Bacio d’ambrosia

 

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Il dio era assiso in trono, Zeus adunatore di nembi.

Il ragazzo inginocchiato ai suoi piedi sollevò le belle ciglia ad ammirare il portento della potenza immortale. La sua maestà divina; l’eterno sorriso sfuggente che aveva contemplato uomini e città, secoli ed ere; il volto bello e severo che sembrava fissarlo colmo di amore, l’amore di un padre, il Padre di tutte le cose. Un giorno anche lui - pensò il giovane – si sarebbe seduto sul trono come un grande re. Guardò la barba regale che incorniciava il volto del dio dalla simmetria perfetta, il petto immenso e possente, le membra belle e forti, ignude sotto l’himation che si drappeggiava su un omero per scendere a cingergli i fianchi, mentre stringeva lo scettro divino nella mano sinistra e la folgore nella destra. Anche il suo corpo efebico e glabro - si disse il giovane – presto sarebbe sbocciato in quello di un uomo, di un uomo grande e forte, di un re.

E poi un fremito di infantile terrore lo percorse alla vista dell’aquila regale, del turbinio di ali, del suo becco feroce dischiuso in un grido, mentre planava accanto alla spalla del grande re in trono.

Levò il braccio, timoroso, a sfiorare le ginocchia del dio. Il nume splendeva e gli sorrideva e il fanciullo non vedeva il prodigio che dalle semplici mani umane, le mani di uno scultore, aveva saputo effondere la grazia divina in quel simulacro antico. Le dita sfiorarono le pieghe sbalzate nella pietra, che ora era la bella veste del dio.

La luce del giorno era dolce e soffusa attraverso la soglia aperta e tra le colonne. L’aria del tempio era satura del profumo delle offerte. Il fanciullo prese la focaccia di miele che aveva con sé e la spezzò, il gesto che ci si aspettava da lui. Ne depose metà ai piedi della statua e l’altra metà la portò alla bocca. Poi tornò ad accucciarsi sulle ginocchia, abbassò la testa e pregò.

“Che io possa crescere sano e vigoroso, diventare un uomo ed essere un grande re, regnare su uomini e terre con saggezza e forza!”

Il dio avrebbe ascoltato le sue preghiere?

Gli sembrava passata un’eternità, a occhi chiusi in quel dolce silenzio. Poi aprì gli occhi e il suo corpo era disteso sul pavimento del tempio. Si era addormentato. E accanto a lui... vi era il dio. La statua aveva preso vita e ora sembrava un uomo, l’uomo più bello che il ragazzo avesse mai visto. Il suo viso virile era incorniciato dalle onde d’oro della barba e della chioma leonina, bionde come il grano, simili a pura luce. Il suo corpo possente sembrava di carne e sangue, eppure ammantato di maestà divina. Gli sorrideva con l’affetto di un padre, la sua mano gli carezzava i riccioli. Ma poi si chinò su di lui, gli baciò la fronte. E poi le labbra, e quello non fu il bacio di un padre. La sua bocca era dolce come l’ambrosia divina, e come il miele della focaccia che la lingua del fanciullo aveva appena assaporato.

Il giovanetto sentì il calore salirgli alle guance. Il dito del dio gli sollevò dolcemente il mento imberbe, poi scese a percorrergli una linea nel mezzo del petto e dell’addome. La sua carezza era dolce musica. Gli strinse delicatamente il sesso sotto la tunica e il fanciullo lo sentì eretto per il desiderio.

<<Stai diventando un uomo, Ganimede!>> gli sussurrò il nume con un sorriso.

Il giovane aprì gli occhi con un sussulto e sentì il proprio corpo fremere. Era ancora in ginocchio ai piedi della statua. Le ombre stavano già calando tra le colonne del tempio e i sacerdoti avevano iniziato ad accendere le fiaccole. Era quasi sera e sapeva che gli schiavi lo attendevano fuori dal tempio. Si alzò e rivide il volto del dio che sorrideva, imperturbabile, rivolto all’orizzonte lontano. Gli dava una strana sensazione quel viso, pareva dirgli che era bello e sussurrargli promesse di gloria e di eternità, senza proferire una parola.

Con un sorriso il giovane si allontanò, altero nella sua tunica di seta dorata, i riccioli d’oro rosso che gli scendevano giù dal capo. Uscì nell’ombra amena del boschetto sacro che circondava il tempio, con un gesto ordinò agli schiavi di seguirlo e si allontanò verso il palazzo della città di Troia cara agli dei.

 

Nella Grande Sala il famoso cantore cantava antiche storie e i nobili Troiani lo incitavano al canto, perché ai suoi racconti gioivano. Narrava di come un tempo le navi di Scamandro, principe di uomini, erano giunte sulle ali dei venti alle coste della Frigia, in Asia Minore. Giungeva da Creta ricca di porti, ai piedi del grande Monte Ida - ove Zeus figlio di Crono era nato – sfuggendo una grande siccità per ordine di un oracolo di Apollo l’Obliquo. Giunto in Asia Scamandro vi fondò la sua casa, ai piedi di un monte che chiamò Ida, in ricordo della montagna cretese. Battendosi coi selvaggi Bebrici, in seguito il valoroso cadde, nel fiume che da allora gli uomini mortali chiamano in suo onore Scamandro.

Gli succedette suo figlio Teucro, dal quale ebbe nome il popolo dei Teucri. A Teucro succedette Dardano. A Dardano seguì Erittonio, che fu il più ricco tra gli uomini mortali. A Erittonio Troo. A Troo Ilo.

A Ilo un oracolo ordinò di seguire una vacca pezzata e, laddove si fosse fermata, di edificare dimora. Tornata nella Valle di Scamandro, su una collina la bestia si stese a terra: qui Ilo costruì una città che chiamò Ilio, dall’alte torri, o anche, dal nome di suo padre, Troia, cara agli dei.

E Ilo pure generò un figlio perfetto, Laomedonte. Da Strimo, figlia del fiume Scamandro, Laomedonte generò la vergine Esione bei riccioli e Lampo e Clizio e Icetaone caro ad Ares, il dio della guerra, e Podarce e, primo fra tutti, Ganimede simile ai numi, che è il più bello tra gli uomini mortali... destinato a divenire un grande re!

Le parole alate dell’aedo volavano via nella Grande Sala del fuoco. <<Il più bello tra gli uomini mortali!>> lo riecheggiò canzonatorio il principe Clizio, strattonando scherzoso il fratello Ganimede per i riccioli belli. Ganimede si sorprese ritrovandosi all’improvviso sospinto a terra, distolto dai suoi pensieri. Ma rapido attaccò di nuovo il fratello scaraventandolo via, lasciando che si azzuffasse con Icetaone e gli altri giovanetti. Non aveva più voglia di giochi da bambini quella sera.

<<Destinato a divenire un grande re...>> Il vecchio cantore sapeva bene come adulare il re e i principi per guadagnarsi il proprio pane. Era questo che aveva cantato l’aedo, si chiese il principe, o era la sua immaginazione? Quelle parole danzavano via tra i bagliori del braciere e le volute di fumo, verso il soffitto a cielo aperto, nel crepuscolo dell’estate.

Era la preghiera che aveva rivolto a Zeus Signore. Ma qual era stata la risposta?

<<Madre, davvero Ganimede è destinato a divenire un re?>> chiese il piccolo Podarce attaccato alla tunica della Regina Strimo.

<<Sì piccolo mio.>> gli sussurrò sua madre <<Suo destino è sedere sul trono di Troia quando vostro padre sarà troppo vecchio!>>. Il bambino sorrise ammirato, guardando il fratello, e poi corse a rifugiarsi tra le braccia della sorella Esione, che sedeva composta al lato della madre.

Lontano, sopra la città, verso l’orizzonte, le ombre della vetta dell’Ida si stagliavano nel tramonto. Con un brivido la mente di Ganimede si perse nel pensiero di un altro grande monte dallo stesso nome e di un altro giovanetto, un tempo come lui, che aveva dimorato sulle sue pendici. Ora quel giovane era cresciuto, era un dio e un re, il re più potente che avessero conosciuto gli dei e gli uomini mortali.

La Sala del fuoco si era riempita del baccano dei giovanetti che si azzuffavano sinché non si zittirono alla vista del Re loro padre che li guardava di sbieco, di sotto le sopracciglia increspate. Non osavano mettere alla prova la sua pazienza.

Poi il Re si volse verso l’aedo, rivolgendogli parole alate: <<Perdonali, mio cantore! Bella è la tua voce, Eufèmone. Sempre dolce è per l’animo dilettarsi nella musica e nel canto ascoltando i racconti degli dei e degli eroi del passato, dopo aver goduto del banchetto e della gioia conviviale. Ma nessuno come te sa deliziarmi nel racconto delle gesta dei miei padri!>>. Così il Re apostrofò il suo cantore e il vecchio sorrise soddisfatto stringendo la bella cetra.

<<Tu mi onori, Re Laomedonte! Ma adesso lascia pure che, dopo aver udito silenziosi le imprese antiche, i tuoi figli rallegrino la Sala del fuoco con le loro giovani voci!>>

Il Re sorrise, compiaciuto della saggezza del vecchio aedo, e ordinò che gli fosse versato vino puro delle sue vigne affinché si rinfrancasse dalla fatica del canto.

Le frasi fatte di un vecchio leccapiedi! Pensò sprezzante Ganimede. <<Aspetta Eufèmone!>> lo apostrofò <<Posso chiederti ancora un canto?>>

<<Ganimede!>> lo trattenne Laomedonte <<L’aedo è già stato generoso con noi questa sera, lascia che si riposi!>>

<<Oh no, mio Re! Ti prego! >> rispose il vecchio << Non vi è nulla che non canterei se può dar gioia al mio Principe e signore!>>

Ganimede gli rivolse un sorriso. Chi avrebbe osato negare una qualunque cosa al principe erede di Troia?

<<Grazie, mio buon Eufèmone! Tante volte io ti ho sentito cantare dei miei padri e dei padri dei miei padri, di come giunsero su navi alate dall’Ida di Creta, la patria di Zeus. Ma dimmi: ricordi tu la storia di Zeus Ideo splendente? Di come giovanetto nacque e crebbe a Creta e di come divenne re di tutti gli dei?>>

Il musico sorrise a quella richiesta. Ricordava quella storia, ascoltata molto tempo prima dai sacerdoti del Tempio. <<Oh certo, mio bel Principe! Non ricordi più quando eri bambino e già accanto alla tua culla io ti narravo spesso la storia di Zeus Cronide Tonante, di come nacque e come poi sedette re sull’Olimpo?>>

<<Forse!>> replicò il Principe. Ricordi lontani dell’infanzia gli sovvennero, della barba del cantore, forse meno lunga e meno grigia di adesso, mentre lui la tirava tra le sue manine. E di un racconto ascoltato forse tante volte eppure confuso in tinte sfumate nel dipinto della memoria. Di una storia sussurrata mentre lo cullavano, nell’attesa che i dolci Sogni, figli del Sonno, venissero a baciare le palpebre di un tenero bimbo. Non i Sogni vani, ingannevoli, che dimorano con le Arpie e le Gorgoni sui vasti rami di un olmo alle porte del regno dei morti, ma i Sogni luminosi e divini che vengono da Zeus.

Così l’aedo iniziò a cantare. Cantò di come la Titanessa Rea, domata da Crono, re del Cosmo, aveva partorito splendida prole: Estia e Demetra ed Era dai sandali d’oro e il forte Ade e Poseidone, l’altitonante Scuotitore della Terra. Ma il grande Crono sapeva che per lui era destino esser sconfitto da uno dei suoi figli. Per questo li inghiottiva tutti. E un dolore crudele possedeva Rea. Ma quando stava per partorire il più giovane dei figli, il grande Zeus, ella si recò a Creta e affidò il piccolo alla Madre Terra, che lo nascose in un antro scosceso, nel monte Ida, coperto di boschi. A Crono, invece, avvoltala in fasce, Rea depose tra le mani una grande pietra. Ed egli la pose giù nel suo ventre....

