciuto Lorenzo. Personalissima.
Perché, senza fare in tempo a rifletterci sopra, Lorenzo se l’era ritrovato
dentro. Ed ora, spostarlo da lì gli sembrava impossibile. Gli telefonava
tutti i giorni. Aveva bisogno di sentire almeno la sua voce, con quel leggero
accento straniero, quella cadenza tranquilla e quasi ipnotica. -
Vieni a Roma. - insistette. -
Ci penserò. Nel caso che decidessi di darti
retta, dove ti trovo? -
Chiamami sul cellulare, quando arrivi sul
Raccordo Anulare. Da lì ti guido io. -
Ho il navigatore satellitare. -
Ottimo, per perdersi. Il Monaco Nero
giunse in via Bertaccio alle 3:00 di notte. Si
accertò che in giro non vi fosse anima viva e si fermò davanti al portone.
Pronunciò la formula di suoni stridenti che gli era ormai familiare, e il
portone si aprì. Prese l’ascensore fino all’ultimo piano e ripeté la formula
davanti alla porta di Lorenzo Becker, quindi entrò con cautela, accendendo
una torcia. L’appartamento era immerso nel silenzio più assoluto. Il Monaco
Nero entrò nel corridoio che si dipartiva dalla grande sala. Le porte
disposte su entrambi i lati erano tutte aperte. Per prima incontrò la cucina,
dove si armò di un grosso coltello, dopo aver sperimentato l’efficacia della
lama. Poi veniva un ripostiglio e sul lato opposto la camera da letto. Vi
s’introdusse in perfetto silenzio, trattenendo il respiro. Ma con sua immensa
delusione, constatò che il letto era vuoto. Britta Ek era decisamente preoccupata, condizione che si poteva
riconoscere dalla sua abitudine di scaricare il nervosismo arrotolandosi
innocenti ciocche di capelli intorno a un dito, per poi liberarle in riccioli
a cavatappo. Sfortunatamente, tutto questo, dopo
aver trascorso i soliti venti minuti a lisciarli con la piastra davanti allo
specchio del suo bagno. Quella mattina si era anche truccata, evento che
costituiva un altro pessimo segnale. Lo faceva soltanto quand’era indecisa,
spaventata, o innamorata. Mentre l’ultima ipotesi avrebbe comportato il
rinnovarsi di un vecchio dolore, di cui tuttavia non poteva ancora decretare
la guarigione, si poteva addurre il motivo della sua ansia soprattutto ai due
fattori precedenti. In primo luogo era indecisa sulle strategie da adottare
per poter ritrovare il Codex scomparso; e secondo,
era spaventata a morte dalle conseguenze che avrebbero potuto derivare dal
casuale e malaugurato incontro del Codex con quelle
maledette pergamene sparpagliate in tutta Europa. Ciò la toccava da vicino,
da così vicino che non poteva rimanere inerte ad aspettare che qualcun altro
risolvesse quei problemi per lei. Doveva muoversi, e subito. Lorenzo, per la
prima volta nella vita, si lasciò guidare dall’impulso del momento. In
seguito alla telefonata di Marco, aveva preparato due valigie e le aveva
caricate in macchina, dopo aver chiuso la casa in vista di un lungo periodo
di assenza. Era partito quella mattina stessa. Quando
raggiunse Roma, dopo aver pigiato con decisione sul pedale dell’acceleratore,
le indicazioni di Marco erano state semplici e chiare: imboccare la via Nomentana e percorrerla per un lungo tratto, fino a
raggiungere la via Maiella. Lui abitava proprio di fronte ai giardini
pubblici. Se arrivava al ponte sull’Aniene voleva
dire che era andato troppo avanti. Ma ciò non avvenne. Con lo sfondo
di un cielo incendiato di rosso e arancio, prossimo a spegnersi, Marco lo
aspettava seduto su una panchina rivolta alla strada. Dietro di lui una
piccola vasca con fontana, circondata di pini marittimi e panchine. Gli
occhiali scuri gli impedirono di leggere nei suoi occhi, ma il sorriso e la
fossetta in evidenza gli confermarono che era contento di vederlo tutto
intero. La facciata del
palazzo di fronte, dei primi del ’900, dove Marco lo condusse, era di un bel
senape chiaro, esaltato dagli ultimi bagliori del tramonto. Il portone era
massiccio, un’enorme kentia ornava un angolo
dell’ampio androne, un ascensore a gabbia, strutturato a misura della tromba
delle scale, vi era stato inserito a forza una quarantina d’anni prima.
Salirono al terzo piano, entrando in un vasto appartamento dalle solide
pareti, con un vago odore polveroso. -
Sono felice che tu abbia accettato di venire. -
disse Marco, sfilandosi gli occhiali. - Non ti nascondo che ora sono più
tranquillo. -
Io sarei più tranquillo se riuscissi a mettere
le mani su quel pazzo. -
Il cacciatore di pergamene. Il serial killer del
Codex. -
Il servo del diavolo. -
Hai qualche idea? -
Nessuna. -
Eppure ci dev’essere
un modo. I tuoi confratelli cosa dicono? Lorenzo
sospirò. -
Sembrano rassegnati al martirio. -
Seguiranno almeno il mio consiglio di spostarsi? -
Gabriel Nowak è
l’unico che si sia dichiarato subito d’accordo. Era molto amico di Krejcar. La sua morte l’ha colpito profondamente. Mi
terrà al corrente dei suoi spostamenti. -
E gli altri? -
Non so. Temo che sentiremo presto parlare di
loro. Marco era
seduto accanto a lui, sul piccolo divano. Si voltò a guardare Lorenzo. -
Dimmi la verità. Il Codex
sarà attivo solo con l’inserimento di tutte le pagine mancanti, o basteranno quelle
di cui è rientrato in possesso? -
È già attivo. Mi terrorizza non conoscere i
limiti del suo potere. Le nostre ricerche puntavano anche a questo. Da più di
un’ora, il Monaco Nero era nascosto nel buio di un ripostiglio. Ogni tanto
ripensava alla punizione che avrebbe subito se non avesse portato a termine
