Note di follia Occhi verdi, intensi, simili a pietre
preziose, ma altrettanto freddi; labbra rosa corallo: una linea sottile
superiore, una curva piena inferiore, chiuse in un ostinato silenzio. Nel
mezzo, un naso sottile, dalle piccole narici frementi, che si dilatavano per
l’irritazione. Quell’irritazione si era trasformata poi in incomprensione, e
infine in paura. Osservò il volto affilato, dagli zigomi prominenti,
sottolineati dalle ciocche nere dei capelli a caschetto, con la frangia
corta, a filo delle sopracciglia ad ali di gabbiano. Il collo candido, lungo
e sottile, facile da afferrare, da stringere a piene mani, forte, più forte,
sempre più forte... Sofia chiamò il piccolo Miguelito che era scappato. Con quel demonio non sapeva
più come fare. Bisognava proprio tenerlo al guinzaglio come un cane. - Miguelito! Dove ti sei cacciato? - urlò sul
pianerottolo. Sentì distintamente la sua risata
cristallina dietro la porta di Gracia. Affacciò la
testa nell’appartamento della sua vicina e lo afferrò con mano sicura,
fulmineamente. Bisognava avere riflessi pronti con quel brigante. Mentre il bambino si divincolava, chiamò Gracia. Ma non ebbe nessuna risposta. - Gracia, hai aperto tu a Miguelito?
Permesso, posso entrare? Quel silenzio cominciò a darle un senso
di ansia. - Gracia! Sofia avanzò nel corridoio, finché non la
vide, spaventandosi a morte. Si ritirò velocemente fino alla porta, l’accostò
tornando sul pianerottolo. Avrebbe voluto urlare, fuggire lontano,
dimenticare tutto. Tremava come una foglia, la mente in subbuglio. Cercò di
calmarsi, accarezzando la testa di Miguelito,
stringendolo a sé. Poi, con mano tremante, tirò fuori il cellulare e chiamò
la polizia. Per fortuna il bambino non aveva fatto in tempo a vederla, ma lei
sicuramente avrebbe avuto gli incubi, sempre che in futuro fosse riuscita
ancora a dormire. Rey Delgado rimase
sulla porta, mentre Pérez, dopo aver osservato e
tastato il cadavere, si rimetteva in piedi. - Non c’è dubbio, è stata strangolata. - Glieli ha cavati prima o dopo? - Dopo, direi. - Menomale. Povera ragazza. Pérez gli lanciò uno sguardo stupito. Era la
prima volta che gli sentiva fare un commento sulla vittima di un omicidio. - C’è qualcosa che ti può interessare,
dietro la porta. Vieni a vedere. Delgado entrò, molto attento a non mettere i
piedi dove non doveva, benché avesse indossato i calzari e tutto il resto
dell’armamentario, come richiesto dalla scientifica, che altrimenti non
gliel’avrebbe mai perdonata. Disegnato con un gessetto blu, sul lato
interno della porta, c’era un pentagramma con poche note. Le memorizzò, poi
ordinò al fotografo di fare un paio di scatti. - Le ha tagliato i capelli, credo. Ce ne sono
una certa quantità anche sul pavimento. - gli disse ancora Pérez. - Si è portato via gli occhi e i capelli? - Così pare. - Abbiamo a che fare con un pazzo. -
commentò Delgado. Consuelo, intanto, parlava con due agenti della
scientifica. In soggiorno c’era la scrivania con un computer, un paio di
cellulari, agende e blocchi per appunti. - Anson, quanto ci vorrà per avere un po’ di
notizie sulla vittima? - Non molto. Ti faccio una relazione appena
raccolto il primo materiale utile. Qualcosa ti posso mandare già domani, sei
contenta, Torres? - Come no, non si vede? Consuelo si guardò intorno: una parete
completamente rivestita di libri, dal pavimento al soffitto, un paio di
poltrone dall’aspetto molto comodo, un tavolino sovraccarico di riviste, la
scrivania, una finestra ampia, incorniciata da piante fiorite. Poi le cadde
lo sguardo sul calorifero, sormontato da una mensola di legno. Sulla mensola
c’era una strana pallina rossa. Si avvicinò. - E questo che cos’è? - Sembrerebbe un naso finto. Un naso da
clown. - Strano, come soprammobile. Consuelo uscì nel corridoio e si affacciò alla
porta del bagno. - Rey, io vado
in macchina. - No, aspetta, vengo anch’io, ma dobbiamo
prima parlare con la vicina. Uscendo dal bagno, Delgado
si voltò a guardare per l’ultima volta Gracia Sanz de Tejada, 27 anni, una
promettente carriera da giornalista appena stroncata. Rey e Consuelo
uscirono dall’appartamento del sesto piano, lasciando campo libero alla
scientifica. Si sfilarono calzari, tute, guanti e mascherine, infilandoli in
un sacchetto del supermercato e andarono a bussare alla porta della vicina. Sofia aprì subito. - Sono il commissario Delgado.
Ha trovato lei Gracia Sanz,
vero? - Sì, è stato uno shock. Sto ancora
tremando. - Ci può raccontare com’è andata? Sofia descrisse quei momenti con voce
tremante, raccontando solo l’essenziale, senza aggiungere commenti. -
La conosceva bene? - Solo superficialmente. Abitava qui da due
anni, ma c’incontravamo raramente, lei era fuori tutto il giorno, faceva la
giornalista per El Correo de Burgos. Però, quando
c’incontravamo, facevamo due chiacchiere. - Viveva da sola? - Sì. - Sa se aveva un ragazzo, un fidanzato? - No, che io sappia. Gli piaceva un
collega, ma non mi pare che la cosa fosse ricambiata. Però, dall’ultima volta
che me ne ha parlato, sono passati diversi mesi, quindi non so. Nel frattempo
può essere successo di tutto. - Sa cosa faceva quando non era al
lavoro? - Di preciso no. Non è che
c’incontrassimo tanto spesso. - Sa se aveva amici che la venivano a
trovare? - Di sicuro è capitato un paio di volte.
