Bacio d’ambrosia Il dio era assiso in trono, Zeus adunatore di nembi. Il ragazzo inginocchiato ai suoi piedi
sollevò le belle ciglia ad ammirare il portento della potenza immortale. La
sua maestà divina; l’eterno sorriso sfuggente che aveva contemplato uomini e
città, secoli ed ere; il volto bello e severo che sembrava fissarlo colmo di
amore, l’amore di un padre, il Padre di tutte le cose. Un giorno anche lui -
pensò il giovane – si sarebbe seduto sul trono come un grande re. Guardò la
barba regale che incorniciava il volto del dio dalla simmetria perfetta, il
petto immenso e possente, le membra belle e forti, ignude sotto l’himation che si
drappeggiava su un omero per scendere a cingergli i fianchi, mentre stringeva
lo scettro divino nella mano sinistra e la folgore nella destra. Anche il suo
corpo efebico e glabro - si disse il giovane – presto sarebbe sbocciato in
quello di un uomo, di un uomo grande e forte, di un re. E poi un fremito di infantile terrore lo
percorse alla vista dell’aquila regale, del turbinio di ali, del suo becco
feroce dischiuso in un grido, mentre planava accanto alla spalla del grande
re in trono. Levò il braccio, timoroso, a sfiorare le
ginocchia del dio. Il nume splendeva e gli sorrideva e il fanciullo non
vedeva il prodigio che dalle semplici mani umane, le mani di uno scultore,
aveva saputo effondere la grazia divina in quel simulacro antico. Le dita
sfiorarono le pieghe sbalzate nella pietra, che ora era la bella veste del
dio. La luce del giorno era dolce e soffusa
attraverso la soglia aperta e tra le colonne. L’aria del tempio era satura
del profumo delle offerte. Il fanciullo prese la focaccia di miele che aveva
con sé e la spezzò, il gesto che ci si aspettava da lui. Ne depose metà ai
piedi della statua e l’altra metà la portò alla bocca. Poi tornò ad
accucciarsi sulle ginocchia, abbassò la testa e pregò. “Che io possa crescere sano e vigoroso,
diventare un uomo ed essere un grande re, regnare su uomini e terre con
saggezza e forza!” Il dio avrebbe ascoltato le sue
preghiere? Gli sembrava passata un’eternità, a occhi
chiusi in quel dolce silenzio. Poi aprì gli occhi e il suo corpo era disteso
sul pavimento del tempio. Si era addormentato. E accanto a lui... vi era il
dio. La statua aveva preso vita e ora sembrava un uomo, l’uomo più bello che
il ragazzo avesse mai visto. Il suo viso virile era incorniciato dalle onde
d’oro della barba e della chioma leonina, bionde come il grano, simili a pura
luce. Il suo corpo possente sembrava di carne e sangue, eppure ammantato di
maestà divina. Gli sorrideva con l’affetto di un padre, la sua mano gli
carezzava i riccioli. Ma poi si chinò su di lui, gli baciò la fronte. E poi
le labbra, e quello non fu il bacio di un padre. La sua bocca era dolce come
l’ambrosia divina, e come il miele della focaccia che la lingua del fanciullo
aveva appena assaporato. Il giovanetto sentì il calore salirgli
alle guance. Il dito del dio gli sollevò dolcemente il mento imberbe, poi
scese a percorrergli una linea nel mezzo del petto e dell’addome. La sua
carezza era dolce musica. Gli strinse delicatamente il sesso sotto la tunica
e il fanciullo lo sentì eretto per il desiderio. <<Stai diventando un uomo,
Ganimede!>> gli sussurrò il nume con un sorriso. Il giovane aprì gli occhi con un sussulto
e sentì il proprio corpo fremere. Era ancora in ginocchio ai piedi della
statua. Le ombre stavano già calando tra le colonne del tempio e i sacerdoti
avevano iniziato ad accendere le fiaccole. Era quasi sera e sapeva che gli
schiavi lo attendevano fuori dal tempio. Si alzò e rivide il volto del dio
che sorrideva, imperturbabile, rivolto all’orizzonte lontano. Gli dava una
strana sensazione quel viso, pareva dirgli che era bello e sussurrargli
promesse di gloria e di eternità, senza proferire una parola. Con un sorriso il giovane si allontanò,
altero nella sua tunica di seta dorata, i riccioli d’oro rosso che gli
scendevano giù dal capo. Uscì nell’ombra amena del boschetto sacro che
circondava il tempio, con un gesto ordinò agli schiavi di seguirlo e si
allontanò verso il palazzo della città di Troia cara agli dei. Nella Grande Sala il famoso cantore
cantava antiche storie e i nobili Troiani lo incitavano al canto, perché ai
suoi racconti gioivano. Narrava di come
un tempo le navi di Scamandro, principe di uomini,
erano giunte sulle ali dei venti alle coste della Frigia, in Asia Minore.
Giungeva da Creta ricca di porti, ai piedi del grande Monte Ida - ove Zeus
figlio di Crono era nato – sfuggendo una grande siccità per ordine di un
oracolo di Apollo l’Obliquo. Giunto in Asia Scamandro
vi fondò la sua casa, ai piedi di un monte che chiamò Ida, in ricordo della
montagna cretese. Battendosi coi selvaggi Bebrici,
in seguito il valoroso cadde, nel fiume che da allora gli uomini mortali
chiamano in suo onore Scamandro. Gli
succedette suo figlio Teucro, dal quale ebbe nome il popolo dei Teucri. A
Teucro succedette Dardano. A Dardano
seguì Erittonio, che fu il più ricco tra gli uomini
mortali. A Erittonio Troo.
A Troo Ilo. A
Ilo un oracolo ordinò di seguire una vacca pezzata e, laddove si fosse
fermata, di edificare dimora. Tornata nella Valle di Scamandro,
su una collina la bestia si stese a terra: qui Ilo costruì una città che
chiamò Ilio, dall’alte torri, o anche, dal nome di suo padre, Troia, cara
agli dei. E
Ilo pure generò un figlio perfetto, Laomedonte. Da Strimo, figlia del fiume Scamandro,
Laomedonte generò la vergine Esione
bei riccioli e Lampo e Clizio e Icetaone
caro ad Ares, il dio della guerra, e Podarce e,
primo fra tutti, Ganimede simile ai numi, che è il più bello tra gli uomini
mortali... destinato a divenire un grande re! Le parole alate dell’aedo volavano via
nella Grande Sala del fuoco. <<Il più bello tra gli uomini
mortali!>> lo riecheggiò canzonatorio il principe Clizio,
strattonando scherzoso il fratello Ganimede per i riccioli belli. Ganimede si
sorprese ritrovandosi all’improvviso sospinto a terra, distolto dai suoi
pensieri. Ma rapido attaccò di nuovo il fratello scaraventandolo via,
lasciando che si azzuffasse con Icetaone e gli
altri giovanetti. Non aveva più voglia di giochi da bambini quella sera. <<Destinato a divenire un grande
re...>> Il vecchio cantore sapeva bene come adulare il re e i principi
per guadagnarsi il proprio pane. Era questo che aveva cantato l’aedo, si
chiese il principe, o era la sua immaginazione? Quelle parole danzavano via
tra i bagliori del braciere e le volute di fumo, verso il soffitto a cielo
aperto, nel crepuscolo dell’estate. Era la preghiera che aveva rivolto a Zeus
Signore. Ma qual era stata la risposta? <<Madre, davvero Ganimede è
destinato a divenire un re?>> chiese il piccolo Podarce
attaccato alla tunica della Regina Strimo. <<Sì piccolo mio.>> gli
sussurrò sua madre <<Suo destino è sedere sul trono di Troia quando
vostro padre sarà troppo vecchio!>>. Il bambino sorrise ammirato,
guardando il fratello, e poi corse a rifugiarsi tra le braccia della sorella Esione, che sedeva composta al lato della madre. Lontano, sopra la città, verso
l’orizzonte, le ombre della vetta dell’Ida si stagliavano nel tramonto. Con
un brivido la mente di Ganimede si perse nel pensiero di un altro grande
monte dallo stesso nome e di un altro giovanetto, un tempo come lui, che
aveva dimorato sulle sue pendici. Ora quel giovane era cresciuto, era un dio
e un re, il re più potente che avessero conosciuto gli dei e gli uomini
mortali. La Sala del fuoco si era riempita del
baccano dei giovanetti che si azzuffavano sinché non si zittirono alla vista
del Re loro padre che li guardava di sbieco, di sotto le sopracciglia
increspate. Non osavano mettere alla prova la sua pazienza. Poi il Re si volse verso l’aedo,
rivolgendogli parole alate: <<Perdonali, mio cantore! Bella è la tua
voce, Eufèmone. Sempre dolce è per l’animo
dilettarsi nella musica e nel canto ascoltando i racconti degli dei e degli
eroi del passato, dopo aver goduto del banchetto e della gioia conviviale. Ma
nessuno come te sa deliziarmi nel racconto delle gesta dei miei
padri!>>. Così il Re apostrofò il suo cantore e il vecchio sorrise
soddisfatto stringendo la bella cetra. <<Tu mi onori, Re Laomedonte! Ma adesso lascia pure che, dopo aver udito
silenziosi le imprese antiche, i tuoi figli rallegrino la Sala del fuoco con
le loro giovani voci!>> Il Re sorrise, compiaciuto della saggezza
del vecchio aedo, e ordinò che gli fosse versato vino puro delle sue vigne
affinché si rinfrancasse dalla fatica del canto. Le frasi fatte di un vecchio leccapiedi!
Pensò sprezzante Ganimede. <<Aspetta Eufèmone!>>
lo apostrofò <<Posso chiederti ancora un canto?>> <<Ganimede!>> lo trattenne Laomedonte <<L’aedo è già stato generoso con noi
questa sera, lascia che si riposi!>> <<Oh no, mio Re! Ti prego! >>
rispose il vecchio << Non vi è nulla che non canterei se può dar gioia
al mio Principe e signore!>> Ganimede gli rivolse un sorriso. Chi
avrebbe osato negare una qualunque cosa al principe erede di Troia? <<Grazie, mio buon Eufèmone! Tante volte io ti ho sentito cantare dei miei
padri e dei padri dei miei padri, di come giunsero su navi alate dall’Ida di
Creta, la patria di Zeus. Ma dimmi: ricordi tu la storia di Zeus Ideo
splendente? Di come giovanetto nacque e crebbe a Creta e di come divenne re
di tutti gli dei?>> Il musico sorrise a quella richiesta.
Ricordava quella storia, ascoltata molto tempo prima dai sacerdoti del
Tempio. <<Oh certo, mio bel Principe! Non ricordi più quando eri
bambino e già accanto alla tua culla io ti narravo spesso la storia di Zeus Cronide Tonante, di come nacque e come poi sedette re sull’Olimpo?>> <<Forse!>> replicò il
Principe. Ricordi lontani dell’infanzia gli sovvennero, della barba del
cantore, forse meno lunga e meno grigia di adesso, mentre lui la tirava tra
le sue manine. E di un racconto ascoltato forse tante volte eppure confuso in
tinte sfumate nel dipinto della memoria. Di una storia sussurrata mentre lo
cullavano, nell’attesa che i dolci Sogni, figli del Sonno, venissero a
baciare le palpebre di un tenero bimbo. Non i Sogni vani, ingannevoli, che
dimorano con le Arpie e le Gorgoni sui vasti rami di un olmo alle porte del
regno dei morti, ma i Sogni luminosi e divini che vengono da Zeus. Così l’aedo iniziò a cantare. Cantò di come la Titanessa
Rea, domata da Crono, re del Cosmo, aveva partorito splendida prole: Estia e Demetra ed Era dai sandali d’oro e il forte Ade e
Poseidone, l’altitonante
Scuotitore della Terra. Ma il grande Crono sapeva che per lui era destino
esser sconfitto da uno dei suoi figli. Per questo li inghiottiva tutti. E un
dolore crudele possedeva Rea. Ma quando stava per partorire il più giovane
dei figli, il grande Zeus, ella si recò a Creta e affidò il piccolo alla
Madre Terra, che lo nascose in un antro scosceso, nel monte Ida, coperto di
boschi. A Crono, invece, avvoltala in fasce, Rea depose tra le mani una
grande pietra. Ed egli la pose giù nel suo ventre.... Quella sera Ganimede era frastornato
quando si ritirò a dormire nella camera che divideva con i fratelli. Tutte
quelle immagini meravigliose, quelle storie nella testa. Non si sarebbe mai
stancato di ascoltarle. Si distese tra i morbidi cuscini, ma faticava a
prendere sonno. La luna crescente risplendeva nel cielo e filtrava attraverso
le tende illuminando la stanza. Sembrava animare di vita propria le figure
dei cacciatori e delle fiere affrescati sulle pareti della camera dei
principi. Da bambino Ganimede era stato irretito dal loro rincorrersi. Nella
penombra sembrava una grandiosa scena di battaglia. La figura di un possente
guerriero dalla barba bionda troneggiava mentre lottava contro una fiera.