il suo compito. L’aveva sfiorato l’idea che avrebbe potuto uccidersi, per
porre fine al suo tormento. La bibbia del diavolo avrebbe trovato qualcun
altro da seviziare. Là dove a fatica l’aveva trasportata, nessuno l’avrebbe
mai ritrovata. Il rumore di
chiavi che giravano nella toppa, lo colse impreparato. Dalla fessura della
porta appena accostata, vide passare Artur Baginsky. Toccava a lui. Uscì dal ripostiglio,
sorprendendolo alle spalle. Mentre gli bloccava il collo con l’incavo del
braccio, gli afferrò un polso, portandoglielo dietro la schiena. Artur tentò di urlare, ma la pressione sulla gola gli
impedì di esalare più di un flebile lamento, confuso alla melopea stridente
che proveniva dalle sue spalle, una serie di suoni che lo fecero
rabbrividire, fino a paralizzarlo. Il Monaco Nero gli inferse un duro colpo
dietro le ginocchia, lasciandolo crollare a terra. Il cappio era già pronto
nel patio, appeso alle inferriate di una finestra del primo piano. Trascinò Baginsky fino al luogo dell’esecuzione, dove, nella sua
nuova lingua, gli impose di alzarsi. Il custode si sollevò in piedi, come un
burattino tirato da robusti fili. Salì sulla panca posizionata allo scopo. Il
Monaco Nero non ebbe bisogno di salire accanto a lui, per infilargli la testa
nel cappio. Poi lo strinse con forza e osservò compiaciuto il lavoro ben
eseguito. Quindi, con un colpo netto, sfilò la panca di sotto i piedi della
sua vittima e restò a contemplarne la fine. Nonostante tutto, quella vista lo
eccitò. Trovò la
pergamena, guidato dal suo nuovo potere. Era nascosta nel dorso di un quadro
appeso alla parete dello studio, tra due fogli di cartoncino robusto. La sua
eccitazione salì di tono. Il suo membro rigonfio strofinava liberamente sulla
ruvida tela del saio nero. Appoggiando il quadro sulla scrivania, si sfregò
con energia sul bordo, mugolando. L’impegno di seguire caparbiamente la
Regola, era l’unica cosa che gli era rimasta, da quando il Codex aveva preso possesso della sua volontà. Solo una
volta nella vita aveva provato i piaceri della carne. Quel giovane angelo
biondo che era andato a cercarlo, era stata una tentazione troppo forte. Il
suo rifiuto l’aveva eccitato tanto che non era riuscito a fermarsi. L’aveva
preso con la violenza, godendo del suoi tentativi di sottrarsi, dei suoi
lamenti, delle sue preghiere, e persino della sua resa, quando ormai sfinito,
si era rassegnato a quella che aveva definito, urlando, una tortura. Solo
quando aveva visto il sangue scorrergli tra le terga, se n’era pentito,
giurando a se stesso di non ricaderci, ma aveva congedato il ragazzo con una
risata e con la raccomandazione di non farsi rivedere, se non voleva
riprovare l’esperienza. Era sua la colpa di quello che era successo, solo
sua. Se non si fosse presentato da lui, non sarebbe mai accaduto. Si era
ricordato di tutto questo quando il diavolo aveva fatto la stessa cosa con
lui. E solo allora aveva davvero pagato. Gli serviva un
tubo per trasportare la pergamena. Dovette cercare una cartoleria nei
dintorni. Quando ritornò in casa di Baginsky, si
sentiva stordito. La smania di dare sfogo a un’eccitazione che non voleva in
alcun modo calare, lo costrinse a riflettere sui suoi voti. A che gli
servivano ormai? Crollò su una poltrona. Tutto era perduto. Aveva preteso di
appropriarsi di uno strumento pericoloso come il Codex,
per smania di potere e invece era stato quel potere ad impossessarsi di lui.
Ora non aveva scampo. Uccidere o essere ucciso. Completare il libro
significava mettere nelle mani del demonio una bomba che avrebbe potuto far
esplodere il mondo. Nulla sarebbe più stato come prima. I potenti della terra
avrebbero dovuto abdicare. L’umanità avrebbe dovuto inginocchiarsi davanti al
nuovo padrone. Questo gliel’aveva detto chiaramente. Aveva aspettato per
secoli che i tempi fossero maturi. E ora il momento era giunto. Esasperato, con
mossa improvvisa, sollevò il saio, si afferrò il membro ormai dolorante, e
diede libero sfogo a una smania che mai l’aveva travolto con tanta
inesorabile intensità. Ancora una volta, ripensò al suo angelo biondo. L’investigatore
privato Gunnar Olofsson
si presentò a Marco Lama senza farsi preannunciare in alcun modo. Il
commissario lo fece accomodare, chiedendogli come potesse essergli utile. -
Abbiamo saputo che state svolgendo indagini
connesse al Codex Gigas,
che come saprà, è stato sottratto alla Biblioteca Reale di Stoccolma. La
dottoressa Britta Ek mi
ha assunto per collaborare alle vostre indagini. -
Chi ha mai parlato del Codex
Gigas? -
Durante le mie ricerche ho scoperto una
connessione tra alcuni recenti omicidi e il possesso fraudolento del codice.
Non mi dica che lei non ne sa niente! -
Io so, ma non capisco come faccia lei a sapere. -
Gabriel Nowak, uno dei
custodi delle pagine mancanti, si è intrattenuto in un’interessante
conversazione con la dottoressa Ek. Per il momento
è ospite a Stoccolma. Ma non credo che ci resterà a lungo. -
Anche perché siamo già in troppi a possedere
questa informazione. Gli avevo consigliato di nascondersi. Forse non ha
compreso la gravità della situazione. Ho appena saputo dalla polizia di
Salamanca che è stato ritrovato il cadavere di Artur
Baginsky. Pare che si sia impiccato, ma noi
sappiamo cosa è accaduto davvero. -
Allora ne restano quattro. -
Io ne conto tre. Vladislav
Jesensky è scomparso da tempo. Temo che si tratti
della prima vittima. -
Tre? Informerò la dottoressa Ek.