 

Quella sera Ganimede era frastornato quando si ritirò a dormire nella camera che divideva con i fratelli. Tutte quelle immagini meravigliose, quelle storie nella testa. Non si sarebbe mai stancato di ascoltarle. Si distese tra i morbidi cuscini, ma faticava a prendere sonno. La luna crescente risplendeva nel cielo e filtrava attraverso le tende illuminando la stanza. Sembrava animare di vita propria le figure dei cacciatori e delle fiere affrescati sulle pareti della camera dei principi. Da bambino Ganimede era stato irretito dal loro rincorrersi. Nella penombra sembrava una grandiosa scena di battaglia. La figura di un possente guerriero dalla barba bionda troneggiava mentre lottava contro una fiera. Ganimede immaginava di essere lui, a capo di quella potente torma di guerrieri, non appena avesse avuto l’età per andare in guerra. Sarebbe stato un grande e potente capo di eserciti, come lo era suo padre e come un tempo era stato Zeus contro i Titani e i Giganti.

Chiuse gli occhi, attendendo che il dolce Sonno giungesse in punta di piedi a baciargli le palpebre, delicato come un raggio di luna. Come il soffio della brezza che gonfiava le tende e volava a scompigliare le sue lenzuola e a sfiorare tiepido il suo corpo nudo sotto di esse. Quel vento sembrava davvero una carezza, delicata come il tocco di mani umane, mani grandi dalle dita invisibili che giocavano con i suoi riccioli, solleticavano le sue guance, descrivevano cerchi concentrici sulla sua pelle. Carezze dolcissime e quasi impalpabili tracciavano disegni invisibili lungo la sua schiena e lo attiravano nel dolce abbraccio di un corpo possente e forte. Ganimede si abbandonò a quella stretta, al suo calore, come in un porto sicuro, nella dolce culla dei sogni, lasciando che il morbido massaggio di quella presenza aeriforme desse sollievo alle sue membra. Nella penombra ebbe la sensazione che labbra invisibili gli sfiorassero la fronte. Sentiva la luce della luna baciare le sue palpebre chiuse e danzare tra le ombre del suo corpo attraverso le lenzuola. Avrebbe riconosciuto quella bocca tra mille. Voleva aprire gli occhi, ma una sorta di strano terrore lo invase che quella specie di sogno meraviglioso svanisse. Era certo che se i suoi occhi avessero sfidato la semioscurità, avrebbero visto la luce della luna prendere l’aspetto meraviglioso di un dio. Ma non era Hypnos, il dio del Sonno. Era un dio infinitamente più grande e potente, dal capo e dal mento incorniciati di onde dorate e dal volto colmo di maestà e di infinito amore. <<Non dormi, bel Ganimede?>> sussurrò la calda brezza del sud nel suo orecchio <<Sei ancora sveglio, mio piccolo fiore d’oro?>>

Ganimede sentì le labbra del dio baciare di nuovo le sue. Erano morbide, simili a un frutto di fico appena spezzato e mille volte più dolci, avevano il sapore dell’immortalità. Infinitamente delicate eppure vibranti di un voglioso desiderio che si trasmise a tutto il corpo del ragazzo come un fremito lungo la colonna vertebrale. Ganimede ebbe come la sensazione di fluttuare nel vento, stretto tra le braccia del dio, che lo sorreggevano al sicuro, e poi di affondare nella coltre soffice di una nuvola. Aprì gli occhi e gli sembrò che la luna fosse vicinissima, come una fiaccola d’oro sospesa poco più su del suo capo. Se avesse sporto la mano, avrebbe potuto toccarla o raccogliere una manciata di stelle dal firmamento sopra di lui. E accanto a lui vi era il dio, ancor più bello di come lo ricordava. Negli occhi del nume si persero quelli del fanciullo, in quell’azzurro intenso e fondo, mentre le dita del dio si perdevano nel gioco spiraliforme dei suoi riccioli.

<<Dove sono?>> chiese il giovane.

<<Vedi>> gli sussurrò la voce dolce del dio mentre indicava sotto di loro <<Quella laggiù è la tua patria!>>

Ganimede guardò verso il basso e gli parve che Troia fosse infinitamente lontana sotto di loro, con i suoi mille fuochi che si spegnevano via via lungo le mura dopo il calar del sole, maestosa come una regina eppure così piccola, ai piedi dell’ombra del Monte Ida, ben più imponente, ma piccolo esso stesso, laggiù, in mezzo alla Valle dello Scamandro, che serpeggiava sinuoso sino al mare.

         <<È da quassù che voi dèi guardate il mondo dei mortali?>>

      <<Ti piace, piccolo mio, il mondo visto da quassù?>>

      <<Mi piace guardarlo assieme a te. È un sogno quello in cui mi trovo, o sono morto e questi sono i Campi Elisi?>>

      <<Tu cosa credi?>>

      <<Non lo so, ma se questo è un sogno vorrei sognare per sempre! E se l’Elisio è così, vorrei davvero mille volte essere morto!>>

      <<Non dire queste cose!>> Gli sussurrò affettuosamente il dio <<Posso regalarti ancora cento e mille notti come questa se solo lo vorrai!>>

      Era quello il possente e spietato re del cielo che aveva affrontato e sconfitto i Titani armato della sua folgore? Pareva incredibile a vederlo adesso, semisdraiato su quella nube con il viso sorridente, mentre si sporgeva vicino alle ginocchia del fanciullo seduto, e tendeva un dito a vezzeggiargli scherzosamente il mento.

<<Cos’è che desideri di più, Ganimede?>>

Il ragazzo pensò a quello che aveva sempre saputo essere il suo destino. Perché esitava a rispondergli?

<<Divenire un uomo forte e valoroso come te! Essere re di Troia, combattere guerre eroiche, comandare il potente esercito dei Teucri e sottomettere terre sterminate. Desidero una gloria che possa almeno lontanamente onorare la tua e vivere per sempre, reso immortale, nei canti degli aedi, quando sarò disceso sotto la nera terra. Tu puoi donarmi tutto questo?>>

<<Potrei donarti molto di più!>> rispose il dio baciandogli i capelli d’oro <<Ma i canti degli uomini ti ricorderanno per sempre, di questo puoi stare certo!>>

<<Davvero divenisti re del cielo scacciando tuo padre?>> chiese curioso il giovanetto.

<<Molte cose cantano le Muse agli uomini, talune sono belle menzogne, altre verità, ma io a te voglio raccontare solo la verità!>>

<<Raccontami, allora! Te ne prego!>>

Il dio sorrise, gli tese la mano e lo attirò a sé, facendogli appoggiare la testa contro la propria spalla. Gli baciò ancora la fronte e iniziò a narrare.

Gli narrò come fosse cresciuto sulle pendici dell’Ida di Creta, allevato dalle Ninfe, nutrito con gocce di miele dorato e con il latte della Capra Amaltea. Da bambino si divertiva ad andare a cavallo della capretta e un giorno per errore, in un impeto di forza le aveva staccato un corno. Scoppiato poi a piangere per il guaio commesso aveva chiesto alle ninfe perdono e aveva reso immortale la sua nutrice.

<<Vedi quelle stelle laggiù?>> gli fece indicandogli il confine del cielo verso l’orizzonte, tracciando a distanza con l’indice la sagoma di una costellazione dalla forma di capricorno <<Quella è Amaltea! Ne ho immortalato per sempre l’immagine lassù nel cielo!>>.

      <<Che bello! Ora lei vive per sempre e tutti la ricordano!>> sospirò Ganimede.

      <<Vorresti essere accanto a lei e che ammirassero anche la tua immagine?>> Il fanciullo non rispose, si limitò a sorridere trasognato. <<Sei già vanesio, piccolo mio!>> sorrise Zeus. A Ganimede veniva da sorridere al pensiero che quel dio possente un tempo era stato un bambino, un bambino che giocava a cavalcare una capra. Si accoccolò su quel petto forte, sul solco della valle in mezzo alle alture, sentendosi al sicuro dal mondo intero. Quel torace era una pianura sterminata e immensa, rigonfio di forza possente, eppure morbido e accogliente. La sua pelle liscia come il lino egizio in cui erano intessute le lenzuola dei principi, profumata e dal sapore dolce.

      E poi Zeus gli narrò di come fosse divenuto grande. Quanto rapidamente il suo vigore e le sue membra possenti fossero cresciute. Ancor giovane si era presentato al crudele padre Crono nelle vesti di un bel coppiere. Era salito sulle sue ginocchia porgendogli la ciotola dell’ambrosia, la coppa d’oro del dolce nettare. Incantato dalle sue moine Crono aveva bevuto. Ma nella coppa era mescolato un emetico e il grande Crono, vinto dalle arti del proprio figlio, aveva rigettato la prole inghiottita in precedenza. Per prima vomitò la pietra e poi tutti i fratelli di Zeus.

      E Zeus narrò come assieme ai fratelli avesse mosso guerra ai Titani, i fratelli di Crono, guidati dallo smisurato Atlante. Armato del suo solo coraggio, era disceso nelle dimore sotterranee del Tartaro all’estremità della Terra, e, per volontà di un oracolo, aveva liberato i Ciclopi, dall’unico grande occhio, maestri della fucina, che dal cratere di un vulcano gli avevano forgiato armi formidabili: il tuono e la possente folgore. Così equipaggiato, aveva inseguito i Titani sul dorso del mare e della Terra nera, colpendoli con la possanza del fulmine, e li aveva scaraventati nel Tartaro. E poi, assieme agli altri dei, aveva ucciso anche i tremendi Giganti dalle code di serpenti, e, vittorioso, aveva calpestato i loro cadaveri, ritto sul carro d’oro, colla folgore balenante nella sua destra. Allora il dio e i suoi fratelli avevano tirato a sorte per dividersi il regno del cosmo: a Poseidone era toccato il vasto mare, ad Ade  i regni sotterranei dell’Erebo e del Tartaro, che in seguito accolsero le anime dei defunti...

      <<... e a me...>> concluse Zeus <<... a me toccò la vetta nevosa dell’alto Olimpo e il vasto cielo, l’aere sconfinato in cui splende la luce di Elio, il Sole. Per nulla al mondo lo cambierei con un altro regno, perché di quassù posso scorgere il mondo intero degli uomini. È da quassù che ho scorto te, la tua bellezza, mentre assieme agli altri fanciulli troiani bagnavi il tuo corpo in fiore alla foce dello Scamandro, nelle acque del golfo del mare!>>

      Tante e tante volte Ganimede aveva udito quei racconti, ma mai e poi mai era stato come udirlo dalla bocca di chi lo aveva vissuto davvero. Era estasiato, sognava a occhi aperti, sdraiato con la testa sulle ginocchia del dio, mentre la mano di lui giocava coi suoi riccioli e scendeva ad accarezzargli la fronte, il viso, il petto nudo.

<<E dimmi delle... dee e delle donne mortali che hai amato?>> chiese il ragazzo <<Sono davvero tante come narrano i canti degli uomini?>>

<<Molte e molte di più!>> rispose il dio con un sorriso complice e malizioso e un’ombra di furfantesco orgoglio sul viso.

<<Raccontami di loro...>>

<<Sei un ragazzo curioso e impertinente!>> Zeus interruppe le sue gentili carezze per dargli un pizzicotto.

Ma con un sorriso, e con aria compiaciuta gli narrò di come aveva sedotto sua sorella Era, in un giorno di gelo, mutandosi in un cuculo. La giovane dea, impietosita, lo aveva accolto nel proprio seno per scaldarlo e allora, ripresa forma umana, il dio non aveva esitato ad approfittare di quella felice posizione. In seguito ella era divenuta sua sposa e regina degli dei, ma il dio non si era certo accontentato né si era mai stancato di andare a spargere il proprio seme divino altrove. Narrò di come si era mutato in un bellissimo e possente toro per incantare l’innocente curiosità di Europa, figlia del re di Fenicia, e come poi, una volta avutala a portata di mano, se l’era caricata in groppa e l’aveva rapita. Narrò di come aveva corteggiato e sedotto Io, principessa di Argo e poi, per sottrarla allo sguardo geloso di Era, l’aveva mutata in una giovenca bianca. Di come, per violare la cintura della bella Alcmena si era divertito a prendere l’aspetto di suo marito Anfitrione, mentre quello era lontano in guerra. E di come aveva inseguito per il mare e per la Terra sterminata l’altezzosa Nemesi: quella per sfuggire al suo sguardo aveva assunto l’aspetto di un’oca bianca, al che lui, senza fare una piega, si era mutato in un bel cigno e l’aveva ingroppata...