Ganimede immaginava di essere lui, a capo di quella potente torma di
guerrieri, non appena avesse avuto l’età per andare in guerra. Sarebbe stato
un grande e potente capo di eserciti, come lo era suo padre e come un tempo
era stato Zeus contro i Titani e i Giganti. Chiuse gli occhi, attendendo che il dolce
Sonno giungesse in punta di piedi a baciargli le palpebre, delicato come un
raggio di luna. Come il soffio della brezza che gonfiava le tende e volava a
scompigliare le sue lenzuola e a sfiorare tiepido il suo corpo nudo sotto di
esse. Quel vento sembrava davvero una carezza, delicata come il tocco di mani
umane, mani grandi dalle dita invisibili che giocavano con i suoi riccioli,
solleticavano le sue guance, descrivevano cerchi concentrici sulla sua pelle.
Carezze dolcissime e quasi impalpabili tracciavano disegni invisibili lungo
la sua schiena e lo attiravano nel dolce abbraccio di un corpo possente e
forte. Ganimede si abbandonò a quella stretta, al suo calore, come in un
porto sicuro, nella dolce culla dei sogni, lasciando che il morbido massaggio
di quella presenza aeriforme desse sollievo alle sue membra. Nella penombra
ebbe la sensazione che labbra invisibili gli sfiorassero la fronte. Sentiva
la luce della luna baciare le sue palpebre chiuse e danzare tra le ombre del
suo corpo attraverso le lenzuola. Avrebbe riconosciuto quella bocca tra
mille. Voleva aprire gli occhi, ma una sorta di strano terrore lo invase che
quella specie di sogno meraviglioso svanisse. Era certo che se i suoi occhi
avessero sfidato la semioscurità, avrebbero visto la luce della luna prendere
l’aspetto meraviglioso di un dio. Ma non era Hypnos,
il dio del Sonno. Era un dio infinitamente più grande e potente, dal capo e
dal mento incorniciati di onde dorate e dal volto colmo di maestà e di
infinito amore. <<Non dormi, bel Ganimede?>> sussurrò la calda
brezza del sud nel suo orecchio <<Sei ancora sveglio, mio piccolo fiore
d’oro?>> Ganimede sentì le labbra del dio baciare
di nuovo le sue. Erano morbide, simili a un frutto di fico appena spezzato e
mille volte più dolci, avevano il sapore dell’immortalità. Infinitamente
delicate eppure vibranti di un voglioso desiderio che si trasmise a tutto il
corpo del ragazzo come un fremito lungo la colonna vertebrale. Ganimede ebbe
come la sensazione di fluttuare nel vento, stretto tra le braccia del dio,
che lo sorreggevano al sicuro, e poi di affondare nella coltre soffice di una
nuvola. Aprì gli occhi e gli sembrò che la luna fosse vicinissima, come una
fiaccola d’oro sospesa poco più su del suo capo. Se avesse sporto la mano,
avrebbe potuto toccarla o raccogliere una manciata di stelle dal firmamento
sopra di lui. E accanto a lui vi era il dio, ancor più bello di come lo
ricordava. Negli occhi del nume si persero quelli del fanciullo, in quell’azzurro
intenso e fondo, mentre le dita del dio si perdevano nel gioco spiraliforme
dei suoi riccioli. <<Dove sono?>> chiese il
giovane. <<Vedi>> gli sussurrò la voce
dolce del dio mentre indicava sotto di loro <<Quella laggiù è la tua
patria!>> Ganimede guardò verso il basso e gli
parve che Troia fosse infinitamente lontana sotto di loro, con i suoi mille
fuochi che si spegnevano via via lungo le mura dopo
il calar del sole, maestosa come una regina eppure così piccola, ai piedi
dell’ombra del Monte Ida, ben più imponente, ma piccolo esso stesso, laggiù,
in mezzo alla Valle dello Scamandro, che
serpeggiava sinuoso sino al mare. <<È
da quassù che voi dèi guardate il mondo dei mortali?>> <<Ti
piace, piccolo mio, il mondo visto da quassù?>> <<Mi
piace guardarlo assieme a te. È un sogno quello in cui mi trovo, o sono morto
e questi sono i Campi Elisi?>> <<Tu
cosa credi?>> <<Non
lo so, ma se questo è un sogno vorrei sognare per sempre! E se l’Elisio è
così, vorrei davvero mille volte essere morto!>> <<Non
dire queste cose!>> Gli sussurrò affettuosamente il dio <<Posso
regalarti ancora cento e mille notti come questa se solo lo vorrai!>> Era
quello il possente e spietato re del cielo che aveva affrontato e sconfitto i
Titani armato della sua folgore? Pareva incredibile a vederlo adesso, semisdraiato su quella nube con il viso sorridente,
mentre si sporgeva vicino alle ginocchia del fanciullo seduto, e tendeva un
dito a vezzeggiargli scherzosamente il mento. <<Cos’è che desideri di più,
Ganimede?>> Il ragazzo pensò a quello che aveva
sempre saputo essere il suo destino. Perché esitava a rispondergli? <<Divenire un uomo forte e valoroso
come te! Essere re di Troia, combattere guerre eroiche, comandare il potente
esercito dei Teucri e sottomettere terre sterminate. Desidero una gloria che
possa almeno lontanamente onorare la tua e vivere per sempre, reso immortale,
nei canti degli aedi, quando sarò disceso sotto la nera terra. Tu puoi
donarmi tutto questo?>> <<Potrei donarti molto di
più!>> rispose il dio baciandogli i capelli d’oro <<Ma i canti
degli uomini ti ricorderanno per sempre, di questo puoi stare certo!>> <<Davvero divenisti re del cielo
scacciando tuo padre?>> chiese curioso il giovanetto. <<Molte cose cantano le Muse agli
uomini, talune sono belle menzogne, altre verità, ma io a te voglio
raccontare solo la verità!>> <<Raccontami, allora! Te ne
prego!>> Il dio sorrise, gli tese la mano e lo
attirò a sé, facendogli appoggiare la testa contro la propria spalla. Gli
baciò ancora la fronte e iniziò a narrare. Gli
narrò come fosse cresciuto sulle pendici dell’Ida di Creta, allevato dalle
Ninfe, nutrito con gocce di miele dorato e con il latte della Capra Amaltea. Da bambino si divertiva ad andare a cavallo
della capretta e un giorno per errore, in un impeto di forza le aveva
staccato un corno. Scoppiato poi a piangere per il guaio commesso aveva
chiesto alle ninfe perdono e aveva reso immortale la sua nutrice. <<Vedi quelle stelle
laggiù?>> gli fece indicandogli il confine del cielo verso l’orizzonte,
tracciando a distanza con l’indice la sagoma di una costellazione dalla forma
di capricorno <<Quella è Amaltea! Ne ho
immortalato per sempre l’immagine lassù nel cielo!>>. <<Che
bello! Ora lei vive per sempre e tutti la ricordano!>> sospirò
Ganimede. <<Vorresti
essere accanto a lei e che ammirassero anche la tua immagine?>> Il
fanciullo non rispose, si limitò a sorridere trasognato. <<Sei già
vanesio, piccolo mio!>> sorrise Zeus. A Ganimede veniva da sorridere al
pensiero che quel dio possente un tempo era stato un bambino, un bambino che
giocava a cavalcare una capra. Si accoccolò su quel petto forte, sul solco
della valle in mezzo alle alture, sentendosi al sicuro dal mondo intero. Quel
torace era una pianura sterminata e immensa, rigonfio di forza possente,
eppure morbido e accogliente. La sua pelle liscia come il lino egizio in cui
erano intessute le lenzuola dei principi, profumata e dal sapore dolce. E poi Zeus gli narrò di come fosse divenuto
grande. Quanto rapidamente il suo vigore e le sue membra possenti fossero
cresciute. Ancor giovane si era presentato al crudele padre Crono nelle vesti
di un bel coppiere. Era salito sulle sue ginocchia porgendogli la ciotola
dell’ambrosia, la coppa d’oro del dolce nettare. Incantato dalle sue moine
Crono aveva bevuto. Ma nella coppa era mescolato un emetico e il grande
Crono, vinto dalle arti del proprio figlio, aveva rigettato la prole
inghiottita in precedenza. Per prima vomitò la pietra e poi tutti i fratelli
di Zeus. E Zeus narrò come assieme ai fratelli
avesse mosso guerra ai Titani, i fratelli di Crono, guidati dallo smisurato
Atlante. Armato del suo solo coraggio, era disceso nelle dimore sotterranee
del Tartaro all’estremità della Terra, e, per volontà di un oracolo, aveva
liberato i Ciclopi, dall’unico grande occhio, maestri della fucina, che dal
cratere di un vulcano gli avevano forgiato armi formidabili: il tuono e la
possente folgore. Così equipaggiato, aveva inseguito i Titani sul dorso del
mare e della Terra nera, colpendoli con la possanza del fulmine, e li aveva
scaraventati nel Tartaro. E poi, assieme agli altri dei, aveva ucciso anche i
tremendi Giganti dalle code di serpenti, e, vittorioso, aveva calpestato i
loro cadaveri, ritto sul carro d’oro, colla folgore balenante nella sua
destra. Allora il dio e i suoi fratelli avevano tirato a sorte per dividersi
il regno del cosmo: a Poseidone era toccato il
vasto mare, ad Ade i regni sotterranei
dell’Erebo e del Tartaro, che in seguito accolsero le anime dei defunti... <<...
