Una fortuna sfacciata Quando Primo Frola conobbe Secondo Cresta, il suo impulso immediato fu
quello di stenderlo con un potente diretto in piena faccia, pulsione alla quale
tuttavia non cedette immediatamente, lasciando intatti i connotati
dell’elegante apollo che gli stringeva la mano con fermezza. -
Primo. -
Secondo. Pugno in
faccia. Fine della storia. Ma, come vedremo, le cose andarono diversamente. Il
commissario Gianluca Tiberi sbuffò. Lo sapeva che
in quella storia non c’entrava soltanto la droga. L’aveva capito da un pezzo
che quella di Calogero Titta sarebbe stata una
rogna coi fiocchi, oltretutto capitatagli tra capo e collo, in un momento in
cui proprio non riusciva a concentrarsi. -
E dove le farebbero queste
scommesse clandestine? - chiese all’ispettore Rosanna Boatta,
che quella mattina gli ricordava inesorabilmente Jessica Rabbit. -
Ancora non siamo riusciti ad individuare
la sede, ma i ragazzi hanno trovato collegamenti a un sito chiamato
‘pronto1X2’ e a un paio di cellulari. Probabilmente non s’incontrano
fisicamente. In fondo, non è necessario. Tiberi si passò una mano sulla faccia.
Aveva bisogno di una bella rasata, di una doccia e di una colazione
abbondante, non necessariamente in quell’ordine. La notte era stata dura. -
Va bene, Rosanna, continuate le
indagini in questa direzione. Io vado a dormire. Rosanna
gli sorrise. Gli leggeva la stanchezza nella voce e nella lentezza dei
movimenti. Tiberi aveva i capelli scompigliati e le
occhiaie che accentuavano il grigio ghiaccio delle iridi. Lo osservò
allontanarsi con un misto di ammirazione e tenerezza. Tiberi si chiese se sarebbe mai riuscito
a confessarle la verità. Una verità che gli pesava come un macigno, forse
perché era convinto che una cosa del genere a lui non dovesse succedere. Primo Frola
faceva il portiere di notte all’Hotel Nadamas
(‘Quattro piani di nefandezza’, lo chiamava lui). Quel suo non-lavoro gli
permetteva di leggere per tutta la notte, come nell’adolescenza aveva sempre
sognato, quando sua madre gli rompeva le palle sul più bello, imponendogli di
spegnere la luce e mettersi a dormire.
Si poteva affermare che quel lavoro se lo fosse ritagliato apposta.
Era raro che i clienti rompessero le scatole di notte, ma per ogni evenienza,
lui era sempre pronto, rivestito della sua composta divisa. Quella notte,
alle 2:00, un uomo si presentò a lui in un elegante completo grigio
antracite, scarpe lucide da specchiarsi, la piega dei pantaloni affilata come
un rasoio, la camicia di un bianco abbagliante, la cravatta allentata alla
‘me ne fotto’ e l’intenzione di salire dal signor De Luca. -
Mi dispiace, non ho ricevuto disposizioni dal nostro
cliente e a quest’ora non mi pare il caso di disturbarlo. -
Sono atteso. Mi ha chiamato lui. -
Mi dispiace. - ripeté Primo, sfoggiando per
l’occasione la sua espressione più marmorea. L’uomo non si
scompose. Fissandolo ironicamente negli occhi, appoggiò sul banco un elegante
pacchetto di Davidoff Magnum, compagno
inseparabile di un accendino d’argento, quindi estrasse il cellulare e
chiamò. -
Signor De Luca, ha dimenticato di avvertire la
reception. Dopo qualche
secondo, squillò il telefono. Primo rispose sorridendo, con la sua
inossidabile professionalità. -
Può salire, signore. Stanza 304. Le auguro una
buona serata. - disse Primo, con una eccessiva sollecitudine, che dissimulava
un’inconfessabile invidia nei riguardi del signor De Luca. A Primo rimase nelle
narici la scia di Aventus di cui l’apollo si
avvolgeva. Lo seguì con lo sguardo fino all’ascensore, lo vide scomparire
dietro le porte metalliche che si chiudevano e poi sospirò. Prima
dell’alba, l’uomo tornò alla reception, scendendo per le scale. L’ascensore
era occupato. Si avvicinò a Primo, rivolgendogli un sorriso aperto e cordiale
e gli tese la mano. Preso alla sprovvista, Primo si presentò col solo nome,
lo stesso fece il suo interlocutore, e per un breve momento una coltre di
gelo si distese su entrambi. -
Secondo Cresta. - aggiunse l’uomo, per
specificare che non stava scherzando. -
Frola. - completò il
portiere, cancellando la sua espressione improvvisamente aggressiva. -
Bell’albergo... Se non ti dispiace, vorrei
lasciarti i miei biglietti da visita, nel caso che qualche vostro cliente
richiedesse i servizi di un accompagnatore. Svolgo mansioni di autista, personal
shopper, accompagnatore turistico, eccetera. Sull’eccetera,
Primo si era formato una sua personalissima idea. -
Per clienti di qualunque tipo? -
No, solo uomini. -
Va bene, dammeli pure. Ti terrò
presente. Secondo
Cresta gli lasciò un blocchetto di biglietti sul banco e ne raccolse uno
dell’albergo, infilandolo nel taschino della giacca, con gesto sicuro. -
Tu fai sempre il turno di notte? -
Sì, sono qui dalle ventitré alle
sette. -
Non ti annoi? -
Per niente. Leggo. E poi c’è
internet. Primo
era piuttosto frastornato da tanto interesse. Quell’uomo gli piaceva
indecentemente, ma era sicuro di non avere le carte in regola per piacere a
lui. Quindi, per quale motivo se ne stava là a chiacchierare del più e del
meno, alle 4:30 del mattino? Pura public relation? Infine, soddisfatta la sua
incomprensibile curiosità con una serie di altre domande di una banalità
sconcertante, Secondo Cresta si congedò. -
Magari una di queste notti, se
sono da queste parti, ti vengo a fare un po’ di compagnia. Primo
non riuscì a nascondere un’espressione sorpresa, seguita a ruota da un
ingenuo sorriso d’incredulità, completamente sfuggito al suo controllo. -
Adesso vado. Ci si vede. -
Sì, arrivederci. Primo
seguì con lo sguardo il suo passo sciolto, fino al portone. Schiacciò il
pulsante di apertura a distanza e aspettò che si voltasse per un ulteriore
cenno di saluto, ma lui non si voltò. Mise
via i biglietti da visita. Non gli sembrava opportuno lasciarli in giro.
L’Hotel Nadamas non era quel tipo di hotel. Certo,
un paio di volte era capitato che qualcuno gli facesse qualche richiesta del
genere, ma erano state donne, che avevano bisogno di un autista e di un
personal shopper, o in quel modo, per lo meno, gliel’avevano presentata. Un
taxi si fermò davanti al portone. Poco dopo, si aprirono le porte
dell’ascensore e ne emerse il cliente della 404, che aveva già saldato il
conto. Quando era arrivato gli aveva chiesto il numero di telefono
dell’aeroporto. Forse doveva chiedere conferma del volo. -
Buon viaggio. - gli augurò Primo,
aprendogli il portone. ‘Ha
fatto tardi’, pensò. ‘Ha ancora i capelli bagnati’. Da
quel momento, a Primo riuscì piuttosto difficile leggere. O meglio, leggeva,
ma non riusciva a capire il significato delle parole che gli scorrevano sotto
gli occhi. Non che se ne stupisse più di tanto, dal momento che gli era
rimasta impressa nelle pupille l’immagine dell’apollo in completo grigio,
nelle orecchie la sua voce gentilmente virile e nelle narici la sua fragranza
di Aventus, che parlava di nuovi e sconosciuti
orizzonti desiderosi di essere conquistati. Dopo
alcuni inutili tentativi, Primo si arrese all’evidenza. Accese il suo portatile,
effettuò la connessione ad internet e digitò l’indirizzo del sito, stampato
sui biglietti da visita. C’erano
le foto parzialmente svestite di Secondo, in pose severe ma, forse proprio
perciò, vagamente provocanti. Il viso, stranamente, era sfocato ad arte,
tanto da renderlo irriconoscibile. Sicuro che fossero sue? Completamente
vestito gli aveva dato un’altra impressione, persino migliore. Primo
si ritrovò a sperare che il signor De Luca decidesse di ripetere in futuro
quel suo rendez-vous, per poter rivedere Secondo Cresta: classe, eleganza e
carisma allo stato puro. Poi il suo umore virò decisamente al nero,
rendendosi conto che il bel dio apollo non era pane per i suoi denti. Rosanna Boatta
studiava con attenzione il primo piano di Calogero Titta,
appoggiato sulla sua scrivania. Già solo ad incrociarlo per la strada,
chiunque avrebbe capito che era un tipo da tenere a debita distanza. Avendo
studiato un po’ di fisiognomica, sebbene la ritenesse una disciplina poco
scientifica, le era rimasto in mente qualche brandello di nozione, che la
portava ad assegnare a quel volto i caratteri tipici del delinquente
incallito. Poi
c’erano i suoi adepti, quattro bellimbusti pronti a tutto, incredibilmente
incensurati. Quello era il vero guaio, in quell’indagine. Non c’erano
precedenti a cui riferirsi. Calogero Titta, già
sospettato di essere un piccolo boss della droga, era passato alle scommesse
clandestine, forse per diversificare il suo business. Ormai da due mesi erano
tenuti sotto controllo. Vide
passare il commissario Tiberi, sul viso
l’espressione imbronciata degli ultimi giorni. C’era qualcosa che lo rodeva,
ma non osava interrogarlo in proposito. Aspettava che prima o poi si
confidasse spontaneamente, per chiederle un parere, come faceva sempre. Oppure
gli sarebbe passata, e da un giorno all’altro sarebbe ritornato quello di
prima. Il problema era che vederlo in quello stato la faceva soffrire. Forse
perché lo sentiva lontano. O meglio, se voleva raccontarsi proprio tutta la
verità, perché le sembrava che Tiberi volesse
allontanarsi da lei. Lavoravano
insieme da due anni. Quando l’aveva visto per la prima volta, l’aveva
impressionata soprattutto il suo sguardo, tanto chiaro e limpido da metterla
in soggezione. Sembrava proprio che potesse leggerle dentro. In effetti, come
aveva compreso dopo qualche tempo, Gianluca Tiberi
possedeva il dono di sintonizzarsi con chi gli stava vicino, riuscendo a
intuire anche il taciuto. Il suo fiuto l’aveva condotto a risolvere casi in
cui altri si sarebbero impantanati senza via d’uscita. Anche per questo, lo
amava. Con
un sospiro, tornò a guardare la foto di Titta.