Doveva essere il suo compleanno. Hanno fatto un tale chiasso che li ho
sentiti attraverso le pareti. - Conosceva di persona qualche sua amica? - No, mi dispiace. - Va bene, per ora la ringrazio. Se dovessi
avere bisogno di farle ancora qualche domanda, tornerò a disturbarla. - Nessun disturbo. - disse Sofia -
L’importante è che prendiate quell’uomo. - Cosa le fa credere che sia stato un
uomo? - Le statistiche, credo. Sono sempre gli
uomini che ammazzano le donne. E di solito sono quelli più vicini, mariti,
fidanzati, padri, fratelli, figli. Non è così? Consuelo assentì, senza dire niente. Delgado mormorò: - Devo ammettere che ha ragione, signora. Scesero le scale, incontrando gli agenti
che bussavano alle porte di tutti gli appartamenti del palazzo, al 6 di Avenida de Vena, per chiedere se avessero visto o sentito
qualcosa. Ma in quel pomeriggio di metà agosto erano davvero pochi a
rispondere. Consuelo si mise al volante dell’Alfa 159 e partì
senza chiedere istruzioni. Dopo qualche minuto ruppe il silenzio. - A Madrid, tre mesi fa, c’è stato un
caso simile. - Simile come? - Una giovane donna strangolata, a cui
hanno cavato gli occhi. - Come lo sai? - Non guardi la televisione? - Raramente. - E il giornale? Vedo che lo leggi, ogni
tanto. - Mi è sfuggito. Informati sul caso. - Certo, è proprio quello che ho
intenzione di fare. Il traffico era bloccato dalla gente che
sembrava essersi riversata in massa in mezzo alle strade. Bandierine colorate
rallegravano strade e palazzi, viola, azzurre, gialle e rosse. Bambini e
giovani erano vestiti in maschera, con tutti i colori dell’arcobaleno, come
fosse carnevale. Erano iniziati i quattro giorni della fiesta di Nuestra Señora e di San Roque. Per i festeggiamenti erano stati ingaggiati vari
gruppi musicali che avrebbero suonato nelle piazze ed era arrivato persino il
Gran Circo Bahabón de Esqueva.
La baldoria era assicurata. - Secondo te, perché ha lasciato la porta
aperta? - le domandò Rey. - Per farla trovare più presto? - E perché ci teneva tanto che la
trovassimo presto? - Bella domanda. Al commissariato, Rey
si sedette alla sua scrivania, trascrivendo le note del pentagramma disegnato
dietro la porta. - Cominciamo dalla redazione? - domandò Consuelo. - Alla redazione e ad avvertire la famiglia
ci penso io, tu intanto comincia a cercare quel caso di Madrid. - Giusto, lo faccio subito. - Poi comincia a scavare nella vita di Gracia Sanz. - Ho già chiesto alla scientifica di farmi
una relazione appena possibile. C’è una montagna di materiale in quella casa. - Bene, segui la routine. - Agli ordini, capo. Diego Fidalgo Díaz rispose al telefono, mettendo via il mezzo bocadillo che stava per addentare. Non riconobbe subito
la voce all’altro capo della cornetta, eppure gli sembrava che avrebbe
dovuto. - Consuelo!
Accidenti, quanto tempo! Ma ti sembra giusto essere sparita così? Consuelo tentò di giustificare
l’ingiustificabile, poi gli spiegò perché lo stava chiamando. - Ci sto ancora lavorando su quei due
casi, ma non ne vengo a capo. - Cercando quello avvenuto a Madrid, sono
incappata in un altro caso simile, a Sevilla. Di
quello non ne sapevo niente. Quindi li hai seguiti tu entrambi? - Per forza, erano chiaramente collegati.
Anche il tuo lo è? - A me sembra di sì. Dopo lo
strangolamento, le sono stati cavati gli occhi, che l’assassino si è portato
via. La donna viveva da sola ed era giovane, aveva 27 anni. - Dietro una porta ha lasciato il disegno
di un pentagramma? - Sì. - Direi che l’assassino è lo stesso, Consuelo. Ci sono tutti gli elementi. - Puoi dirmi qualcosa che potrebbe
aiutarci? - Se il grande capo non trova niente in
contrario, vorrei venire a seguirlo con voi. - Non sarebbe una cattiva idea. Avere l’aiuto di Diego avrebbe fatto
sicuramente accorciare i tempi delle indagini. Consuelo
si domandò cos’era che le metteva tanta fretta, mentre dal nervosismo era là
a battere il piede sul pavimento, come se stesse ballando il flamenco.
C’erano tre omicidi collegati tra loro, e l’assassino seriale aveva commesso
i suoi crimini in tempi ristretti, ma non era detto che decidesse di
commetterne un quarto. O almeno, così sperava. - Come ti trovi a Burgos? - le chiese
Diego. - Bene. Molto bene. - Non ti manca Madrid? Non ti annoi? - Stai scherzando? Non ho mai un momento
per tirare il fiato. - Temo che nemmeno questo caso te ne
lascerà. Ti chiamo per farti sapere qualcosa, okay? - Grazie, Diego. Intanto ne parlerò con il
commissario Delgado. Nonostante fosse ormai molto tardi,
quando Rey tornò nel suo ufficio, Consuelo era ancora al computer. - Cos’hai trovato? - le chiese. - Ben due casi collegati al nostro. Ho
parlato con uno dei colleghi di Madrid che se ne stanno occupando, Diego Fidalgo. È un esperto di criminologia investigativa,
l’unico che conosca ad aver frequentato un corso negli Stati Uniti. Vorrebbe
seguire con noi anche questo caso. Unire le indagini ci tornerà utile. - Mmm. Potrebbe. - ammise Rey,
controvoglia. - E tu cos’hai trovato? - Gracia Sanz era molto
apprezzata professionalmente. Il redattore capo dice che El
Correo le stava già piuttosto stretto e che meditava di spostarsi a Madrid,
ma non l’aveva saputo da lei, ovviamente. I colleghi si sono divisi tra
quelli che la stimavano per l’impegno e la caparbietà e quelli che non la
potevano soffrire perché aveva la puzza sotto il naso. Insomma, non la dava
facilmente. Tra tutti, una sola ha detto di essere sua amica, Cintia Medina García. - concluse Rey,
leggendo il nome su un taccuino. - Ti ha raccontato qualcosa di lei? Aveva
un ragazzo? - Dice che si trovava in un periodo no. Per
il momento puntava alla carriera. Aveva deciso che degli uomini poteva fare a
meno. - E in passato, ne ha avuti? - A quanto ne sa, uno solo davvero
importante, ma due anni fa lei l’ha scoperto con un’altra e l’ha mollato. - Capisco. - Adesso vai a casa. Io intanto scrivo la
relazione, prima che mi dimentichi tutto quello che mi hanno raccontato. - Tu, dimenticare? Ma non farmi ridere!
Comunque, me ne vado. Ho appuntamento con Damian al
Ruben. - La migliore paella del pianeta? - Lo vedi, ti ricordi ancora di quello che
ti ho detto più di un anno fa. Hai la memoria di un elefante. - Mi fa piacere che ogni tanto mi trovi un
pregio. - Ciò non toglie che la bilancia penda
sempre a favore dei difetti. - Sparisci, Consuelo. - Buona serata, Rey. Delgado completò in fretta la sua relazione, poi
andò a ficcare il naso nei files dei due casi
precedenti. Il primo omicidio era avvenuto a Sevilla.
La vittima si chiamava Isabel Velasco e aveva solo 25 anni. Negli allegati trovò
le foto, tra cui quella del pentagramma. Era stato disegnato in azzurro. Non
si capiva bene se fosse stato utilizzato un gessetto, ma in quel momento non
era quello che gli interessava. Copiò le note sul foglietto che aveva già
utilizzato, poi andò a cercarsi quelle del caso di Madrid, in cui era stata
uccisa María Andrés Araus, una donna di 29 anni. Osservò le note, immaginandone il suono
nella mente. Lui la conosceva, quella musica. Ma in quel momento non riusciva
ancora a ricordare cosa fosse. Più tardi provò a suonarla al pianoforte.