e a me...>> concluse Zeus <<... a me toccò la vetta nevosa
dell’alto Olimpo e il vasto cielo, l’aere
sconfinato in cui splende la luce di Elio, il Sole. Per nulla al mondo lo
cambierei con un altro regno, perché di quassù posso scorgere il mondo intero
degli uomini. È da quassù che ho scorto te, la tua bellezza, mentre assieme
agli altri fanciulli troiani bagnavi il tuo corpo in fiore alla foce dello Scamandro, nelle acque del golfo del mare!>> Tante
e tante volte Ganimede aveva udito quei racconti, ma mai e poi mai era stato
come udirlo dalla bocca di chi lo aveva vissuto davvero. Era estasiato,
sognava a occhi aperti, sdraiato con la testa sulle ginocchia del dio, mentre
la mano di lui giocava coi suoi riccioli e scendeva ad accarezzargli la
fronte, il viso, il petto nudo. <<E dimmi delle... dee e delle
donne mortali che hai amato?>> chiese il ragazzo <<Sono davvero
tante come narrano i canti degli uomini?>> <<Molte e molte di più!>>
rispose il dio con un sorriso complice e malizioso e un’ombra di furfantesco
orgoglio sul viso. <<Raccontami di loro...>> <<Sei un ragazzo curioso e
impertinente!>> Zeus interruppe le sue gentili carezze per dargli un
pizzicotto. Ma con un sorriso, e con aria compiaciuta
gli narrò di come aveva sedotto sua sorella Era, in un giorno di gelo,
mutandosi in un cuculo. La giovane dea, impietosita, lo aveva accolto nel
proprio seno per scaldarlo e allora, ripresa forma umana, il dio non aveva
esitato ad approfittare di quella felice posizione. In seguito ella era
divenuta sua sposa e regina degli dei, ma il dio non si era certo
accontentato né si era mai stancato di andare a spargere il proprio seme
divino altrove. Narrò di come si era mutato in un bellissimo e possente toro
per incantare l’innocente curiosità di Europa, figlia del re di Fenicia, e
come poi, una volta avutala a portata di mano, se l’era caricata in groppa e
l’aveva rapita. Narrò di come aveva corteggiato e sedotto Io, principessa di
Argo e poi, per sottrarla allo sguardo geloso di Era, l’aveva mutata in una
giovenca bianca. Di come, per violare la cintura della bella Alcmena si era divertito a prendere l’aspetto di suo
marito Anfitrione, mentre quello era lontano in guerra. E di come aveva
inseguito per il mare e per la Terra sterminata l’altezzosa Nemesi: quella
per sfuggire al suo sguardo aveva assunto l’aspetto di un’oca bianca, al che
lui, senza fare una piega, si era mutato in un bel cigno e l’aveva ingroppata... Ganimede
rise. Era ammirato dall’impudente vigore virile del dio e con l’ardente fuoco
dei giovani continuava a sognare ad occhi aperti quei connubi e tutti i loro
segreti. <<E tu, piccolo Ganimede>> lo
apostrofò il dio divertito <<sogni già l’amore delle donne?>> <<Quando avrò l’età per amare,
vorrò conoscerne parecchie anch’io!>> sentenziò fiero il fanciullo. <<E adesso? Il tuo corpo è già ben
fatto, ben esercitato dalla caccia e dalla lotta!>> lo adulò il dio,
percorrendogli con il dito i contorni dei muscoli del petto e dell’addome
<<Hai già l’età giusta per essere amato da un uomo? Di certo tanti
uomini virtuosi e valorosi aspirano a corteggiarti!>> Ganimede si voltò a pancia sotto, la
testa nel grembo del dio e lo fissò: <<Qualcuno, sì! Ma non ne ho ancora
scelto nessuno!>> <<Sei crudele e lasci languire il
loro cuore?>> la mano del dio continuava a discendere sulla pelle
morbida della schiena, tracciando spirali concentriche lungo la linea della
colonna vertebrale. <<Attendo di trovare un uomo di
vero valore.>> il ragazzo guardò il dio in tralice <<Come è
giusto che faccia un ragazzo saggio!>> <<E non hai trovato l’amante degno
di te?>> Le mani del dio scesero a sfiorargli le natiche. Ganimede
sussultò, ma il tocco del dio era tanto delicato che non poté e non volle
opporsi. Si sollevò, appoggiandosi su un gomito e alzò il viso a sfidare lo
sguardo del dio, serio e senza vergogna: <<Se devo essere amato da un
uomo, voglio che sia come te!>> Il dio ricambiò lo sguardo in silenzio, e
rispose con un sorriso, con il suo sorriso. <<E tu... >> soggiunse
Ganimede << ... da ragazzo, sei mai stato amato da un uomo?>> Zeus non rispose a una domanda di cui
forse nessun mortale avrebbe mai conosciuto la risposta. Si limitò a
carezzargli la guancia imberbe nella mano a coppa e, chinatosi, lo baciò
ancora. Le belle labbra del dio, rosse come il corniolo, in mezzo alla barba,
erano vive e traboccanti di amore. Lo ricoprirono di una pioggia di baci dal
sapore dolcissimo, sulla bocca, su tutto il viso e sul suo corpo dalla pelle
ancora diafana e liscia. Ganimede si abbandonò al desiderio del dio, su
quella sorta di morbido letto di nuvole, così simile a quello in cui dormiva
nella reggia. Sentì il proprio corpo gioire, dolci fremiti iniziare a
scaldarlo. Chiuse gli occhi aggrappandosi al corpo possente del dio sopra di
lui, abbracciato al suo. Si abbandonò a quella oscurità di desiderio,
fluttuandovi come nella brezza che lo sfiorava. Le labbra del dio discesero sulle spalle,
sul petto, deliziarono i suoi capezzoli facendo vibrare le corde della sua
anima, poi discesero lungo il ventre e giù nell’oscuro segreto delle
lenzuola. Quella bocca era come una sorgente da cui zampillava gioia, era
essa stessa la gioia e in pochi attimi il fanciullo sentì il suo corpo
tendersi come la corda di un arco e poi scoccare. La gioia si riversò
prepotente e senza freni in tutto il suo corpo. Voltolandosi, Ganimede si
sentì di nuovo immerso nell’oscurità della propria stanza, nella reggia di
Troia, e sentì le lenzuola intridersi del suo piacere umido e viscoso. Senza
pensarci si voltò, annaspando nel vuoto dell’assenza del dio. Si aggrappò ai
morbidi cuscini simulando il ricordo di quell’abbraccio. Il bacio del nume si
posò sulle sue palpebre: <<Ora dormi, mio piccolo fiore d’oro>>.
E il fanciullo si addormentò, abbandonandosi alla dolcezza dei sogni per
ritrovare in essi l’abbraccio del suo dio. Quando
mattutina apparve Aurora dalle dita di rosa nella fertile piana di Troia, i
principi e gli altri giovani della corte si misurarono nella lotta, nel campo
sotto le alte mura del palazzo. Ganimede, Lampo, Icetaone
e Clizio, figli di Laomedonte,
e con loro Pantoo, Timete,
Ucalegonte, Antenore e
molti altri valenti giovani di stirpi illustri. Gettate a terra le tuniche,
avanzavano due a due in mezzo all’arena, levando l’uno incontro all’altro le
mani pesanti. I corpi nudi sotto il sole, giovani e imberbi ma già vigorosi e
allenati. Uno sull’altro s’abbattevano insieme, insieme le mani pesanti
intrecciavano. S’udiva terribile scricchiolar di mascelle, scorreva il sudore
per tutte le membra. E due a due si abbracciavano con le braccia robuste. Su
tutti il glorioso Ganimede nella lotta eccelleva, uno ad uno abbatteva i suoi
avversari. Scricchiolavano le schiene duramente stirate dalle intrepide
braccia; e l’umido sudore scorreva, e fitti gonfiori lungo i fianchi e le
spalle nascevano rossi di sangue; ma incurante il figlio di Laomedonte sempre più ambiva alla vittoria. E da ultimo
si misurò con suo fratello, il forte Icetaone.
Quello cercava di alzarlo, ma pensò un inganno Ganimede, al polpaccio riuscì
a colpirlo da dietro e gli sciolse le gambe; cadde all’indietro Icetaone e anche Ganimede sul petto gli cadde; gli altri
intrepidi, in cerchio, guardavano e rimasero stupiti. Caddero entrambi per
terra uno sull’altro e si sporcaron di polvere. Ma
ecco il glorioso Ganimede si rialzò e colpì l’avversario, sperduto, alla
guancia e quello non resistette, gli si afflosciarono le belle membra e
traballò sotto il colpo. Il magnanimo Ganimede lo afferrò e lo rimise in
piedi; gli amici gli furono intorno e lo guidarono attraverso l’arena. Ed esultante Ganimede levò le braccia
agli dei del cielo gioendo per la vittoria, il sudore lucente sulla fronte e
sulle membra tornite. <<Bravo
fratello!>> esultò il piccolo Podarce fuggito
chissà come fuori dalla reggia per assistere ai giochi. Gli corse incontro e
Ganimede lo sollevò tra le braccia. <<Insegnerai anche a me a
lottare?>> <<Presto, fratellino! Appena
crescerai!>> <<E quando sarai grande e diverrai
re di Troia, darai anche a me una spada e uno scudo perché combatta tra i
valorosi?>> <<Aspetta di crescere e goditi la
giovinezza!>> gli rispose lui con un sorriso, baciandogli i riccioli
scuri. Era un bel bambino, ma nessuno dei fratelli aveva gli stessi boccoli
d’oro rosso e risplendeva di bellezza quanto Ganimede. <<Avrai tempo
per pensare alla battaglia e alle armi!>> <<Io voglio combattere!>>
fece il piccolo adirato levando i piccoli pugni contro il torace sudato del
fratello che si lasciò colpire ridendo. <<Non devi preoccuparti di questo!
Al termine della primavera prenderò le armi e penserò io a proteggerti,
piccolo mio! Come fa nostro padre e presto faranno i nostri
fratelli!>>. Una strana ombra cupa gli sembrò velare il volto del
bimbo, come un’inconsapevole promessa di sventura. <<Podarce!!!>>
lo richiamò innervosita una voce femminile. Era la sorella Esione dall’alto delle mura del palazzo, le bellissime
grazie nascoste dal velo virginale. <<Allontanati dalla lotta! È
pericoloso! Torna dentro, subito!>> Ormai in età da marito, la fanciulla
era già protettiva come una madre e adorava il suo fratellino diletto. <<Va’!>> gli sussurrò
Ganimede <<Prima che nostra madre si angosci!>> Poggiò a terra il
piccolo che trotterellò verso la reggia. Ganimede levò lo sguardo a salutare
la sorella e vide, dietro di lei, le fanciulle della reggia, accorse, colla
scusa di scortare la principessa, per assistere agli allenamenti dei loro
coetanei. Colse i loro sguardi adoranti, l’ammirazione con cui contemplavano
la sua forza, eccitate dalla sua vittoria e sentì un avvampante calore, misto
a un moto di fiero orgoglio, salirgli al viso. Nell’arsura
del mezzogiorno, i giovani lottatori trovarono ristoro dalle fatiche tra gli
alberi nelle acque di un lago. Scherzando si schizzavano tra loro, giocavano
a tentare di annegarsi, deridevano le rispettive cadute nella lotta. Tutti
guardavano con ammirazione a Ganimede, ma lui se ne stava solo, silenzioso,
in disparte, lavando via la polvere dalle belle membra. Usciti gli altri,
rimase là, da solo e contemplò il proprio riflesso nello specchio dell’acqua.
Per la prima volta si accorse che gli piaceva la sua immagine. Oro rosso
erano le sue chiome che scendevano a incorniciare il viso in volute di
boccoli. Un viso efebico, simmetrico e perfetto che lo scultore cretese Dedalo
avrebbe pagato una fortuna per poter ritrarre. Gli occhi erano verdi come il
cedro di Biblo, le labbra piene, del colore del melograno. Si sfiorò le
guance, erano ancora lisce e diafane, lanugine bionda le sfiorava appena.
Ganimede era ansioso che la prima barba spuntasse ad adombrarle. Il suo corpo
era ancora giovane e flessuoso ma già ben sviluppato e stava acquisendo la
forza di un uomo. La peluria non lo sfiorava ancora ma le membra solide si
definivano sotto la pelle soffice e l’ampio torace era pronto per l’armatura
che presto avrebbe sostenuto. Ganimede sapeva quanti uomini valorosi a corte
sognavano lo splendore dei suoi riccioli e la purezza delle sue belle cosce e
delle natiche implumi. Come sapeva che già le donne iniziavano a desiderare
la sua nascente virilità e il vigore del suo corpo. Dal canto suo, sino ad
allora non gli era interessato. Presto sarebbe divenuto uomo, avrebbe preso
le armi e sarebbe stato pronto per amare donne e giovanetti. E già da qualche
stagione sapeva di essere pronto per essere amato da un uomo. Molti
cortigiani gli offrivano doni, uomini di valore facevano a gara per
avvicinarlo durante l’esercizio della lotta, la caccia, i banchetti. Lui
sapeva quale onore gli avrebbe reso la corte di un amante davvero virtuoso, ma
qualcosa lo tratteneva. Neppure lui sapeva dire cosa. Altero e chiuso in sé
stesso si aggirava per le alte sale del palazzo e per il vasto regno
lasciando che gli occhi lo ammirassero ma senza aprire il suo cuore ad essi.
I piaceri dell’amore gli erano sempre stati indifferenti. O forse temeva il
turbamento che essi arrecano all’animo di chi li accoglie? Mentre il caldo
del meriggio solleticava la sua pelle i ricordi scaldarono la sua mente,
ricordi dei sogni di una notte inquieta. E una serie di domande senza
risposta affioravano nel suo cuore. Mentre
usciva dall’acqua, si accorse che un uomo lo guardava. E ne fu compiaciuto.