      Ganimede rise. Era ammirato dall’impudente vigore virile del dio e con l’ardente fuoco dei giovani continuava a sognare ad occhi aperti quei connubi e tutti i loro segreti.

<<E tu, piccolo Ganimede>> lo apostrofò il dio divertito <<sogni già l’amore delle donne?>>

<<Quando avrò l’età per amare, vorrò conoscerne parecchie anch’io!>> sentenziò fiero il fanciullo.

<<E adesso? Il tuo corpo è già ben fatto, ben esercitato dalla caccia e dalla lotta!>> lo adulò il dio, percorrendogli con il dito i contorni dei muscoli del petto e dell’addome <<Hai già l’età giusta per essere amato da un uomo? Di certo tanti uomini virtuosi e valorosi aspirano a corteggiarti!>>

Ganimede si voltò a pancia sotto, la testa nel grembo del dio e lo fissò:

<<Qualcuno, sì! Ma non ne ho ancora scelto nessuno!>>

<<Sei crudele e lasci languire il loro cuore?>> la mano del dio continuava a discendere sulla pelle morbida della schiena, tracciando spirali concentriche lungo la linea della colonna vertebrale.

<<Attendo di trovare un uomo di vero valore.>> il ragazzo guardò il dio in tralice <<Come è giusto che faccia un ragazzo saggio!>>

<<E non hai trovato l’amante degno di te?>> Le mani del dio scesero a sfiorargli le natiche. Ganimede sussultò, ma il tocco del dio era tanto delicato che non poté e non volle opporsi. Si sollevò, appoggiandosi su un gomito e alzò il viso a sfidare lo sguardo del dio, serio e senza vergogna: <<Se devo essere amato da un uomo, voglio che sia come te!>>

Il dio ricambiò lo sguardo in silenzio, e rispose con un sorriso, con il suo sorriso.

<<E tu... >> soggiunse Ganimede << ... da ragazzo, sei mai stato amato da un uomo?>>

Zeus non rispose a una domanda di cui forse nessun mortale avrebbe mai conosciuto la risposta. Si limitò a carezzargli la guancia imberbe nella mano a coppa e, chinatosi, lo baciò ancora. Le belle labbra del dio, rosse come il corniolo, in mezzo alla barba, erano vive e traboccanti di amore. Lo ricoprirono di una pioggia di baci dal sapore dolcissimo, sulla bocca, su tutto il viso e sul suo corpo dalla pelle ancora diafana e liscia. Ganimede si abbandonò al desiderio del dio, su quella sorta di morbido letto di nuvole, così simile a quello in cui dormiva nella reggia. Sentì il proprio corpo gioire, dolci fremiti iniziare a scaldarlo. Chiuse gli occhi aggrappandosi al corpo possente del dio sopra di lui, abbracciato al suo. Si abbandonò a quella oscurità di desiderio, fluttuandovi come nella brezza che lo sfiorava.  Le labbra del dio discesero sulle spalle, sul petto, deliziarono i suoi capezzoli facendo vibrare le corde della sua anima, poi discesero lungo il ventre e giù nell’oscuro segreto delle lenzuola. Quella bocca era come una sorgente da cui zampillava gioia, era essa stessa la gioia e in pochi attimi il fanciullo sentì il suo corpo tendersi come la corda di un arco e poi scoccare. La gioia si riversò prepotente e senza freni in tutto il suo corpo. Voltolandosi, Ganimede si sentì di nuovo immerso nell’oscurità della propria stanza, nella reggia di Troia, e sentì le lenzuola intridersi del suo piacere umido e viscoso. Senza pensarci si voltò, annaspando nel vuoto dell’assenza del dio. Si aggrappò ai morbidi cuscini simulando il ricordo di quell’abbraccio. Il bacio del nume si posò sulle sue palpebre: <<Ora dormi, mio piccolo fiore d’oro>>. E il fanciullo si addormentò, abbandonandosi alla dolcezza dei sogni per ritrovare in essi l’abbraccio del suo dio.

 

      Quando mattutina apparve Aurora dalle dita di rosa nella fertile piana di Troia, i principi e gli altri giovani della corte si misurarono nella lotta, nel campo sotto le alte mura del palazzo. Ganimede, Lampo, Icetaone e Clizio, figli di Laomedonte, e con loro Pantoo, Timete, Ucalegonte, Antenore e molti altri valenti giovani di stirpi illustri. Gettate a terra le tuniche, avanzavano due a due in mezzo all’arena, levando l’uno incontro all’altro le mani pesanti. I corpi nudi sotto il sole, giovani e imberbi ma già vigorosi e allenati. Uno sull’altro s’abbattevano insieme, insieme le mani pesanti intrecciavano. S’udiva terribile scricchiolar di mascelle, scorreva il sudore per tutte le membra. E due a due si abbracciavano con le braccia robuste. Su tutti il glorioso Ganimede nella lotta eccelleva, uno ad uno abbatteva i suoi avversari. Scricchiolavano le schiene duramente stirate dalle intrepide braccia; e l’umido sudore scorreva, e fitti gonfiori lungo i fianchi e le spalle nascevano rossi di sangue; ma incurante il figlio di Laomedonte sempre più ambiva alla vittoria. E da ultimo si misurò con suo fratello, il forte Icetaone. Quello cercava di alzarlo, ma pensò un inganno Ganimede, al polpaccio riuscì a colpirlo da dietro e gli sciolse le gambe; cadde all’indietro Icetaone e anche Ganimede sul petto gli cadde; gli altri intrepidi, in cerchio, guardavano e rimasero stupiti. Caddero entrambi per terra uno sull’altro e si sporcaron di polvere. Ma ecco il glorioso Ganimede si rialzò e colpì l’avversario, sperduto, alla guancia e quello non resistette, gli si afflosciarono le belle membra e traballò sotto il colpo. Il magnanimo Ganimede lo afferrò e lo rimise in piedi; gli amici gli furono intorno e lo guidarono attraverso l’arena.

Ed esultante Ganimede levò le braccia agli dei del cielo gioendo per la vittoria, il sudore lucente sulla fronte e sulle membra tornite.

      <<Bravo fratello!>> esultò il piccolo Podarce fuggito chissà come fuori dalla reggia per assistere ai giochi. Gli corse incontro e Ganimede lo sollevò tra le braccia. <<Insegnerai anche a me a lottare?>>

<<Presto, fratellino! Appena crescerai!>>

<<E quando sarai grande e diverrai re di Troia, darai anche a me una spada e uno scudo perché combatta tra i valorosi?>>

<<Aspetta di crescere e goditi la giovinezza!>> gli rispose lui con un sorriso, baciandogli i riccioli scuri. Era un bel bambino, ma nessuno dei fratelli aveva gli stessi boccoli d’oro rosso e risplendeva di bellezza quanto Ganimede. <<Avrai tempo per pensare alla battaglia e alle armi!>>

<<Io voglio combattere!>> fece il piccolo adirato levando i piccoli pugni contro il torace sudato del fratello che si lasciò colpire ridendo.

<<Non devi preoccuparti di questo! Al termine della primavera prenderò le armi e penserò io a proteggerti, piccolo mio! Come fa nostro padre e presto faranno i nostri fratelli!>>. Una strana ombra cupa gli sembrò velare il volto del bimbo, come un’inconsapevole promessa di sventura.

<<Podarce!!!>> lo richiamò innervosita una voce femminile. Era la sorella Esione dall’alto delle mura del palazzo, le bellissime grazie nascoste dal velo virginale. <<Allontanati dalla lotta! È pericoloso! Torna dentro, subito!>> Ormai in età da marito, la fanciulla era già protettiva come una madre e adorava il suo fratellino diletto.

<<Va’!>> gli sussurrò Ganimede <<Prima che nostra madre si angosci!>> Poggiò a terra il piccolo che trotterellò verso la reggia. Ganimede levò lo sguardo a salutare la sorella e vide, dietro di lei, le fanciulle della reggia, accorse, colla scusa di scortare la principessa, per assistere agli allenamenti dei loro coetanei. Colse i loro sguardi adoranti, l’ammirazione con cui contemplavano la sua forza, eccitate dalla sua vittoria e sentì un avvampante calore, misto a un moto di fiero orgoglio, salirgli al viso.

      Nell’arsura del mezzogiorno, i giovani lottatori trovarono ristoro dalle fatiche tra gli alberi nelle acque di un lago. Scherzando si schizzavano tra loro, giocavano a tentare di annegarsi, deridevano le rispettive cadute nella lotta. Tutti guardavano con ammirazione a Ganimede, ma lui se ne stava solo, silenzioso, in disparte, lavando via la polvere dalle belle membra. Usciti gli altri, rimase là, da solo e contemplò il proprio riflesso nello specchio dell’acqua. Per la prima volta si accorse che gli piaceva la sua immagine. Oro rosso erano le sue chiome che scendevano a incorniciare il viso in volute di boccoli. Un viso efebico, simmetrico e perfetto che lo scultore cretese Dedalo avrebbe pagato una fortuna per poter ritrarre. Gli occhi erano verdi come il cedro di Biblo, le labbra piene, del colore del melograno. Si sfiorò le guance, erano ancora lisce e diafane, lanugine bionda le sfiorava appena. Ganimede era ansioso che la prima barba spuntasse ad adombrarle. Il suo corpo era ancora giovane e flessuoso ma già ben sviluppato e stava acquisendo la forza di un uomo. La peluria non lo sfiorava ancora ma le membra solide si definivano sotto la pelle soffice e l’ampio torace era pronto per l’armatura che presto avrebbe sostenuto. Ganimede sapeva quanti uomini valorosi a corte sognavano lo splendore dei suoi riccioli e la purezza delle sue belle cosce e delle natiche implumi. Come sapeva che già le donne iniziavano a desiderare la sua nascente virilità e il vigore del suo corpo. Dal canto suo, sino ad allora non gli era interessato. Presto sarebbe divenuto uomo, avrebbe preso le armi e sarebbe stato pronto per amare donne e giovanetti. E già da qualche stagione sapeva di essere pronto per essere amato da un uomo. Molti cortigiani gli offrivano doni, uomini di valore facevano a gara per avvicinarlo durante l’esercizio della lotta, la caccia, i banchetti. Lui sapeva quale onore gli avrebbe reso la corte di un amante davvero virtuoso, ma qualcosa lo tratteneva. Neppure lui sapeva dire cosa. Altero e chiuso in sé stesso si aggirava per le alte sale del palazzo e per il vasto regno lasciando che gli occhi lo ammirassero ma senza aprire il suo cuore ad essi. I piaceri dell’amore gli erano sempre stati indifferenti. O forse temeva il turbamento che essi arrecano all’animo di chi li accoglie? Mentre il caldo del meriggio solleticava la sua pelle i ricordi scaldarono la sua mente, ricordi dei sogni di una notte inquieta. E una serie di domande senza risposta affioravano nel suo cuore.

      Mentre usciva dall’acqua, si accorse che un uomo lo guardava. E ne fu compiaciuto. Era uno dei compagni del Re, forte e robusto, con il viso cotto dal sole e dalla battaglia e occhi verdi che scrutavano il ragazzo come quelli di un falco, con lo sguardo di un guerriero sfrontato e senza paura. Ganimede cinse la tunica e con la consueta noncuranza si diresse verso il palazzo. Era abituato a essere ammirato e lusingato per la sua bellezza. Ma fino ad allora nessuno sguardo adorante non gli avevano mai fatto battere il cuore a quel modo.