Sì, che la conosceva. Cos’era? Paco abbassò il giornale che stava
leggendo e lo guardò. - Cosa suoni? - Non lo so. Le note sono troppo poche per
riconoscerla. Paco iniziò a canticchiarle. - Sì. È una canzone famosa. Prima o poi mi
verrà in mente. - Di sicuro. Ma adesso che ne dici di
andare a fare un giro? - Aspettavo che me lo dicessi. Non ci
vorremo mica perdere la festa. C’è un botellón al Paseo del Espolón con musica
dal palco. - Esattamente quello che ci vuole stasera,
Paco. Il giornale dice chi suonerà? - Sì, una band che si chiama Temprano y Quizás. - Mai sentiti nominare. - Nemmeno io, Rey,
ma che ce ne importa? Consuelo entrò in ufficio inforcando un enorme
paio di occhiali da sole, stile anni 80. Rey la
osservò con la solita ironia. - Notte brava, Torres? - Direi notte cattiva, se vogliamo essere
precisi. - Anch’io ho dormito poco. - Non è questo. Mi sono trovata coinvolta
in una rissa. - Le hai più date o più prese? - chiese Rey con curiosità. - Ricevuto uno, ma poi ne ho date
parecchie. - Contenta? Soddisfatta? - Mi sono divertita. Damian
un po’ meno. Credo di averlo spaventato. - Non conosceva le tue doti nascoste? - Sì, ma non mi aveva mai visto in azione. - Bene, si abituerà. Allora, togliti quegli
occhialacci e mettiamoci al lavoro. L’occhio violaceo di Consuelo
apparve in tutto il suo magnifico splendore. - Non si nota poi così tanto. - mentì Rey, osservandola con minuziosa attenzione. - Meglio con gli occhiali. - rispose Consuelo, inforcandoli di nuovo. - Novità? - Ho messo in fila tutte le note dei tre
pentagrammi. È una canzone famosa. Rey cominciò a canticchiarla. - La conosco. - affermò Consuelo,
sicura. - Aspetta, aspetta, è... - È? - Ma sì, è Rag doll, degli Aerosmith. Rey si mise davanti al computer e si buttò a
capofitto sulla ricerca di quel pezzo. Mentre scorreva un video in cui Steven
Tyler cantava, dimenandosi come un ossesso, Rey
cercò il testo. - Interessante, Torres. Senti qui cosa
dice. Bambola di pezza che vive in un film - troietta
sexy, piccola gnocca di papà - sei così bella, non
ti vedranno mai - uscire dalla porta posteriore, signorina. - Momenti caldi,
è facile prenderla. - Non importa, vieni e guardami. - Bambola di pezza, non
vuoi trombarmi - come hai fatto prima d'ora? - Mi sento un ragazzaccio - mm,
proprio un ragazzaccio - sto facendo a pezzi una bambola di pezza - come
buttare via un vecchio giocattolo. - Stampala, Rey.
Cominciamo a ragionare su quello che avevano in comune queste donne. La
canzone le unisce tutte e tre. - Se ha un senso che questa canzone si
trovi sul luogo degli omicidi, si potrebbe pensare che se le sia scopate
tutte, ma che loro poi l’avessero mollato. Sta facendo a pezzi una bambola di
pezza... Non ha sopportato l’abbandono. - Perché si porta via gli occhi? - Le considera bambole di pezza. Forse gli
occhi sono di troppo. - No, Rey, anche
le bambole di pezza hanno gli occhi. Per lo più disegnati, ma ce l’hanno. - Secondo te, perché se li porta via? - Non ne ho la più pallida idea. Sarà un
feticista? - Che bel soggetto. Un feticista di occhi.
Mai sentita, questa. - Forse è un po’ presto per le congetture.
Avanziamo con metodo. Mi stampo tutto quello che abbiamo sui casi precedenti
e poi... - Dimenticavo, Torres, tra poco arriva il
tuo amico, ha telefonato poco fa. - Diego Fidalgo? - Aspettavi qualcun altro? - No. - Vediamo come se la cava. Facciamola
impostare a lui, questa indagine, visto che ne ha già in corso una. - Ti senti bene, Rey?
- Sì, perché? - Fai impostare la nostra indagine a uno
che nemmeno conosci? - Non preoccuparti, Torres, non sono poi
così geloso del mio lavoro come pensi. Di questi casi ha sicuramente più
esperienza di noi. Approfittiamone. E poi risulta ovvio che le indagini
vadano accorpate. Anzi, mi stupisce che non facciano spostare noi a Madrid. - Non mi convinci. - commentò Consuelo, scrutandolo bene in faccia attraverso le lenti
nere. Consuelo si disse che non poteva essersi
sbagliata così tanto nel giudicarlo. Doveva esserci sotto qualcosa. Diego Fidalgo Díaz, giocando d’anticipo, diceva spesso di essere un
orrido quarantenne, per risparmiarsi, con l’autoaccusa, le battute degli
altri. Spesso diceva anche “quello che mi difetta in altezza, lo recupero in
larghezza”. In realtà, era di media statura, ma la sua figura era appesantita
da una pancia prominente, guadagnata con la dura fatica della masticazione.
Le sue mascelle erano in perenne movimento, tanto da essersi guadagnato il
soprannome di Ruminante. Non si separava mai da uno zainetto nero, dove
custodiva il minimo indispensabile delle cibarie assortite che gli evitavano
di dover continuamente scendere al bar. Al contrario di ciò che sosteneva,
aveva un bel viso gioviale con baffetti e mosca rossicci, e i capelli dritti
come spaghetti, color castagna. Si presentò al commissariato con l’andatura
regolare e pacata di chi, essendo abituato a camminare molto, sa come
centellinare le energie. Oltre al solito zainetto, portava in spalla una
sacca da golf, che subito incuriosì Rey. Appena entrato nell’ufficio di Delgado, gettò a terra le borse, spalancando le braccia
verso Consuelo. - La mia guerriera preferita! - grugnì,
stritolandola in un avvolgente abbraccio. - Grande e grosso come sempre, Diego. Sono
felice di rivederti. - gli disse Consuelo,
semi-soffocata sul suo petto. Delgado tossicchiò. Sciogliendosi dall’abbraccio, Diego
allungò la robusta mano a stringere quella del commissario, presentandosi. - Presto arriveranno le autorizzazioni per
la nostra collaborazione.- gli assicurò. - Bene. Mettiti comodo. Hai già pensato
come impostare le indagini? - Ho portato con me i documenti su cui sto
lavorando. Se siete d’accordo, ripartiamo da lì, aggiungendo quelli del caso Sanz, in modo da confrontarli in modo visivo. È un
sistema molto pratico. - Di che cosa hai bisogno? - gli chiese Delgado. Diego si guardò intorno. Due delle pareti
erano rivestite di sughero, a scopo fonoassorbente. - Di quella parete. - indicò. Consuelo si limitò a seguire la conversazione.