Era uno dei compagni del Re, forte e robusto, con il viso cotto dal sole e
dalla battaglia e occhi verdi che scrutavano il ragazzo come quelli di un
falco, con lo sguardo di un guerriero sfrontato e senza paura. Ganimede cinse
la tunica e con la consueta noncuranza si diresse verso il palazzo. Era
abituato a essere ammirato e lusingato per la sua bellezza. Ma fino ad allora
nessuno sguardo adorante non gli avevano mai fatto battere il cuore a quel
modo. Il
giovane coppiere si sporgeva a riempire il calice del Re. Dopo aver colmato
la brocca di vino speziato al grande cratere, mesceva adesso nel cantaro
regale con somma maestria, appoggiato al bracciolo del trono. Il viso
autorevole del sovrano appariva ora addolcito, estasiato dalle grazie
seminude del giovane. Presogli il mento tra pollice e indice gli sollevava il
viso, fissandolo con occhi colmi di desiderio mentre quello gli rispondeva
col più innocente dei sorrisi. Vezzeggiandolo, il re gli carezzò una guancia
morbida, ancor chiara della prima bionda lanugine. Con braccio lesto se lo
attirò sulle ginocchia e gli porse la coppa invitandolo ad assaggiare la
prelibatezza che lui stesso gli aveva servito. Stringendolo a sé come uno dei
suoi preziosi tesori, gli sussurrava nell’orecchio gentili sciocchezze: che
le sue labbra erano più dolci del vino o altre lusinghe del genere. La mano
del guerriero sollevava la clamide del giovane per percorrere la schiena nuda
e liscia. Le labbra barbate si chinavano a baciare una spalla. E il ragazzo
con simulata remissività si lasciava stringere al forte petto del ricco Laomedonte, signore di popoli. Ganimede
si chiese se era così che Zeus si era avvicinato a Crono per riempirgli la
coppa fatale. Era frastornato. Non amava molto i conviti nella Sala degli
uomini. Il fumo delle lampade odoroso di resina e di papavero, la nenia
ipnotica suonata dalle flautiste seminude dalle chiome profumate, il rosso vino
egizio che negli uomini risveglia l’animo più molle e più selvaggio allo
stesso tempo, mentre, abbandonati tra i cuscini, sulle panche della sala,
cantavano sboccatamente il loro amore per belle schiave e giovanetti imberbi.
Sul fondo porpora delle pareti ondeggiava ritmicamente alla luce delle
fiaccole la danza di amplessi affrescati, le imprese erotiche di Zeus, così
diverse da come il ragazzo le aveva sognate la notte precedente. Con facilità
il giovane riconobbe il Toro di Europa e il possente guerriero biondo,
nascosto sotto l’elmo di Anfitrione. E più in là... il suo animo ebbe un
inquieto sussulto alla vista di una conturbante figura demoniaca contorta
sotto il corpo del dio bramoso. Le voluttuose grazie e i seni turgidi
sconvolti nell’amore, la testa rovesciata all’indietro che assumeva già
l’aspetto di una maschera orrida, le orbite cave degli occhi, le chiome anguiformi attorcigliantisi,
sparse a terra e la bocca che, a testa in giù, si apriva nel vorace sorriso
dai canini aguzzi. Lamia, figlio del re di Libia
Belo, molti figli partorì a Zeus, ma tutti glieli uccise Era, smaniosa di
gelosia. Sconvolta dalla furia ora insidiava i bambini altrui e si aggirava
nella notte simile a uno spettro. Agli uomini vogliosa s’accoppiava, ingorda
del loro seme, e nel culmine del piacere si abbeverava avida del loro sangue,
come fosse stato vino puro, prosciugando dal corpo la vita stessa e mutandoli
in vacue larve. Una bella suonatrice di cembalo, le
chiome sciolte sul seno nudo, sorrise voluttuosa a Ganimede. Lui ricambiò il
sorriso, ma non si alzò dal suo seggio, né tentò di avvicinarla. <<Posso
offrirti la mia coppa, Principe?>> lo apostrofò una voce guizzante e
stentorea alla sua destra. Il giovane Principe si voltò e vide il volto
conosciuto dell’uomo forte dal piglio di falco assiso accanto a lui, che gli
porgeva un calice a volute colmo di vino dal profumo inebriante. Il gesto era
cerimonioso e cortese, ma lo sguardo e le movenze tradivano il furore indomito
del guerriero selvaggio. Ganimede rispose con un sorriso e con un cenno di
ringraziamento del capo, ma non era affatto ansioso di bere e lasciar libera
la fiera che era in lui. <<Sono
Eucnemo, compagno di Re Laomedonte
in battaglia e di suo padre Ilo prima di lui!>> <<Lo
so!>> replicò Ganimede <<Ti ho visto altre volte nella Grande
Sala. L’offerta di chi è tra i più valorosi guerrieri di Troia mi
onora!>> soggiunse. <<Assaggia
il vino, allora. Non vi è invenzione più deliziosa del nettare di Dioniso,
che fa dimenticare all’uomo gli affanni!>> <<Ma
forse anche l’onore!>> replicò sprezzante il ragazzo, additando degli
uomini avvinazzati che si stringevano a due discinte cortigiane. <<E
dimmi, giovane Principe, oltre ai piaceri del vino disprezzi anche quelli
dell’amore?>> gli chiese l’uomo senza mezzi termini, fissandolo dritto
negli occhi. <<Dipende
se chi mi ama è degno!>> replicò lui, pensando all’immagine del dio
colmo d’amore tra le nubi del cielo. <<Se il suo amore è in grado di
rafforzare la virtù del mio animo, piuttosto che di fiaccarla!>> <<Sei un giovane saggio! Io non ero
così alla tua età, lo confesso!>> lo lusingò l’altro con un sorriso, abbandonandosisulla panca accanto a lui, appoggiato al
gomito <<Quando prenderai le armi?>> soggiunse <<Al sorgere dell’Estate!>>
replicò Ganimede con orgoglio <<...se me ne mostrerò degno!>>
soggiunse modesto. <<Sono certo di sì! Ma se posso
avere l’ardire di darti un consiglio: dopo aver combattuto molte guerre, dopo
aver visto amici e nemici morire nella polvere, in mezzo alla mischia della
battaglia, ho compreso che la gioia della vita è fuggevole e va colta intanto
che passa, ogni gioia che dagli dei ci è offerta, prima che l’animo altero
discenda nell’Ade, simile a un’ombra vagante.>> Il racconto delle esperienze di
quell’uomo affascinava il giovane. <<Hai combattuto molte
battaglie?>> gli chiese, desideroso di sapere. <<Ne porto ancora i segni con
orgoglio, mio Principe!>> rispose quello con viso impassibile e
distaccato. <<Davvero?>> chiese il giovane
curioso. <<Questo...>> replicò Eucnemo denudandosi una spalla forte e tornita e
additando un segno rosso alla base del collo robusto <<..è un colpo di
lancia infertomi quando seguii Re Ilo contro i Bebrici,
nostri antichi nemici.>> Poi si svolse la clamide di guerriero dal
braccio mettendo interamente a nudo il grande torace possente, e mostrando a
un lato del petto un ampio sfregio ancora roseo e tenero contro la pelle
color del bronzo, <<Questa invece me la fece un Frigio con la spada
quando, con tuo padre, sottomettemmo le loro terre! E questa...>>
concluse abbassando la veste e restando nudo sotto gli occhi ammirati del
ragazzo per mostrare una cicatrice sul basso ventre, poche spanne più su dei
punti vitali <<... una freccia delle Amazzoni, le tremende femmine
guerriere del Termodonte. Un giorno intero sino al
calar del Sole continuai a combattere con la freccia infissa nella carne,
sinché di fronte all’infuriare della mischia cruenta non decidemmo di
vincolarci reciprocamente a sacri giuramenti. Da allora le guerriere tremende
sono nostre alleate e in caso di guerra hanno giurato di accorrere in
soccorso di Ilio sacra!>> <<Davvero una ferita
terribile!>> balbettò ammirato il giovane <<Ma un corpo e un animo forti sono
necessari a un uomo per sopportare e sopravvivere!>> replicò serio il
guerriero, raccogliendo la clamide e risedendosi. <<Vorrei imparare a battermi col
tuo stesso valore!>> replicò Ganimede orgoglioso. <<Sarei onorato di addestrarti,
Principe!>> soggiunse il guerriero avvicinandosi a lui e porgendogli
ancora la coppa. Ganimede alzò gli occhi e vide un altro guerriero barbato
che vezzeggiava il giovane Ucalegonte e presolo per
mano lo conduceva fuori, nella notte, tra gli oscuri corridoi del palazzo, il
viso colmo di desiderio. Si voltò e vide lo stesso ardore sul volto fiero di Eucnemo. Perché no? Era bello Eucnemo,
forte, onorevole, il guerriero più valoroso che lo avesse mai corteggiato. Di
certo l’ amore di un simile amante gli avrebbe reso onore e molto avrebbe
potuto apprendere da lui sulle virtù di un uomo. Il guerriero tese la mano ad
accarezzargli una gota. <<... nulla mi onorerebbe più della
tua compagnia, del poter contemplare la tua bellezza...>> bisbigliò,
accostando il proprio bel viso al suo <<le tue guance lisce e
soffici...>> Una mano forte di Eucnemo si
poggiò sulla coscia del ragazzo e scivolò sotto la sua tunica ad
accarezzargli i testicoli, nel gesto che fa un uomo quando corteggia un
ragazzo. Ganimede sentì il suo corpo prontamente reagire, il desiderio
tendersi e fremere. Perché allora qualcosa dentro di lui si rivoltava a
quelle profferte? Perché il suo corpo si ritraeva e si divincolava
dall’abbraccio dell’uomo? Perché saltava giù dalla panca e fuggiva via, solo,
oltre la porta della Sala degli uomini, nel vestibolo buio, sotto gli alti
tetti d’oro? Corse nell’oscurità. Dietro l’ingresso di
un cubicolo udì i gemiti di una schiava posseduta con selvaggio desiderio dal
suo padrone. Si sporse oltre la tenda dell’ingresso e vide il corpo forte
dell’uomo disteso, la schiena e le natiche contrarsi e tendersi nell’impeto
dell’amore, la donna riversa sotto di lui, la chioma scarmigliata, il volto
rosso e contratto. Sporgendosi oltre la spalla dell’uomo vide Ganimede sulla
porta e gli sorrise. Ma lui fuggì via. Udì
voci sommesse all’ingresso di un’altra nicchia. Si sporse e vide un giovane
nudo sdraiato tra i cuscini e un uomo dal corpo villoso assiso accanto a lui
che lo stringeva. Aveva una coppa d’oro in mano, traboccante di vino. Lo
versava sulle cosce e sulle natiche del ragazzo per poi chinarsi ad
assaporarlo con foga febbrile. Ganimede sentì il suo desiderio sempre più
teso. <<Le tue natiche sono un prodigio degli dei! Ti prego donami il
tuo frutto proibito...>> supplicava l’uomo cospargendo il fanciullo di
baci. E quello si dimenava, non era chiaro se per ribellarsi o perché in
preda al godimento. Ganimede si allontanò nell’ombra delle alte colonne. Le
guardie non lo trattennero, era il Principe di Troia e aveva libero accesso
ovunque. Corse a perdifiato nella notte e infine
giunse in una corte all’aperto. La luna e le stelle si riflettevano
nell’acqua scura in una larga vasca di pietra, rampicanti dai fiori scarlatti
discendevano su di essa. Il fanciullo gettò via la tunica e si immerse nudo
nell’acqua fredda, sperando di stemperarvi i propri ardori. Guardò ancora una
volta la propria immagine riflessa, nella luce della luna. Aveva ragione Eucnemo? La gioia della vita volava via col volgere delle
stagioni? Vedeva già il proprio corpo divenire quello di un uomo possente, la
barba fulva incorniciare il suo bel viso. Ma che ne sarebbe stato della
bellezza e della giovinezza in fiore? Per la prima volta si chiese se la
barba non avrebbe sciupato il candore delle sue guance. Forse doveva affrettarsi
a cogliere il frutto maturo prima che appassisse? Allora perché fuggiva?
Guardò il suo volto riflesso e non era più il suo volto, era il volto del
dio, la barba lucente, il sorriso obliquo all’angolo della bocca, che gli
parlava riflesso nell’acqua: <<Perché sei turbato, bel
Ganimede?>> <<Tu puoi aiutarmi, mio
Signore?>> rispose lui tendendo la mano a sfiorarlo. Ma l’immagine
svanì, tra i cerchi nell’acqua. La brezza calda proveniente dalla Lidia
danzava a carezzare il corpo del ragazzo e increspava la superficie
dell’acqua. E nell’abbraccio dell’acqua lui sentì l’abbraccio del dio. Le
membra forti che lo stringevano, il loro calore, il petto vigoroso dietro la
sua schiena, la barba profumata contro il suo collo, il fallo eretto contro
le sue natiche, che non lo faceva fremere di timore, ma solo di desiderio.