 

      Il giovane coppiere si sporgeva a riempire il calice del Re. Dopo aver colmato la brocca di vino speziato al grande cratere, mesceva adesso nel cantaro regale con somma maestria, appoggiato al bracciolo del trono. Il viso autorevole del sovrano appariva ora addolcito, estasiato dalle grazie seminude del giovane. Presogli il mento tra pollice e indice gli sollevava il viso, fissandolo con occhi colmi di desiderio mentre quello gli rispondeva col più innocente dei sorrisi. Vezzeggiandolo, il re gli carezzò una guancia morbida, ancor chiara della prima bionda lanugine. Con braccio lesto se lo attirò sulle ginocchia e gli porse la coppa invitandolo ad assaggiare la prelibatezza che lui stesso gli aveva servito. Stringendolo a sé come uno dei suoi preziosi tesori, gli sussurrava nell’orecchio gentili sciocchezze: che le sue labbra erano più dolci del vino o altre lusinghe del genere. La mano del guerriero sollevava la clamide del giovane per percorrere la schiena nuda e liscia. Le labbra barbate si chinavano a baciare una spalla. E il ragazzo con simulata remissività si lasciava stringere al forte petto del ricco Laomedonte, signore di popoli.

      Ganimede si chiese se era così che Zeus si era avvicinato a Crono per riempirgli la coppa fatale. Era frastornato. Non amava molto i conviti nella Sala degli uomini. Il fumo delle lampade odoroso di resina e di papavero, la nenia ipnotica suonata dalle flautiste seminude dalle chiome profumate, il rosso vino egizio che negli uomini risveglia l’animo più molle e più selvaggio allo stesso tempo, mentre, abbandonati tra i cuscini, sulle panche della sala, cantavano sboccatamente il loro amore per belle schiave e giovanetti imberbi. Sul fondo porpora delle pareti ondeggiava ritmicamente alla luce delle fiaccole la danza di amplessi affrescati, le imprese erotiche di Zeus, così diverse da come il ragazzo le aveva sognate la notte precedente. Con facilità il giovane riconobbe il Toro di Europa e il possente guerriero biondo, nascosto sotto l’elmo di Anfitrione. E più in là... il suo animo ebbe un inquieto sussulto alla vista di una conturbante figura demoniaca contorta sotto il corpo del dio bramoso. Le voluttuose grazie e i seni turgidi sconvolti nell’amore, la testa rovesciata all’indietro che assumeva già l’aspetto di una maschera orrida, le orbite cave degli occhi, le chiome anguiformi attorcigliantisi, sparse a terra e la bocca che, a testa in giù, si apriva nel vorace sorriso dai canini aguzzi. Lamia, figlio del re di Libia Belo, molti figli partorì a Zeus, ma tutti glieli uccise Era, smaniosa di gelosia. Sconvolta dalla furia ora insidiava i bambini altrui e si aggirava nella notte simile a uno spettro. Agli uomini vogliosa s’accoppiava, ingorda del loro seme, e nel culmine del piacere si abbeverava avida del loro sangue, come fosse stato vino puro, prosciugando dal corpo la vita stessa e mutandoli in vacue larve.

Una bella suonatrice di cembalo, le chiome sciolte sul seno nudo, sorrise voluttuosa a Ganimede. Lui ricambiò il sorriso, ma non si alzò dal suo seggio, né tentò di avvicinarla.

      <<Posso offrirti la mia coppa, Principe?>> lo apostrofò una voce guizzante e stentorea alla sua destra. Il giovane Principe si voltò e vide il volto conosciuto dell’uomo forte dal piglio di falco assiso accanto a lui, che gli porgeva un calice a volute colmo di vino dal profumo inebriante. Il gesto era cerimonioso e cortese, ma lo sguardo e le movenze tradivano il furore indomito del guerriero selvaggio. Ganimede rispose con un sorriso e con un cenno di ringraziamento del capo, ma non era affatto ansioso di bere e lasciar libera la fiera che era in lui.

      <<Sono Eucnemo, compagno di Re Laomedonte in battaglia e di suo padre Ilo prima di lui!>>

      <<Lo so!>> replicò Ganimede <<Ti ho visto altre volte nella Grande Sala. L’offerta di chi è tra i più valorosi guerrieri di Troia mi onora!>> soggiunse.

      <<Assaggia il vino, allora. Non vi è invenzione più deliziosa del nettare di Dioniso, che fa dimenticare all’uomo gli affanni!>>

      <<Ma forse anche l’onore!>> replicò sprezzante il ragazzo, additando degli uomini avvinazzati che si stringevano a due discinte cortigiane.

      <<E dimmi, giovane Principe, oltre ai piaceri del vino disprezzi anche quelli dell’amore?>> gli chiese l’uomo senza mezzi termini, fissandolo dritto negli occhi.

      <<Dipende se chi mi ama è degno!>> replicò lui, pensando all’immagine del dio colmo d’amore tra le nubi del cielo. <<Se il suo amore è in grado di rafforzare la virtù del mio animo, piuttosto che di fiaccarla!>>

<<Sei un giovane saggio! Io non ero così alla tua età, lo confesso!>> lo lusingò l’altro con un sorriso, abbandonandosisulla panca accanto a lui, appoggiato al gomito <<Quando prenderai le armi?>> soggiunse

<<Al sorgere dell’Estate!>> replicò Ganimede con orgoglio <<...se me ne mostrerò degno!>> soggiunse modesto.

<<Sono certo di sì! Ma se posso avere l’ardire di darti un consiglio: dopo aver combattuto molte guerre, dopo aver visto amici e nemici morire nella polvere, in mezzo alla mischia della battaglia, ho compreso che la gioia della vita è fuggevole e va colta intanto che passa, ogni gioia che dagli dei ci è offerta, prima che l’animo altero discenda nell’Ade, simile a un’ombra vagante.>>

Il racconto delle esperienze di quell’uomo affascinava il giovane.

<<Hai combattuto molte battaglie?>> gli chiese, desideroso di sapere.

<<Ne porto ancora i segni con orgoglio, mio Principe!>> rispose quello con viso impassibile e distaccato.

<<Davvero?>> chiese il giovane curioso.

<<Questo...>> replicò Eucnemo denudandosi una spalla forte e tornita e additando un segno rosso alla base del collo robusto <<..è un colpo di lancia infertomi quando seguii Re Ilo contro i Bebrici, nostri antichi nemici.>> Poi si svolse la clamide di guerriero dal braccio mettendo interamente a nudo il grande torace possente, e mostrando a un lato del petto un ampio sfregio ancora roseo e tenero contro la pelle color del bronzo, <<Questa invece me la fece un Frigio con la spada quando, con tuo padre, sottomettemmo le loro terre! E questa...>> concluse abbassando la veste e restando nudo sotto gli occhi ammirati del ragazzo per mostrare una cicatrice sul basso ventre, poche spanne più su dei punti vitali <<... una freccia delle Amazzoni, le tremende femmine guerriere del Termodonte. Un giorno intero sino al calar del Sole continuai a combattere con la freccia infissa nella carne, sinché di fronte all’infuriare della mischia cruenta non decidemmo di vincolarci reciprocamente a sacri giuramenti. Da allora le guerriere tremende sono nostre alleate e in caso di guerra hanno giurato di accorrere in soccorso di Ilio sacra!>>

<<Davvero una ferita terribile!>> balbettò ammirato il giovane

<<Ma un corpo e un animo forti sono necessari a un uomo per sopportare e sopravvivere!>> replicò serio il guerriero, raccogliendo la clamide e risedendosi.

<<Vorrei imparare a battermi col tuo stesso valore!>> replicò Ganimede orgoglioso.

<<Sarei onorato di addestrarti, Principe!>> soggiunse il guerriero avvicinandosi a lui e porgendogli ancora la coppa. Ganimede alzò gli occhi e vide un altro guerriero barbato che vezzeggiava il giovane Ucalegonte e presolo per mano lo conduceva fuori, nella notte, tra gli oscuri corridoi del palazzo, il viso colmo di desiderio. Si voltò e vide lo stesso ardore sul volto fiero di Eucnemo. Perché no? Era bello Eucnemo, forte, onorevole, il guerriero più valoroso che lo avesse mai corteggiato. Di certo l’ amore di un simile amante gli avrebbe reso onore e molto avrebbe potuto apprendere da lui sulle virtù di un uomo. Il guerriero tese la mano ad accarezzargli una gota.

<<... nulla mi onorerebbe più della tua compagnia, del poter contemplare la tua bellezza...>> bisbigliò, accostando il proprio bel viso al suo <<le tue guance lisce e soffici...>> Una mano forte di Eucnemo si poggiò sulla coscia del ragazzo e scivolò sotto la sua tunica ad accarezzargli i testicoli, nel gesto che fa un uomo quando corteggia un ragazzo. Ganimede sentì il suo corpo prontamente reagire, il desiderio tendersi e fremere. Perché allora qualcosa dentro di lui si rivoltava a quelle profferte? Perché il suo corpo si ritraeva e si divincolava dall’abbraccio dell’uomo? Perché saltava giù dalla panca e fuggiva via, solo, oltre la porta della Sala degli uomini, nel vestibolo buio, sotto gli alti tetti d’oro?

      Corse nell’oscurità. Dietro l’ingresso di un cubicolo udì i gemiti di una schiava posseduta con selvaggio desiderio dal suo padrone. Si sporse oltre la tenda dell’ingresso e vide il corpo forte dell’uomo disteso, la schiena e le natiche contrarsi e tendersi nell’impeto dell’amore, la donna riversa sotto di lui, la chioma scarmigliata, il volto rosso e contratto. Sporgendosi oltre la spalla dell’uomo vide Ganimede sulla porta e gli sorrise. Ma lui fuggì via.

      Udì voci sommesse all’ingresso di un’altra nicchia. Si sporse e vide un giovane nudo sdraiato tra i cuscini e un uomo dal corpo villoso assiso accanto a lui che lo stringeva. Aveva una coppa d’oro in mano, traboccante di vino. Lo versava sulle cosce e sulle natiche del ragazzo per poi chinarsi ad assaporarlo con foga febbrile. Ganimede sentì il suo desiderio sempre più teso. <<Le tue natiche sono un prodigio degli dei! Ti prego donami il tuo frutto proibito...>> supplicava l’uomo cospargendo il fanciullo di baci. E quello si dimenava, non era chiaro se per ribellarsi o perché in preda al godimento. Ganimede si allontanò nell’ombra delle alte colonne. Le guardie non lo trattennero, era il Principe di Troia e aveva libero accesso ovunque.

Corse a perdifiato nella notte e infine giunse in una corte all’aperto. La luna e le stelle si riflettevano nell’acqua scura in una larga vasca di pietra, rampicanti dai fiori scarlatti discendevano su di essa. Il fanciullo gettò via la tunica e si immerse nudo nell’acqua fredda, sperando di stemperarvi i propri ardori. Guardò ancora una volta la propria immagine riflessa, nella luce della luna. Aveva ragione Eucnemo? La gioia della vita volava via col volgere delle stagioni? Vedeva già il proprio corpo divenire quello di un uomo possente, la barba fulva incorniciare il suo bel viso. Ma che ne sarebbe stato della bellezza e della giovinezza in fiore? Per la prima volta si chiese se la barba non avrebbe sciupato il candore delle sue guance. Forse doveva affrettarsi a cogliere il frutto maturo prima che appassisse? Allora perché fuggiva? Guardò il suo volto riflesso e non era più il suo volto, era il volto del dio, la barba lucente, il sorriso obliquo all’angolo della bocca, che gli parlava riflesso nell’acqua: <<Perché sei turbato, bel Ganimede?>>

<<Tu puoi aiutarmi, mio Signore?>> rispose lui tendendo la mano a sfiorarlo. Ma l’immagine svanì, tra i cerchi nell’acqua. La brezza calda proveniente dalla Lidia danzava a carezzare il corpo del ragazzo e increspava la superficie dell’acqua. E nell’abbraccio dell’acqua lui sentì l’abbraccio del dio. Le membra forti che lo stringevano, il loro calore, il petto vigoroso dietro la sua schiena, la barba profumata contro il suo collo, il fallo eretto contro le sue natiche, che non lo faceva fremere di timore, ma solo di desiderio. L’abbraccio da cui mai e poi mai sarebbe voluto fuggire.