Questa notizia la preoccuperà moltissimo. Si è convinta che questo strano
libro possieda davvero poteri nefasti. Io trovo che si tratti di una semplice
superstizione, o di un caso di autosuggestione di massa. -
Che comunque sta mietendo vittime vere. -
Purtroppo. -
Non so in che modo possa esserci utile, signor Olofsson. A meno che non abbia qualche idea su dove
cercare il killer. -
Speravamo l’avesse lei. È l’unico che stia
indagando seriamente su questi delitti. -
Sto indagando, ma sono in alto mare. -
Possibile che non sia mai emerso nulla, in
nessuno dei casi? -
Ho letto le relazioni dei miei colleghi. Non c’è
niente. Né impronte, né tracce. Tutti navigano nel buio. -
Ma non è possibile! Le indagini sono state
svolte in maniera superficiale. -
Vuole andare a dirglielo lei? Gunnar Olofsson si alzò. -
Non è una cattiva idea. Inizierò da Salamanca. -
Come vuole. Se trova qualcosa, mi chiami subito. -
Ci può contare. Marco raggiunse in fretta il suo
appartamento. Non vedeva l’ora di rivedere Lorenzo. Lo trovò intento ad
osservare la sua pergamena. -
È cambiato qualcosa? - gli chiese. -
Ah, sei tu, Marco. Non ti ho sentito entrare. -
Eri molto concentrato. -
Sì, c’è qualcosa di strano. Sento come una
vibrazione. No, non è esatto. È una specie di spinta. Come se volesse
muoversi. -
È ansiosa di riunirsi al Codex
come le altre pagine? Mi spiace dovertelo dire: Artur
Baginsky è morto. Lorenzo sollevò
la testa di scatto, per guardarlo negli occhi. Il suo volto mostrava un
intenso dolore, commisto a un evidente allarme. -
Marco... -
Ce la faremo, Lorenzo. Vedrai che ce la faremo. -
Vorrei crederti. Proprio ora, avrei un gran
bisogno di crederti. -
Da domani starai sempre con me. Ti voglio incollato
al mio fianco. Io sono armato. Non permetterò a nessuno nemmeno di sfiorarti. -
Non ti facevo tanto geloso... -
Fai bene a scherzare. Bisogna reagire. -
Dobbiamo fare qualcosa. -
Mi piacerebbe. -
Com’è morto Artur? -
Impiccato. In casa sua. -
L’assassino ha lasciato qualche traccia? -
Sembrerebbe di no. Ma è andato ad accertarsene
un investigatore privato che oggi è venuto a cercarmi. L’ha mandato Britta Ek. -
Britta? Come ha fatto
a... -
Gabriel Nowak ha
parlato con lei. -
Gabriel si è giocato il cervello? Dite così da
queste parti, vero? -
Diciamo anche che è fuori come un balcone. -
Se continua così, sarà il prossimo. Il tempio di Klosterneuburg era gremito per la messa domenicale. Il
coro dei salmi, accompagnato dal suono delle chitarre, si spense lentamente,
in un’eco che rimbalzò per qualche istante, riflessa dal vasto ambiente. I
fedeli si alzarono in piedi, concentrati nella meditazione di quel momento
solenne. Sull’altare,
Padre Karel Perutka, dopo aver benedetto il calice,
lo sollevò proclamando: -
Il sangue di Cristo. Lo portò quindi
alle labbra, e subito dopo, con gesti precisi, lo ripulì con una candida
pezzuola, riponendolo accuratamente al suo posto. Poi ripiegò il panno,
ponendolo a coprire il calice. Padre Karel Perutka completò il rito della liturgia eucaristica,
aiutato dai due chierichetti scelti per quel giorno. Una volta
finita la messa, si ritirarono tutti e tre in sagrestia. Padre Karel era
piuttosto pallido. Notandolo, uno dei ragazzi osò chiedergli se andava tutto
bene. L’uomo lo fissò con sguardo vacuo, poi si aggrappò a lui per
sostenersi, mentre le gambe gli si piegavano. Un istante dopo era a terra. I
chierichetti si precipitarono su di lui, per soccorrerlo, ma nessuno poté
aiutarlo. Nel calice,
oltre al vino, c’era la solita dose di cianuro. La profezia di
Lorenzo si era rivelata del tutto errata. Gabriel Nowak arrivò all’aeroporto di Fiumicino alle 15:15 del
mercoledì successivo. Marco e Lorenzo lo aspettarono agli Arrivi
Internazionali con stati d’animo contrastanti. Marco era ansioso di parlare
con lui, curioso di conoscere il punto di vista di un altro custode. Lorenzo
era preoccupatissimo che due pergamene si ritrovassero vicine dopo secoli di
lontananza. Inoltre, temeva per la vita di Gabriel. Se qualcuno stava già
seguendo lui, avrebbe preso due piccioni con una fava. Gabriel Nowak non doveva avere nemmeno trent’anni. Era alto e
magro, con gambe lunghe e una camminata dinoccolata, appesantita dal
voluminoso zaino che portava in spalle. Anfibi, blue-jeans stracciati, giacca
di pelle nera, capigliatura rastafari, si presentò
a Marco, dopo aver salutato Lorenzo con un abbraccio affettuoso. Marco non si
era immaginato un aspetto simile per un custode. Eppure aveva sempre odiato
costruirsi delle aspettative, nutrire pregiudizi, farsi influenzare in
qualunque modo. Si domandò se non stesse invecchiando. Solo a cena
riuscì a orientare la conversazione verso l’argomento che gli interessava
maggiormente. -
Hai una vaga idea di chi potrebbe essere il
pazzo che vi sta dando la caccia? Gabriel
sospirò. -
Me lo sto chiedendo da un pezzo. Ero sicuro che
fosse uno di noi. Ma ormai, il cerchio si stringe. -
Effettivamente, siete rimasti solo voi due. -
Come sarebbe? Ci sono anche Karel e Vladislav. -
Mi dispiace, Gabriel, ma Karel Perutska non c’è più. E Vladislav
è disperso da molto tempo. Credo sia stato il primo a soccombere. -
Che cosa è successo a Karel? -
Il vino che ha bevuto durante la messa di
domenica scorsa era avvelenato. -
Ancora il vino! Per lo meno, per gli astemi ha
dovuto escogitare delle nuove strategie e mostrare un po’ di fantasia. Ma su Vladislav non sono d’accordo. Se fosse morto, sarebbe
saltato fuori il cadavere. Per me quello ha capito qualcosa ed è corso a
nascondersi. Del resto è stato l’unico che si sia trovato vicino al Codex. Qualcosa dev’essere
successo. -
Pensi che la sua pergamena abbia reagito? -
Mi pare chiaro. Altrimenti perché i fondatori si
sarebbero tanto raccomandati di tenere le pagine lontane dal manoscritto?
Devono aver avuto un motivo più che valido. -
E adesso che farai? -
Vado in Africa. Marco guardò
Lorenzo. -
La pergamena può andare così lontano? -
Perché no? Cosa potrebbe impedirlo? - rispose
Lorenzo. Poi si rivolse a Gabriel. -
La tua ha dato segni di volerti spingere in
qualche direzione? -
Sì. Negli ultimi giorni sento una vibrazione,
come una spinta verso est. -
Anche la mia. -
E perciò io vado in un’altra direzione. -
Questo potrebbe essere un sistema per trovarlo,
seguire le indicazioni delle pergamene. - suggerì Marco. -
Potrebbe essere molto pericoloso. - commentò
Gabriel. -
Eppure è l’unica alternativa che abbiamo. Se ci
riuscissimo, potreste affidare le pergamene a nuovi custodi e restituire il Codex a Britta Ek. -
Ci tiene moltissimo, la Ek.