L’abbraccio da cui mai e poi mai sarebbe voluto fuggire. <<Il prode Eucnemo
è un uomo virtuoso, non ti piace?>> gli sussurrò nella brezza la voce
del dio. <<Non lo so...>> esitò il
fanciullo confuso <<... non so se è quello che desidero!>> <<E cos’è che desideri?>> <<Te!!!>> rispose lui
adorante e senza esitazione. <<Davvero?>> <<Sì, mio dio, mio re, mio sogno
adorato!>> rispose con un abbandono di cui non credeva di essere
capace. Ganimede
chiuse gli occhi. Il dio gli prese il viso tra le mani, volgendolo
all’indietro e lo baciò. Le sue labbra dolcissime: Ganimede non poteva sapere
che sapore avesse l’ambrosia degli dei, ma immaginava che fosse lo stesso di
quella bocca. Quando
infine si staccò, il dio gli rivolse ancora alate parole. <<Quanto mi desideri?>>
domandava, mentre frattanto le mani ardenti scendevano a carezzare il petto e
le membra nude e bagnate del ragazzo e più giù, sotto il pelo dell’acqua a
infiammare le sue voglie. <<Con
tutto me stesso. Più di ogni altra cosa al mondo!>> rispose il giovane
come invasato. <<Più
dei tuoi sogni di regalità, di guerra e di gloria?>> replicò il dio,
bloccando la mano e trattenendo le carezze. <<Sì!>>
rispose Ganimede supplichevole senza pensare, come si fa nei sogni. Il
dio sospirò compiaciuto e le sue mani ripresero a scivolare sul giovane
corpo: <<... Ti ho detto che
posso donarti gloria immortale e molto di più!>> Ganimede si abbandonò alle onde
dell’estasi e si lasciò cadere a peso morto nella carezza dell’acqua. <<A
presto, mio bel fanciullo!>> parve sussurrare infine la brezza volando
via, verso occidente, verso il mare, lasciando Ganimede, solo e svuotato, a
contemplare la luna e le stelle. Quando
mattutina riapparve Aurora dalle dita di rosa, gli uomini andarono a caccia.
Ganimede eccelleva su tutti i giovani della corte con l’arco come con il
giavellotto. Cavalcava eretto sul suo destriero alla testa di un drappello di
giovani compagni. Mentre avanzavano sulle pendici dell’Ida e via via la vegetazione si infittiva pensò di nuovo ai boschi
dell’altro Ida, a Creta, e all’altro giovanetto che si aggirava in un altro
bosco, nascosto agli occhi feroci del padre. Eucnemo spronò il cavallo accanto al suo e gli
sorrise fiero. <<Buon giorno, mio principe>> lo apostrofò
accostandosi a sfiorargli il ginocchio con il suo <<Vorrei avere il
privilegio di accompagnarmi a te, oggi. Non vorresti vedere... come caccia un
guerriero?>>. Non si era offeso, dunque, per il suo
rifiuto, né aveva deciso di arrendersi. Dallo sguardo pareva anzi che la
sfida lo rendesse ancor più agguerrito. Ganimede era lusingato e divertito
dalla sua sfacciataggine. <<Potrei sorprenderti e uccidere il
cervo prima di te!>> rispose con un sorriso. <<E sia allora>> raccolse la
sfida <<non vedo l’ora di ammirare la tua abilità!>> Il valoroso
guerriero pareva divertito. Fu
gara senza posa. I battitori e i cani scovarono un gran cervo dalle alte
corna. Gli dei lo avevan messo sul loro cammino,
mentre scendeva al fiume dal pascolo della foresta. Lo inseguirono a cavallo
i cacciatori dai begli schinieri. Primo tra tutti era Ganimede, bello come un
dio. E secondo a lui solo Eucnemo, il prode
uccisore di cento uomini. Colpì la preda con una freccia alata del suo arco
il figlio di Laomedonte dai bei riccioli. Il sangue
scuro scorse sul manto dorato. Ma la bestia fuggì nel folto della foresta. A
perdifiato sinché alto splendeva Elio lo rincorsero i due cacciatori.
Ganimede correva come impazzito. I suoi occhi vedevano solo il cervo e le
gambe rapide affondavano nei fianchi del suo corsiero, pronto a balzargli
dietro verso la vetta dell’Ida, oltre gli alberi e la foresta, verso il
dirupo scosceso, verso il confine del mondo. Lo avrebbe inseguito sin sulle
rive dell’Acheronte se necessario, e oltre nel regno oscuro di Ade. Sentiva
il forte Eucnemo dietro di lui corrergli alle
calcagna, il suo forte petto ansimare. Per un attimo si chiese se l’uomo
rincorresse il cervo o lui. Sapeva cosa voleva e sapeva che avrebbe voluto
accettare, che tutto ciò lo avrebbe onorato. Ma qualcosa dentro di lui lo
spingeva a serrare i fianchi del suo cavallo e a correre via ancor più
veloce, quasi a levarsi da terra e spiccare il volo. E infine scagliò l’asta
di bronzo e colpì la preda, in mezzo alla schiena, alla spina dorsale la
trapassò. Cadde nella polvere il cervo, bramendo, volò via il calore di vita.
Eucnemo acclamò la sua abilità. Ganimede spronò il
suo corsiero a guadagnare la preda. Da qualche parte lo scroscio argentino di
una sorgente infiammò la sua gola riarsa. Oltre gli alberi vide l’acqua che
zampillava da una roccia, nascosta tra i rampicanti. Vi si diresse, assetato,
per trovare ristoro, rivolgendo una preghiera di ringraziamento alle Ninfe
invisibili, signore della fonte. Ma forse il Fato aveva decretato che non vi
dovesse mai giungere. Sentì la cavalcatura di Eucnemo
raggiungere la sua. Avrebbe dovuto frenare e smontare. Erano soli, nel bosco.
Sapeva cosa sarebbe accaduto adesso. Ma qualcosa gli disse che non sarebbe
accaduto. Mai. E d’un tratto fu ghermito e tratto su,
via dalla sella, levato davvero nell’aria come avesse spiccato il volo.
Violento sbattere d’ali che fendeva il vuoto dell’aere,
artigli che afferravano la tunica da cacciatore e affondavano nella carne
sotto di essa. Il giovane principe urlò. Eucnemo
urlò anch’egli e scagliò furioso la lancia, ma mancò il rapace crudele che
aveva ghermito il Principe. Simile a un falco o a un’aquila che saetta nell’aere, ma mille volte più grande e possente. Ganimede levò
gli occhi al cielo, al suo aggressore crudele, il suo cuore tremò e nel petto
il terrore lo invase. Ripensò all’aquila di Zeus librata e minacciosa,
scolpita nella pietra sulla spalla del dio, il cui solo sguardo aveva
trapassato il giovanetto come una lancia. Questa però era una vera aquila,
vere le sue strida, veri i suoi artigli, vere le sue ali immense che
fendevano l’aere, su, su e sempre più su, oltre le
chiome degli alberi, oltre il bosco selvaggio. Somigliava a uno dei grossi
grifoni che, stando ai racconti dei viaggiatori, combattono contro il popolo
degli Arimaspi monocoli nelle terre del freddo
Nord. Ganimede era disarmato, l’asta di bronzo
lontana, confitta ancora nel corpo del cervo, arco e faretra divelti dalla
ferocia del grosso rapace e gettati a terra, laggiù nella radura del bosco. <<Principe di Troia! Ganimede
simile a un dio!!!>> lo chiamarono le grida del cacciatore ormai
lontano. Ma le sue frecce mancarono l’aquila. L’uccello gridò e altri rapaci
crudeli planarono dal cielo in picchiata su Eucnemo
sventurato. Ganimede credette di udire le sue
grida. Forse le aquile avevano sconfitto il falco. Ma ormai era lontano, un verde tappeto il
bosco sotto di lui. Col cuore in gola temette che il rapace l’avrebbe gettato
giù, a sfracellarsi sulla Terra nera, ma quello lo tenne saldo tra i suoi
artigli e si levò nel cielo. Sorvolò la vetta dell’Ida immenso, che
improvvisamente parve solo una fragile altura, un mucchio di sassi su una
piana sterminata. Ganimede vide Troia cinta di torri, piccola come aveva
creduto di vederla quella notte, forse in sogno, assiso sui nembi divini di
Zeus signore. Arroccata sulle colline rocciose, che digradavano verso il
mare, tra i corsi dello Scamandro e del Simoenta che di lassù erano poco più di due rigagnoli
scintillanti. Vide le acque placide dello Stretto, solo
un piccolo braccio di mare, l’Ellesponto, e più
oltre le sponde dell’Europa. Ganimede rabbrividì, levato là sopra, tra gli
artigli dell’aquila. Sfinito temette precipitare da un momento all’altro,
l’oscurità calò dinanzi ai suoi occhi e gli parve già di vedere le rive
dell’Acheronte, fiorite di trifoglio e odorose di bianco muschio, e di udire
i canti tenui e soffusi delle anime beate traghettate dalla barca di Caronte
verso i canneti dell’Elisio. E invece volarono oltre, sulle sponde di
una terra brulla e montuosa. Ganimede ne aveva udito parlare dai suoi
precettori: era l’Ellade, terra dei guerrieri Achei
dai chitoni di bronzo che guidavano carri da guerra e solcavano il mare color
del vino sulle nere navi dalle guance di minio. Poi a occidente apparve di nuovo altro
mare, ove Elio fulgido si apprestava a immergersi colla sua quadriga. Oltre,
dicevano le leggende, vi era l’Esperia e poi le Colonne d’Eracle e oltre solo
l’ampio petto di Oceano che tutto circonda. Ma l’aquila volò verso la mezzanotte.