Diego non era cambiato di una virgola. Si tolse il gilet multitasche
e iniziò a svuotare la sacca. - Sarà un po’ noioso, quindi, se volete
andare a far colazione, intanto... - No, caro, adesso ci spieghi tutti i tuoi
segreti. - Che finora non sono serviti a molto,
dolcezza. - Poter confrontare tre casi dovrebbe
rendere le cose più facili, no? - Non ne sarei così sicuro. Beh, Consuelo, comincia a tirare fuori il tuo materiale, così
lo mettiamo a confronto. Io parto sempre da una foto della vittima. Ce
l’avete? - Sono appena arrivate. - affermò Rey. Diego le attaccò alla parete, piuttosto
in alto, a distanza di sessanta centimetri l’una dall’altra. Subito sotto,
con puntine da disegno, fissò un biglietto con la data dell’omicidio, in
caratteri molto grandi. - Isabel Velasco, uccisa a Sevilla, il 4 maggio. María Andrés Araus, uccisa a Madrid,
il 15 maggio. Gracia Sanz
de Tejada, uccisa a Burgos, il 13 agosto. - A che serve tutto questo? - chiese Rey. - Ad avere sotto gli occhi tutti i dati. Ti
accorgi di coincidenze e concomitanze a cui magari arriveresti lo stesso, ma
con più tempo e fatica. - Capisco. - Adesso la foto del pentagramma. Sembra
chiaramente disegnato dalla stessa mano. A Madrid l’ho potuto vedere con i
miei occhi. Era tracciato con un gessetto azzurro. - Anche il nostro. - confermò Delgado. - Abbiamo stabilito che si tratta di una
canzone degli Aerosmith. - affermò Consuelo, quasi con orgoglio. - Davvero? Rag Doll, per caso? - C’eri già arrivato anche tu,
naturalmente. - No, io non ci sarei mai arrivato. Mi sono
avvalso di un consulente, un maniaco della musica. Qui c’è il testo. Questo
lo mettiamo di fianco, su un’altra colonna. Vale per tutte. - Quella cos’è? - Qui c’è la lista degli amici e
conoscenti. - Ne faremo una per la Sanz.
- disse Rey. - Questa è una nota biografica. Scuole
frequentate, corsi, hobby, abitudini, ecc. - Faremo anche quella. - L’assassino fa anche un’altra cosa,
piuttosto strana. Taglia i capelli alle sue vittime e si porta via anche
quelli. - Il medico legale ha avuto l’impressione che
anche i capelli della Sanz siano stati tagliati. - Aveva ragione. E c’è ancora un’altra cosa
che accomuna i tre omicidi. Sono stati commessi durante una festa, quando le
città sono in pieno caos. Consuelo ricordò che nel palazzo di Avenida de Vena, non c’era quasi nessuno. - Quando tutti si riversano per le strade,
è più facile entrare in un appartamento senza essere visti da un vicino ed è
più facile mimetizzarsi tra la folla, una volta usciti. - considerò Consuelo. - Il pentagramma farebbe pensare a un
musicista. Durante queste feste ci sono orchestrine e gruppi di
strimpellatori che suonano nelle piazze.
- commentò Rey. - C’è anche il Circo. - disse Consuelo - Qui è arrivato il Gran Circo Bahabón de Esgueva. Sapete, in
casa della Sanz c’era un naso da clown. Rey e Diego si voltarono all’unisono verso
di lei, con lo stesso sguardo interrogativo. - Interessante. Ne ho visto anch’io uno in
casa di María Andrés Araus, ma al circo non avevo pensato. Prendo nota. -
disse Diego, attaccando alla parete un biglietto con il nome del circo, nella
colonna Sanz. Poi tirò fuori da una tasca della
sacca un blocchetto di grossi punti interrogativi stampati in rosso. Uno lo
attaccò sotto la colonna Velasco. - Io comincio a cercare. - disse Consuelo, buttandosi sul computer. Entrò nell’emeroteca dei giornali locali
collegati a El Mundo e
iniziò la sua ricerca. Rey cominciò a sfogliare le dieci pagine di
notizie estrapolate dal computer e dalle agende della Sanz,
passandole poi a Diego, che a sua
volta le leggeva e le metteva da parte. - Qui c’è un corso di scrittura creativa.
Ne hanno fatto uno anche Velasco e Araus, poco più
di un anno fa. - Potrebbe essere lo stesso? - Non c’ero ancora arrivato. Mettiamolo in
lista. - disse Diego, andando ad aggiungere un punto interrogativo alle tre
colonne, con l’annotazione della parola corso. - Consuelo, quando hai finito con il circo, prova a
trovare i gruppi musicali presenti nel corso delle tre feste. - disse Rey. - Agli ordini, capo. In quel momento, un tizio si presentò
alla porta. - Il commissario Delgado? - Sono io. Mi dica. L’uomo, che aveva la stessa stazza di
Diego, entrò con disinvoltura, scannerizzando l’ambiente con apparente
indifferenza. - Sono Oscar Mayor González,
si ricorda di me? Ci siamo parlati l’altro giorno al Correo de Burgos. - Ah, sì, certo, mi ricordo. Mi dica, vuole
aggiungere qualcosa alle sue dichiarazioni? - Vorrei sapere a che punto sono le
indagini. - Siamo solo all’inizio e sarebbe meglio
non divulgare alcuna notizia, per il momento. Non vorremmo che la stampa ci
complicasse la vita. - Vedo che non si tratta del primo caso. -
disse Oscar, osservando la parete. - Lei non dovrebbe essere qui. - disse
Diego, incazzato. Oscar lo guardò come se volesse passarlo
ai raggi X, poi gli sorrise con cordialità. - Gracia era mia amica. Non scriverò nulla che
possa intralciare le indagini. Anzi, vorrei essere d’aiuto. Quel fottuto
bastardo deve pagare. Diego si rilassò visibilmente. Rey sospirò, appoggiando la schiena alla poltroncina. Consuelo sbuffò. - Se vuole aiutarci, si tenga fuori dai
piedi. - disse Consuelo, duramente. Lo sguardo acuto di Oscar tornò alla
parete, come attratto da una calamita. - Ho fatto un servizio sul Circo Bahabón, lo scorso anno. - E allora? - Li conosco. E loro conoscono me. Se posso
essere utile... - La chiameremo. - disse Delgado. - Ho capito. Vado. Non scriverò una riga su
questo caso. Io mi occupo della pagina degli spettacoli. - Arrivederci. - disse Diego, guardandolo
con un sorrisetto sornione. - Arrivederci. - rispose Oscar,
restituendogli lo stesso sorriso, ignorando totalmente gli altri presenti. - Giornalisti! - commentò Diego, dopo che
fu uscito. Consuelo trattenne un sorriso. Forse Oscar Mayor
aveva incontrato i suoi gusti, ma a lei la razza dei giornalisti dava sui
nervi. Rey riprese la sua lettura, seguito da
Diego. Consuelo si dedicò alle tappe del circo. Mentre Rey
stilava una lista delle informazioni sulla Sanz,
direttamente confrontabili con quelle delle altre due vittime, Consuelo giunse a una certezza. - Il Circo Bahabón
è stato presente anche a Sevilla e a Madrid, in
quelle date. - Bene. Abbiamo il primo legame sicuro. -
disse Diego. - Passa ai musicisti, adesso. - aggiunse Delgado. - Tutto sommato, quel tizio poteva tornarci
utile. - Lascialo fuori. - ordinò Rey, con fermezza. Dopo un’estenuante ricerca, finalmente Consuelo trovò un gruppo musicale che si era trovato
presente ad almeno due delle feste. - Come si chiama? - chiese Rey. - Temprano y Quizás. - Per la miseria, li ho sentiti ieri sera.