Si comporta come se le avessero rubato i gioielli di famiglia. Sapete, anche
lei ha le caratteristiche di un custode. - disse Gabriel, mostrando i
polpastrelli del tutto lisci. -
Adermatoglifia congenita? -
domandò Marco, ricordandosi, come per miracolo, il termine utilizzato da
Romana Festa, il medico legale. - Mi piacerebbe parlare con lei. -
Io ci sono andato. Ero curioso di sapere se la
presenza del Codex alla Biblioteca, le avesse mai
dato problemi. Mi ha raccontato che di solito lo tengono in una cassa di
metallo. Schermato. Lo mettono in mostra soltanto quando viene richiesto. E
di solito in quelle occasioni avviene qualche fenomeno strano, problemi con i
cellulari, interferenze elettriche e magnetiche, oggetti che vengono trovati
fuori posto. Poi mi ha mostrato le foto di alcune pagine del codice. Quella in
cui è disegnato il diavolo è impressionante. Da allora lo sogno tutte le
notti. - -
Spero che sia una malattia curabile. - commentò
Marco, con un pizzico d’ironia. Lorenzo lo
guardò con espressione di rimprovero. Gabriel mise il broncio, come un
ragazzino. -
Sono stufo e stanco dell’intera faccenda. Mi
porto dietro quella pagina maledetta come un feticcio. Me l’hanno appiccicata
addosso senza chiedermi il consenso e adesso, per colpa sua, rischio pure di
tirare le cuoia. Non voglio morire. Non ancora, almeno, e per una causa che
neppure mi appartiene. -
Chiedi a uno dei custodi disponibili di
sostituirti. È già successo altre volte, Gabriel. È una possibilità
contemplata dalla nostra Regola. -
Hai proprio ragione. La lascerò a qualcun altro,
e poi me la filerò in Africa. In seguito
Gabriel mostrò loro alcune delle foto che gli aveva regalato la Ek. Tra le altre, Marco poté finalmente osservare la
famosa pagina del diavolo. Non era niente di così orribile o spaventoso come
se l’era aspettato. Anzi, l’immagine del diavolo in mutande, ingenua e
disarmante, gli suscitava solo ironiche battute che tuttavia si astenne dal
condividere con i due custodi, i quali, comprensibilmente, la prendevano
molto sul serio. Infine ce n’era
una con poche frasi, molto semplice, che lo incuriosì. -
E questa? -
È l’ultima, a chiusura del Codex. -
E che dice? -
Traduci tu, Lorenzo, che sei più in gamba di me. -
Dunque, dice: “Solo quando verrà il tempo, sarò
nell’oscurità e nelle fiamme, in profondità e in superficie. Solo vedendomi
con occhi diversi l’uomo avrà potere su di me, eppure il mondo parimenti sarà
mio.” -
Inquietante. - commentò Gabriel. Quando Marco e
Lorenzo si svegliarono, il mattino successivo, Gabriel Nowak
era scomparso. In cucina, in mezzo al tavolo, trovarono un tubo di pelle
nera, in piedi come un obelisco. Sotto c’era un biglietto con su scritto
GRAZIE. -
Che stronzo! - esclamò Marco. -
Questa non ci voleva. Chiamerò subito un
sostituto. - disse Lorenzo, precipitandosi fuori dalla cucina. -
No, aspetta. -
Cosa devo aspettare? -
Se le due pagine si potenziano a vicenda,
possono farci da bussola per ritrovare il codice. -
Ma non possono stare vicine! -
Mi hai raccontato che i fondatori inizialmente
erano in due e che se ne sono andati in giro portandosele dietro tutt’e otto.
Se l’hanno fatto loro, possiamo farlo anche noi. -
Ma io... -
Ce la puoi fare, Lorenzo. Dobbiamo trovare quel
pazzo. Una volta che avremo capito dove si nasconde, tu ti allontanerai alla
svelta con le pergamene e mi lascerai fare il mio mestiere. Lorenzo lo
fissò, spaventato. Poi si passò una mano tra i capelli, infine si gettò a
sedere su una sedia, come se le gambe non lo reggessero più. -
Non posso. È più forte di me. Sarebbe come
violare un tabù. Mi hanno inculcato l’idea che la cosa più importante fosse
di tenere quelle pagine lontane dal codice. Non posso. Dobbiamo trovare un
altro modo. -
Non c’è un altro modo, Lorenzo. -
Ho bisogno di tempo. -
Non ce n’è più. Queste sono le ultime due.
Troverà il modo di procurarsele. Io credo che come le pagine sono attirate
dal codice, il codice sappia individuare la posizione delle pagine. Dev’essere così. È per questo che sono morti gli altri
custodi. -
Allora morirò. -
Non dire cazzate, per favore. Questo è il
momento di reagire. -
Non ce la faccio. -
D’accordo, ne riparleremo. Adesso andiamo a
metterle al sicuro in una cassetta di sicurezza. -
Saranno più al sicuro se me le porto dietro. -
Davvero? -
Penso di sì. Quel giorno,
Marco restò continuamente sulle spine, immaginando la presenza del killer in
ogni faccia che incontrava. Si teneva vicino Lorenzo, senza lasciare che si
allontanasse da lui nemmeno di un passo. Giunse al pomeriggio con un
impressionante mal di testa da tensione e la convinzione di essere diventato
paranoico. Poi telefonò Gunnar Olofsson. -
Ci sono delle tracce. -
Che tracce? -
Tracce di sperma sulla poltrona dello studio di Baginsky. E non sono sue. -
E di chi sono? -
Questo ancora non si sa. -
Allora non ci servono a niente. -
Per ora no, ma è pur sempre qualcosa. -
Qualcosa che non ci porta da nessuna parte. Olofsson cambiò
argomento. -
Ha notizie di Gabriel Nowak? -
È al sicuro. -
Bene. Ha saputo di Perutka? -
Purtroppo sì. -
Sa che fine ha fatto Becker? -
È al sicuro anche lui. -
Allora, tutto sotto controllo, eh? -
Sì, tutto sotto controllo. -
Se riesco a sapere qualcosa di utile, la
richiamo. -
Grazie. Olofsson non lo
convinceva affatto. -
Chi cavolo è questo Gunnar
Olofsson? Sarà meglio chiamare la Ek per accertarci che l’abbia davvero ingaggiato lei. -
Sì, è stata lei. - confermò Lorenzo. -
Come lo sai? -
Me l’ha detto la Ek. -
E quando l’hai sentita? -
Lunedì. L’ho chiamata per comunicarle la morte
di Perutka. -
Non mi avevi detto che la sentivi. Anche gli
altri custodi erano in contatto con lei? -
No, soltanto io. -
Ah. Marco si
domandò quanto altro gli nascondesse Lorenzo. Non aveva fiducia in lui?