Montagne immense e impervie sfidavano il cielo stesso, forse dimora di
antichi Giganti. Oltre, secondo i racconti dei marinai elleni dovevano
esservi solo genti barbare. Tra quelle vette innevate rimbombava gelido il
soffio di Borea, il vento del nord. Ma l’aquila sfidò impavida la bufera, in
picchiata, come il filo di una spada di bronzo. Ganimede non aveva più fiato in corpo per
strillare il suo dolore, la sua tunica strappata via, gli artigli e il becco
dell’aquila continuavano a dilaniare la sua carne. Il vento intirizziva il
suo corpo e cristalli di neve iniziarono a sfregiare la sua pelle. Per quanto
forti e allenate fossero le sue membra sapeva che non avrebbe resistito
ancora a lungo. Chiuse gli occhi chiedendosi quanto mancasse alla fine. Gli
sembrava ormai di sragionare, la sua mente volò a Zeus, al suo amorevole e
sfuggente sorriso, alle sue promesse di gloria e si chiese dove fossero
finite, se non fosse stato tutto un inganno. Se non fossero stati solo sogni,
fantasie di un ragazzo ingenuo, vaghi ricordi dei racconti sussurratigli
nella culla. Se tutti gli dei non fossero solo l’invenzione di vecchi poeti e
di sacerdoti invasati. Ma poi chiuse gli occhi e pregò, perché in fondo cosa
aveva ormai da perdere? Pregò Zeus, in silenzio, poiché più non gli restava
voce. La presa dell’aquila non venne meno, ma d’un tratto gli parve che si
dissolvesse il dolore. Non erano più artigli a ghermirlo, ma mani umane, o
più che umane. Mani forti e solide, sicure. Il dolore a tratti divenne
piacere, o forse entrambe le cose insieme, e Ganimede sentì il corpo forte
del dio dietro di lui, che lo cingeva alle spalle, abbracciandolo e tenendolo
stretto a sé. Sentì il dolce effluvio dell’ambrosia soffiare dalla barba che
gli accarezzava il collo. E poi, levati in volo, si innalzarono
verso le vette dei monti, che scomparivano tra i nembi d’argento. “La vetta
nevosa dell’alto Olimpo!” risuonò il ricordo nella mente di Ganimede, in un
accesso di follia. E l’aquila volò oltre le nuvole, attraversò la loro
soffice coltre. Ganimede si chiede se era una visione della sua mente oramai
impazzita o se era morto e per qualche ragione il Regno delle Ombre aveva
quell’aspetto. E come per un prodigio sembrò che le nubi prendessero vita e
forma. Giardini fantasmagorici, boschetti, colombe e pavoni che s’aggiravano
qua e là, fontane lussureggianti fatti di forme aeree, simili a fantasie e
illusioni partorite dalla mente di un fanciullo impazzito. L’aquila si
appressò all’ingresso di un edificio simile a un tempio circondato da colonne
d’oro bianco. Condusse il giovane all’interno del sacrario, in una sala
maestosa e bellissima. Le colonne di simmetria perfetta erano anch’esse
simili alla sostanza aeriforme di cui son fatti i nembi. La cella illuminata
a giorno da lampade simili a stelle e un cielo stellato pareva il soffitto. E infine il rapace depose il giovanetto
ai piedi di un alto trono, su un pavimento di una sostanza simile a marmo
policromo, le cui piastrelle mutavano però di colore in una fantasmagoria
cangiante. Il giovanetto alzò gli occhi e contemplò il dio sul trono dinanzi
a lui. Era il vero dio, stavolta, splendente in
tutta la sua figura della stessa luce della folgore che stringeva nella sua
destra, mentre teneva lo scettro nella sinistra. L’aquila volò a posarsi
accanto a lui, sul bracciolo dello scranno d’oro. Era immenso il nume,
ricolmo di maestà. Ma Ganimede lo avrebbe riconosciuto ovunque. Era lo stesso
Zeus che gli era apparso nel tempio di Troia, lo stesso che aveva visitato i
suoi sogni ardenti e che gli aveva sussurrato nel soffio della brezza
notturna. Eppure non sorrideva. Ganimede era nudo e malconcio, in ginocchio
ai suoi piedi. Ma non colse amore né compassione nel suo sguardo. Di ciò che
ricordava, su quel volto era rimasta solo la brama, vogliosa e implacabile,
come era sempre stata e ancor più di prima. Il suo sguardo era colmo della
fiera forza del dio, lo stesso sguardo che aveva sfidato i Titani, il viso
del nume implacabile che li aveva messi in catene e gettati nel Tartaro, che
aveva inseguito i Giganti e li aveva annientati senza pietà colla forza della
folgore. Ganimede si chiese se tra coloro che, in battaglia, avevano visto
quello sguardo, qualcuno fosse mai sopravvissuto per raccontarlo. Si chiese
chi fosse davvero il nume che aveva dinnanzi. E cosa ne sarebbe stato di lui,
Ganimede, adesso. Quando
i cacciatori non trovarono più il Principe Ganimede, chiamarono a gran voce
il suo nome, ma nessuno rispose. Ritrovarono il suo arco e la sua faretra
gettati a terra in mezzo alla radura, il bel cervo giaceva tra l’erba,
trafitto da una delle sue frecce, ma lui non era lì, né vi era traccia alcuna
delle sue vesti, né di lotta o di sangue scuro. Batterono il bosco alla sua
ricerca ma nessuna traccia di lui era rimasta. Infine i soldati trovarono il
guerriero Eucnemo in fin di vita tra le rocce
dell’Ida, i visceri divelti dall’attacco delle aquile nere ed egli ansimò
rivelando che l’immane volatile s’era fugato il principe bello. Invano egli
aveva lottato e scagliato dardi alati per salvarne la vita, le aquile a
centinaia, rapaci e crudeli, lo avevano attaccato e ferito gettandolo poi a
morir nel dirupo. E infine spirò invocando il nome del Principe diletto.
Sognando la vista e il profumo dei suoi riccioli e delle sue cosce, la sua
anima discese sotterra. Allora terrore e angoscia scolorirono il
viso dei suoi compagni tutti. Piansero e gridarono i suoi fratelli, Lampo, Clizio ed Icetaone, caro ad
Ares. E quando i messaggeri di nuova infausta tornarono a Troia, grida di
furia echeggiarono sotto i tetti d’oro delle sale del re. Laomedonte
urlò irato contro i suoi compagni, minacciò di mandarli a morte tutti per la
scellerata distrazione. Poi, rimasto solo sul trono, si stracciò le vesti riempiendo
la grande sala di gemiti acuti: <<Oh, sangue del mio sangue! Oh,
orgoglio della mia casa! Dove hai condotto il mio ragazzo, oh pennuto
funesto? Dov’è l’ornamento più prezioso del mio palazzo? Dov’è il mio bel
Ganimede simile ai numi?>> Di
pianto si colmarono le sale delle donne, pianse la regina Strimo,
madre amorevole, pianse la principessa Esione,
piansero le donne e le fanciulle della corte, quante per i bei riccioli del
Principe avevano sospirato. Pianse per il fratello tanto amato il piccolo Podarce, stretto al grembo di sua madre. Ma
Laomedonte signore di popoli non poté darsi pace.
Né era certo di voler credere a quello che pareva essere il racconto di un
uomo agonizzante in preda al delirio. Comandò che l’intero regno di Troia
fosse battuto palmo a palmo, che ogni uomo o donna fosse interrogato per
conoscer la sorte del Principe precocemente involato. Ché fosse trovato
ancora vivo o morto, perché il bel corpo potesse conoscere sepoltura onorata
e l’animo precoce e infelice discendere almeno a trovar pace oltre le sponde
d’Acheronte nelle case di Ade, il duro portiere. Il re pianse giorno e notte
nella solitudine del suo palazzo e poi, non potendo trovar ristoro alcuno nel
sonno, decise di sellare il corsiero e di unirsi egli stesso alle ricerche
dei suoi soldati. Ritto in sella percorse la Troade
intera senza trovar traccia alcuna del suo adorato virgulto. Un giorno, piangendo e gemendo ancora,
attraversava una landa silenziosa, al limitare di un bosco ameno, ricolmo di
pace. Ma non c’era più pace nel cuore del Re. Là gli si fece incontro un
viandante dal mantello consunto, che conduceva alle briglia una coppia di bei
cavalli. Il Re lo fermò, ma ormai senza più speranza nell’animo altero.
<<Fermati, oh forestiero, che varchi la mia terra! Hai visto sul tuo
cammino un giovane vivo o morto? Il giovane più bello che mai abbia
contemplato occhio mortale: riccioli d’oro adornano la sua fronte, giovane
forza possente anima le sue membra e non ancora la nera peluria ne adombra le
guance e le cosce.>> Lo straniero lo guardò in viso e gli
rivolse parole alate: <<Laomedonte, signore
di popoli, se è il tuo figliolo che vai cercando io so bene dov’egli si
trovi. E invero non devi versare più lacrime, ma gioire nel cuore tuo altero,
poiché il saggio Zeus in persona ha rapito il biondo Ganimede a causa della
sua bellezza, perché abitasse con gli dei e facesse loro da coppiere nella
casa di Zeus: è un prodigio per gli occhi, e tutti gli immortali lo ammirano,
quando attinge rosso nettare dal cratere d’oro. Immortale sarà adesso e
libero da vecchiaia al pari di un dio.>> Trasecolò incredulo il cuore del Re Laomedonte: <<Chi sei tu? Come mai alletti il mio
cuore con tali inverosimili racconti?>> Allora lo straniero gettò via il manto e
svelò il suo aspetto, biondo e lucente, simile a un ragazzo di primo pelo, la
cui giovinezza è leggiadra, una verga d’oro stringeva in mano. <<Io sono Ermes!>> gli disse
<<L’araldo divino, l’uccisore di Argo dai Cento Occhi. Per ordine di
Zeus giungo a istruirti sul suo volere. Non piangere più la dipartita del tuo
fanciullo. Zeus ha avuto pietà di te e per ripagarti del figlio perduto ti
dona questi cavalli immortali dal pie’ di tempesta,
degni di trainare il cocchio di un dio.>> Laomedonte
vide i destrieri che il dio teneva alla briglia, il candore della neve li
ammantava e potenza immortale spirava dalle loro nari. <<Sono in grado
di volare come il vento sull’acqua e sopra i campi di spighe mature. Lasciali
congiungere alle cavalle delle mandrie prodigiose del tuo avo, il sire Erittonio, ché generino una stirpe di divini corsieri. Ma
ricorda un giorno, nell’ora di necessità, non esitare a donarle in cambio
della salvezza per te e i tuoi cari, se non vuoi che sciagura te ne
incolga.>> Di sotto la tunica preziosa cavò poi un meraviglioso ramo
lucente come oro zecchino, pareva cesellato dall’arte di un fabbro divino, ma
vere erano le radici e veri i suoi morbidi pampini. <<Questo>>
soggiunse <<è un virgulto di vite d’oro, dorate son le sue foglie e oro
lucente saranno i suoi grappoli, piantalo nei tuoi giardini e gioisci del suo
eterno splendore!>> Ciò detto andò via, s’involò l’Uccisore di Argo,
ali svelte ai suoi piedi, tornò sull’alto Olimpo, percorrendo la terra
boscosa. Alla
vista di quelle meraviglie, balzò di gioia a Laomedonte
l’avido cuore. Strinse voglioso le redini e il virgulto d’oro nel pugno e si
lasciava trasportare al galoppo dai cavalli impetuosi, deposto ormai il
dolore per il figlio perduto. Giunto
alle grandi sale del palazzo, gettò le vesti consunte con cui era andato
ramingo. Fece approntare il bagno e convocare schiavi fanciulli che lavassero
e massaggiassero il suo corpo possente. Quando fu lavato e profumato, indossò
la tunica d’oro, cinse la corona, strinse lo scettro. Assiso sul trono
convocò l’assemblea e impartendo comandi, rivolse loro parole alate:
<<I cavalli divini dal pie’ di tempesta siano
lavati e nutriti e custoditi gelosamente nelle mie stalle, non sian lasciati volar via com’è avvenuto al mio Principe o
stavolta davvero il responsabile lo punirò con la morte! Il virgulto d’oro
sia piantato nella mia vigna, ché fruttifichi e prosperi la mia vite dai
frutti d’oro, perpetuo ricordo del favore di Zeus che baciò Laomedonte signore di popoli. E infine gioisca a festa
Troia divina e tutto il mio regno, perché il saggio Zeus in persona ha rapito
il biondo Ganimede a causa della sua bellezza, perché abitasse con gli dei e
facesse loro da coppiere nella casa di Zeus: è un prodigio per gli occhi, e
tutti gli immortali lo ammirano, quando attinge rosso nettare dal cratere
d’oro. Immortale sarà adesso e libero da vecchiaia al pari di un dio. Si
accendano fuochi e Troia celebri il suo ragazzo immortale. E tra i boschi
dell’Ida, presso la fonte ove lo involò l’aquila divina di Zeus, gli siano
dedicati sacrifici ed eretta un’ara. E là, al volgere di ogni anno, i ragazzi
di Troia in età di prendere le armi sacrifichino i loro riccioli alla memoria
di Ganimede.>> Gioirono
allora del prodigioso racconto tutti i Troiani e le Troiane lungo peplo.
Gioirono sua madre, i suoi fratelli e sua sorella. Tutta Ilio si illuminò di
fiaccole lucenti. Il cantore Eufèmone intonò nuovi
versi, narrando di come il saggio Zeus in persona avesse rapito il biondo
Ganimede a causa della sua bellezza, perché abitasse con gli dei e facesse
loro da coppiere nella casa di Zeus: era un prodigio per gli occhi, e tutti
gli immortali lo ammiravano, quando attingeva rosso nettare dal cratere
d’oro. Immortale sarebbe stato adesso e libero da vecchiaia al pari di un
dio. E
per la notte intera canti e danze risuonarono sino nel vasto cielo. E
lassù, oltre l’alta vetta dell’Ida, oltre la luce di Elio divino che scendeva
a inabissarsi nel mare, nel tramonto che dall’oro andava tingendosi di
porpora regale, oltre la corona di nubi che si addensavano nell’etere,
Ganimede sedeva sulle ginocchia di Zeus, assiso in trono, a contemplare la
distesa del mondo sotto di lui. Appressatosi alla vetta dell’Ida il dio
mostrava al fanciullo la Piana dello Scamandro e la
sua Troia in festa. Dopo essersi saziato fino allo stremo del reciproco
amore, il dio cullava il fanciullo, nudo, sulle sue ginocchia e gli porse
finalmente l’ultimo dono, il calice d’oro zecchino, colmo sino all’orlo della
purpurea bevanda lucente, più amabile del vino, più dolce del miele e sublime
quasi quanto i baci del dio stesso. <<Ambrosia
divina!>> sentenziò <<Bevila e l’immortalità scorrerà dentro di
te. Mista all’unguento con cui ti ho medicato ha guarito le tue ferite
sanguinanti, ora nutriti del cibo degli dei, bevi il nostro nettare e il tuo
stesso sangue si muterà in divino icore.