Doveva concentrarsi sul lavoro. Quello che la preoccupava di più erano i suoi
contatti con il mondo del calcio. Sentiva puzza di bruciato, e sapeva che non
le restava altro da fare che capire cosa stesse andando a fuoco. Primo
si svegliò alle due del pomeriggio, vagò per la cucina in cerca di qualcosa
da mangiare e poi controllò il cellulare, riattivando la suoneria. Otto
chiamate perse, tutte dell’albergo. Si chiese cos’avessero di tanto urgente
da dirgli. Aveva preso fuoco qualcosa? -
Primo, finalmente! È
tutta la mattina che ti chiamo! -
Stavo dormendo. Che succede? -
Stanotte hanno ammazzato il
cliente della 304. La polizia è ancora qui e vogliono parlare anche con te.
Vieni subito. A
Primo tremarono le gambe e fu costretto a sedersi. -
Alla 304 c’era Ottavio De Luca. -
Sì, proprio lui. -
Com’è morto? -
Strangolato. -
E sanno a che ora è successo? -
Dicono intorno alle cinque. Primo
ripensò immediatamente a Secondo Cresta. Aveva tranquillamente chiacchierato
con un assassino per dieci minuti buoni? Mentre
si affrettava verso il Nadamas, non riusciva a
smettere di pensare a lui. Gli aveva consegnato i suoi biglietti da visita,
gli aveva chiesto di tenerlo presente per i clienti dell’hotel, gli aveva
rivolto un sacco di domande sul suo lavoro alla reception. No, non poteva
essere. Doveva possedere una faccia di bronzo colossale per comportarsi in
quel modo, subito dopo aver ucciso un uomo. Impossibile. La sua voce era
tranquilla, rilassata, le sue mani erano ferme, lo sguardo diritto. A meno
che non si trattasse di un freddo killer professionista, non avrebbe mai
potuto comportarsi così. Il
commissario Francesco Bertelli e l’ispettore Maurizio
Vizzini, della sezione Omicidi, lo aspettavano nell’ufficio del Direttore,
che avevano occupato per l’occasione. Ne era appena uscito un cliente nuovo,
che sicuramente non avrebbe mai più rimesso piede in quell’albergo. La sua
espressione disgustata parlava chiaro. -
Primo Frola.
- si presentò. Il
commissario scorse la sua lunga lista. -
Lei è il portiere di notte,
giusto? -
Giusto. -
È in servizio dalle 23:00 alle
7:00, leggo qui. -
Giusto. - rispose Primo, per la
seconda volta. -
Ci parli di questa notte. Cerchi
di ricordare tutti i movimenti a cui ha assistito. Primo
sospirò. -
Da quando ho preso servizio, vero? -
Naturalmente. -
Vediamo, se ben ricordo, tra le
23:00 e mezzanotte sono rientrati i clienti della 205, della 404, della 305 e
della 307. All’una è rientrato il signor De Luca. Verso le 2:00 l’ha
raggiunto un suo conoscente, che se n’è andato alle 4:30. Alle 4:45 è uscito
il cliente della 404. Alle 6:00 è andato via quello della 301. Non mi sembra
di ricordare altro. L’ispettore
prendeva nota velocemente su un taccuino. -
Conosceva bene il signor De Luca? -
Era un cliente abituale. -
E il suo conoscente? L’aveva già
visto altre volte? -
No, che io sappia, non era mai
venuto prima. -
Ce lo può descrivere? Primo
avrebbe voluto tacere, ma qualcosa, nello sguardo nero e ipnotico del
commissario, glielo impedì. -
Il signor Cresta... -
Conosce il suo nome? - lo
interruppe Bertelli. -
Sì, si è presentato. Secondo
Cresta. Non volevo lasciarlo salire: erano le 2:00, capisce? Ma lui ha
chiamato il signor De Luca al cellulare, dicendogli che aveva dimenticato di
avvertire la reception. Il cliente mi ha chiamato sulla linea interna,
chiedendomi di far salire il suo ospite. -
Era già capitato altre volte,
durante i suoi soggiorni, che ricevesse visite notturne? -
No, mai, per quanto riesca a
ricordarmi. -
Ci può descrivere il signor
Cresta, allora? -
Un uomo distinto, molto elegante,
bruno, naso dritto, bocca regolare. Mi ha lasciato il suo biglietto da
visita. -
Niente di meno! Ce l’ha con sé? Primo
sfilò un biglietto dalla tasca e glielo consegnò con riluttanza. Il
commissario l’osservò. -
Accompagnatore. - lesse, con un
sorriso ironico. Il
biglietto passò di mano in mano. -
Escort di lusso. - aggiunse l’ispettore,
che fino a quel momento era rimasto in silenzio. -
Le ha dato il biglietto prima di
salire o quando è uscito? -
Si è fermato a parlare con me,
dopo essere tornato giù. Erano le 4:30. È andato via dopo dieci minuti e dopo
altri cinque è sceso il cliente della 404, Ambrogio Brambilla. -
Suona falso lontano un miglio. -
Così c’era scritto sui suoi
documenti. -
Falsi, di sicuro. Ha notato
qualcosa di strano in questo Brambilla? -
Aveva i capelli bagnati. Ho pensato che
avesse fatto tardi e che quindi non avesse fatto in tempo ad asciugarli.
Credo che dovesse prendere un aereo. -
Bene. Controlleremo. Primo
stava per alzarsi dalla poltroncina, quando il commissario lo bloccò. -
Non abbiamo ancora finito.
Dicevamo che lei conosceva bene il signor De Luca... Non
era stato facile convincerli che non era sua abitudine scoparsi i clienti. Ma
qualcosa nelle espressioni di quei due gli diceva che in effetti non se
n’erano persuasi del tutto. Quando
Primo uscì dall’ufficio del Direttore, Bertelli
fissò Vizzini, con la sua consueta prosopopea. -
Sai com’è andata? Il portiere di
notte scopava regolarmente con De Luca. Poi è arrivato questo Cresta a
guastargli la festa. Lui si è incazzato e quando Cresta se n’è andato, è salito
nella camera di De Luca, ci ha litigato e l’ha strangolato. -
Può darsi. - commentò Vizzini,
benché non ne fosse per nulla convinto. Vizzini
si avvicinò alla porta. -
Se qui abbiamo finito, tornerei in
commissariato per far partire le indagini, ‘seriamente’, aggiunse dentro di
sé. I pregiudizi omofobi di Bertelli l’avevano
sempre irritato e per giunta l’avevano spesso portato a seguire false piste,
facendogli perdere tempo prezioso. -
Sì, tu vai pure, io vorrei
chiedere ancora qualche chiarimento a quelli della reception. Come
prima cosa, Vizzini studiò il sito di Secondo Cresta, notandone la semplicità
e l’eleganza dell’impostazione. Aveva ragione quando l’aveva definito escort
di lusso. Non ci trovava nulla di volgare. Anche le foto erano inserite come
un garbato richiamo, niente di osceno o di ostentato. Il suo volto era
lasciato nell’anonimato. Chiamò Secondo Cresta sul numero di cellulare
stampato in eleganti caratteri sul suo biglietto da visita. Quando rispose,
si presentò e lo invitò a recarsi in commissariato al più presto, senza
ulteriori spiegazioni. -
Di che si tratta, scusi? -
Glielo dirò di persona. L’aspetto. Secondo
non replicò, però la sua ansia non lo spinse a fare più in fretta. Sapeva che
non c’era niente di buono in quella richiesta. Quando si presentò alla sua
scrivania, Vizzini guardò l’orologio, messaggio subliminale che diceva
chiaramente ‘Ma quanto ci hai messo?’. -
Signor Cresta, dov’era questa
notte, tra le 3:00 e le 5:00? Il
volto di Secondo espresse tutto il suo stupore. -
Ero all’hotel Nadamas.