Questo pensiero lo rattristò, amplificando la sua tensione già
insopportabile. Non gli sembrava di meritarsi quel distacco, come se fosse un
qualunque estraneo. O invece lo era? Quella sfiducia gli doleva e lo deludeva
in egual misura. Ma il suo dovere, nonostante tutto, era quello di
proteggerlo. E a dispetto dei propri sentimenti, l’avrebbe fatto fino in
fondo. Certo non l’aveva ospitato per pura carità cristiana. Averlo vicino lo
faceva stare bene, anche se quello che provava per lui non aveva nulla a che
vedere con il suo impegno investigativo. Purtroppo aveva invece a che fare
con le scarse speranze che ormai osava nutrire sempre meno. Gli era
definitivamente chiaro che Lorenzo non s’interessava minimamente a lui. Britta Ek tornò nel suo appartamento di Wivalliusgatan,
nel tardo pomeriggio, come faceva ogni giorno. Si era fermata a fare un po’
di provviste lungo il percorso, acquistando, come gli aveva chiesto suo figlio,
la pizza ai formaggi. Se fosse stato per lui, avrebbe vissuto di quella. In
casa trovò le luci accese e chiamò Nicholas, mentre entrava in cucina per
riporre la spesa. Come al solito suo figlio non rispose. Viveva con le
orecchie tappate dagli auricolari dell’ipod e con
la porta chiusa. Da un anno a quella parte vi aveva appeso un cartello che
diceva “keep out”. Britta
lasciò le borse sul tavolo di cucina, lanciò uno sguardo verso gli alberi e
il mare su cui si affacciava la finestra e decise di andare a bussare alla
porta di Nicholas, per annunciargli ch’era in casa e che si era ricordata
della pizza. Stranamente la porta era spalancata, le luci erano accese, ma il
ragazzo non era lì. -
Nicholas! Dove sei? Ma il figlio
non rispose. Marco Lama
aveva faticato ad addormentarsi. Quella situazione stagnante non gli era
congeniale. Era, o si riteneva, un uomo d’azione, che preferiva l’attacco
alla difesa. L’incertezza di Lorenzo gli stava pesando come un macigno. E
dire che si era vantato con lui di essere in grado di affrontare con fermezza
qualunque difficoltà. Forse quelle che non avevano a che fare con il Codex Gigas. Ma Marco non
gliel’aveva rinfacciato, limitandosi pazientemente ad aspettare. Peccato che
lui fosse piuttosto un impulsivo e che i caratteri riflessivi l’avessero
sempre disturbato, fino a che non aveva conosciuto Lorenzo. Per lui avrebbe
accettato qualunque cosa. E quello era di sicuro un bel guaio. Tuttavia,
quella notte, inaspettatamente, gli eventi subirono una svolta decisiva.
Marco si svegliò per il grido di Lorenzo, che gli giunse nitidissimo dalla
stanza accanto. -
Rapito? Chi avevano
rapito? Con chi stava parlando? -
Lo rincorrerò fino in capo al mondo, non
preoccuparti. Dove pensava di
andare, senza di lui? -
So come fare. Come fare che
cosa? Lorenzo salutò
qualcuno, raccomandandosi di non fare sciocchezze. Marco schizzò
fuori dalla sua stanza, scontrandosi con Lorenzo che usciva proprio in quel
momento dalla camera degli ospiti. -
Chi hanno rapito? - gli chiese Marco. -
Nicholas, mio figlio. Britta
è disperata. -
Britta Ek, vuoi dire? È la madre di tuo figlio? -
Esatto. Marco tentò di
nascondere sia lo stupore, che la delusione. Ma per quale cazzo di motivo non
gliel’aveva detto prima? -
Pensi che sia stato il killer? -
E chi altri? Sicuramente è venuto a cercare
anche me, e quando non mi ha trovato, ha pensato che fosse più facile che
fossi io a cercare lui, fornendomene un valido motivo. -
Allora si apre la caccia al killer? Ti sei
deciso? -
Sì. Mi sono deciso. Me la pagherà. Pagherà per
tutti. -
Io vengo con te, lo sai, vero? -
Non ne ho mai dubitato. -
Bene. Dovremmo fare alcuni preparativi, ma lo
faremo domani. Io torno a dormire ancora per un paio d’ore, ti dispiace? Lorenzo guardò
l’orologio, che segnava le 3:10. -
Hai ragione, dormi. Ma io non riuscirei più a
chiudere occhio. Ne approfitto per meditare sul da farsi. Il commissario
Marco Lama non era autorizzato a condurre indagini fuori dal territorio
nazionale, quindi adottò una sua personale strategia. Chiese un periodo di ferie,
consegnò per sicurezza la pistola d’ordinanza e si mise in macchina con
Lorenzo, senza aspettare la regolare apertura della stagione venatoria. -
Prima di partire, devo passare da un mio amico.
- lo avvertì Marco. -
È proprio necessario? -
Non vado mai disarmato a caccia di un killer. -
Certo, capisco. Ma perché non ti sei tenuto la
tua pistola? -
Meglio averne un’altra, non si sa mai. Potrei
essere costretto ad usarla. Marco notò che
la tensione gli aveva già indurito i lineamenti. -
Rilassati, Lorenzo. Preoccuparsi già da adesso,
non servirà a niente. -
Nicholas è nelle sue mani. Non lo capisci che
non ce la faccio a stare rilassato? - Sì, lo
capisco. La pergamena
abbandonata da Nowak viaggiò nel bagagliaio, mentre
l’altra restò nelle mani di Lorenzo, che la stringeva come un neonato. La
loro vicinanza era sufficiente per amplificarne i segnali. Entro un paio
di giorni, compresero in quale direzione venivano attirati. Man mano che il
tempo passava, il richiamo si faceva sempre più intenso. -
Possibile che l’abbiano riportato a Praga? - si
domandò Lorenzo. -
Perché no? Può essere stato qualcuno che l’ha
visto in mostra al Castello. -
Devi andare verso destra. -
Allora ci allontaniamo da Praga. -
Non lo so, ma mi sembra sempre più vicino. Dopo qualche
chilometro Marco gli chiese: -
Siamo sempre sulla buona strada? -
Sì, è certamente quella giusta. Passando per un
piccolo paese, Marco si fermò a una pompa di benzina. Dopo aver fatto il
pieno, se ne fece riempire anche una tanca di riserva. -
Non stiamo andando nel deserto del Sahara. -
commentò Lorenzo. Marco non
replicò. Avviò il motore e si rimise sulla strada. A un bivio poco oltre,
Lorenzo gli indicò di andare a sinistra. Man mano che avanzavano, le strade si
facevano più strette e tortuose. -
Dobbiamo andare ancora verso sinistra. -
A sinistra dove? Qui non vedo strade. -
Prova a infilarti in quella stradina non
asfaltata. -
A saperlo, noleggiavo una jeep. -
Vediamo dove ci porta. Attraversarono
un tratto di bosco in salita, poi in discesa, quindi di nuovo in salita,
finché non giunsero in una radura coperta da rigogliose erbacce. Di fronte a
loro, nel verde smagliante, una grande costruzione in rovina. Tra le macerie si ergeva giusto qualche
muro ancora miracolosamente in piedi. Marco spense il motore. -
E adesso? -
È qui. - mormorò Lorenzo. -
Sei sicuro? -
Credo proprio di sì. -
Ma qui ci sono solo rovine. -
È qui, ti dico. -
Va bene. Resta in macchina. Io vado a vedere. -
No, vengo con te. -
Lorenzo, eravamo d’accordo. Una volta che
l’avessimo trovato, tu saresti tornato indietro. -
No. Devo venire con te. È necessario. -
Senti, è troppo pericoloso. Non sappiamo cosa ci
aspetta. -
Devo. Marco sospirò.
Afferrò la pistola dal cruscotto e, impugnandola saldamente, scese dall’auto.