<<Il prode Eucnemo è un uomo virtuoso, non ti piace?>> gli sussurrò nella brezza la voce del dio.

<<Non lo so...>> esitò il fanciullo confuso <<... non so se è quello che desidero!>>

<<E cos’è che desideri?>>

<<Te!!!>> rispose lui adorante e senza esitazione.

<<Davvero?>>

<<Sì, mio dio, mio re, mio sogno adorato!>> rispose con un abbandono di cui non credeva di essere capace.

      Ganimede chiuse gli occhi. Il dio gli prese il viso tra le mani, volgendolo all’indietro e lo baciò. Le sue labbra dolcissime: Ganimede non poteva sapere che sapore avesse l’ambrosia degli dei, ma immaginava che fosse lo stesso di quella bocca.

      Quando infine si staccò, il dio gli rivolse ancora alate parole.

      <<Quanto mi desideri?>> domandava, mentre frattanto le mani ardenti scendevano a carezzare il petto e le membra nude e bagnate del ragazzo e più giù, sotto il pelo dell’acqua a infiammare le sue voglie.

      <<Con tutto me stesso. Più di ogni altra cosa al mondo!>> rispose il giovane come invasato.

      <<Più dei tuoi sogni di regalità, di guerra e di gloria?>> replicò il dio, bloccando la mano e trattenendo le carezze.

      <<Sì!>> rispose Ganimede supplichevole senza pensare, come si fa nei sogni.

      Il dio sospirò compiaciuto e le sue mani ripresero a scivolare sul giovane corpo:     <<... Ti ho detto che posso donarti gloria immortale e molto di più!>>

Ganimede si abbandonò alle onde dell’estasi e si lasciò cadere a peso morto nella carezza dell’acqua.

      <<A presto, mio bel fanciullo!>> parve sussurrare infine la brezza volando via, verso occidente, verso il mare, lasciando Ganimede, solo e svuotato, a contemplare la luna e le stelle.

 

      Quando mattutina riapparve Aurora dalle dita di rosa, gli uomini andarono a caccia. Ganimede eccelleva su tutti i giovani della corte con l’arco come con il giavellotto. Cavalcava eretto sul suo destriero alla testa di un drappello di giovani compagni. Mentre avanzavano sulle pendici dell’Ida e via via la vegetazione si infittiva pensò di nuovo ai boschi dell’altro Ida, a Creta, e all’altro giovanetto che si aggirava in un altro bosco, nascosto agli occhi feroci del padre.

Eucnemo spronò il cavallo accanto al suo e gli sorrise fiero. <<Buon giorno, mio principe>> lo apostrofò accostandosi a sfiorargli il ginocchio con il suo <<Vorrei avere il privilegio di accompagnarmi a te, oggi. Non vorresti vedere... come caccia un guerriero?>>.

Non si era offeso, dunque, per il suo rifiuto, né aveva deciso di arrendersi. Dallo sguardo pareva anzi che la sfida lo rendesse ancor più agguerrito. Ganimede era lusingato e divertito dalla sua sfacciataggine.

<<Potrei sorprenderti e uccidere il cervo prima di te!>> rispose con un sorriso.

<<E sia allora>> raccolse la sfida <<non vedo l’ora di ammirare la tua abilità!>> Il valoroso guerriero pareva divertito.

      Fu gara senza posa. I battitori e i cani scovarono un gran cervo dalle alte corna. Gli dei lo avevan messo sul loro cammino, mentre scendeva al fiume dal pascolo della foresta. Lo inseguirono a cavallo i cacciatori dai begli schinieri. Primo tra tutti era Ganimede, bello come un dio. E secondo a lui solo Eucnemo, il prode uccisore di cento uomini. Colpì la preda con una freccia alata del suo arco il figlio di Laomedonte dai bei riccioli. Il sangue scuro scorse sul manto dorato. Ma la bestia fuggì nel folto della foresta. A perdifiato sinché alto splendeva Elio lo rincorsero i due cacciatori. Ganimede correva come impazzito. I suoi occhi vedevano solo il cervo e le gambe rapide affondavano nei fianchi del suo corsiero, pronto a balzargli dietro verso la vetta dell’Ida, oltre gli alberi e la foresta, verso il dirupo scosceso, verso il confine del mondo. Lo avrebbe inseguito sin sulle rive dell’Acheronte se necessario, e oltre nel regno oscuro di Ade. Sentiva il forte Eucnemo dietro di lui corrergli alle calcagna, il suo forte petto ansimare.

Per un attimo si chiese se l’uomo rincorresse il cervo o lui. Sapeva cosa voleva e sapeva che avrebbe voluto accettare, che tutto ciò lo avrebbe onorato. Ma qualcosa dentro di lui lo spingeva a serrare i fianchi del suo cavallo e a correre via ancor più veloce, quasi a levarsi da terra e spiccare il volo. E infine scagliò l’asta di bronzo e colpì la preda, in mezzo alla schiena, alla spina dorsale la trapassò. Cadde nella polvere il cervo, bramendo, volò via il calore di vita. Eucnemo acclamò la sua abilità. Ganimede spronò il suo corsiero a guadagnare la preda.

Da qualche parte lo scroscio argentino di una sorgente infiammò la sua gola riarsa. Oltre gli alberi vide l’acqua che zampillava da una roccia, nascosta tra i rampicanti. Vi si diresse, assetato, per trovare ristoro, rivolgendo una preghiera di ringraziamento alle Ninfe invisibili, signore della fonte. Ma forse il Fato aveva decretato che non vi dovesse mai giungere. Sentì la cavalcatura di Eucnemo raggiungere la sua. Avrebbe dovuto frenare e smontare. Erano soli, nel bosco. Sapeva cosa sarebbe accaduto adesso. Ma qualcosa gli disse che non sarebbe accaduto. Mai.

E d’un tratto fu ghermito e tratto su, via dalla sella, levato davvero nell’aria come avesse spiccato il volo. Violento sbattere d’ali che fendeva il vuoto dell’aere, artigli che afferravano la tunica da cacciatore e affondavano nella carne sotto di essa. Il giovane principe urlò. Eucnemo urlò anch’egli e scagliò furioso la lancia, ma mancò il rapace crudele che aveva ghermito il Principe. Simile a un falco o a un’aquila che saetta nell’aere, ma mille volte più grande e possente. Ganimede levò gli occhi al cielo, al suo aggressore crudele, il suo cuore tremò e nel petto il terrore lo invase. Ripensò all’aquila di Zeus librata e minacciosa, scolpita nella pietra sulla spalla del dio, il cui solo sguardo aveva trapassato il giovanetto come una lancia. Questa però era una vera aquila, vere le sue strida, veri i suoi artigli, vere le sue ali immense che fendevano l’aere, su, su e sempre più su, oltre le chiome degli alberi, oltre il bosco selvaggio. Somigliava a uno dei grossi grifoni che, stando ai racconti dei viaggiatori, combattono contro il popolo degli Arimaspi monocoli nelle terre del freddo Nord.

 Ganimede era disarmato, l’asta di bronzo lontana, confitta ancora nel corpo del cervo, arco e faretra divelti dalla ferocia del grosso rapace e gettati a terra, laggiù nella radura del bosco.

<<Principe di Troia! Ganimede simile a un dio!!!>> lo chiamarono le grida del cacciatore ormai lontano. Ma le sue frecce mancarono l’aquila. L’uccello gridò e altri rapaci crudeli planarono dal cielo in picchiata su Eucnemo sventurato. Ganimede credette di udire le sue grida. Forse le aquile avevano sconfitto il falco.

Ma ormai era lontano, un verde tappeto il bosco sotto di lui. Col cuore in gola temette che il rapace l’avrebbe gettato giù, a sfracellarsi sulla Terra nera, ma quello lo tenne saldo tra i suoi artigli e si levò nel cielo. Sorvolò la vetta dell’Ida immenso, che improvvisamente parve solo una fragile altura, un mucchio di sassi su una piana sterminata. Ganimede vide Troia cinta di torri, piccola come aveva creduto di vederla quella notte, forse in sogno, assiso sui nembi divini di Zeus signore. Arroccata sulle colline rocciose, che digradavano verso il mare, tra i corsi dello Scamandro e del Simoenta che di lassù erano poco più di due rigagnoli scintillanti.

Vide le acque placide dello Stretto, solo un piccolo braccio di mare, l’Ellesponto, e più oltre le sponde dell’Europa. Ganimede rabbrividì, levato là sopra, tra gli artigli dell’aquila. Sfinito temette precipitare da un momento all’altro, l’oscurità calò dinanzi ai suoi occhi e gli parve già di vedere le rive dell’Acheronte, fiorite di trifoglio e odorose di bianco muschio, e di udire i canti tenui e soffusi delle anime beate traghettate dalla barca di Caronte verso i canneti dell’Elisio.

E invece volarono oltre, sulle sponde di una terra brulla e montuosa. Ganimede ne aveva udito parlare dai suoi precettori: era l’Ellade, terra dei guerrieri Achei dai chitoni di bronzo che guidavano carri da guerra e solcavano il mare color del vino sulle nere navi dalle guance di minio.

Poi a occidente apparve di nuovo altro mare, ove Elio fulgido si apprestava a immergersi colla sua quadriga. Oltre, dicevano le leggende, vi era l’Esperia e poi le Colonne d’Eracle e oltre solo l’ampio petto di Oceano che tutto circonda.

Ma l’aquila volò verso la mezzanotte. Montagne immense e impervie sfidavano il cielo stesso, forse dimora di antichi Giganti. Oltre, secondo i racconti dei marinai elleni dovevano esservi solo genti barbare. Tra quelle vette innevate rimbombava gelido il soffio di Borea, il vento del nord. Ma l’aquila sfidò impavida la bufera, in picchiata, come il filo di una spada di bronzo.

Ganimede non aveva più fiato in corpo per strillare il suo dolore, la sua tunica strappata via, gli artigli e il becco dell’aquila continuavano a dilaniare la sua carne. Il vento intirizziva il suo corpo e cristalli di neve iniziarono a sfregiare la sua pelle. Per quanto forti e allenate fossero le sue membra sapeva che non avrebbe resistito ancora a lungo. Chiuse gli occhi chiedendosi quanto mancasse alla fine. Gli sembrava ormai di sragionare, la sua mente volò a Zeus, al suo amorevole e sfuggente sorriso, alle sue promesse di gloria e si chiese dove fossero finite, se non fosse stato tutto un inganno. Se non fossero stati solo sogni, fantasie di un ragazzo ingenuo, vaghi ricordi dei racconti sussurratigli nella culla. Se tutti gli dei non fossero solo l’invenzione di vecchi poeti e di sacerdoti invasati. Ma poi chiuse gli occhi e pregò, perché in fondo cosa aveva ormai da perdere? Pregò Zeus, in silenzio, poiché più non gli restava voce. La presa dell’aquila non venne meno, ma d’un tratto gli parve che si dissolvesse il dolore. Non erano più artigli a ghermirlo, ma mani umane, o più che umane. Mani forti e solide, sicure. Il dolore a tratti divenne piacere, o forse entrambe le cose insieme, e Ganimede sentì il corpo forte del dio dietro di lui, che lo cingeva alle spalle, abbracciandolo e tenendolo stretto a sé. Sentì il dolce effluvio dell’ambrosia soffiare dalla barba che gli accarezzava il collo.

E poi, levati in volo, si innalzarono verso le vette dei monti, che scomparivano tra i nembi d’argento. “La vetta nevosa dell’alto Olimpo!” risuonò il ricordo nella mente di Ganimede, in un accesso di follia. E l’aquila volò oltre le nuvole, attraversò la loro soffice coltre. Ganimede si chiede se era una visione della sua mente oramai impazzita o se era morto e per qualche ragione il Regno delle Ombre aveva quell’aspetto. E come per un prodigio sembrò che le nubi prendessero vita e forma. Giardini fantasmagorici, boschetti, colombe e pavoni che s’aggiravano qua e là, fontane lussureggianti fatti di forme aeree, simili a fantasie e illusioni partorite dalla mente di un fanciullo impazzito. L’aquila si appressò all’ingresso di un edificio simile a un tempio circondato da colonne d’oro bianco. Condusse il giovane all’interno del sacrario, in una sala maestosa e bellissima. Le colonne di simmetria perfetta erano anch’esse simili alla sostanza aeriforme di cui son fatti i nembi. La cella illuminata a giorno da lampade simili a stelle e un cielo stellato pareva il soffitto.