Perché? -
Ha trascorso lì la notte? -
No, solo dalle 2:00 alle 4:30.
Perché? -
Con chi era, signor Cresta? -
Potrei sapere perché mi fa tutte
queste domande? -
Le conviene prima rispondere alle
mie. -
Sono stato in compagnia di un
tale. Si chiama Ottavio De Luca. -
Si chiamava. -
Cosa? -
È stato ucciso, signor Cresta. Il
medico legale ha stabilito che l’ora del decesso si può fissare tra le 3:00 e
le 5:00. Guarda caso mentre eravate insieme. -
Era vivo e vegeto, quando l’ho
lasciato. Glielo giuro. - affermò Secondo, colto da un’improvvisa
disperazione. Come avrebbe potuto convincerlo? -
In quale circostanza vi siete
conosciuti? -
Mi ha contattato sul mio sito, poi
ci siamo sentiti al telefono. Abbiamo fissato d’incontrarci alle due di stanotte.
Io, prima, avevo un altro impegno, ma lui non voleva rimandare. Mi ha detto
che stamani sarebbe ripartito. -
Avete parlato di qualcosa? -
Si è giustificato, più che altro.
Mi ha detto che si vedeva con qualcuno, da molto tempo, ma che si era
stancato. Voleva provare qualcosa di nuovo. -
Ho dato un’occhiata al suo sito.
Non mi pare che proponga nulla di nuovo. -
Ha ragione, non faccio giochini strani. Vizzini
lo osservò bene in faccia. Cresta era indubbiamente un bell’uomo, ma non di
quelli ‘che si sparano le pose’. Era disinvolto e sicuro. Aveva incollato
addosso il classico aspetto da brava persona, di cui ci si può fidare. -
Niente giochini strani... - ripeté, meditabondo. -
No, non è il mio campo. Questa è
una condizione che metto subito in chiaro quando un possibile cliente mi
contatta per la prima volta. -
Capisco. Quindi, dicevamo che non
aveva mai visto prima il signor De Luca. -
No, mai nemmeno sentito nominare. -
E il portiere di notte, lo
conosceva già? -
Nemmeno lui, no. -
Mentre era lì, ha notato qualcosa
di strano, sentito movimenti, incontrato qualcuno nei corridoi? -
No. Però, adesso che mi ci fa
pensare, quando sono andato via, ho trovato l’ascensore occupato. Stava
salendo al quarto piano. Così sono sceso per le scale. Poi mi sono fermato a
parlare con il portiere di notte, almeno per dieci minuti. E quando me ne
sono andato, mi è sembrato che l’ascensore fosse fermo al terzo piano. Ma non
ne sono del tutto sicuro, l’ho notato per caso. Vizzini
prese diligentemente nota. -
È inutile che le dica che per il momento lei
è il maggior indiziato. Devo prenderle le impronte digitali. E dovrà tenersi
a disposizione. -
Capisco. -
Naturalmente, siamo ancora alle
prime fasi dell’inchiesta. Se le venisse in mente qualcosa, qualunque cosa,
mi chiami. Tutto può essere utile. Sia per noi, che per lei... -
Ha un numero diretto? Vizzini
frugò in un cassetto e gli porse un biglietto. -
Questo è il mio cellulare. Può
chiamarmi a qualunque ora. Se non rispondo, poi la richiamo io. -
D’accordo. Fuori
dal commissariato c’era il solito traffico, un cielo offuscato da nuvole
grigio chiaro e l’odore pestilenziale degli scarichi delle auto. Secondo
si diresse verso la fermata degli autobus, riflettendo sulla sua posizione.
Era già troppo che non l’avessero trattenuto subito. Ma non era detto che non
decidessero di farlo in un prossimo futuro. Prima di tutto gli conveniva
trovarsi un avvocato, possibilmente bravo. E poi voleva parlare con Primo Frola, se gliene lasciavano il tempo. Gianluca
Tiberi uscì dal commissariato con passo sostenuto,
con il tipico ritmo di chi ha qualcosa da fare ed è pure in leggero ritardo.
Per completare l’impressione che voleva fornire al mondo, a cui in realtà non
importava un fico secco né di lui, né dei suoi falsi impegni, guardò
l’orologio che portava al polso. Quella era la sua prima vera fuga. Non era
mai fuggito di fronte a un nemico, come adesso faceva davanti alla sua amica.
Sì, doveva ammetterlo, Rosanna Boatta, che era
prima di tutto una collega, da qualche tempo era diventata anche la sua più
cara amica, quella con cui confidarsi, quella comprensiva, sempre pronta
all’ascolto, sempre disponibile a condividere, a sorridere, ad alleggerire
l’atmosfera. Alla sua serietà iperbolica, opponeva un’ironia infallibile, che
non arrivava a farlo sentire ridicolo, ma che era capace di fargli scoprire
il lato ridicolo di ogni situazione. Un miracolo di equilibrio, sul filo del
rasoio, che solo lei sapeva calibrare con la giusta sottigliezza. A ciò si
aggiungeva, per colmo di sventura, un aspetto esteriore che gliela rendeva
irresistibile. Ma quello che lo faceva incazzare di più, era di essersene
ritrovato innamorato, completamente impotente a reagire, senza riuscire ad
individuare il momento esatto in cui quella catastrofe l’aveva colpito. Forse
per la prima volta in vita sua, il commissario Gianluca Tiberi
non sapeva cosa fare. Erano
da poco passate le 23:00, quando Secondo Cresta si presentò alla reception
del Nadamas. Primo quasi non lo riconosceva. Anfibi
aggressivi, pantaloni mimetici, Lacoste di cotone verde scuro a manica lunga,
la barba di un giorno e il solito pacchetto di Davidoff Magnum,
stretto in mano. -
Ciao, Primo. -
Ciao, Secondo. -
Siamo nei guai, vero? -
Tu che ne pensi? Secondo
si strinse nelle spalle, con espressione mesta. -
Non sono stato io. - affermò con
voce convincente. -
Nemmeno io. - gli assicurò Primo,
guardandolo bene negli occhi. -
Hai idea di chi possa averci fatto
questo scherzetto? -
Magari ce l’avessi. È tutto il
giorno che ci penso. -
Raccontami quello che ti ricordi di
ieri notte. -
Niente. Dopo di te ho visto uscire
altri due clienti e poi ho finito il turno. -
Senti, quando sono sceso io,
l’ascensore era occupato. Stava salendo al quarto. Era appena arrivato
qualcuno? -
No. -
Quindi se era uno che doveva
scendere, perché non l’abbiamo visto? Io sono rimasto a chiacchierare con te
per almeno dieci minuti. -
L’ho notato anch’io, l’ascensore.
Si è fermato al terzo. -
Allora, l’hanno chiamato al quarto
per poi scendere al terzo. -
Già. Sul perché potrei azzardare
un’ipotesi. Resta da capire chi era. -
Quante stanze erano occupate al
quarto? Primo
estrasse da sotto il banco un foglio di carta piegato, formato A3,
distendendolo e lisciando le pieghe col palmo delle mani. Era la fotocopia di
uno schema con i quattro piani dell’hotel, un grande quadrato per ogni
camera, ciascuna col proprio numero e il nome degli occupanti. -
Ottimo. Vedo che non perdi tempo.