Erano al Paseo del Espolón.
Cerca ancora, Consuelo, e trova anche notizie sui
componenti. - Se non ti dispiace, capo, mi faccio
aiutare da Fernando. Lui è molto più bravo di me, in queste cose. - Come vuoi. Quando la scrivania restò libera, Diego
prese il suo posto. - Vedo cosa si può trovare a proposito di
questo corso di scrittura creativa. - Lascia perdere. Quello può aspettare.
Concentriamoci sul circo e sui musicisti, che se ne andranno presto. - Hai ragione. Allora io vado al tendone.
Vieni con me? - No, io aspetto notizie sui Temprano y Quizás e poi vado a trovarli. - D’accordo. Dopo che Diego fu uscito, Delgado tornò a leggere le biografie delle tre ragazze.
Tre vite spente sul più bello. Isabel aveva appena fatto in tempo a
laurearsi. Cercava un lavoro adeguato alle sue competenze, nel campo della
pubblicità, ma intanto si accontentava di qualunque lavoretto, facendo la
cameriera, la cassiera in un supermercato, la bambinaia, la maschera in un
cinema. Quando era stata uccisa, era disoccupata da qualche giorno. L’avevano
trovata i genitori, rientrando in casa dal lavoro. La porta non era stata
forzata. Sicuramente Isabel lo conosceva, perciò l’aveva fatto entrare. Non
c’erano altri segni di violenza, oltre allo strangolamento. L’assassino si
era portato via un souvenir: i suoi occhi verdi. Una foto di qualche tempo
prima, la ritraeva in compagnia di un’amica, con un sorriso impertinente. Era
una bella ragazza bruna, con un viso regolare e occhi che risaltavano
sull’incarnato scurito dall’abbronzatura. María Andrés Araus aveva i capelli lunghi, di un bel biondo miele,
occhi castano-dorato e un volto lievemente asimmetrico. Era una
fisioterapista, impiegata alla Entredòs, una
fondazione di donne nata a Madrid nel 2002. Rey si bloccò. Una fondazione di donne? Che
diavolo significa? Cercò la Entredòs su internet.
Trovò le attività della fondazione: yoga, pilates,
canto, ginnastica, scrittura creativa. Rey prese uno dei foglietti di Diego e
scrisse “scrittura creativa: Entredòs”. Si alzò e
lo piantò con una puntina nella colonna di Araus. Quindi afferrò il telefono e chiamò la
fondazione. Diego vide il tendone da lontano. Sulla
cima sventolavano bandierine colorate. Sul retro erano parcheggiate numerose
roulotte, in semicerchio, mentre dalla parte opposta erano montate altre
tende che ospitavano gli animali. Nello spiazzo centrale c’era un gran
movimento. L’intera area era recintata in maniera approssimativa. Diego
scavalcò un cavalletto e si accinse a entrare nell’area adiacente il tendone.
La biglietteria era un vecchio furgone dipinto di mille colori, con la
fiancata aperta a formare una tettoia. E appoggiato al banco, a parlare con
una ragazzina, c’era Oscar Mayor. Diego si avvicinò. Man mano avanzava, le
sue narici erano colpite da un mefitico tanfo. La ragazzina era in realtà una
nana con le treccine, che lo guardò con espressione corrucciata. Oscar si
voltò e lo vide. Il suo sorriso fu una specie di ghigno. - Qui non si entra. - disse la ragazza,
parandosi davanti a lui. - Lui è entrato. - obiettò Diego. - Lui è un mio amico. - si difese lei. - E lui è amico mio. - s’intromise Oscar. - Sei un giornalista anche tu? - si addolcì
la ragazza. - No, sono un poliziotto. - E che ci fai qui? - Voglio solo dare un’occhiata. - Gli faccio fare un giro, Maria. Posso? - E va bene, se è amico tuo. Ma state
lontano dalle tigri e dall’elefante. - E dai lama, lo so. E non disturberemo i
pappagalli. So benissimo come funziona, non preoccuparti. - Ah, Oscar. - lo chiamò quand’erano già a
un paio di metri. - Che c’è? - Guarda che abbiamo una nuova attrazione.
È un coccodrillo. - Staremo alla larga anche da lui. - la
rassicurò Oscar. Diego Fidalgo
si domandò come quella gente potesse vivere tutto il giorno con il tanfo che
emanavano gli animali. C’era di tutto, sembrava proprio uno zoo. - Beh, che ci fai qui? - chiese infine a
Oscar. - Ti aspettavo, per darti una mano con
Maria. - Sarei entrato comunque. - Non credo. È un’ottima lanciatrice di
coltelli. - E io sono un ottimo tiratore scelto. Oscar si mise a ridere. - Chi è il capo, qui? - gli domandò Diego. - Alegra Esgueva. Ha
preso il posto del padre Juan Carlos, che è morto un paio di anni fa. Eccola.