Quando Lorenzo prese con sé anche la pergamena di Nowak,
Marco non commentò. Forse era giusto così. Anche se Lorenzo non si fidava di
lui, Marco doveva fidarsi del suo istinto di custode. Aggirarono le
rovine, finché non trovarono un vecchio cartello di legno marcito, caduto a
terra, con un’indicazione sbiadita: Sedlec -
monastero XI sec. -
Non è quello dov’è scoppiata la peste? -
Hai una bella memoria. -
È possibile che sia rimasta traccia della presenza
del codice, come una radiazione? -
domandò Marco. -
No. Lo sento. È qui. -
Qui dove? Sepolto sotto le macerie? -
Sepolto? Sepolto... Potrebbe esserci un locale
sotterraneo, rimasto in piedi. -
Rifacciamo il giro. Se qualcuno ce l’ha portato,
in qualche modo dev’essere entrato. Ma tutto
intorno non c’era nulla. Marco osservò bene il terreno in cerca di orme o di
una traccia qualunque. -
Allargo il giro. A volte i monasteri avevano
uscite segrete, che permettevano di allontanarsene senza essere visti. -
Già, come nei castelli. - approvò Marco. Camminarono a
lungo, mantenendosi in cerchio, ma non l’avrebbero mai trovata, se Marco non
fosse inciampato in una radice. Per salvarsi dalla caduta, tentò di
aggrapparsi ad un arbusto secco, senza accorgersi che non era infisso nella
terra, cosicché il cespuglio volò a distanza, mentre Marco si ritrovò con la
testa infilata nel varco di un cunicolo. Lorenzo lo
guardò, stupito. -
L’ho trovato. - commentò Marco, sdraiato in
terra. -
No, credo che lui abbia trovato te. Il basso cunicolo,
rivestito di consumati mattoni rossi, li costrinse a camminare quasi piegati
in due, per un buon tratto. Appena entrati, Marco aveva acceso una piccola
torcia, consegnandone un’altra a Lorenzo, poi lo aveva preceduto. Man mano
che proseguirono, il soffitto si fece più alto e le pareti più lontane, fino
a che riuscirono a camminare eretti e affiancati. Improvvisamente sbucarono
in una vasta rotonda in cui si aprivano tre corridoi. Lorenzo guardò Marco
interrogativamente. Marco gli impose il silenzio, appoggiando l’indice al
naso. Poteva esserci qualcuno. Se li avesse sentiti, sarebbe sfumato il
vantaggio della sorpresa. Marco decise di
proseguire dritto davanti a loro. Dopo una ventina di metri, nelle pareti si
aprirono quattro porte, due per lato. Di fronte a loro il corridoio finiva in
un muro ricoperto di umidità. Le stanze erano vuote, ma robusti cardini
arrugginiti erano ancora infissi ai lati delle aperture. Tornarono
indietro, imboccando il corridoio di destra. Marco ebbe l’impressione di udire
un flebile lamento, ma non fiatò. Strinse con decisione il calcio della
pistola e continuò a dirigere il fascio di luce davanti a sé. Poco più
avanti, vide un chiarore giallognolo. Spense la torcia, rimettendola in
tasca. Fece cenno a Lorenzo di fermarsi dove si trovava, mentre lui proseguì
con una certa prudenza. La luce proveniva da una porta aperta sulla sinistra
del corridoio. Marco si avvicinò all’apertura e affacciò la testa quel poco
che gli permettesse di guardare all’interno. Il buio era rischiarato dalla
fiamma di numerose candele. In mezzo alla stanza vuota, vide un robusto
tavolo e, aperto su di esso, un enorme volume. Marco comprese di essere
arrivato. Nella camera sotterranea sembrava non esserci nessuno. Con estrema
cautela, fece per entrare, quando un uomo gli si parò davanti. Era molto
alto, corpulento, completamente vestito di nero. Sembrava un monaco. Il
cappuccio calato sulla testa gli impedì di vederne il volto. Con mossa
repentina, lo sconosciuto si gettò su di lui. Nella lotta che ne seguì, la
pistola gli sfuggì di mano. L’uomo era un energumeno dalla forza spaventosa e
dalle mani come badili. Dopo essere stato sbattuto di qua e di là, Marco
riuscì a sottrarsi alla sua stretta, ma non fu in grado di atterrarlo. Anzi,
fu ancora lui a soccombere, poco dopo, per l’impatto devastante di un pugno
ben assestato, che lo scaraventò a terra, costringendolo ad emettere un
poderoso grugnito per il violento urto della caduta. Fermo a metà
corridoio, poco prima, Lorenzo aveva udito qualcosa. Gli era sembrato un
lamento. Il monaco si
gettò su Marco con tutto il suo formidabile peso, tentando di afferrarlo per
la gola, ma Marco lo bloccò, spingendogli indietro il mento, graffiandogli il
volto, tirandogli i pochi capelli a cui riuscì ad aggrapparsi. Tuttavia il
monaco era dotato di una forza erculea, mentre Marco era ormai allo stremo.
Quando infine il colosso riuscì a stringergli le mani intorno al collo, Marco
tentò con le sue forze residue di allargare le poderose dita, disperatamente,
ma senza riuscirci. Sarebbe sicuramente riuscito a strangolarlo, se, con
perfetto tempismo, un paio di colpi di pistola non avessero interrotto la sua
furia. Il monaco si accasciò su di lui, il volto vicinissimo. Marco sollevò
lo sguardo su Lorenzo, in piedi davanti alla porta, con la pistola ancora
puntata e l’espressione di un angelo vendicatore. Marco allentò le grandi
mani che ancora gli serravano debolmente il collo. Il monaco lo guardò negli
occhi e, con un ultimo sforzo, mormorò stupito: - Adesso
capisco. Soltanto vedendomi con occhi diversi l’uomo avrà potere su di me... Poi crollò su
Marco. -
Aiutami a togliermi di dosso questa montagna
umana. - gracchiò. Lorenzo si
chinò su di lui, aiutandolo prima a spostare il cadavere e poi ad alzarsi in
piedi. Quindi gli restituì la pistola. -
Grazie, Lorenzo. Non ce l’avrei fatta, senza di
te. - pronunciò a fatica, massaggiandosi il collo. -
È morto? Marco si chinò
sul monaco, appoggiando due dita sul collo taurino. -
Sì, è andato. Sai chi era? -
Vladislav Jesensky. - pronunciò con un’espressione di odio
implacabile. -
Alla fine l’abbiamo trovato! -
Sono felice di averlo ucciso io. Ha pagato per
la morte degli altri custodi e anche per tutto quello che ha fatto a me. -
Giusto, andiamo a cercare tuo figlio. -
L’ho già trovato. - gli disse. - Entra,
Nicholas. Sulla porta si
affacciò una giovane copia di Lorenzo. Non doveva avere più di tredici anni,
ma era già alto quasi quanto il padre. -
Papà, guarda! E adesso che facciamo? - chiese il
ragazzo, con l’espressione improvvisamente terrorizzata e gli occhi fissi sul
grande libro. -
Ce ne andiamo tutti di corsa. - affermò il
padre, guardando nella stessa direzione. -
No, voi andate fuori. Io devo vedere una cosa. -
disse Marco. -
Non ti avvicinare a quel libro! Andiamocene subito!