Puoi collegare qualcuno da un piano all’altro? -
No. È questo il problema. Ho fatto
questo giochino con quelli del turno di giorno e con l’ispettore Bertelli, che ha interrogato tutti. Nessuno ha ammesso di
conoscere De Luca. -
Ha interrogato tutti, tranne
quelli che erano già partiti. -
Giusto. Questi due colorati con
l’evidenziatore. Anche De Luca doveva partire presto, alle 7:00. Per questo
la ragazza delle pulizie è entrata in camera sua alle 8:00 e ha scoperto che
era kaput, dentro la doccia. -
Scusa, ma prima di entrare a
rifare una camera, non guardano se hanno restituito le chiavi? -
Abbiamo le tessere magnetiche. Il
più delle volte se le portano via, quindi le ragazze chiedono a quelli della
reception. Hanno pensato che fosse partito mentre ero di turno io. -
E questi due che se ne sono andati
alle 4:45 e alle 6:00? Clienti abituali? Li conosci? -
Quello della 404 era un cliente
nuovo. Mai visto prima. Si è fermato solo per la notte. -
Ma leggo bene? Ambrogio Brambilla? -
Sì. -
Suona falso lontano un miglio! -
Il commissario Bertelli
ha detto esattamente la stessa cosa. -
404. Proprio sopra la camera di De
Luca. - osservò Secondo. -
Già. -
E l’altro? -
Antonio Farina, un cliente
abituale. Una brava persona, simpatico, lascia buone mance. Però occupava la
301, al quarto cosa sarebbe andato a fare? Secondo
sospirò. -
Ti confesso che sono molto
preoccupato. Mi hanno detto che sono il principale indiziato. Mi sono già
messo in contatto con un avvocato. -
Sospettano anche di me. Si sono
convinti che avevo una storia con lui, per arrotondare. Proprio io, che per
non allontanarmi dalla reception non vado neanche in bagno. -
Sì, ora che mi ci fai pensare,
sembri proprio il tipo. - rispose Secondo, con un sorriso ironico. -
Beh, non sarò un adone come te, ma
ho avuto anch’io i miei estimatori. Solo che non penserei mai a una storia
qui dentro. Piuttosto, ti sembra prudente quello che stiamo facendo? -
Parlare? -
Già, parlare tra noi. Se ci
tengono sotto controllo, potrebbe sembrare che ci conosciamo da tempo e
sospettare persino che siamo complici. -
Possiamo spiegare. -
C’è poco da spiegare. -
Appunto. Comunque domani mattina
chiamo Vizzini per confermargli la storia dell’ascensore, visto che l’hai
notata anche tu. E magari gli chiedo pure di questo fantomatico Ambrogio
Brambilla. -
Non vedo perché dovrebbe
soddisfare la tua curiosità, dal momento che sei anche tu un sospettato. -
Mi è sembrata una brava persona. -
Se riesci a sapere qualcosa,
tienimi informato. -
Ti chiamo qui o mi dai il tuo
numero di cellulare? -
Memorizzalo. - rispose Primo,
accingendosi a dettare. Chissà che da cosa non nascesse cosa. Mentre
guidava verso casa, Secondo ripensò a Primo. Il sospetto di Bertelli era del tutto comprensibile, anche se a lui
sembrava poco fondato. Primo aveva avuto modo d’incontrare De Luca molte
volte, certo, ma da questo a pensare che il portiere di notte si fosse
inventato un secondo lavoro per arrotondare, ci correva. De Luca gli aveva
detto che si vedeva con qualcuno da molto tempo, ma che si era stancato. Però
Bertelli non poteva ancora saperlo. Quindi, come
gli era venuto in mente? Sicuramente, nel suo mestiere, era abituato ad
esplorare ogni scenario possibile. Complimenti, commissario, bella fantasia. Comunque,
Primo, aveva avuto un brutta reazione, quando lui si era presentato alla
reception quella notte. Dapprima si era rifiutato con decisione di farlo salire.
Era geloso? Temeva di essere stato soppiantato? Rivide quel sorriso
professionale, tra l’arrogante e l’ironico, con cui lo aveva lasciato libero
di andare. No, non arrogante, forse, ma qualcosa d’altro, che gli sfuggiva.
Un’insolenza di sottofondo, nell’espressione della faccia da schiaffi.
Diffidenza? Oppure di tutto un po’ per nascondere una timidezza ormai quasi
sopita, ma costantemente latente? Doveva capire. E per farlo, doveva
rivederlo. Primo era una specie di mistero. E il mistero, purtroppo, l’aveva
sempre intrigato, facendo presa su di lui più del fascino o della simpatia. -
Allora? Questo Brambilla? - chiese Bertelli,
torturandosi l’attaccatura del naso. Doveva soffrire per una ricaduta della
sua sinusite, si disse Vizzini. -
Incensurato. L’antidroga lo sta
curando per un affare di droga e scommesse clandestine, come stretto
collaboratore di un certo Calogero Titta. Pare che
le indagini siano a buon punto, ma per ora sono ancora in ballo. -
Merda, è un bel casino mischiare
le inchieste. Rischiamo d’intralciarci a vicenda. E di De Luca che si sa? -
Era un consulente sportivo, molto
conosciuto nell’ambiente del calcio di serie B. Frequentava allenatori e
giocatori. Celibe. Niente donne. Viaggiava molto. Cambiava auto ogni sei
mesi, sempre di grossa cilindrata. Alle feste non beveva mai. Pare che fosse
astemio. Aveva una passione sfrenata per le Ferrari, ma non poteva
permettersene una. Vizzini
mise giù il taccuino su cui aveva letto i suoi appunti e guardò in faccia Bertelli. -
Se interroghiamo Brambilla,
rischiamo di metterlo sul chi vive e quelli dell’antidroga sono capaci di
frantumarci i coglioni. -
Provo a parlare con l’ispettore Boatta. Vediamo cosa ne pensa. In ogni caso, a questo
punto, dobbiamo per forza coordinarci. - propose Vizzini. -
Va bene. Comunque sia, sappiamo
che Brambilla è arrivato in albergo prima di mezzanotte e che se n’è andato
alle 4:45. Era quasi certamente lì, quando hanno ucciso De Luca. -
Sull’orario abbiamo anche la
conferma del tassista. L’ha preso a bordo alle 4:45 e l’ha lasciato in
aeroporto. Poi però se ne perdono le tracce. Non risulta nella lista
passeggeri di nessun volo. -
Quindi era solo una finta. In
realtà non doveva andare da nessuna parte. Voleva solo costruirsi un alibi. -
Può darsi. Poco
dopo le undici, Secondo avanzò nella hall a passo di carica. -
Hey,
sei incazzato? -
Quella bestia di Bertelli! Mentre Vizzini mi raccontava quello che avevano
scoperto di Ambrogio Brambilla, è entrato come un toro infuriato, gli ha
fatto un cazziatone e mi ha cacciato via a calci in culo. -
Te l’avevo detto. Che cosa sei
riuscito a sapere? -
Brambilla esiste davvero.
Incredibile, eh? -
E chi è? Che fa? Perché era qui? -
Non ho fatto in tempo a
chiederglielo. Però gli ho raccontato dell’ascensore. Vuole sentire anche la
tua versione. -
Gli hai detto che ci siamo
parlati? -
Meglio dire la verità, tanto la
scoprono lo stesso. -
Hai ragione. In fondo, non abbiamo
niente da nascondere, noi due. ‘Sarà
vero?’ si chiedeva Primo. ‘E se mi sta coinvolgendo solo per confondere le acque?’ -
Chiama Vizzini, domani mattina,
così gli confermi la storia dell’ascensore. -
Per quel che servirà... -
Non si sa mai. Non abbiamo
nient’altro a cui appigliarci. ‘Soprattutto
tu’ pensò Primo. Ogni
volta che Secondo se ne andava, restava nell’aria il suo profumo. Primo lo
aspirava come un tossico che sniffa la colla. Era un misto di cuoio,
patchouli, muschio e un leggero aroma di buon tabacco. Quando
quella storia fosse finita, non lo avrebbe più visto. La sua mente
deragliava, al solo pensiero. Possibile che gli fosse bastato incontrarlo
quelle poche volte, per marcarlo a fuoco? Primo si odiava per aver lasciato
quella porta aperta con tale leggerezza. Doveva saperlo, che poteva
succedere. Doveva difendersi, innalzare tutte le sue barriere, impedire che
accadesse. Ma davvero si può contrastare un evento simile? Primo non era più
tanto sicuro. In ogni caso, ormai non poteva più farci niente. Sono i casi
della vita. Ognuno si sceglie il proprio inferno, su questa terra.
Evidentemente, senza neanche accorgersene, lui si era scelto il suo: essere
attratto irresistibilmente da qualcuno che poteva avvicinare solo per caso,
per brevi momenti, ma che apparteneva ad un’altra dimensione, alla quale lui
non avrebbe mai potuto accedere. Aveva la faccia sbagliata, gli occhi di un
celeste slavato, un fisico che non possedeva nulla di atletico, aggravato da
una magrezza che lo faceva assomigliare ad un attaccapanni. Considerate
queste premesse, quali speranze aveva di farsi notare da uno come Secondo?
Nada. Nadamas... A meno che non avesse il gusto
dell’orrido. E per un uomo raffinato ed elegante come Secondo Cresta, sarebbe
stato il colmo. Maurizio
Vizzini si sedette di fronte a Rosanna Boatta,
guardandola bene in faccia. Solo la scrivania li separava. Da quella breve distanza
notò che la donna aveva qualcosa di diverso, dall’ultima volta che l’aveva
vista. I suoi lunghi capelli, morbidamente distribuiti sulle spalle in onde
leggere ed elastiche, erano di un rosso più marcato. Le donavano molto.