E infine il rapace depose il giovanetto ai piedi di un alto trono, su un pavimento di una sostanza simile a marmo policromo, le cui piastrelle mutavano però di colore in una fantasmagoria cangiante. Il giovanetto alzò gli occhi e contemplò il dio sul trono dinanzi a lui.

Era il vero dio, stavolta, splendente in tutta la sua figura della stessa luce della folgore che stringeva nella sua destra, mentre teneva lo scettro nella sinistra. L’aquila volò a posarsi accanto a lui, sul bracciolo dello scranno d’oro. Era immenso il nume, ricolmo di maestà. Ma Ganimede lo avrebbe riconosciuto ovunque. Era lo stesso Zeus che gli era apparso nel tempio di Troia, lo stesso che aveva visitato i suoi sogni ardenti e che gli aveva sussurrato nel soffio della brezza notturna. Eppure non sorrideva. Ganimede era nudo e malconcio, in ginocchio ai suoi piedi. Ma non colse amore né compassione nel suo sguardo. Di ciò che ricordava, su quel volto era rimasta solo la brama, vogliosa e implacabile, come era sempre stata e ancor più di prima. Il suo sguardo era colmo della fiera forza del dio, lo stesso sguardo che aveva sfidato i Titani, il viso del nume implacabile che li aveva messi in catene e gettati nel Tartaro, che aveva inseguito i Giganti e li aveva annientati senza pietà colla forza della folgore. Ganimede si chiese se tra coloro che, in battaglia, avevano visto quello sguardo, qualcuno fosse mai sopravvissuto per raccontarlo. Si chiese chi fosse davvero il nume che aveva dinnanzi. E cosa ne sarebbe stato di lui, Ganimede, adesso.

 

      Quando i cacciatori non trovarono più il Principe Ganimede, chiamarono a gran voce il suo nome, ma nessuno rispose. Ritrovarono il suo arco e la sua faretra gettati a terra in mezzo alla radura, il bel cervo giaceva tra l’erba, trafitto da una delle sue frecce, ma lui non era lì, né vi era traccia alcuna delle sue vesti, né di lotta o di sangue scuro. Batterono il bosco alla sua ricerca ma nessuna traccia di lui era rimasta. Infine i soldati trovarono il guerriero Eucnemo in fin di vita tra le rocce dell’Ida, i visceri divelti dall’attacco delle aquile nere ed egli ansimò rivelando che l’immane volatile s’era fugato il principe bello. Invano egli aveva lottato e scagliato dardi alati per salvarne la vita, le aquile a centinaia, rapaci e crudeli, lo avevano attaccato e ferito gettandolo poi a morir nel dirupo. E infine spirò invocando il nome del Principe diletto. Sognando la vista e il profumo dei suoi riccioli e delle sue cosce, la sua anima discese sotterra.

Allora terrore e angoscia scolorirono il viso dei suoi compagni tutti. Piansero e gridarono i suoi fratelli, Lampo, Clizio ed Icetaone, caro ad Ares. E quando i messaggeri di nuova infausta tornarono a Troia, grida di furia echeggiarono sotto i tetti d’oro delle sale del re. Laomedonte urlò irato contro i suoi compagni, minacciò di mandarli a morte tutti per la scellerata distrazione. Poi, rimasto solo sul trono, si stracciò le vesti riempiendo la grande sala di gemiti acuti: <<Oh, sangue del mio sangue! Oh, orgoglio della mia casa! Dove hai condotto il mio ragazzo, oh pennuto funesto? Dov’è l’ornamento più prezioso del mio palazzo? Dov’è il mio bel Ganimede simile ai numi?>>

      Di pianto si colmarono le sale delle donne, pianse la regina Strimo, madre amorevole, pianse la principessa Esione, piansero le donne e le fanciulle della corte, quante per i bei riccioli del Principe avevano sospirato. Pianse per il fratello tanto amato il piccolo Podarce, stretto al grembo di sua madre.

      Ma Laomedonte signore di popoli non poté darsi pace. Né era certo di voler credere a quello che pareva essere il racconto di un uomo agonizzante in preda al delirio. Comandò che l’intero regno di Troia fosse battuto palmo a palmo, che ogni uomo o donna fosse interrogato per conoscer la sorte del Principe precocemente involato. Ché fosse trovato ancora vivo o morto, perché il bel corpo potesse conoscere sepoltura onorata e l’animo precoce e infelice discendere almeno a trovar pace oltre le sponde d’Acheronte nelle case di Ade, il duro portiere. Il re pianse giorno e notte nella solitudine del suo palazzo e poi, non potendo trovar ristoro alcuno nel sonno, decise di sellare il corsiero e di unirsi egli stesso alle ricerche dei suoi soldati. Ritto in sella percorse la Troade intera senza trovar traccia alcuna del suo adorato virgulto.

Un giorno, piangendo e gemendo ancora, attraversava una landa silenziosa, al limitare di un bosco ameno, ricolmo di pace. Ma non c’era più pace nel cuore del Re. Là gli si fece incontro un viandante dal mantello consunto, che conduceva alle briglia una coppia di bei cavalli. Il Re lo fermò, ma ormai senza più speranza nell’animo altero. <<Fermati, oh forestiero, che varchi la mia terra! Hai visto sul tuo cammino un giovane vivo o morto? Il giovane più bello che mai abbia contemplato occhio mortale: riccioli d’oro adornano la sua fronte, giovane forza possente anima le sue membra e non ancora la nera peluria ne adombra le guance e le cosce.>>

Lo straniero lo guardò in viso e gli rivolse parole alate: <<Laomedonte, signore di popoli, se è il tuo figliolo che vai cercando io so bene dov’egli si trovi. E invero non devi versare più lacrime, ma gioire nel cuore tuo altero, poiché il saggio Zeus in persona ha rapito il biondo Ganimede a causa della sua bellezza, perché abitasse con gli dei e facesse loro da coppiere nella casa di Zeus: è un prodigio per gli occhi, e tutti gli immortali lo ammirano, quando attinge rosso nettare dal cratere d’oro. Immortale sarà adesso e libero da vecchiaia al pari di un dio.>>

Trasecolò incredulo il cuore del Re Laomedonte: <<Chi sei tu? Come mai alletti il mio cuore con tali inverosimili racconti?>>

Allora lo straniero gettò via il manto e svelò il suo aspetto, biondo e lucente, simile a un ragazzo di primo pelo, la cui giovinezza è leggiadra, una verga d’oro stringeva in mano.

<<Io sono Ermes!>> gli disse <<L’araldo divino, l’uccisore di Argo dai Cento Occhi. Per ordine di Zeus giungo a istruirti sul suo volere. Non piangere più la dipartita del tuo fanciullo. Zeus ha avuto pietà di te e per ripagarti del figlio perduto ti dona questi cavalli immortali dal pie’ di tempesta, degni di trainare il cocchio di un dio.>> Laomedonte vide i destrieri che il dio teneva alla briglia, il candore della neve li ammantava e potenza immortale spirava dalle loro nari. <<Sono in grado di volare come il vento sull’acqua e sopra i campi di spighe mature. Lasciali congiungere alle cavalle delle mandrie prodigiose del tuo avo, il sire Erittonio, ché generino una stirpe di divini corsieri. Ma ricorda un giorno, nell’ora di necessità, non esitare a donarle in cambio della salvezza per te e i tuoi cari, se non vuoi che sciagura te ne incolga.>> Di sotto la tunica preziosa cavò poi un meraviglioso ramo lucente come oro zecchino, pareva cesellato dall’arte di un fabbro divino, ma vere erano le radici e veri i suoi morbidi pampini. <<Questo>> soggiunse <<è un virgulto di vite d’oro, dorate son le sue foglie e oro lucente saranno i suoi grappoli, piantalo nei tuoi giardini e gioisci del suo eterno splendore!>> Ciò detto andò via, s’involò l’Uccisore di Argo, ali svelte ai suoi piedi, tornò sull’alto Olimpo, percorrendo la terra boscosa.

      Alla vista di quelle meraviglie, balzò di gioia a Laomedonte l’avido cuore. Strinse voglioso le redini e il virgulto d’oro nel pugno e si lasciava trasportare al galoppo dai cavalli impetuosi, deposto ormai il dolore per il figlio perduto.

      Giunto alle grandi sale del palazzo, gettò le vesti consunte con cui era andato ramingo. Fece approntare il bagno e convocare schiavi fanciulli che lavassero e massaggiassero il suo corpo possente. Quando fu lavato e profumato, indossò la tunica d’oro, cinse la corona, strinse lo scettro. Assiso sul trono convocò l’assemblea e impartendo comandi, rivolse loro parole alate: <<I cavalli divini dal pie’ di tempesta siano lavati e nutriti e custoditi gelosamente nelle mie stalle, non sian lasciati volar via com’è avvenuto al mio Principe o stavolta davvero il responsabile lo punirò con la morte! Il virgulto d’oro sia piantato nella mia vigna, ché fruttifichi e prosperi la mia vite dai frutti d’oro, perpetuo ricordo del favore di Zeus che baciò Laomedonte signore di popoli. E infine gioisca a festa Troia divina e tutto il mio regno, perché il saggio Zeus in persona ha rapito il biondo Ganimede a causa della sua bellezza, perché abitasse con gli dei e facesse loro da coppiere nella casa di Zeus: è un prodigio per gli occhi, e tutti gli immortali lo ammirano, quando attinge rosso nettare dal cratere d’oro. Immortale sarà adesso e libero da vecchiaia al pari di un dio. Si accendano fuochi e Troia celebri il suo ragazzo immortale. E tra i boschi dell’Ida, presso la fonte ove lo involò l’aquila divina di Zeus, gli siano dedicati sacrifici ed eretta un’ara. E là, al volgere di ogni anno, i ragazzi di Troia in età di prendere le armi sacrifichino i loro riccioli alla memoria di Ganimede.>>

      Gioirono allora del prodigioso racconto tutti i Troiani e le Troiane lungo peplo. Gioirono sua madre, i suoi fratelli e sua sorella. Tutta Ilio si illuminò di fiaccole lucenti. Il cantore Eufèmone intonò nuovi versi, narrando di come il saggio Zeus in persona avesse rapito il biondo Ganimede a causa della sua bellezza, perché abitasse con gli dei e facesse loro da coppiere nella casa di Zeus: era un prodigio per gli occhi, e tutti gli immortali lo ammiravano, quando attingeva rosso nettare dal cratere d’oro. Immortale sarebbe stato adesso e libero da vecchiaia al pari di un dio.

      E per la notte intera canti e danze risuonarono sino nel vasto cielo.

 

      E lassù, oltre l’alta vetta dell’Ida, oltre la luce di Elio divino che scendeva a inabissarsi nel mare, nel tramonto che dall’oro andava tingendosi di porpora regale, oltre la corona di nubi che si addensavano nell’etere, Ganimede sedeva sulle ginocchia di Zeus, assiso in trono, a contemplare la distesa del mondo sotto di lui. Appressatosi alla vetta dell’Ida il dio mostrava al fanciullo la Piana dello Scamandro e la sua Troia in festa. Dopo essersi saziato fino allo stremo del reciproco amore, il dio cullava il fanciullo, nudo, sulle sue ginocchia e gli porse finalmente l’ultimo dono, il calice d’oro zecchino, colmo sino all’orlo della purpurea bevanda lucente, più amabile del vino, più dolce del miele e sublime quasi quanto i baci del dio stesso.