- insistette Lorenzo, anche lui spaventato. -
Mentre lottavo contro quell’orso, ci sono finito
sopra e l’ho toccato. Come vedi, non è successo niente. -
Ma non lo vedi? Allontanati! Marco guardò,
ma non vide nulla. -
Di che cosa stai parlando? Non c’è niente, qui.
Solo quel maledetto libro. -
Papà, andiamo via! - urlò Nicholas,
indietreggiando verso la porta. -
Spostati, Marco! - urlò Lorenzo. -
Ma qui non c’è niente. Di cosa avete paura? Lorenzo e
Nicholas, contemporaneamente, gli furono addosso, lo afferrarono e lo
spinsero fuori, trascinandolo via, al buio. -
Aspettate, la torcia... Marco si
divincolò, riuscendo a fare luce. Il panico che
aveva scorto nei loro occhi, gli era apparso del tutto irragionevole. - Si può sapere
che cosa avete visto là dentro? -
Il diavolo! - urlarono in coro, correndo. -
Ma io non ho visto niente! Una volta
tornati all’aperto, prese una decisione, ma non ne volle far parola. Giunti
alla macchina, ordinò a Lorenzo di consegnargli le pergamene. -
Sei impazzito? -
Dammele. È ora di finirla. -
Che cosa hai intenzione di fare? -
Dopo te lo dico. Adesso entra in macchina. Anche
tu, Nicholas. Quando il
ragazzo si fu seduto sul sedile posteriore, Marco pregò Lorenzo di salire
anche lui. -
No. Dimmi prima che intenzioni hai. -
Lorenzo, entra in macchina. Non obbligarmi a
fare qualcosa che non voglio. -
Qualunque cosa sia, vengo con te. -
Adesso basta. - disse Marco, puntandogli la
pistola al petto. - Sali. Lorenzo ubbidì.
Marco li chiuse dentro l’abitacolo. Fece i suoi preparativi e ritornò nel
sotterraneo. La torcia
illuminò il cunicolo davanti a lui. I suoi pensieri scorrevano lineari,
mentre si avvicinava alla meta. Lui non lo vedeva, quel diavolo che
terrorizzava tutti. Forse non ci credeva nemmeno. E per questo avrebbe
tentato di liberare l’umanità da un peso inutile. Tutte quelle vite impegnate
attraverso i secoli in un’impresa assurda... Tutti quei morti per niente...
Chi aveva messo in giro la voce che quelle pergamene non si potessero
distruggere? Chi gli avrebbe impedito di trasformare quel codice in un falò?
Non c’era la Ek a proteggere i suoi gioielli di
famiglia, non c’era Lorenzo a raccontargli le sue favole, e ormai neppure
quel pazzo di Jesensky, che chissà cosa si era
messo in testa di farne. C’erano solo lui e il Codex:
il barbaro dei tempi moderni e l’inutile residuo del passato. Lorenzo non era
riuscito a spaventarlo abbastanza da convincerlo della necessità di
desistere. E se davvero stava andando a grandi passi verso la morte, beh,
prima o poi toccava a tutti. Raggiunta
nuovamente la camera sotterranea, cosparse di benzina il libro maledetto, i
due tubi e, giacché c’era, anche il corpo del monaco. Come poc’anzi, non vide
assolutamente nulla. Arrivò con la tanca fino alla porta, rovesciando un
rivolo di benzina, poi la gettò all’interno. Tirò fuori dalla tasca un
accendino e diede fuoco. Il sotterraneo esplose di colpo e lui fu sbalzato
contro la parete di fronte alla porta, mentre un soffio incandescente lo
avvolgeva. Il colpo lo stordì, eppure non lo privò del suo innato istinto di
autoconservazione. Pur ammaccato e dolorante, fuggì via. Mentre correva,
zoppicando, il corridoio cominciò a crollare dietro di lui. Nel cunicolo, avanzò spedito nonostante la
posizione piegata, mentre alle sue spalle continuavano i crolli. Quando era
quasi all’uscita, si convinse di avercela fatta. Giunto a un metro dalla
luce, il crollo lo travolse. - Cazzo! -
urlò, prima che una confortante oscurità lo avvolgesse. Si risvegliò mentre
qualcuno gli soffiava in bocca, ritmicamente, con metodo ed insistenza. Una
sensazione per nulla piacevole, quella dell’aria che spingeva per smuovere i
polmoni. Altra cosa era la sensazione di quelle labbra sulle sue, con il
piacevole solletico che gli procuravano i baffi e il pizzetto. Introdusse la
lingua tra quelle labbra e il soffio s’interruppe, trasformandosi in un bacio
disperato, che purtroppo si concluse troppo presto. -
Marco, mi hai spaventato a morte. -
Tutto bene. -
Stiamo scavando da un’ora, razza di... -
Ah-ah! Non dirlo,
c’è un minore. -
Stai bene? - gli chiese Lorenzo, che non
riusciva a staccare lo sguardo dal suo. -
Mai stato meglio. -
E il Codex? -
Bruciato, distrutto, in cenere. Finalmente ve ne
siete liberati. -
Ma come hai fatto? Tutti quelli che ci hanno
provato, sono morti ancor prima di tentare. -
Benzina, accendino e la frase che ha detto Jesensky, prima di morire: “Soltanto vedendomi con occhi
diversi l’uomo avrà potere su di me”. -
L’uomo che vede con occhi diversi, ma certo. Uno
verde e uno castano... -
Adesso non cominciare a trovarmi dei difetti,
sennò sarò costretto ad elencare i tuoi, e proprio davanti alle innocenti
orecchie di tuo figlio. Nonostante la
sua spavalderia, Marco era piuttosto malconcio e sofferente, pur senza ferite
serie, tranne un’ustione alla mano sinistra e qualche escoriazione qua e là.