Indossava una camicia bianca alquanto attillata che, nonostante fosse
generosamente sbottonata, sembrava scoppiare all’altezza del seno,
sottolineandone l’incontenibile esuberanza. -
Quando hai finito con la
radiografia, hai intenzione di dirmi perché sei qui? Vizzini
tossicchiò, per nascondere con una mano il suo risolino impertinente. -
Ambrogio Brambilla. -
Ci stiamo lavorando. Qual è il tuo
interesse in questa indagine? -
Crediamo che sia implicato
nell’omicidio De Luca. -
Davvero? Raccontami tutto.
Potrebbe essere la svolta che aspettavamo. - lo invitò, mentre i suoi occhi
dalle lunghe ciglia si stringevano a fessura, fissandosi attentamente in
quelli di Vizzini. L’ispettore
osservò le sue labbra tumide e rosse, senza bisogno di trucco, deglutì, prese
fiato e poi iniziò a parlare, senza perdersi in piroette speculative. Per lui
contavano solo i fatti. E, come al suo solito, furono quelli che espose,
sinteticamente e puntando solo all’essenziale. -
Allora c’è un collegamento certo.
Abbiamo saputo che ultimamente Calogero Titta ha
perso un sacco di soldi con le scommesse. Lui le piazza per guadagnarci,
quindi dev’essersi molto incazzato. -
Come funziona? -
Per viaggiare sul sicuro, Titta si compra qualche giocatore, con il compito di far perdere
la squadra, e il gioco è fatto. Sappiamo che De Luca è stato molte volte alle
feste di Calogero. Rosanna
afferrò un fascicolo dalla copertina blu, sfilandolo da una pila piuttosto
alta. L’aprì,
sfogliò qualche pagina e poi glielo piazzò sotto il naso. -
E De Luca era in combutta con Titta? -
Perchè
no? Cosa diavolo fa un consulente sportivo, me lo dici? Di cosa si occupa? È
una specie di PR? E come li guadagnava tanti soldi, me lo spieghi? -
Non sarebbe una novità. Potrei
tentare delle ipotesi. Vediamo. De Luca conosce molto bene alcuni giocatori. Titta lo convince a metterne qualcuno sul suo libro paga,
diciamo un paio per squadra. A De Luca va una percentuale, o magari un fisso.
Titta decide chi vince e chi perde e si regola
sulle giocate, anche se non le chiamerei propriamente scommesse, impostate
così. Poi che succede? De Luca si pente. Non ci sta più. Titta
subisce una grossa perdita e per vendicarsi decide di farlo fuori. -
Oppure si pentono i giocatori
chiave e De Luca è colpevole di non essere stato abbastanza convincente. Per
punirlo del suo insuccesso, gli manda Brambilla. Però c’è qualcosa che non mi
torna. Brambilla aveva già prenotato il taxi e il volo. Come faceva a sapere
che per quell’ora avrebbe finito il suo lavoretto? -
Il taxi non era prenotato. L’ha
chiamato un quarto d’ora prima di lasciare l’albergo. E sul volo ho molte
riserve. Non era su nessuna lista passeggeri. Forse non è andato da nessuna
parte. Oppure viaggiava con documenti falsi. Ma allora, perché in albergo ha
presentato quelli veri? -
Improvvisazione, dilettantismo,
stupidità? A che ora hai detto che è uscito dalla sua stanza, quel Cresta? -
Alle 4:30 era alla reception. -
Un quarto d’ora per strangolare
qualcuno potrebbe bastare, ma non mi convince. -
In effetti, avrebbe potuto farlo molto
prima. Non poteva sapere che De Luca aspettava visite. -
Forse teneva la camera sotto
controllo. -
E come? -
Non saprei. Brambilla alloggiava
allo stesso piano? -
De Luca al terzo e lui al quarto,
esattamente sopra. -
Poteva sorvegliarlo da una finestra?
Da un balcone? -
Dovrei controllare se è possibile. -
Oppure è sceso per ammazzarlo
proprio quando arrivava il Cresta. L’ha visto, ha aspettato che uscisse e
subito dopo è entrato, mentre De Luca era già sotto la doccia. -
Dopo tutto, sarebbe più comodo
accusare il Cresta. -
Esatto, molto comodo, soprattutto
per Brambilla e Titta. Quale movente potrebbe aver
avuto il Cresta? -
Nessuno che mi venga in mente.
Potrebbe aver litigato con il cliente, per qualche ragione a noi sconosciuta.
Di sicuro aveva tutto il tempo, mentre devi ammettere che con una finestra di
quindici minuti è un po’ difficile lavorare sulla colpevolezza di Brambilla. -
A volte gli imprevisti e le
coincidenze aiutano gli assassini più della ferrea progettazione di un
delitto. Vizzini
annuì mestamente. -
Ah, c’è la storia dell’ascensore. -
Che storia? -
Cresta sostiene che, uscendo dalla
camera di De Luca, ha trovato l’ascensore occupato, diretto al quarto piano.
Motivo per cui lui è sceso per le scale. È rimasto alla reception per una decina
di minuti ancora e in quel lasso di tempo non è sceso nessuno. Il portiere di
notte afferma di aver visto che si era fermato al terzo piano. Poi è sceso
Brambilla. Quindi... -
Ma perché Brambilla avrebbe dovuto
fare tanto casino con l’ascensore? Santa pace, era solo un piano di scale! -
Pigrizia? Abitudine? Era certo che
nessuno lo notasse? Boh! -
Cervello scollegato? Vizzini
sorrise. -
Io punterei su Brambilla. Abbiamo
un motivo in più per accelerare le indagini. Voi non fate niente, però, sennò
ci rovinate la sorpresa. - disse Rosanna. -
E Bertelli
chi lo regge? -
Lo faccio chiamare da Tiberi. Non è tanto tenero in questo periodo. -
Ah, nemmeno Bertelli,
puoi giurarci. Gli è tornata la sinusite. -
Che se la vedano loro. Noi intanto
andiamo avanti. E tu, magari, potresti approfittarne per andare a studiarti
le finestre dell’albergo. La
giornata era iniziata male. Secondo aveva un gran cerchio alla testa. Non
sapeva a quale causa attribuirlo. La sera precedente non aveva ingoiato nulla
di particolarmente indigesto, non aveva bevuto niente di alcolico, aveva
fumato pochissimo e per giunta aveva dormito bene. Allora? Forse lo stress.
Ignorare come stessero proseguendo le indagini, e soprattutto, in quale
direzione, lo rendeva incredibilmente nervoso. Verso mezzogiorno, decise di
chiamare Vizzini sul cellulare. -
Sto andando al Nadamas
proprio adesso. - lo informò lui. -
Ci sono novità? -
Non esattamente. -
Non ha niente di confortante da
dirmi? -
Non è ancora il momento di trarre
conclusioni. Quando sarà il caso, la chiamerò. -
L’ansia mi sta divorando. -
Stia calmo. Stiamo seguendo una
pista. -
Ambrogio Brambilla? -
Senta, non posso discutere le
indagini proprio con lei, se ne rende conto? Mi dispiace. Si distragga, pensi
ad altro. -
Sta scherzando? Mi sospettate di
omicidio, mica di aver rubato le caramelle a un ragazzino! -
Passi una buona giornata. -
concluse Vizzini, chiudendo la comunicazione. -
Merda! - urlò Secondo. Un’ora
dopo, sempre con il suo bel cerchio alla testa, decise di chiamare Primo. -
Hai novità? - gli chiese lui, con
voce assonnata. -
Macché, Vizzini sta seguendo una
pista, ma non mi ha voluto dire niente di più. -
Ma che pretendi? Sei un sospettato
anche tu. Già è molto che non ci troviamo tutti e due dietro le sbarre. Non
mi pare vero. -
Con l’affollamento delle carceri, ormai
ci finiscono dentro solo quelli che riescono a farsi prendere con le mani nel
sacco, anche se gli sbirri hanno girato la testa dall’altro lato. -
Come sia, noi siamo fuori, ed è
già un bel risultato. -
Sono agitato. Ti va di fare
qualcosa insieme? -
Dal momento che ormai, grazie a
te, sono sveglio, va bene. Andiamo a mangiare da qualche parte? -
Conosco un posto dove si mangia
molto bene. Il posto si chiamava ‘Il lupo della
steppa’. Secondo ci andava, ogni tanto, da solo. Era la prima volta che ci
portava qualcuno. -
Il lupo della steppa è un romanzo
di Herman Hesse. L’avranno chiamato così in omaggio
a lui? -
Non ne ho idea. - rispose Secondo,
distrattamente, guardandosi intorno. Primo
comprese che l’argomento non era di alcun interesse per Secondo. -
Sei davvero nervoso. Rilassati un
po’. -
Questa storia mi sta mandando al
manicomio. -
Sei innocente o no? -
Sì, cazzo. -
E allora piantala di preoccuparti.