Non conoscerai morte né vecchiezza, ma eternamente giovane e bellissimo
apparterrai all’Olimpo per sempre!>> Ganimede era confuso. Appena avutolo ai
propri piedi il dio lo aveva condotto sul proprio alto talamo, tra le cortine
di porpora. Prodigiose candele dalla forma di Eroti
alati avevano rischiarato il loro connubio con una fiamma immortale più
lucente delle stelle. E là finalmente il dio lo aveva stretto tra le braccia
e senza più alcun freno aveva saziato la propria brama. Aveva lenito la sua
pelle con unguenti impastati di ambrosia profumata che avevano rimarginato
all’istante i segni degli artigli dell’aquila, solo per poi riprendere con
ancor rinnovata vigoria i giochi dell’amore. Per nove giorni e nove notti si
erano giaciuti nel talamo segreto del dio, rotolandosi tra i cuscini
profumati. Per nove giorni e nove notti Zeus gli aveva insegnato come ama un
uomo e mostrato come ama un dio, lasciando Era, sua sposa, da sola nella
camera nuziale. E adesso, una volta che si erano dissetati l’uno del piacere
dell’altro, il dio lo aveva condotto tra le nubi a rimirare ancora un’ultima
volta la sua patria mortale prima di donargli la vita eterna. Per quei lunghi
giorni d’amore senza tempo, il giovane non aveva potuto esimersi
dall’arrendersi alle voglie del dio e dal saziarsi egli stesso del piacere
che aveva saturato ogni angolo del suo corpo e della sua anima. Ma adesso,
ormai appagato nel desiderio e nella conoscenza, sentiva come un vuoto
nell’animo altero, sentiva nostalgia dei propri cari, di suo padre,
dell’amorevole madre Strimo, dei suoi fratelli e di
sua sorella. Avrebbe voluto rivederli, salutarli ancora e dir loro quali
meraviglie aveva vissuto e quali ancora lo attendevano. <<Loro un giorno moriranno?>>
chiese al dio indicando gli alti palazzi di Troia e i suoi cari all’interno
di essi <<Anche Ilio sacra cadrà, non è vero?>> <<Sì.>> rispose serio il dio
<<Non posso mentirti. Le stirpi degli uomini son come le foglie, la primavera
le nutre nella selva e il vento d’autunno le getta a terra, esse muoiono
perché in seguito ne nascano altre e altre ancora. Ma tu, mio bel Ganimede,
tu vivrai, nel cielo degli Immortali! Farò di te il mio coppiere, servirai
nettare e ambrosia alla mensa degli dei, alla mia sposa, Era regina dagli
occhi di giovenca, ad Ares signore della battaglia, ad Ermes Uccisore di
Argo, alla vergine Atena occhi azzurri, ad Apollo e Artemide Lungisaettanti, ad Afrodite d’oro, dalla bella cintura e
a tutti gli altri che siedono alle mense d’Olimpo.>> Il pensiero di
quelle meraviglie allettava Ganimede e l’amore del dio, che ora appariva di
nuovo appagato e sorridente, avrebbe potuto riempire il suo cuore. <<E
le notti, mille notti immortali potranno appartenere a noi due, mio bocciolo
dorato!>> gli sussurrò il dio nell’orecchio. <<E cosa accadrà quando ti
stancherai di me, come di tutte le donne che hai amato?>> la domanda
sorse spontanea nella bocca del fanciullo, mentre sentiva nel vasto cielo
sotto di lui spalancarsi il vuoto di un baratro nero. <<A tutte loro ho lasciato doni
generosi!>> replicò il dio <<Ho generato in loro figli, possenti
eroi da cui son discese stirpi semi-divine e per questo ancora, in eterno, le
ricordano i canti degli aedi. Ma tu... di certo vivrai in eterno nei canti
degli uomini, ma frattanto anche tu, eterno, vivrai, alla mia mensa
immortale. E come potrei mai stancarmi di te?>> soggiunse con uno
sguardo languido negli occhi divini <<Gli uomini vengon
meno alle promesse d’amore fatte a un fanciullo quando il fiore della prima,
bionda lanugine lascia il posto alla nera peluria sulle sue guance e sulle
sue cosce! Ma a te questo non accadrà
mai!>> soggiunse sfiorandogli la gota con due dita <<Mai ti
verranno meno i doni dell’aurea Afrodite, mai sfiorirà la soffice delizia
della tua pelle morbida. Tu resterai giovane, imberbe e bellissimo per
sempre!>> <<Già!>> rispose il ragazzo
deglutendo il groppo che aveva in gola. Rimirò l’immagine del suo bel viso
riflesso nella coppa, i riccioli d’oro ramato, gli occhi verdi, le belle
guance, le labbra di rosa. Pensò alla bellezza che sarebbe divenuta
immortale, preservata in eterno. E poi vide danzare, riflessa nel vortice di
nettare cremisi, l’immagine del possente re dalla barba fulva e dal volto fiero
e indomito. L’uomo che lui sarebbe diventato, i regni che avrebbe
conquistato, le donne che avrebbe amato, tutto questo scompariva per sempre,
inghiottito sotto la superficie di quell’oceano di porpora liquida, tra le
volute della coppa d’oro e d’avorio, ingioiellata e cesellata con le immagini
fantasmagoriche di un volo d’aquile. Per un attimo il fanciullo si chiese se
quelle cose le aveva mai volute davvero, se non era solo ciò che al figlio
del gran re Laomedonte veniva insegnato a
desiderare da tutta la vita. La
mano ferma di Zeus gli porse la coppa, e Ganimede pensò a come migliaia di
cubiti sotto le nuvole di quel cielo, sotto le profondità della Terra nera,
nelle case oscure dell’Ade, un tempo lo Zeus sotterraneo, Plutone, aveva
porto alla giovanetta Persefone l’elisir del
melograno. Sottrattala alla madre, Demetra, dea del grano e dell’estate,
l’aveva condotta nel suo regno sotterraneo per farne la propria sposa.
Costretto poi dalle minacce dell’augusta dea madre era stato costretto a
restituirla ma grazie al melograno, segno di eterna promessa nuziale, l’aveva
vincolata a sé con l’inganno, per metà dell’anno, costringendola, contro i
voleri della madre, al calare di ogni autunno, a ritornare sempre da lui nel
regno delle ombre. Così sarebbe stato per lui quel nettare vermiglio? Si
chiese il bel Ganimede. Accostò le labbra e saggiò quel tripudio di dolcezza,
sentendo contro il palato un sapore amaro. <<Bevi,
piccolo mio!>> gli sussurrò Zeus <<e nessuno ti porterà più via
da me. Solo questa ti sottrarrà all’impietosa mano della Morte che ogni cosa
attende. Perché io non voglio vivere in eterno sapendo che un giorno la tua
bellezza appassirà e morirà! Di quassù, assieme a me potrai contemplare
ancora i lustri e gli eoni, il mondo crescere, invecchiare e mutare. Ma tu
vivrai, per sempre! Vivrai per vedere da quassù nuove mura,
scoscese e insormontabili, levarsi a cingere la tua sacra Troia, l’alta rocca
di Pergamo, innalzarsi a sfidare il nostro cielo per mano degli stessi dei. Tanto grande sarà la gloria di tuo padre,
Laomedonte signore degli uomini, che io stesso
manderò al suo servizio due tra gli Olimpi, Apollo Lungisaettante
e Poseidone lo Scotitor
della Terra, che fortificheranno la sua rocca con mura possenti e
inespugnabili. Ma Laomedonte, cuore di cane,
rifiuterà loro il compenso pattuito e per questo il Signore del Mare, mio
fratello, manderà un mostro dal seno dell’abisso a far strage di morte dei
figli di Ilio. Solo il sacrificio della bella vergine Esione,
per volontà degli oracoli potrà placare il Dragone.>> Un moto di sgomento fece balzare il cuore
di Ganimede al pensiero dell’amata sorella. <<Ma non temere!>> lo rassicurò
il dio <<Un figlio da me
generato, il forte Eracle, l’eroe dal petto possente, avanzerà a difesa della
fanciulla, la pelle strappata al Leone di Nemea drappeggiata sulle nude
membra smisurate, più forti del bronzo. In cambio della promessa delle
cavalle divine ch’io stesso, tuo prezzo, ho donato a tuo padre, sgominerà il
mostro brandendo la clava tra le forti mani. Ma anche a lui Laomedonte, signore di armate, mente ingannevole, negherà
il legittimo compenso. E tu vedrai allora la furia dell’Alcide
Eracle, figlio mio prediletto, rovesciarsi implacabile su Troia. Su una
flotta di nere navi dall’Ellade, con il forte
Telamone, amico e compagno fedele, tornerà alle foci dello Scamandro, all’assedio di Pergamo invocando riscatto. Le
frecce del suo arco fatato, scagliate dal braccio possente, apriranno breccia
tra le mura divine. E tu vedrai espugnata Ilio sacra, tua sorella, la vergine
Esione, donata in sposa a Telamone, destinata a
filar lana sotto un tetto straniero, e tuo padre e tutti i tuoi fratelli
passati a fil di spada per l’oltraggio reso alla forza spietata di Eracle. E non sia per te la loro morte fonte di
cruccio, lacrime non segnino queste tue soffici guance. Io non potrò negare
giusto riscatto a mio figlio né mutare il corso del Fato, poiché è destino
che loro tutti periscano e discendano sotterra. Ma tu sarai sottratto a tale
infausto destino e quassù nel vasto cielo, onorerai la mia mensa, radioso ed
eterno.>> La
mano di dio carezzò gli zigomi del ragazzo ad asciugare le lacrime che
fioccavano spontanee per il dolore e lo sgomento a quelle rivelazioni che,
come immagini prodigiose, prendevano vita nella luce del crepuscolo. <<Non
piangere, adesso. Bevi!>> sussurrò sollevando la coppa. Ganimede bevve
e all’improvviso sentì quel nettare discendergli nella gola e nel petto come
fuoco liquido ed ebbe l’impressione che il fuoco entrasse in lui. Lo stesso
fuoco che sentiva scorrere irresistibile nel corpo del dio, come nei nembi
attorno a loro, nel Sole che si inabissava nell’Ellesponto
e in quanto li circondava, là, al di sopra dell’aere
celeste. E sentì uno strano senso di calma acquietare i suoi sensi e i suoi
pensieri. <<Dunque>>
soggiunse riprendendo a ragionare <<dovranno morire tutti?>> <<Tutti,
tranne uno!>> replicò Zeus <<L’ultimo,
tuo fratello Podarce, che la pietosa Esione riscatterà da servitù forzata in cambio del suo
velo. A lui Eracle generoso concederà di sedere sul trono di Ilio. E, poiché
la veste della sorella gli avrà acquistato la grazia, i mortali lo
chiameranno Priamo, il “comprato”, nella lingua
degli Elleni. E tu vedrai ancora la gloria della tua Troia risorgere sotto lo
scettro di tuo fratello, saggio e glorioso. Prenderà in sposa Ecuba, figlia del trace Cisseo,
e cinquanta figli e cinquanta belle figlie genererà nel suo palazzo regale.
L’esercito dei Teucri splenderà al comando del primo dei tuoi nipoti, Ettore
grande, elmo abbagliante. E bellezza infinita pari quasi alla tua ne
incoronerà l’ultimo, Paride simile a un dio. Ma
il fio del favore dell’aurea Afrodite penderà sulle loro teste. Tu stesso hai
assaggiato l’ambigua potenza di quell’infida dea. Quando ella avvinse
desiderio di te al mio cuore, si rose il mio stomaco, si spezzò la mia
lingua, fuoco sottile mi corse per le membra divine, vidi solo oscurità negli
occhi e udii il rombo del sangue nelle orecchie, e i miei sensi non conobbero
più pace sinché non potei averti stretto a me, come adesso!>> Il
braccio del dio avvinse il ragazzo a sé e le sue labbra affondarono tra i
riccioli d’oro rosso. <<Lo stesso fu per me da quando
vidi il tuo volto in sogno e sentii il tuo corpo e il tuo calore!>>
replicò d’istinto il ragazzo carezzando con una mano diafana la ruvida barba.
Ma poi un pensiero ambiguo turbò la sua mente <<Fu quella dea>>
chiese <<a strapparmi alla tranquilla gioia della mia
giovinezza?>> Il dio annuì. <<Nessun essere, nel
cosmo intero,>> soggiunse <<può sottrarsi al volere di lei.