Lasciò che a guidare sulla via del ritorno fosse Lorenzo. Accanto a lui si
sedette Nicholas. Padre e figlio, che per quanto ne sapeva, si erano
frequentati e sentiti molto poco, ogni tanto si guardavano, sorridendosi
quasi timidamente. Per Nicholas,
in quel momento, Lorenzo doveva apparire come una sorta di eroe. E lui? Che
figura aveva fatto? Quella del cavaliere che uccide il drago per liberare la
principessa? Ma in quella storia non c’era nessuna principessa, c’era solo
Lorenzo. Averlo liberato dall’incubo del Codex e
delle pergamene, sarebbe stato sufficiente a farsi amare, almeno un poco? Più
probabilmente gli avrebbe procurato appena una moderata dose di gratitudine,
che con il tempo si sarebbe indebolita, sfumando, sbiadendo, fino a farsi
inconsistente con il trascorrere dei giorni. In fondo Lorenzo gli aveva
salvato la vita, due volte. Non si poteva dire che fossero pari. Lui era
sempre in svantaggio. Lorenzo si sarebbe presto imbarcato chissà da quale
porto per solcare i vasti oceani e non l’avrebbe rivisto mai più. Così al
prode cavaliere non sarebbe rimasta che la cicatrice di una scottatura, sulla
mano e sul cuore. Britta Ek si riappropriò del figlio, non appena rimisero piede a
Roma. Li aveva martellati di telefonate per tutto il viaggio di ritorno,
tanto che Nicholas, estenuato, aveva sbuffato: - Non potremmo
perderci e non tornare mai più? Con grande
sorpresa di Marco, Britta fu estremamente felice di
apprendere che del Codex non era rimasta traccia e
che il loro futuro non avrebbe dovuto più dipendere da una stupida pergamena
vecchia di ottocento anni. Marco seguiva
la loro conversazione con intorbidito interesse. Si disse che doveva essere
causato dalla stanchezza, o più probabilmente dall’estremo rilassamento che
si prova dopo un’innaturale tensione. L’adrenalina si era esaurita. Distraendosi,
si trovò a meditare sugli irriducibili tabù di Lorenzo, il divieto di
avvicinarsi al Codex e l’avversione per la sodomia.
Di uno lo aveva liberato. Gli sarebbe piaciuto pensare che una volta
neutralizzato il Codex, avrebbe potuto liberarlo
anche dell’altro, ma si era rassegnato a considerarla soltanto una pia
illusione. Il mondo era pieno di uomini che avevano gusti diversi dai suoi.
Che lui si fosse innamorato di uno di questi, era un suo esclusivo problema. Quando Britta e Nicholas si prepararono per ritornare a
Stoccolma, Marco si aspettò che Lorenzo facesse anche lui i bagagli, per
partire con loro, ma non accadde. Tuttavia, Marco non s’illuse. Era convinto
che Lorenzo avrebbe presto espresso la sua intenzione di andarsene, ma passò
tutto il giorno senza che vi accennasse nemmeno vagamente. Prima di andare
a dormire, Lorenzo si offrì di cambiargli la fasciatura. Erano vicinissimi.
Quando finì di medicarlo, lo fissò dritto negli occhi, poi sollevò una mano,
fino a sfiorare la fossetta che gli guarniva il mento. Il suo sguardo era di
quelli che non si possono equivocare. Eppure Marco non riusciva a convincersi
della sua natura. Le inclinazioni di Lorenzo, fino a quel momento, gli erano
apparse non negoziabili. Quello sguardo gli riportò vivo alla mente l’unico
bacio che gli aveva rubato. Marco rabbrividì, attratto da quella bocca,
perfettamente incorniciata dai baffi leggeri e dal pizzetto biondo.
Avvicinandosi con disperante lentezza, pronto a sopportare la fuga di
Lorenzo, vi appoggiò la sua. Una volta impegnato in un rovente gioco di
lingue, Lorenzo gli afferrò la nuca con una calda presa, deciso ad impedirgli
di allontanarsi. Quando infine si staccarono, Lorenzo sospirò,
confessandogli: -
Sono due giorni che non riesco a pensare ad
altro. -
E io dalla prima volta che ti ho visto. Quello
di Sedlec mi è sembrato d’avertelo rubato. -
E io pensavo d’averlo rubato a te. In un certo senso
è stato allora che ho capito, quando ho rischiato di perderti. Ti aspettavamo
davanti al tunnel, così ti abbiamo visto arrivare fin quasi all’imboccatura.
Mi è sembrato d’impazzire, quando ho visto crollare tutto. Mi sono messo a
scavare come un disperato. Mentre mi aiutava, Nicholas continuava a dirmi che
non potevi esserti fatto troppo male. Per fortuna aveva ragione. Non so
cos’avrei fatto se... Marco restò
senza parole. Lorenzo gli accarezzò i capelli, gli spostò il ciuffo bruno
dagli occhi, passò un dito a seguire la linea del naso e il contorno della
bocca, scese in mezzo al mento. Poi lo baciò ancora, mordendogli le labbra,
mentre le sue dita lavoravano a sbottonare, slacciare, abbassare zip, con la
disinvoltura di un prestigiatore. Marco era confuso e stupito. Ancora non si
capacitava. La strada per
la camera da letto fu lastricata dai loro capi di vestiario, in un percorso
lento e travagliato, continuamente interrotto da piacevoli distrazioni.
Marco, incredibilmente eccitato dalla sua intraprendenza, fu il primo a
varcare il traguardo, nella calda bocca di Lorenzo, che per quanto alle prime
armi, sembrava possedere un innato talento. Quando infine raggiunsero il
letto, Lorenzo ve lo spinse sopra gettandosi su di lui come un affamato,
mordendo e leccando ogni centimetro della sua pelle, come a volersi rifare
della sua lunga astinenza. Aspettò che
Marco si riprendesse, stuzzicandolo con la lingua, poi si distese accanto a
lui, supino. -
Entra dentro di me, Marco. È ora che io subisca
le conseguenze dei miei sentimenti. -
Subire? Se la metti così, non ne facciamo
niente. Qui non c’è il diavolo a costringerti, né gli oscuri suggerimenti di
una vecchia pergamena. Lorenzo lo
fissò tanto intensamente da metterlo a disagio. -
Hai ragione, Marco. Una volta un uomo odioso mi
ha costretto con la forza. In quel caso sono stato obbligato a subire senza
potermi difendere, ma ora non è la stessa cosa. Sono io che lo voglio. Per
dimostrarglielo, Lorenzo si spostò, si sedette su di lui, poi si sollevò e lentamente,
con piccoli movimenti, s’impalò sull’asta svettante. Marco fu travolto da
sensazioni che aveva provato raramente. Per un momento chiuse gli occhi,
credendo di svenire dal piacere. -
Apri gli occhi. Voglio che mi guardi, mentre te
lo dico. Ti amo, Marco. Quelle
sconvolgenti parole, unite al movimento ritmico di Lorenzo, lo mandarono in
orbita alla velocità della luce, con un grido strozzato. Subito dopo Lorenzo
lo baciò da togliergli il fiato, cosicché, tra una cosa e l’altra, non ebbe
occasione di avere la bocca abbastanza libera per esprimersi anche lui. Alla
fine decise che l’unica soluzione praticabile era di scriverglielo sul petto,
intingendo un dito nel primo liquido a sua disposizione. Il messaggio risaltò
in trasparenza. Non aveva neppure una bella calligrafia, ma Lorenzo era
abituato a decifrare antichi codici e fu perfettamente in grado di decifrare
anche quello. In fondo erano solo due piccolissime parole. |