Lasciali lavorare. Vedrai che troveranno chi è stato. -
Sì, hai ragione, ma non riesco a
pensare ad altro. -
Adesso pensa a mangiare. Pensa
solo a quello che stai facendo, volta per volta. -
Come fai a startene così
tranquillo? -
Perché preoccuparmi non servirebbe
a niente. -
Questo è fatalismo. Primo
si strinse nelle spalle. Secondo sospirò. -
Dai raccontami qualcosa di te. -
aggiunse. -
Di me? Oddio, non potevi trovare
un argomento più noioso. Se vuoi addormentarti prima di pranzare... -
Non ti piace parlare di te, ho
capito. Neanch’io ci tengo troppo. - sbuffò. -
Non è che non mi piaccia, è che
non c’è niente d’interessante, nella mia vita. -
Adesso c’è. Sei sospettato di
omicidio, ricordi? -
Anche se volessi dimenticarmene,
ci sei tu che puntualmente me lo rammenti. Secondo
sorrise. -
Hai ragione. Vizzini
si affacciò al balcone della stanza 404. Sul lato sinistro si accedeva alla
scala antincendio, non certo comoda, ma utilizzabile nel momento del bisogno.
L’ispettore scese gli stretti gradini metallici silenziosamente, con evidente
disagio, atterrando con sollievo sul balcone della 304. Per Brambilla sarebbe
stato un gioco da ragazzi appostarsi là fuori per spiare il De Luca dai
vetri. Era lì, quella notte? E cos’aveva visto? Sicuramente c’era la luce
accesa, forse non la centrale, ma l’applique sopra il letto. Li aveva visti
scopare? Niente giochini strani. Solo una sana
scopata senza troppa fantasia. Cresta ci teneva a farglielo credere. Però era
stato lì con De Luca per due ore e mezza. Bella resistenza. E non avevano
neppure fatto la doccia insieme. Cresta se n’era già andato, quando De Luca
era stato sorpreso nella doccia dal suo assassino. Come sarebbe stato facile,
senza problemi, dire che invece ad assassinarlo era stato Cresta. Vizzini
provò a spingere la portafinestra, ma era fermata dall’interno. Anche quella
notte doveva essere chiusa, altrimenti Brambilla sarebbe entrato da lì, senza
dover chiamare l’ascensore al quarto, per poi scendere al terzo. Risalì
lentamente. L’importante era non soffrire di vertigini. Il solo pensiero gli
fece aggrappare le mani ai tubolari e lo bloccò dove si trovava. Vizzini
chiuse gli occhi. Scala di merda. Poi fece un respiro profondo, riaprì gli
occhi e si costrinse a risalire fino al balcone superiore. Quindi, tornò al
terzo piano in ascensore, come aveva fatto Brambilla. Com’era entrato
l’assassino? La porta non era stata forzata. Usò la carta magnetica, studiò
la serratura e sorrise. La chiuse di nuovo, cercò una tessera nel portafogli.
Estrasse quella del supermercato. La passò dal basso verso l’alto nella
fessura tra la porta e lo stipite, all’altezza della chiusura, che con un
clic si aprì. La
camera ovviamente era stata messa sotto sequestro. Si guardò intorno. Il
letto era un campo di battaglia, copriletto e lenzuola erano aggrovigliate e
per buona parte finite in terra. Sicuramente aveva contribuito anche la
scientifica. Davanti alla doccia c’era la sagoma delle spalle e della testa
di De Luca. L’avevano trovato con le gambe e il fondoschiena sul piatto
doccia e il busto sulle piastrelle del pavimento. Brambilla doveva essergli
arrivato alle spalle senza che De Luca lo vedesse. Aveva spalancato l’anta di
plastica della doccia e l’aveva afferrato per il collo. Acqua e sapone non
dovevano avergli reso agevole l’operazione. Brambilla doveva essersi bagnato
dalla testa ai piedi. Ma poi aveva asciugato il pavimento? Quando era stato
ritrovato il cadavere, il pavimento era asciutto. E poi aveva dovuto
cambiarsi. Un quarto d’ora per fare tutto questo. I capelli, però, non se
l’era asciugati. Perché tanta fretta? Temeva di perdere l’aereo? Ma quale
aereo? Vizzini
curiosò nell’armadio, servendosi di un fazzoletto di stoffa per toccare il
pomello. Probabilmente era ormai uno degli ultimi rari esemplari di essere
umano che se ne andava in giro con un fazzoletto di stoffa in tasca.
Nell’armadio era appeso un completo blu. Ai suoi piedi c’era un trolley. Ne
sollevò il coperchio, trovando una camicia celeste ben piegata. Altri oggetti
erano dentro il cassetto semiaperto di un altro mobile. Un notebook, un
portafoglio di pelle pieno di soldi, calzini, slip, un pacchetto di
fazzoletti di carta, una scatola di preservativi (strano che la scientifica
non avesse già prelevato tutto). Comuni oggetti che considerava normali,
quando appartenevano ai vivi, ma che si trasformavano automaticamente in
malinconiche reliquie, quand’erano tutto ciò che rimaneva di un cadavere. Vizzini
uscì dalla stanza senza aver toccato nulla. Era evidente che lì non avevano
finito. Davanti all’ascensore si chiese ancora una volta per quale motivo
Brambilla non avesse usato le scale per scendere a trovare la sua vittima.
Forse non si era reso conto che sul lunotto sopra le porte appariva il numero
del piano in led luminosi. Su qualunque piano ci si trovasse, si poteva
conoscere la posizione della cabina. Forse pensava che a quell’ora nessuno
l’avrebbe notato. Un omicida improvvisato e piuttosto ingenuo, questo
Brambilla. Possibile che Calogero Titta non avesse
sottomano un professionista? E se Brambilla si fosse incontrato con De Luca
per altri motivi? Se l’omicidio non fosse stato premeditato, bensì il
risultato di una discussione finita male? In un quarto d’ora? Improbabile. Ma
tutto era possibile. Primo
accettò il caffè che Secondo gli aveva offerto. Il divano era comodo.
Veramente, tutto l’appartamento sembrava comodo. Secondo si trattava bene.
Del resto, la sua professione doveva comportare un bel profitto. Era una
domanda che gli si era affacciata sulla punta della lingua, ma non aveva
osato attraversargli le labbra. Si sarebbe offeso? Sua madre gli diceva sempre
di non parlare di soldi. Non stava bene. Secondo lei erano davvero pochi gli
argomenti di conversazione che si potevano affrontare in maniera educata e
tra questi non erano contemplati il vile denaro, il sesso, il cibo mentre si
mangiava e i piedi (chissà poi perché?)... A Primo invece i piedi piacevano.
Adorava guardare i piedi nudi della gente, in estate, quand’erano liberi di
muoversi avvolti nelle sottili strisce dei sandali, che facevano solo da
ornamento. Adorava le caviglie ingentilite da braccialetti. Al piede greco e
a quello romano, preferiva il piede egizio, che trovava più elegante e
slanciato. -
A che pensi? - gli domandò
Secondo. Primo
si mise a ridere. -
A mia madre. Niente. A una sua
mania. -
Quale? -
Mia madre dice che parlare di piedi
non è educato. Mi domandavo perché le sia venuta quest’idea. Che c’è di male
a parlare dei piedi? È una parte del corpo come un’altra, no? -
Strana, tua madre. La mia non
nomina mai il cazzo, nemmeno con quei nomignoli che gli si affibbia da
bambini, pisellino, pistolino... Solo una volta l’ho sentita chiamarlo coso.