È quella con la tuta arancione. - Ma che arancione, quello è color pesca! - Sei un pignolo, eh? - Un’arancia è un’arancia, e una pesca è
una pesca. Quando le mangi non ti accorgi della differenza? - Quella è frutta, noi stiamo parlando di
colori. Ma sarà meglio che cambiamo argomento. Ho già fame. Diego lo guardò di sbieco, assentendo con
ironia, poi infilò una mano nello zaino e ne estrasse una barretta di
cioccolata con riso soffiato. - Tampona con questa. - Grazie! - esclamò Oscar, afferrandola,
con gli occhi che gli brillavano. Diego approfittò della sua distrazione
per avvicinarsi alla donna. Aveva capelli biondi molto lunghi, legati in una
coda di cavallo. Non doveva avere più di trent’anni. Si presentò, chiedendole
se poteva rivolgerle qualche domanda. - Stavo andando a vedere Gigì. Non è stato tanto bene. Venga con me. - Chi è Gigì? - Il nostro lama. - Mi hanno raccomandato di stare lontano da
lui. - Non abbia paura, è molto tranquillo. - Non ho paura. - Bene. Che cosa voleva chiedermi? - disse,
mentre lo conduceva verso uno dei recinti, ombreggiato alla meno peggio con
un telone che una volta doveva essere bianco. - Le vostre attrazioni sono sempre le
stesse? - La maggior parte sì, ma abbiamo ospiti,
di tanto in tanto. Questa primavera, per esempio, ci ha raggiunto l’uomo
volante, che si fa sparare da un cannone. Sta girando l’Europa con la sua
attrezzatura. In autunno ci lascerà, per accodarsi a un altro circo. - Quanti uomini lavorano nel suo? - Sono quindici. E otto donne. Cosa sta
cercando, esattamente? - I suoi uomini se ne restano qui tutto il
giorno o capita che se ne vadano in giro per i fatti loro? - Non vuole rispondermi? Quindi lei sta
pensando che uno dei miei se ne sia andato in giro a far danni. Cos’ha
combinato, esattamente? - Sto indagando su un omicidio. Alegra mostrò un’espressione a metà tra lo
stupito e il divertito. - Non perda tempo. Questa è gente che non
farebbe del male a una mosca. Tranne forse Stevan,
che è una testa calda, ma non è un vagabondo. Difficilmente si avventura
lontano dalla sua roulotte. Intanto erano arrivati al recinto del lama.
L’animale se ne stava all’ombra, con il portamento eretto e aristocratico di
una regina offesa, ignorandoli completamente. - Questo Stevan
non va mai a caccia di donne? - Le sembrerà incredibile, ma sono le donne
che vanno a caccia di lui. Dopo ogni spettacolo ce n’è quasi sempre qualcuna
che tenta d’intrufolarsi nel suo letto. Gigì, vieni
qui! Il lama si voltò a guardarla, ma la
snobbò. - E gli altri? - Ce ne sono un paio che riscuotono un
certo successo, ma loro non sono molto interessati. Gigì,
vieni! Il lama la ignorò. - Tra loro ci sono anche musicisti? - C’è il nostro clown triste che suona il
violino e la tromba. - E anche lui riscuote i consensi
femminili? - Roland è sposatissimo.
La sua signora non gradirebbe. Gigì non reagisce.
Sta ancora male. Mi scusi, vado a confortarlo un po’. Diego si rassegnò. - Gigì è il suo preferito. - commentò Oscar,
alle sue spalle. - Tutto il resto passa in secondo piano. - Me ne sono accorto. - Io invece adoro il mio iguana. Lo chiamo Kiko. - Hai un’iguana? Diavolo! E dove lo tieni? - In un terrario, naturalmente. Perché,
pensavi che lo lasciassi libero per casa? - Non ne capisco niente di lucertole, io.
Non so nemmeno cosa cavolo sia un terrario. - Dopo, se vieni con me, te lo faccio
vedere. - D’accordo, poi ne riparliamo. Conosci un
certo Stevan? - Sì, purtroppo. Posso esprimere un parere
spassionato? - Parla. - È una testa di cazzo, che arriva subito
alle mani. Non capisco come sopportino di tenerlo con loro. In questo
mestiere la concentrazione è tutto. Per fare certe cose devono mantenere la massima
calma e la serenità. E lui non aiuta. - La tua amica Maria ci racconterebbe
qualcosa di lui, secondo te? - Penso proprio di sì. Lei non lo sopporta. - Allora, andiamo. Vuoi un panino? - Mi inviti a nozze. Diego scavò con sicurezza nel suo zaino. Masticando a piene mascelle, entrambi
tornarono da Maria, la guardiana dell’ingresso. Rey rinunciò alla telefonata. Evidentemente
l’Entredòs era chiusa per ferie. Se lo doveva
aspettare. In attesa di notizie da Consuelo, si
mise a osservare le foto dei tre dossier, e a ripetersi le mille domande
senza risposta che sempre si poneva davanti a un crimine del genere. Come si
può arrivare a uccidere? Cosa spinge un uomo a cancellare dalla faccia della
terra un altro essere umano? E quest’assassino, in particolare, perché le
trascinava in bagno, per ucciderle? O lo faceva dopo ch’erano già morte? Rey afferrò di nuovo il telefono. - Anson, sono Delgado.
Ho bisogno di sapere una cosa. Secondo te, la Sanz
è stata uccisa in bagno o l’assassino ce l’ha trascinata solo dopo? - Non abbiamo trovato nessuna traccia che
lasci presumere che sia stata strangolata in un’altra zona dell’appartamento.
O comunque, se l’ha fatto, poi l’ha presa in braccio per portarla lì. Ma che
differenza fa? - Non lo so. Perché le uccide tutte in
bagno? Che cosa significa? - Come tutte? Ce ne sono altre? - Sì, Anson,
questa è la terza. - Cazzo, non lo sapevo. - Non spargere la voce, mi raccomando,
sennò succede un casino. - No, no, non ti preoccupare. Non sono una
spia della stampa. Rey chiuse la telefonata con Anson e chiamò il medico legale. - Pérez, ti chiamo per il caso Sanz. Se ti mando i referti autoptici di altri due casi
simili a questo, mi sapresti dire se ci sono differenze nel modo in cui sono
state uccise? - Naturalmente ti serve subito, vero Delgado? - No, fai con calma. Ti ho solo chiesto se
mi puoi confrontare i tuoi dati con quelli che ti mando. Prenditi tutto il
tempo che ti serve. Spero solo di non doverti mandare un altro referto, nel
frattempo, dal momento che l’assassino sembra averci preso gusto. - Ti rendi conto che questo è un ricatto
morale, vero? - Pérez, io te li mando, poi, vedi tu. - Va bene, Delgado,
ma non riuscirai a smuovere i miei sensi di colpa. Ti farò sapere. - Grazie. È sempre un piacere. - concluse Rey, sbattendo con forza la cornetta sul telefono. Poi, non contento, batté il pugno sulla
scrivania. Così facendo, alcune foto si spostarono sul piano. Delgado le osservò, come se lo chiamassero, decidendo che
era il momento di finire di guardarle. Poco prima, aveva passato in rassegna
quelle del caso Sanz, e poi, a ritroso, quelle di Araus. Ora toccava a quelle di Velasco. Una delle foto
attirò la sua attenzione. Tentò un ingrandimento con la lente, ma l’immagine
non risultava abbastanza chiara. Solo Fernando Gil
poteva aiutarlo, con il suo computer. Vista la disponibilità al pettegolezzo
della piccola Maria, Diego si fece raccontare tutto dei suoi colleghi, poi le
domandò notizie del clown. - Quale dei due? - Non sapevo che fossero due. Parlami di
entrambi. - Ci sono sempre due clown, quello triste e
quello allegro. È la regola. Il nostro clown triste è Roland, è un uomo molto
tranquillo, è sposato con Elena, l’incantatrice di serpenti. Sarà per non
stimolare incautamente la sua gelosia, ma lui evita sempre di guardare
un’altra donna. Sembra che abbia una profonda venerazione per la moglie. O
forse la finge soltanto, per via dei serpenti. Non so. - E il clown allegro? - Quello è il mio compagno. È un ragazzo
che sprizza comicità da tutti i pori, scherza sempre, mi fa ridere. Che può
volere di più una ragazza? - Dimmelo tu. - Niente. L’allegria è tutto nella vita. -
affermò Maria, con sicurezza. - Quindi nessuno dei due se ne va in giro a
cercare altre donne, mi pare ovvio. - No, tranquillo. Sono persone serie. Asserire che i due clown fossero persone
serie, gli sembrò un vero paradosso. - E dimmi, Maria, a parte Roland, chi altro
s’interessa di musica, tra i tuoi colleghi? - Un po’ tutti. Ogni nostro numero ha una
base musicale, che viene scelta con cura. Ascoltiamo musica tutto il giorno.