      <<Ambrosia divina!>> sentenziò <<Bevila e l’immortalità scorrerà dentro di te. Mista all’unguento con cui ti ho medicato ha guarito le tue ferite sanguinanti, ora nutriti del cibo degli dei, bevi il nostro nettare e il tuo stesso sangue si muterà in divino icore. Non conoscerai morte né vecchiezza, ma eternamente giovane e bellissimo apparterrai all’Olimpo per sempre!>>

Ganimede era confuso. Appena avutolo ai propri piedi il dio lo aveva condotto sul proprio alto talamo, tra le cortine di porpora. Prodigiose candele dalla forma di Eroti alati avevano rischiarato il loro connubio con una fiamma immortale più lucente delle stelle. E là finalmente il dio lo aveva stretto tra le braccia e senza più alcun freno aveva saziato la propria brama. Aveva lenito la sua pelle con unguenti impastati di ambrosia profumata che avevano rimarginato all’istante i segni degli artigli dell’aquila, solo per poi riprendere con ancor rinnovata vigoria i giochi dell’amore. Per nove giorni e nove notti si erano giaciuti nel talamo segreto del dio, rotolandosi tra i cuscini profumati. Per nove giorni e nove notti Zeus gli aveva insegnato come ama un uomo e mostrato come ama un dio, lasciando Era, sua sposa, da sola nella camera nuziale. E adesso, una volta che si erano dissetati l’uno del piacere dell’altro, il dio lo aveva condotto tra le nubi a rimirare ancora un’ultima volta la sua patria mortale prima di donargli la vita eterna. Per quei lunghi giorni d’amore senza tempo, il giovane non aveva potuto esimersi dall’arrendersi alle voglie del dio e dal saziarsi egli stesso del piacere che aveva saturato ogni angolo del suo corpo e della sua anima. Ma adesso, ormai appagato nel desiderio e nella conoscenza, sentiva come un vuoto nell’animo altero, sentiva nostalgia dei propri cari, di suo padre, dell’amorevole madre Strimo, dei suoi fratelli e di sua sorella. Avrebbe voluto rivederli, salutarli ancora e dir loro quali meraviglie aveva vissuto e quali ancora lo attendevano.

<<Loro un giorno moriranno?>> chiese al dio indicando gli alti palazzi di Troia e i suoi cari all’interno di essi <<Anche Ilio sacra cadrà, non è vero?>>

<<Sì.>> rispose serio il dio <<Non posso mentirti. Le stirpi degli uomini son come le foglie, la primavera le nutre nella selva e il vento d’autunno le getta a terra, esse muoiono perché in seguito ne nascano altre e altre ancora. Ma tu, mio bel Ganimede, tu vivrai, nel cielo degli Immortali! Farò di te il mio coppiere, servirai nettare e ambrosia alla mensa degli dei, alla mia sposa, Era regina dagli occhi di giovenca, ad Ares signore della battaglia, ad Ermes Uccisore di Argo, alla vergine Atena occhi azzurri, ad Apollo e Artemide Lungisaettanti, ad Afrodite d’oro, dalla bella cintura e a tutti gli altri che siedono alle mense d’Olimpo.>> Il pensiero di quelle meraviglie allettava Ganimede e l’amore del dio, che ora appariva di nuovo appagato e sorridente, avrebbe potuto riempire il suo cuore. <<E le notti, mille notti immortali potranno appartenere a noi due, mio bocciolo dorato!>> gli sussurrò il dio nell’orecchio.

<<E cosa accadrà quando ti stancherai di me, come di tutte le donne che hai amato?>> la domanda sorse spontanea nella bocca del fanciullo, mentre sentiva nel vasto cielo sotto di lui spalancarsi il vuoto di un baratro nero.

<<A tutte loro ho lasciato doni generosi!>> replicò il dio <<Ho generato in loro figli, possenti eroi da cui son discese stirpi semi-divine e per questo ancora, in eterno, le ricordano i canti degli aedi. Ma tu... di certo vivrai in eterno nei canti degli uomini, ma frattanto anche tu, eterno, vivrai, alla mia mensa immortale. E come potrei mai stancarmi di te?>> soggiunse con uno sguardo languido negli occhi divini <<Gli uomini vengon meno alle promesse d’amore fatte a un fanciullo quando il fiore della prima, bionda lanugine lascia il posto alla nera peluria sulle sue guance e sulle sue cosce! Ma  a te questo non accadrà mai!>> soggiunse sfiorandogli la gota con due dita <<Mai ti verranno meno i doni dell’aurea Afrodite, mai sfiorirà la soffice delizia della tua pelle morbida. Tu resterai giovane, imberbe e bellissimo per sempre!>>

<<Già!>> rispose il ragazzo deglutendo il groppo che aveva in gola. Rimirò l’immagine del suo bel viso riflesso nella coppa, i riccioli d’oro ramato, gli occhi verdi, le belle guance, le labbra di rosa. Pensò alla bellezza che sarebbe divenuta immortale, preservata in eterno. E poi vide danzare, riflessa nel vortice di nettare cremisi, l’immagine del possente re dalla barba fulva e dal volto fiero e indomito. L’uomo che lui sarebbe diventato, i regni che avrebbe conquistato, le donne che avrebbe amato, tutto questo scompariva per sempre, inghiottito sotto la superficie di quell’oceano di porpora liquida, tra le volute della coppa d’oro e d’avorio, ingioiellata e cesellata con le immagini fantasmagoriche di un volo d’aquile. Per un attimo il fanciullo si chiese se quelle cose le aveva mai volute davvero, se non era solo ciò che al figlio del gran re Laomedonte veniva insegnato a desiderare da tutta la vita.

      La mano ferma di Zeus gli porse la coppa, e Ganimede pensò a come migliaia di cubiti sotto le nuvole di quel cielo, sotto le profondità della Terra nera, nelle case oscure dell’Ade, un tempo lo Zeus sotterraneo, Plutone, aveva porto alla giovanetta Persefone l’elisir del melograno. Sottrattala alla madre, Demetra, dea del grano e dell’estate, l’aveva condotta nel suo regno sotterraneo per farne la propria sposa. Costretto poi dalle minacce dell’augusta dea madre era stato costretto a restituirla ma grazie al melograno, segno di eterna promessa nuziale, l’aveva vincolata a sé con l’inganno, per metà dell’anno, costringendola, contro i voleri della madre, al calare di ogni autunno, a ritornare sempre da lui nel regno delle ombre. Così sarebbe stato per lui quel nettare vermiglio? Si chiese il bel Ganimede. Accostò le labbra e saggiò quel tripudio di dolcezza, sentendo contro il palato un sapore amaro.

      <<Bevi, piccolo mio!>> gli sussurrò Zeus <<e nessuno ti porterà più via da me. Solo questa ti sottrarrà all’impietosa mano della Morte che ogni cosa attende. Perché io non voglio vivere in eterno sapendo che un giorno la tua bellezza appassirà e morirà! Di quassù, assieme a me potrai contemplare ancora i lustri e gli eoni, il mondo crescere, invecchiare e mutare. Ma tu vivrai, per sempre!

Vivrai per vedere da quassù nuove mura, scoscese e insormontabili, levarsi a cingere la tua sacra Troia, l’alta rocca di Pergamo, innalzarsi a sfidare il nostro cielo per mano degli stessi dei. Tanto grande sarà la gloria di tuo padre, Laomedonte signore degli uomini, che io stesso manderò al suo servizio due tra gli Olimpi, Apollo Lungisaettante e Poseidone lo Scotitor della Terra, che fortificheranno la sua rocca con mura possenti e inespugnabili. Ma Laomedonte, cuore di cane, rifiuterà loro il compenso pattuito e per questo il Signore del Mare, mio fratello, manderà un mostro dal seno dell’abisso a far strage di morte dei figli di Ilio. Solo il sacrificio della bella vergine Esione, per volontà degli oracoli potrà placare il Dragone.>>

Un moto di sgomento fece balzare il cuore di Ganimede al pensiero dell’amata sorella.

 <<Ma non temere!>> lo rassicurò il dio <<Un figlio da me generato, il forte Eracle, l’eroe dal petto possente, avanzerà a difesa della fanciulla, la pelle strappata al Leone di Nemea drappeggiata sulle nude membra smisurate, più forti del bronzo. In cambio della promessa delle cavalle divine ch’io stesso, tuo prezzo, ho donato a tuo padre, sgominerà il mostro brandendo la clava tra le forti mani. Ma anche a lui Laomedonte, signore di armate, mente ingannevole, negherà il legittimo compenso.

      E tu vedrai allora la furia dell’Alcide Eracle, figlio mio prediletto, rovesciarsi implacabile su Troia. Su una flotta di nere navi dall’Ellade, con il forte Telamone, amico e compagno fedele, tornerà alle foci dello Scamandro, all’assedio di Pergamo invocando riscatto. Le frecce del suo arco fatato, scagliate dal braccio possente, apriranno breccia tra le mura divine. E tu vedrai espugnata Ilio sacra, tua sorella, la vergine Esione, donata in sposa a Telamone, destinata a filar lana sotto un tetto straniero, e tuo padre e tutti i tuoi fratelli passati a fil di spada per l’oltraggio reso alla forza spietata di Eracle. E non sia per te la loro morte fonte di cruccio, lacrime non segnino queste tue soffici guance. Io non potrò negare giusto riscatto a mio figlio né mutare il corso del Fato, poiché è destino che loro tutti periscano e discendano sotterra. Ma tu sarai sottratto a tale infausto destino e quassù nel vasto cielo, onorerai la mia mensa, radioso ed eterno.>>

      La mano di dio carezzò gli zigomi del ragazzo ad asciugare le lacrime che fioccavano spontanee per il dolore e lo sgomento a quelle rivelazioni che, come immagini prodigiose, prendevano vita nella luce del crepuscolo.

      <<Non piangere, adesso. Bevi!>> sussurrò sollevando la coppa. Ganimede bevve e all’improvviso sentì quel nettare discendergli nella gola e nel petto come fuoco liquido ed ebbe l’impressione che il fuoco entrasse in lui. Lo stesso fuoco che sentiva scorrere irresistibile nel corpo del dio, come nei nembi attorno a loro, nel Sole che si inabissava nell’Ellesponto e in quanto li circondava, là, al di sopra dell’aere celeste. E sentì uno strano senso di calma acquietare i suoi sensi e i suoi pensieri.

      <<Dunque>> soggiunse riprendendo a ragionare <<dovranno morire tutti?>>

      <<Tutti, tranne uno!>> replicò Zeus <<L’ultimo, tuo fratello Podarce, che la pietosa Esione riscatterà da servitù forzata in cambio del suo velo. A lui Eracle generoso concederà di sedere sul trono di Ilio. E, poiché la veste della sorella gli avrà acquistato la grazia, i mortali lo chiameranno Priamo, il “comprato”, nella lingua degli Elleni. E tu vedrai ancora la gloria della tua Troia risorgere sotto lo scettro di tuo fratello, saggio e glorioso. Prenderà in sposa Ecuba, figlia del trace Cisseo, e cinquanta figli e cinquanta belle figlie genererà nel suo palazzo regale. L’esercito dei Teucri splenderà al comando del primo dei tuoi nipoti, Ettore grande, elmo abbagliante. E bellezza infinita pari quasi alla tua ne incoronerà l’ultimo, Paride simile a un dio.

      Ma il fio del favore dell’aurea Afrodite penderà sulle loro teste. Tu stesso hai assaggiato l’ambigua potenza di quell’infida dea. Quando ella avvinse desiderio di te al mio cuore, si rose il mio stomaco, si spezzò la mia lingua, fuoco sottile mi corse per le membra divine, vidi solo oscurità negli occhi e udii il rombo del sangue nelle orecchie, e i miei sensi non conobbero più pace sinché non potei averti stretto a me, come adesso!>> Il braccio del dio avvinse il ragazzo a sé e le sue labbra affondarono tra i riccioli d’oro rosso.

<<Lo stesso fu per me da quando vidi il tuo volto in sogno e sentii il tuo corpo e il tuo calore!>> replicò d’istinto il ragazzo carezzando con una mano diafana la ruvida barba. Ma poi un pensiero ambiguo turbò la sua mente <<Fu quella dea>> chiese <<a strapparmi alla tranquilla gioia della mia giovinezza?>>

Il dio annuì. <<Nessun essere, nel cosmo intero,>> soggiunse <<può sottrarsi al volere di lei. Nemmeno io, che sono Zeus Signore, il Padre di tutte le Cose. Ma con te, anzi, lei fu assai generosa. Si mostrò davvero tua amica se, grazie al tiro mancino che giocò a me, sei divenuto un dio immortale e vivrai ben oltre la fine di Ilio sacra.>>

Era davvero così? Ganimede non ne era certo.