Non aveva a disposizione nemmeno un termine. Coso. -
Coso... - ripeté Primo,
sorridendo. -
Se tu mi fai vedere i tuoi piedi,
io ti faccio vedere i miei. Primo
sperò che poi passassero ai cosi. La
sua speranza si trasformò in certezza, quando Secondo si spogliò davanti a
lui e l’aiutò a sbottonarsi, perché le mani gli tremavano senza ritegno. Il
suo sogno che si tramutava in realtà, lo metteva in forte agitazione. Si
sentiva come il brutto anatroccolo che si trova indifeso sotto lo sguardo
critico dell’aristocratico cigno. Era certo che gli avrebbe dato un’occhiata
e l’avrebbe cacciato via. Secondo
aveva il piede egizio e tutto il resto in perfetta armonia, compreso un bel
cazzo sull’attenti. Primo si vergognò della sua estrema magrezza, ma con
stupore comprese che Secondo non ci badava, forse perché là dov’era
necessario, era ben dotato e già pronto all’azione. -
Mi piace il tuo coso. - affermò
Secondo, sorridendo. -
Menomale. -
E dei miei piedi che ne dici? -
Notevoli. Il sottogenere che
preferisco. -
Dal che si deduce che le nostre
madri non capiscono un cazzo. Primo
poté appurare che il divano era davvero molto comodo e più tardi provò anche
il letto a due piazze, che permetteva ogni genere di posizione contemplata
dal kamasutra gay. Quella del bonobo, in cui aveva
avuto i piedi di Secondo a portata di bocca, mentre lo inculava, lo aveva
mandato in orbita. Secondo era un indiscusso professionista della pratica, ma
Primo, sulla teoria, non lo batteva nessuno. -
È bello avere vicino qualcuno che
si dedica a te. - mormorò Secondo, soddisfatto, con voce appena udibile, come
se stesse semplicemente pensando ad alta voce. Primo
non ritenne necessario commentare, limitandosi a continuare l’attività a cui
si stava dedicando, con concentrata abnegazione, lascive carezze e umidi
baci. Il
commissario Tiberi battè
un pugno sulla scrivania, esasperato. -
Che fine ha fatto Brambilla? -
Non si sa. È stato visto l’ultima
volta due giorni fa, con Titta e i suoi
uomini. - rispose Rosanna. -
Scoprite che fine ha fatto. Non ne
posso più di questa storia. È inutile aspettare ancora. Appena torna in
circolazione, li arrestiamo tutti. Poi penseremo agli altri, giocatori e
scommettitori. -
A proposito di giocatori, adesso
che non c’è più De Luca a fare da intermediario, si cominciano ad affacciare
timidamente alla villa di Titta. Ieri sembrava una
piccola processione. -
Potevi dirmelo prima. Senti, a
questo punto, chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Arrestiamo Titta e i suoi, quelli che troviamo. Agli altri penseremo
dopo. -
Ben detto! Era ora. Ma prima... Rosanna
Boatta lo osservò con attenzione, poi continuò: -
Commissario, che te ne pare di
staccare un po’? Hai mangiato? -
No. -
Allora che ne dici di andare? Se facciamo
in fretta, troveremo ancora qualcosa da mettere sotto i denti. Niente panini,
oggi. -
Va bene, Rosanna, mi hai convinto.
- concesse, con un accenno di sorriso. Rosanna
pensò che era il primo che gli vedeva quel giorno, e che non aveva intenzione
di mollarlo, finché non fosse riuscita a sapere che cosa lo rodeva. Gianluca
Tiberi si alzò dalla scrivania, le posò una mano
sulla schiena e ne approfittò per sentire la morbidezza di quei capelli che
lo facevano impazzire. Sapeva perfettamente che non avrebbe resistito ancora
per molto. Certe
decisioni ci assalgono all’improvviso, senza premeditazione. Per questo,
voltandosi verso di lui, Rosanna si ritrovò con le labbra su quelle di Tiberi, il quale, bisogna ammettere, da qualche giorno
non pensava ad altro. Calogero
Titta aveva la faccia schiacciata, come se da
piccolo l’avessero lasciato cadere dal seggiolone. Il suo naso era l’esempio
classico di ciò che può accadere a un ragazzino, quando si ostina a fare a botte
con quelli più grandi di lui, senza imparare che è meglio evitarlo. Nel
complesso, si poteva considerare decisamente brutto. Il suo carattere, al
contrario, lo spingeva ad emergere con ogni mezzo. Voleva sempre averla
vinta, di qualunque cosa si trattasse. Di conseguenza, primeggiare gli
riusciva inevitabile. Per questo era il boss. E forse anche perché viaggiava
costantemente armato, anche se in vita sua, non era mai stato costretto a
dimostrare d’essere dotato di una buona mira. Era
la prima volta che metteva piede in un commissariato, e solo perché ce
l’avevano trascinato con la forza bruta. Gli avevano anche sottratto la
pistola, e senza, si sentiva nudo. Lo stavano interrogando ormai da ore. Si
sentiva la gola secca e i coglioni che gli fumavano. -
Dov’è Ambrogio Brambilla? - chiese
per l’ennesima volta il commissario Tiberi. Estenuante.
Sempre la stessa domanda. -
Quante volte ve lo devo ripetere?
È partito. -
Se non ci dici dov’è, noi
continueremo a chiedertelo. -
È in Brasile! - urlò, esasperato. -
Una fuga vecchio stampo. -
commentò Rosanna. -
Perché avete fatto fuori Ottavio
De Luca? -
Chi? -
De Luca. Frequentava le tue feste.
Non te lo ricordi? -
Alle mie feste viene un sacco di
gente. Mica li conosco tutti! -
Ma questo è sul tuo libro paga. -
Vi sbagliate di grosso. Non so di
cosa state parlando. -
Di scommesse clandestine, di
giocatori corrotti e di un consulente sportivo che vi faceva da
intermediario. Perché l’avete fatto fuori? Voleva uscire dal giro? Ti
ricattava? Non faceva bene il suo lavoro? -
Siete proprio fuori strada,
sapete? -
Le nostre intercettazioni parlano
chiaro. -
Vi ci potete pulire il culo, con
le vostre intercettazioni. Vizzini
rispose al telefono. Sulle labbra gli apparve un sorriso, quando riconobbe la
voce sensuale di Rosanna Boatta, tonalità bassa,
lievemente arrochita dal fumo. Ma poco dopo saltò sulla sedia. -
Scappato in Brasile? Addio! Quello
in Italia non si fa più vedere. Titta ce l’ha
mandato perché ha capito che il collegamento tra De Luca e Brambilla avrebbe
portato a lui. Certo che poteva pure pensarci prima. -
Se riusciamo a far confessare Titta, siamo a posto. È lui il mandante. Ma per il
momento non sembra troppo in vena di chiacchiere. -
I giocatori che abbiamo invitato
qui, invece, parlano volentieri. Pare che De Luca avesse una bella
percentuale sulle scommesse. Tra poco i giornali saranno pieni di questa
merda, che con cadenza regolare torna a saltare fuori. -
Sì, negli anni bisestili, credo. -
E alla fine, se riusciamo a
scovare Brambilla in Brasile, quelli rifiuteranno l’estradizione, quindi
dovremo fare a meno di lui. -
Temo che andrà a finire proprio
così. -
Insomma, un’altra indagine chiusa
a cazzo. -
Consolati, Vizzini. La vostra
indagine viene accorpata alla nostra. Lo so che non ne sei troppo soddisfatto,
ma non avrai il tempo per rammaricartene: vedrai che avrai presto altri
omicidi su cui indagare. Secondo
chiamò l’ispettore, come faceva ormai a giorni alterni. Vizzini
gli rispose bruscamente. -
Sono Cresta. Se la chiamo in un
momento sbagliato, mi scusi... -
No, no, proprio lei. Lo sa che il
suo sito non si apre più? -
L’ho cancellato. -
Davvero? Come mai? -
Ho deciso di cambiare attività. -
Ah. E ha già in mente qualcosa? -
Vorrei fare il tassista. -
Ottimo, ottimo. Tanto adesso che è
tutto chiarito, può dedicarcisi senza problemi. -
In che senso è tutto chiarito? -
Abbiamo il mandante e l’assassino
di De Luca. Non deve più preoccuparsi. Il
sospiro di sollievo che Secondo emise dopo aver chiuso la comunicazione,
assomigliò ad una tromba d’aria. Il
commissario e l’ispettore uscirono dal ristorante dove avevano cenato,
sorridendosi con complicità. Era una serata splendida, senza luna, con un
cielo profondamente nero, disseminato di stelle lucenti. Gianluca abbracciò
Rosanna nel primo tratto poco illuminato della strada. Con mossa esperta,
Rosanna lo spinse contro il muro e lo baciò con estrema abilità. Aveva deciso
che quella sera non gli sarebbe sfuggito. Possedeva armi sufficienti per
tramortirlo a dovere. La prova che poteva riuscire nel suo intento, era che
non avevano mai accennato all’inchiesta per tutto il tempo che avevano
trascorso insieme, seduti a un tavolo, l’una di fronte all’altro. In quel
periodo, in effetti, il lavoro sembrava essere diventato più un ostacolo alla
loro felicità, che una preoccupazione costante. A chi era mai venuto in mente
che si potesse vivere di solo lavoro? Erano
esattamente le sette di un bel mattino sereno, quando Secondo si appoggiò al
muro di fianco all’ingresso di servizio dell’hotel Nadamas.
Poco dopo uscì Primo, senza accorgersi di lui. -
Hey! -
Ciao, non ti avevo visto. -
Ti va di fare colazione con me?
Poi ti accompagno a casa. -
Ho un sonno che non sto più in
piedi. -
Allora niente colazione. Ti
accompagno e basta. Primo
cedette, sebbene fosse convinto che quello si sarebbe rivelato un gravissimo
errore. Una volta arrivati, Secondo chiese a Primo se poteva salire, perché
gli doveva comunicare una bella notizia. Nonostante quella premessa, Primo
non ne fu per nulla entusiasta. Di qualunque cosa si trattasse, avrebbe
potuto dirgliela in macchina, o là sul portone. Se voleva salire da lui, il
suo scopo era un altro. Giunti
in casa, Primo gli chiese, controvoglia: -
Allora, di che si tratta? -
Hanno chiuso le indagini. Noi
siamo fuori dai guai. -
Ah, lo sapevo che prima o poi ce
l’avrebbero fatta. -
Io no. Ma ne sono davvero felice. Secondo
iniziò ad accarezzare il volto di Primo, ma questi si allontanò di scatto,
come se l’avesse scottato. Una volta, per la sua pace interiore, poteva bastare.