Ci dà il ritmo mentre ci alleniamo. - Chi la sceglie? - Ognuno si sceglie la sua. Naturalmente,
poi, se ne discute anche, finché non si trova quella giusta. - Capisco. - Soprattutto è bene che piaccia a Stevan. - commentò Oscar - Ho visto una lite furiosa,
solo perché qualcuno aveva scelto una specie di tango, che lui non sopporta. - In effetti Stevan
ha un senso del ritmo molto spiccato. Il tango non è adatto ai suoi esercizi.
- spiegò Maria. - Ma l’esercizio in questione non era il
suo. - Lo so, ma sai com’è fatto. Gli piace
sentirsi importante e quindi vuole avere voce in capitolo sull’intero
andamento dello spettacolo. - E Alegra glielo
lascia fare? - domandò Diego. - Glielo lascia credere, ma alla fine è
sempre lei che decide. - Quali saranno le vostre prossime tappe? - Andremo prima a Zaragoza
e a Barcelona, e poi faremo un giro in Francia. Il
tour di quest’anno lo dobbiamo un po’ a Oscar, sai? Quando è stato qui per i
suoi articoli, gli siamo piaciuti tanto che ci ha fatto pubblicità con le
persone giuste. Potenza della stampa. - Ma va’, vi vogliono perché ci sapete
fare. - Quanto sei modesto! Non gli credere,
signor poliziotto. - Mi chiamo Diego Fidalgo. - Non ti piace che ti chiamino signor
poliziotto? - Posso anche farne a meno. Fernando Gil
interruppe la sua ricerca, per studiare la foto che Delgado
gli mostrava. - Vuoi un ingrandimento? - Esatto, di questa zona. Consuelo allungò il collo per vedere. - T’incuriosisce quella macchia rossa,
vero? Scommettiamo che indovino cos’è? - Consuelo, è per essere sicuro di aver capito
cos’è, che mi serve l’ingrandimento. - Già. Certo. Fernando Gil,
voltò la foto, per leggere il codice di registrazione. Entrò nel file e si
mise all’opera. - Hai trovato notizie della rock band? Sai
chi sono? - Ho di meglio. So dove sono. Consuelo aveva telefonato alla maggior parte
degli alberghi di Burgos, prima di trovare quello in cui alloggiavano i
Temprano y Quizás. - E dove, se non ti è di troppo disturbo
condividere la tua informazione? - All’Hotel Jacobeo,
in calle de San Juan. Sei nervoso, capo? - No, mi sto girando i pollici mentre il
tuo amico Diego indaga sul campo. Non c’è tempo da perdere, Torres. Perché
non me l’hai detto appena l’hai scoperto? - Stavo per venire a dirtelo, proprio
adesso. - Sembrerebbe una pallina rotta e un po’
schiacciata. - disse Fernando. - È un naso da clown. - lo corressero in
coro Rey e Consuelo,
senza neppure guardare il monitor. Delgado arrivò all’Hotel Jacobeo,
nel tardo pomeriggio. Avendo visto la loro esibizione, li riconobbe non
appena se li ritrovò di fronte, al bar dell’albergo. Si presentò e iniziò
subito con le domande di rito. Consuelo, che aveva
voluto accompagnarlo a tutti i costi, prese nota delle risposte, sorvolando
sul fatto che non avesse presentato anche lei. Era chiaro che non l’avrebbe
voluta tra i piedi. - Sì, è vero. - confermò il bello della
band. - Eravamo a Sevilla per la Feria de Abril. - Quindi dal 3 all’8 maggio. E il 13
dov’eravate? - Sempre là. Ci ha ingaggiati un locale, il
Fan Club, in Alameda de Hércules.
Erano entusiasti dei nostri concerti e così ci hanno voluto a tutti i costi
per un paio di serate. - A Sevilla avete
frequentato qualcuna delle vostre ammiratrici? - Certo, ma potrei giurare che erano tutte
maggiorenni. - affermò il tatuaggio ambulante. - Avete i loro nomi, i numeri di telefono? - Di solito non trasciniamo questi
rapporti. Darebbe una pessima impressione. Dobbiamo mantenere un certo
distacco, capisce? - No, ma non fa niente. Non sono qui per
questo. - Ecco, appunto, ci può dire perché è qui?
- chiese il calvo con la cresta punk e le orecchie trafilate in bronzo. - Per il momento preferisco mantenere un
certo distacco. - rispose Rey, con un’ironia che
nessuno colse. - Stiamo indagando su un omicidio. -
s’intromise Consuelo. - Noi non abbiamo fatto niente. - Controlleremo i vostri alibi. - State perdendo tempo. - Lo spero per voi. Avete mai suonato Rag doll? - Non ci diamo all’archeologia, noi. Per
chi ci ha preso? - Peccato, è una bella canzone. - È vecchia... - affermò il tatuato,
interrompendosi. Rey pensò che aveva ragione. È vecchia,
quindi piace solo ai vecchi. Il tatuaggio ambulante non aveva avuto il
coraggio di dirglielo in faccia, ma era proprio così. Chi disegnava quel
pentagramma non doveva essere più tanto giovane. Il terrario di Kiko
era immenso. Diego osservò la lastra di vetro che andava da una parete
all’altra, chiudendo il fondo della stanza, con una base profonda non meno di
un metro. All’interno c’era un tronco d’albero e, appollaiata in cima,
un’iguana con striature senape e turchese. - Gli hai fatto una cabina-armadio! Kiko non si sentirà un po’ solo e sperduto, là dentro? - Kiko ha bisogno di spazio, soprattutto in
altezza. Vedi che sta in cima all’albero? Gli piace vedere il mondo
dall’alto. - E gli hai fatto pure la piscina... - E sì, se la passa meglio di me. - Ti deve dare molto da fare. - commentò
Diego. - No, non moltissimo. Ho automatizzato
tutto: luce, umidità e calore. Gli porto da mangiare una volta al giorno,
frutta e verdura. Va pazzo per il basilico e per i fiori di ibisco. - Però me lo immaginavo più grande. - Crescerà e cambierà colore, purtroppo.