Nemmeno io, che sono Zeus Signore, il Padre di tutte le Cose. Ma con te,
anzi, lei fu assai generosa. Si mostrò davvero tua amica se, grazie al tiro
mancino che giocò a me, sei divenuto un dio immortale e vivrai ben oltre la
fine di Ilio sacra.>> Era davvero così? Ganimede non ne era
certo. <<Ma non così lo sarà con i tuoi
concittadini!>> proseguì il dio <<Per un’ingannevole promessa della Dea dalla bella cintura, un folle
amore congiungerà a Paride, figlio di Priamo, la
più bella delle donne, Elena, mia figlia, più bella di una dea ma sciagurata
nell’animo. Ella stessa sceglierà Menelao, figlio di Atreo, re di
Sparta, come sposo. Ma poi, colta da insana passione, dall’inganno della dea
dell’amore, s’involerà, colombella lasciva, a Troia divina con Paride bello
come un dio. E a inseguirla accorreranno gli Achei tutti, vincolatisi in
giuramento gli uni agli altri. E
di quassù, oltre la vetta dell’Ida, tu ed io, assieme, vedremo le nere navi
dalle guance di minio varcare l’Ellesponto e, come
una torma di cavallette si leva a oscurare Elio splendente, così nella Valle
dello Scamandro si riverseranno gli eserciti degli
Achei chitoni di bronzo: Agamennone, Menelao, Odisseo, Aiace, il biondo Achille piede rapido e molti
antri ancora, signori di eserciti. Per
dieci anni vedrai ai piedi di Ilio divina i Teucri domatori di cavalli
scontrarsi con gli Achei schinieri di bronzo, arrossando i corsi dello Scamandro e del Simoenta del
sangue di entrambi. Vecchio, nelle sale del suo palazzo, Priamo
piangerà la morte di molti figli, mentre tu, giovane e imperturbabile,
sorridendo, siederai alla mia mensa. E
poi, quando giungerà il Fato, gli Achei, fautori d’inganni, violeranno con
l’astuzia le mura di Troia divine. E tu vedrai l’avidità dei Teucri
introdurre nella città un gigantesco cavallo di legno che celerà tutta
l’armata dei Danai nascosta nel vasto ventre. Vinti
dal Sonno i Troiani, balzati fuori nella notte gli Achei, fiamme e fuoco
divoreranno la città. Le grida dei Dardani
echeggeranno sino al vasto cielo e
quassù, piangendo, tu mi supplicherai di salvare i tuoi fratelli e i loro
figli, di risparmiare la catastrofe. Dolore immenso oscurerà i tuoi occhi da
cerbiatto e arrosserà le tue guance intrise di lacrime amare, per sciogliere
il mio cuore forte e renderlo debole. Ma io non potrò oppormi alla volontà
del Fato, né irritare oltre misura Era, mia sposa, che tra gli uomini ama gli
Argivi più di tutti gli altri. Potrò solo stringere al mio vasto petto il tuo
tenero viso perché non veda il dolore, asciugare ancora le tue lacrime e poi, amara consolazione, disperdere
nella tempesta la flotta di tutti gli Achei, perché conoscano ritorno lungo
ed infausto. Ma
senza pietà saranno sterminati i Troiani. Destino di schiavitù, oltre il
mare, attenderà tutte le Troiane lungo peplo, tue nipoti. E, ultimo dei figli
di tuo padre, il piccolo Podarce che vezzeggiavi
nelle Sale delle donne, il vecchio Priamo re di
Ilio, sarà sgozzato sul mio stesso altare dagli Elleni, scellerati, incuranti
delle invocazioni del re venerando e della protezione del mio sagrato! Ma tu,
invece, tu solo della tua stirpe vivrai, per sempre, nella gloria
dell’Olimpo, con me, alla mensa degli dei Beati. Nulla ti toccherà quassù nel
cielo.>> L’immagine
di strage e di morte svanì con le parole del dio. L’immagine di un mare
fluttuante di sangue vermiglio, così simile al nettare che danzava nella
coppa d’oro, cui la mano del dio lo invitava. Inestinguibile tristezza
colmava di nuovo il cuore di Ganimede. A mala pena tratteneva negli occhi
umide lacrime, scintillanti alla luce delle stelle, ormai alte nel cielo. Ma
aveva fatto la sua scelta. Prese in mano la coppa e bevve, la svuotò. Bevve
l’immortalità con la stessa impaziente sete con cui si era abbeverato al
desiderio del dio. E lentamente la sofferenza svanì, impallidì come il
riflesso della luna sul fondo d’oro di un calice vuoto. Era solo il dolore
umano, immensamente lontano sotto di lui, sulla Terra nera. E quel vaticinio
terrificante non era diverso dal racconto di un aedo, che canta di gesta e di
stirpi vissute chissà dove e chissà quando. L’eternità lo attendeva, la notte
era carica di promesse e l’immortalità lentamente lo avvolgeva come un sogno,
un sogno senza risveglio. Il
fuoco divino bruciava in lui, ardente nel suo petto come desiderio cieco. Il
dio gli sussurrava storie di disgrazie, di guerre, dell’ambigua potenza della
dea dell’amore. Ma ormai Ganimede non lo ascoltava più, vedeva solo le labbra
voluttuose muoversi, piene e rosse come il corniolo e non bramava che di
abbeverarsi ancora a lui come si era abbeverato alla coppa divina. <<Ma non sarà la fine.>>
proseguì Zeus <<E tu vivrai
abbastanza, giovane ed eterno, per vedere altri uomini, figli dei figli di Scamandrio, figlio bastardo di Ettore, ridiscendere nella
Valle di Troia per rifondare la gloria della tua gente, della stirpe di Laomedonte. Vedrai molte altre e nuove Ilio sorgere negli
eoni sulla collina di Pergamo e fiorenti stirpi ellene che giungeranno a
colonizzare le coste dell’Asia su navi dalle guance purpuree. E tra quelle
genti i ragazzi in età di divenire uomini continueranno a recarsi lassù, tra
i boschi dell’Ida, a sacrificare i propri riccioli in ricordo del bel
Ganimede, del fanciullo mortale che è divenuto un dio.>> Quella dolce promessa risuonò appena
nelle orecchie del fanciullo, come un’eco lontana. Preghiere di adorazione e
offerte dei mortali avrebbero dovuto compiacerlo? O erano solo promesse
ingannevoli, come tutte quelle che fanno gli dèi? Ganimede non sopportava più
l’asfissiante dibattersi dei propri pensieri né voleva più ascoltare il canto
di sventura del dio. Desiderava solo perdersi in lui e nella sua potenza. Gli
si avvinse quasi con foga gettandosi sulla bocca divina, a zittirla, colla
stessa furia dell’aquila predatrice. Le nuvole li avvolsero, come una prodigiosa
cortina, a celare il connubio ad occhi indiscreti, i venti li sollevarono e
un attimo dopo erano di nuovo nel talamo del dio, tra le cortine di seta
purpurea e dorata. Forse anche l’amore del dio era un’illusione. Forse un
giorno si sarebbe stancato di lui, del bel soprammobile che adornava la sua
mensa, e avrebbe smesso di accoglierlo nel proprio letto, per rivolgersi
all’amore della sposa, o di nuove dee o donne mortali o ragazzi. Ma adesso
quel bel sogno era là, vivo, pulsante, fatto di carne calda e divino icore e aveva un sapore infinitamente
dolce. Era tutto ciò che Ganimede desiderava. Stavolta furono le labbra del
ragazzo a cospargere di baci vogliosi tutto il corpo possente del dio finché
non tacquero gli arcani vaticini dalla sua bocca, per mutarsi in gemiti
d’amore. Fiumi di piacere fluttuarono ancora per una notte senza fine. E gli
occhi degli Eroti d’oro, portatori di torce,
sorrisero al cielo, muti testimoni degli amplessi degli immortali. Il ragazzo inginocchiato sollevò le belle
ciglia ad ammirare il portento della potenza immortale, il prodigio che da
semplici mani umane, le mani di uno scultore, aveva saputo effondere la
grazia divina in quell’immagine antica. La figura del divino giovanetto, del
bel Ganimede, la coppa in mano e l’aquila di Zeus accanto a lui, scolpito
nella viva roccia. Là, oltre le fronde degli alberi, sulle erte pendici del
Monte Ida, al suono dello scorrere perpetuo di una fonte, il fanciullo levò
preghiere silenziose a colui che sarebbe rimasto ragazzo in eterno. Era il
gesto che ci si aspettava da lui, che ogni giovanetto aveva compiuto e dopo
di lui avrebbe continuato a compiere. I riccioli d’oro recisi, erano sparsi a
terra, sacrificati alla memoria del fanciullo che ora non era più, volato via
nel volgere delle stagioni. Compiuti i riti, si alzò. Era un uomo adesso.
Pronto, da uomo, a tornare tra gli uomini. Il guerriero che lo attendeva al limitare
della radura gli sorrise, orgoglioso. Il giovane gli corse incontro. L’uomo
lo abbracciò, lo strinse tra le sue membra possenti e rise. Gli disse che era strano accarezzargli i
capelli, adesso che erano corti come quelli di un vero soldato. La bocca
barbuta gli baciò la fronte, la guancia già adombrata dalla prima lanugine e
poi le labbra ancora rosee e soffici. Il giovane guardò il suo compagno negli
occhi, ammirò ancora una volta il fuoco in quello sguardo invincibile e
ripensò a quanto avevano trascorso assieme, quando l’uomo, fingendo di
rapirlo, nei giorni dei sacri riti, lo aveva condotto fuori dalle mura, e, solo
con lui, lo aveva ammaestrato. Gli aveva insegnato a essere un uomo. Gli
aveva mostrato come un uomo vive, come un uomo si batte. E come un uomo ama. <<Sono
fiero di te!>> gli disse guardandolo negli occhi <<Hai superato
tutte le prove e compiuto i sacrifici. Con la benedizione del divino
Ganimede, la tua fanciullezza è volata via! Ora sei pronto a ricevere la tua
armatura!>> <<Sarà
forte e splendente come la tua?>> <<E
di più ancora! Il miglior fabbro ammaestrato in Ellade
l’ha forgiata nel sideros,
il nuovo metallo dei Dori, ancor più forte del bronzo. Ora potrai imbracciare
le armi e batterti fra gli uomini! E poi...>> l’uomo si interruppe e
una lacrima discese su quel forte viso da guerriero. <<...poi dovremo
trovarti una donna! Dovrai sposarti e dare figli alla nostra patria.>>. Quella fu la loro ultima notte assieme,
da soli, sdraiati fianco a fianco sotto il vasto cielo. L’indomani avrebbero
raggiunto di nuovo la città e il giovane avrebbe iniziato la sua vita da
uomo. Mentre si stringevano, sotto le coperte di pelliccia, scaldandosi l’uno
al corpo dell’altro, l’uomo gli mostrava le stelle, narrandogli leggende dei
tempi antichi. <<Vedi...
>> gli disse indicandogli le stelle dell’Acquario. Stretto a quel corpo
forte, segnato dalle cicatrici delle battaglie, mentre sfiorava la soglia del
dolce sonno, al giovane tra le palpebre socchiuse pareva davvero di scorgere
il contorno lucente del fanciullo colla coppa in mano. <<Quello è Ganimede! Un tempo a tal punto lo adorò il Possente Zeus
adunatore di nembi che immortalò la sua immagine
nel firmamento. E ancor oggi lo celebrano gli aedi: “...Ganimede simile ai numi, che fu il più bello tra gli uomini
mortali... ..e gli dei lo rapirono, perché mescesse
a Zeus; per la sua bellezza, visse fra gli
immortali.”>> [1] ____________ [1] Questi ultimi versi
sono tratti dall’Iliade 20, vv. 232-235 (traduz. ital. di Rosa Calzecchi
Onesti). I versi ripetuti sul destino di Ganimede riportati da Ermes a Laomedonte sono invece una libera rielaborazione
dall’Inno omerico ad Afrodite, vv. 202segg. (traduz. ital. di Giuseppe Zanetto). |
[1]
Questi ultimi versi sono tratti dall’Iliade 20, vv.
232-235 (traduz. ital. di
Rosa Calzecchi Onesti). I versi ripetuti sul destino
di Ganimede riportati da Ermes a Laomedonte sono
invece una libera rielaborazione dall’Inno omerico ad Afrodite, vv. 202segg. (traduz. ital. di Giuseppe Zanetto).