Già così, aveva subito una seria alterazione del sonno. -
È meglio di no. Poi non sopporterei il distacco,
il rimpianto e la nostalgia. Meglio salutarci prima di tutto questo. -
Chi ti dice che poi non mi farei più rivedere? -
Credo che il tuo lavoro ti tenga già molto
impegnato. -
Ah, già! Mi sono dimenticato di esporti i miei
programmi per il futuro. Penso sia giunto il momento di farlo. Ho acquistato
la licenza per un taxi. Farò solo turni di notte. E alle sette, quando
smontiamo tutti e due, verrò a prenderti in hotel e ti riporterò a casa.
Quando vorrai, salirò con te e... -
Taci! Lasciami almeno un po’ di suspense... Secondo si
avvicinò di nuovo, lentamente, fissandolo dritto negli occhi, come un
incantatore di serpenti. Primo, ipnotizzato, non si scostò. -
Primo... -
Secondo... La
cella era piccola, puzzolente e affollata. Calogero Titta,
abituato alla sua bella villa con giardino, si sentiva finito all’inferno.
Non aveva parlato. Non l’avrebbe fatto mai. Non sapeva con certezza se
Ambrogio avesse ucciso Ottavio De Luca, ma sapeva per certo di non essere
innocente. Ricordava bene l’ultima volta che aveva discusso con Brambilla. Ambrogio
Brambilla lo guardò con evidente timore. La voce di Titta
era stata seccamente intimidatoria, ma lui non sapeva che cosa rispondere. -
Dimmi la verità, pezzo di merda! -
tuonò. -
Ho fatto solo quello che mi hai
detto. Gli ho consegnato i soldi, e basta. Non ci ho nemmeno parlato. -
Brutto stronzo! E allora com’è che
l’hanno trovato strangolato? E com’è che nessun giornale ha parlato dei
soldi? -
Quelli se li saranno fottuti gli
sbirri. Titta gli assestò un manrovescio che
gli fece schizzare la testa di lato, oltre l’angolazione che credeva massima. -
Non l’ho ammazzato! -
E chi è stato, allora? -
Non lo so. -
Non pensare che ti godrai i soldi
che gli hai fottuto, testa di cazzo! -
Non sono stato io! -
Sei stato tu, cane bastardo. Te lo
leggo in faccia. Brambilla
pensò che il boss sapeva leggere a malapena e quello era proprio un guaio. Menomale
che non gli aveva mai parlato di Eleonora, altrimenti avrebbe rischiato di
metterla in pericolo. Quella bestia di Titta era
capace di prendersela anche con lei. Quand’era
andato a prenderla all’aeroporto, le aveva imposto di tenere segreta la loro
relazione. Eleonora non aveva capito, ma gli aveva giurato che avrebbe fatto
come gli chiedeva. E che avrebbe aspettato che fosse lui a farsi vivo, quando
avesse potuto. Più
tardi, si ritrovò legato come un salame, nei pressi di un cantiere, in cui
stavano facendo la gettata di cemento per le fondamenta di un nuovo palazzo.
Quando vide la betoniera e come il boss la stava osservando, comprese che a
lui, invece, saper leggere non sarebbe servito a niente. Secondo
si rigirò nel letto per la decima volta, sperando di non svegliare il suo
compagno. Al contrario di lui, non riusciva a dormire. In tutta quella
storia, incontrare Primo, era stato come trovare un fortuito salvagente
mentre naufragava in un mare di merda. Allontanarsi dall’effimero
vagabondaggio dei suoi rapporti sconclusionati, trovando un po’ di stabilità
vicino a un uomo che lo faceva sentire speciale, non era stata che una
provvidenziale conseguenza. A maggior ragione, i sensi di colpa non potevano
abbandonarlo. Le immagini di quella fatidica notte gli rimbalzavano nella
mente senza che riuscisse a fermarle. Avrebbe mai avuto il coraggio di
raccontare a Primo tutta la verità? Ottavio
De Luca non era il suo tipo, ma Secondo non poteva scegliersi i clienti.
Erano loro che sceglievano lui. L’importante era che pagassero bene. Al
resto, si era abituato. Ottavio doveva pisciare. Aveva proposto una variante
che lui aveva rifiutato, così si era rassegnato ad andare in bagno. Secondo
ne aveva approfittato per guardarsi in giro. Subito gli era caduto lo sguardo
sulla ventiquattrore nascosta dietro la poltroncina. Perché era nascosta
lì? In genere era molto discreto, non
s’impicciava degli affari altrui, ma un impulso irrefrenabile l’aveva spinto
a guardarci dentro. Era stato un raptus. Appena aperta, era trasalito come se
l’avessero infilzato con un punteruolo elettrico. La valigetta era piena di
denaro. Una consistente quantità di banconote, con quella magnifica tonalità
di viola... Non avrebbe saputo quantificare: non ne aveva mai viste tante
tutte assieme. Quello era un cliente che avrebbe fatto bene a tenersi buono. Nei
suoi ricordi, il resto della nottata era un vago miscuglio di carezze ruvide
e penetrazioni violente. De Luca amava essere strapazzato. Mentre lo inculava
per l’ultima volta, Ottavio gli aveva chiesto di stringergli il collo. Lui
aveva obbedito, nascondendo la sua riluttanza, e poco dopo De Luca aveva
rantolato in un’onda di piacere incontenibile, ma a quel punto Secondo non si
era fermato. Per una pulsione incontrollata, aveva continuato a stringere,
sempre più forte, e intanto anche lui era venuto. Ma neppure allora si era
fermato. Aveva continuato a stringere, ancora e ancora, nonostante i vani
tentativi di De Luca di bloccarlo, finché, dopo un tempo che gli era sembrato
lunghissimo, si era finalmente abbandonato, rimanendo immobile. Secondo era
schizzato giù dal letto, gelato fino alle ossa, anche se la temperatura della
stanza non ne aveva colpa. Si sentiva avvolto in una gelida cappa di
straniamento e di vuoto. Impalato in mezzo alla stanza, si chiedeva che cazzo
gli era preso. Poi, all’improvviso, il suo cervello si era messo a turbinare
vorticosamente. Era tornato da De Luca, l’aveva trascinato nella doccia e aveva
aperto l’acqua. Non era stato un gesto razionale. Non sapeva perché l’avesse
fatto, ma lavare via tutti gli umori di quella notte assurda gli sembrava
essenziale, come cancellare con un colpo di spugna un disegno riuscito male o
come un folle tentativo di tornare indietro nel tempo. Aveva
asciugato il pavimento e si era rivestito in fretta. Si era ricordato di aver
parcheggiato di fianco all’hotel, proprio vicino alla scala antincendio.
Perciò l’aveva vista. Aveva raccolto la valigetta ed era sceso dal balcone
fin sulla strada. Aveva nascosto la ventiquattrore nel portabagagli ed era
risalito al terzo piano. Anche se non c’era in giro nessuno, aveva pregato
ardentemente che nessuno lo vedesse. Rientrando
nella camera di De Luca, si era di nuovo guardato intorno e si era sentito
fottuto. L’aveva fatta grossa. Nessuno avrebbe mai creduto che potesse essere
innocente. Giunto all’ascensore, gli era venuto in mente un disperato
tentativo di depistaggio. Era salito al quarto piano e aveva chiamato
l’ascensore. Quando le porte si erano aperte, restando fuori dalla cabina,
aveva premuto il tasto 3, e quando le porte si erano richiuse, si era
precipitato giù per le scale. Mentre si avvicinava alla reception, una volta
attirata l’attenzione del portiere di notte, si era voltato verso
l’ascensore, accertandosi che i led si leggessero bene anche da quella
posizione. Poteva solo sperare che anche lui ne avesse notato il movimento.
Era un azzardo, ma quale altro mezzo avrebbe avuto per sviare l’attenzione
che si sarebbe concentrata su di lui? Poi si era affidato alle sue provate
doti di attore, per apparire disinvolto. Mettersi a conversare amichevolmente
con quell’uomo in divisa gli era sembrata l’unica possibilità. Consegnargli i
suoi biglietti da visita, chiedere di essere contattato, insomma, farsi
notare. L’esatto opposto di ciò che probabilmente avrebbe fatto un assassino.
Il resto doveva farlo la sua capacità di mantenere i nervi saldi e la sua
considerevole faccia di culo. Invece
no. Il resto l’aveva fatto una fortuna sfacciata. |