<<Ma non così lo sarà con i tuoi concittadini!>> proseguì il dio <<Per un’ingannevole promessa della Dea dalla bella cintura, un folle amore congiungerà a Paride, figlio di Priamo, la più bella delle donne, Elena, mia figlia, più bella di una dea ma sciagurata nell’animo. Ella stessa sceglierà Menelao, figlio di Atreo, re di Sparta, come sposo. Ma poi, colta da insana passione, dall’inganno della dea dell’amore, s’involerà, colombella lasciva, a Troia divina con Paride bello come un dio. E a inseguirla accorreranno gli Achei tutti, vincolatisi in giuramento gli uni agli altri.

E di quassù, oltre la vetta dell’Ida, tu ed io, assieme, vedremo le nere navi dalle guance di minio varcare l’Ellesponto e, come una torma di cavallette si leva a oscurare Elio splendente, così nella Valle dello Scamandro si riverseranno gli eserciti degli Achei chitoni di bronzo: Agamennone, Menelao, Odisseo, Aiace, il biondo Achille piede rapido e molti antri ancora, signori di eserciti.

Per dieci anni vedrai ai piedi di Ilio divina i Teucri domatori di cavalli scontrarsi con gli Achei schinieri di bronzo, arrossando i corsi dello Scamandro e del Simoenta del sangue di entrambi. Vecchio, nelle sale del suo palazzo, Priamo piangerà la morte di molti figli, mentre tu, giovane e imperturbabile, sorridendo, siederai alla mia mensa.

E poi, quando giungerà il Fato, gli Achei, fautori d’inganni, violeranno con l’astuzia le mura di Troia divine. E tu vedrai l’avidità dei Teucri introdurre nella città un gigantesco cavallo di legno che celerà tutta l’armata dei Danai nascosta nel vasto ventre. Vinti dal Sonno i Troiani, balzati fuori nella notte gli Achei, fiamme e fuoco divoreranno la città. Le grida dei Dardani echeggeranno sino al vasto cielo e quassù, piangendo, tu mi supplicherai di salvare i tuoi fratelli e i loro figli, di risparmiare la catastrofe. Dolore immenso oscurerà i tuoi occhi da cerbiatto e arrosserà le tue guance intrise di lacrime amare, per sciogliere il mio cuore forte e renderlo debole. Ma io non potrò oppormi alla volontà del Fato, né irritare oltre misura Era, mia sposa, che tra gli uomini ama gli Argivi più di tutti gli altri. Potrò solo stringere al mio vasto petto il tuo tenero viso perché non veda il dolore, asciugare ancora le tue lacrime e poi, amara consolazione, disperdere nella tempesta la flotta di tutti gli Achei, perché conoscano ritorno lungo ed infausto.

Ma senza pietà saranno sterminati i Troiani. Destino di schiavitù, oltre il mare, attenderà tutte le Troiane lungo peplo, tue nipoti. E, ultimo dei figli di tuo padre, il piccolo Podarce che vezzeggiavi nelle Sale delle donne, il vecchio Priamo re di Ilio, sarà sgozzato sul mio stesso altare dagli Elleni, scellerati, incuranti delle invocazioni del re venerando e della protezione del mio sagrato! Ma tu, invece, tu solo della tua stirpe vivrai, per sempre, nella gloria dell’Olimpo, con me, alla mensa degli dei Beati. Nulla ti toccherà quassù nel cielo.>>

      L’immagine di strage e di morte svanì con le parole del dio. L’immagine di un mare fluttuante di sangue vermiglio, così simile al nettare che danzava nella coppa d’oro, cui la mano del dio lo invitava. Inestinguibile tristezza colmava di nuovo il cuore di Ganimede. A mala pena tratteneva negli occhi umide lacrime, scintillanti alla luce delle stelle, ormai alte nel cielo. Ma aveva fatto la sua scelta. Prese in mano la coppa e bevve, la svuotò. Bevve l’immortalità con la stessa impaziente sete con cui si era abbeverato al desiderio del dio. E lentamente la sofferenza svanì, impallidì come il riflesso della luna sul fondo d’oro di un calice vuoto. Era solo il dolore umano, immensamente lontano sotto di lui, sulla Terra nera. E quel vaticinio terrificante non era diverso dal racconto di un aedo, che canta di gesta e di stirpi vissute chissà dove e chissà quando. L’eternità lo attendeva, la notte era carica di promesse e l’immortalità lentamente lo avvolgeva come un sogno, un sogno senza risveglio.

      Il fuoco divino bruciava in lui, ardente nel suo petto come desiderio cieco. Il dio gli sussurrava storie di disgrazie, di guerre, dell’ambigua potenza della dea dell’amore. Ma ormai Ganimede non lo ascoltava più, vedeva solo le labbra voluttuose muoversi, piene e rosse come il corniolo e non bramava che di abbeverarsi ancora a lui come si era abbeverato alla coppa divina.

<<Ma non sarà la fine.>> proseguì Zeus <<E tu vivrai abbastanza, giovane ed eterno, per vedere altri uomini, figli dei figli di Scamandrio, figlio bastardo di Ettore, ridiscendere nella Valle di Troia per rifondare la gloria della tua gente, della stirpe di Laomedonte. Vedrai molte altre e nuove Ilio sorgere negli eoni sulla collina di Pergamo e fiorenti stirpi ellene che giungeranno a colonizzare le coste dell’Asia su navi dalle guance purpuree. E tra quelle genti i ragazzi in età di divenire uomini continueranno a recarsi lassù, tra i boschi dell’Ida, a sacrificare i propri riccioli in ricordo del bel Ganimede, del fanciullo mortale che è divenuto un dio.>>

Quella dolce promessa risuonò appena nelle orecchie del fanciullo, come un’eco lontana. Preghiere di adorazione e offerte dei mortali avrebbero dovuto compiacerlo? O erano solo promesse ingannevoli, come tutte quelle che fanno gli dèi? Ganimede non sopportava più l’asfissiante dibattersi dei propri pensieri né voleva più ascoltare il canto di sventura del dio. Desiderava solo perdersi in lui e nella sua potenza. Gli si avvinse quasi con foga gettandosi sulla bocca divina, a zittirla, colla stessa furia dell’aquila predatrice. Le nuvole li avvolsero, come una prodigiosa cortina, a celare il connubio ad occhi indiscreti, i venti li sollevarono e un attimo dopo erano di nuovo nel talamo del dio, tra le cortine di seta purpurea e dorata. Forse anche l’amore del dio era un’illusione. Forse un giorno si sarebbe stancato di lui, del bel soprammobile che adornava la sua mensa, e avrebbe smesso di accoglierlo nel proprio letto, per rivolgersi all’amore della sposa, o di nuove dee o donne mortali o ragazzi. Ma adesso quel bel sogno era là, vivo, pulsante, fatto di carne calda e divino icore e aveva un sapore infinitamente dolce. Era tutto ciò che Ganimede desiderava. Stavolta furono le labbra del ragazzo a cospargere di baci vogliosi tutto il corpo possente del dio finché non tacquero gli arcani vaticini dalla sua bocca, per mutarsi in gemiti d’amore. Fiumi di piacere fluttuarono ancora per una notte senza fine. E gli occhi degli Eroti d’oro, portatori di torce, sorrisero al cielo, muti testimoni degli amplessi degli immortali.

 

Il ragazzo inginocchiato sollevò le belle ciglia ad ammirare il portento della potenza immortale, il prodigio che da semplici mani umane, le mani di uno scultore, aveva saputo effondere la grazia divina in quell’immagine antica. La figura del divino giovanetto, del bel Ganimede, la coppa in mano e l’aquila di Zeus accanto a lui, scolpito nella viva roccia. Là, oltre le fronde degli alberi, sulle erte pendici del Monte Ida, al suono dello scorrere perpetuo di una fonte, il fanciullo levò preghiere silenziose a colui che sarebbe rimasto ragazzo in eterno. Era il gesto che ci si aspettava da lui, che ogni giovanetto aveva compiuto e dopo di lui avrebbe continuato a compiere. I riccioli d’oro recisi, erano sparsi a terra, sacrificati alla memoria del fanciullo che ora non era più, volato via nel volgere delle stagioni. Compiuti i riti, si alzò. Era un uomo adesso. Pronto, da uomo, a tornare tra gli uomini.

Il guerriero che lo attendeva al limitare della radura gli sorrise, orgoglioso. Il giovane gli corse incontro. L’uomo lo abbracciò, lo strinse tra le sue membra possenti e rise.  Gli disse che era strano accarezzargli i capelli, adesso che erano corti come quelli di un vero soldato. La bocca barbuta gli baciò la fronte, la guancia già adombrata dalla prima lanugine e poi le labbra ancora rosee e soffici. Il giovane guardò il suo compagno negli occhi, ammirò ancora una volta il fuoco in quello sguardo invincibile e ripensò a quanto avevano trascorso assieme, quando l’uomo, fingendo di rapirlo, nei giorni dei sacri riti, lo aveva condotto fuori dalle mura, e, solo con lui, lo aveva ammaestrato. Gli aveva insegnato a essere un uomo. Gli aveva mostrato come un uomo vive, come un uomo si batte. E come un uomo ama.

      <<Sono fiero di te!>> gli disse guardandolo negli occhi <<Hai superato tutte le prove e compiuto i sacrifici. Con la benedizione del divino Ganimede, la tua fanciullezza è volata via! Ora sei pronto a ricevere la tua armatura!>>

      <<Sarà forte e splendente come la tua?>>

      <<E di più ancora! Il miglior fabbro ammaestrato in Ellade l’ha forgiata nel sideros, il nuovo metallo dei Dori, ancor più forte del bronzo. Ora potrai imbracciare le armi e batterti fra gli uomini! E poi...>> l’uomo si interruppe e una lacrima discese su quel forte viso da guerriero. <<...poi dovremo trovarti una donna! Dovrai sposarti e dare figli alla nostra patria.>>.

      Quella fu la loro ultima notte assieme, da soli, sdraiati fianco a fianco sotto il vasto cielo. L’indomani avrebbero raggiunto di nuovo la città e il giovane avrebbe iniziato la sua vita da uomo. Mentre si stringevano, sotto le coperte di pelliccia, scaldandosi l’uno al corpo dell’altro, l’uomo gli mostrava le stelle, narrandogli leggende dei tempi antichi.  <<Vedi... >> gli disse indicandogli le stelle dell’Acquario. Stretto a quel corpo forte, segnato dalle cicatrici delle battaglie, mentre sfiorava la soglia del dolce sonno, al giovane tra le palpebre socchiuse pareva davvero di scorgere il contorno lucente del fanciullo colla coppa in mano.

<<Quello è Ganimede! Un tempo a tal punto lo adorò il Possente Zeus adunatore di nembi che immortalò la sua immagine nel firmamento. E ancor oggi lo celebrano gli aedi:

“...Ganimede simile ai numi,

che fu il più bello tra gli uomini mortali...

..e gli dei lo rapirono, perché mescesse a Zeus;

per la sua bellezza, visse fra gli immortali.”>> [1]

 

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[1] Questi ultimi versi sono tratti dall’Iliade 20, vv. 232-235 (traduz. ital. di Rosa Calzecchi Onesti). I versi ripetuti sul destino di Ganimede riportati da Ermes a Laomedonte sono invece una libera rielaborazione dall’Inno omerico ad Afrodite, vv. 202segg. (traduz. ital. di Giuseppe Zanetto).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Questi ultimi versi sono tratti dall’Iliade 20, vv. 232-235 (traduz. ital. di Rosa Calzecchi Onesti). I versi ripetuti sul destino di Ganimede riportati da Ermes a Laomedonte sono invece una libera rielaborazione dall’Inno omerico ad Afrodite, vv. 202segg. (traduz. ital. di Giuseppe Zanetto).