Adoro quelle sfumature turchesi. - Devo ammettere che ha il suo fascino. - Già. E tu ne sai qualcosa di fascino, eh?
- gli disse Oscar, con uno sguardo di lampante ammirazione. - Fascino è il mio secondo nome, come l’hai
capito? - Mi è bastata la prima occhiata. - Di solito, alla seconda, ci si ricrede. - Io no. Sei troppo modesto. O ti piacciono
i complimenti? - Dipende da chi me li fa. - E io, per esempio, posso farteli? - Solo se mi permetti di ricambiare. Rey e Consuelo
tornarono al commissariato sperando di trovarci Diego, ma di lui non c’era
traccia. Quindi s’informarono se qualcuno l’avesse visto, appurando che non
era rientrato. - Mi occupo degli alibi della rock band. -
affermò Consuelo. - E io scrivo la relazione e riprovo a
chiamare la Entredòs. Rey continuava a pensare alla “Bambola di
pezza”. Cosa poteva passare nella mente di un uomo, affinché una donna,
probabilmente desiderata e amata, si trasformasse in una bambola di pezza da
fare a pezzi? Cosa c’era dietro tutto questo? Forse un mal compreso senso del
possesso. Quelle donne erano solo oggetti da possedere, erano sue, quindi
sentiva di avere il diritto di farne ciò che voleva. Erano oggetti, quindi
poteva distruggerli. Ma perché tanto accanimento? Non gli era sufficiente
uccidere, doveva anche infierire, doveva farle a pezzi? Non contento, si
portava via gli occhi e i capelli. Perché? Cosa se ne faceva? Li teneva per
ricordo? Erano l’unica cosa di loro che amava e che non voleva perdere?
Immaginò dei cofanetti di legno, belli, lucidi, intarsiati, rivestiti di
velluto o di raso, in cui conservare i capelli intrecciati, fissati con un
nastro colorato, e gli occhi... oddio, al solo pensiero gli veniva la nausea.
Occhi senza vita, spenti, vetri appannati che avrebbero smarrito il colore e
si sarebbero ricoperti di vermi. In quelle scatole di legno c’era tutto ciò
che gli rimaneva di tre donne giovani, belle, che la vita aveva tradito.
False promesse, inutili speranze, futili progetti che non si sarebbero mai
realizzati. Gracia puntava tutto sulla carriera, perché gli
uomini l’avevano delusa. María Andrés
saltava da un ragazzo all’altro, perché non riusciva a trovare quello giusto.
Isabel cercava solo un lavoro, perché voleva rendersi indipendente. Ciascuna
sul punto di trovare la svolta, ciascuna piena di speranze nel futuro. E
tutte con una cosa in comune, la sfortuna di aver conosciuto e forse amato un
uomo che le riteneva poco più che giocattoli. Avevano amato lo stesso uomo,
si erano date a lui, ma poi l’avevano abbandonato. Perché? Cosa c’era in
quell’uomo che non funzionava? Era troppo geloso, possessivo, violento? Era
egoista, egocentrico, prepotente? Forse avevano capito che dovevano
allontanarlo, ma non avevano capito che dovevano temerlo. L’avevano lasciato
entrare in casa, si erano lasciate avvicinare, gli avevano permesso di stare
tanto vicino da stringerle per il collo, fino a strangolarle. Diego lo sapeva perfettamente: quando un
complimento tira l’altro, si finisce per dimostrare il proprio apprezzamento
con procedimenti via via più tangibili. Era
stupefacente che si fossero trovati tanto a proprio agio, in compagnia l’uno
dell’altro, nel breve volgere di un pomeriggio. Ancora più incredibile che i
loro corpi sembrassero già conoscersi, come se quella non fosse la prima
volta che s’incontravano. Scopata grandiosa, pensò, interrotto dal brontolio
del suo stomaco, vuoto da troppo tempo. - Hai fame? - gli chiese Oscar, ridendo. - Io no, è il mio stomaco che reclama. - Il mio è perfettamente d’accordo. Andiamo
a vedere cosa c’è rimasto in frigo. Si districarono in fretta, per
raggiungere a grandi passi la cucina. Oscar aprì lo sportello, iniziando a
tirare fuori tutto il possibile. - Aiutami! Diego si avvicinò, allungando le braccia,
e dopo aver ammonticchiato le vettovaglie sul tavolo, si accinse a sua volta
ad aprire lo sportello del freezer. - No, quello no! Ci sono soltanto reperti archeologici.
C’è il rischio di restarci secchi solo a guardarci dentro. Diego si mise a ridere. - Che ci vuoi nel panino? - gli chiese. - Quello che ti pare. Io non faccio
discriminazioni. - Uno come te è da sposare. - commentò
Oscar, raggiungendolo con un bacio. Diego si domandò cos’avesse fatto o detto
per attirare le confidenze di Oscar. Stava semplicemente scherzando
sull’amore, quando lui si era fatto triste e aveva cominciato a raccontare. - Non so com’è che succede. A me è successo
e basta. Si chiamava Tomas. E’ stato tanto tempo fa. Lui aveva una bottiglia
di birra in mano e se ne stava appoggiato a un palo, a guardare quattro
ragazzini che giocavano col pallone in una piazzetta. Non l’ho visto subito.
Era il tramonto, e c’erano quelle ombre lunghe che s’incrociavano mentre loro
correvano e poi c’era quella immobile del palo, lunga e dritta, che tagliava
la piazza. L’ombra era deformata a una
certa altezza in modo che si riconoscevano le spalle di quel tizio, anche lui
immobile. Solo ogni tanto, lentamente, l’ombra si allungava in un braccio per
portare la bottiglia alla bocca. Io ero dietro, non potevo vederlo. Era
nitida solo la sua ombra. Me ne stavo andando per la mia strada, quando
qualcosa mi ha bloccato. Non so perché, davvero, non lo so, ma dovevo vedere
quel tizio. Dovevo sapere che faccia avesse. Così mi sono spinto di qualche
passo verso di lui, ho confuso la mia ombra con la sua, mi sono voltato e
l’ho visto. E anche lui ha visto me. Ci siamo guardati negli occhi ed è stato
come un momento eterno. Non so se puoi capirmi, Diego. Sai, quei momenti che
ti capitano poche volte nella vita, che mentre li stai vivendo riconosci che
sono fondamentali, che ti fanno sentire sulla strada giusta, che ti
completano il destino. Tomas è stato il mio destino. Siamo stati insieme
dieci anni, dieci anni felici. Quando penso a lui è come se il respiro si
facesse più leggero, più libero, è come se si aprisse il cielo e spuntasse un
raggio di sole dalle nuvole nere. Ogni giorno mi svegliavo contento perché
sapevo che c’era lui. Sapevo che era con me, anche quando eravamo lontani.
Quando mi capitava qualche contrattempo, alzavo le spalle e mi dicevo: chi se
ne frega, c’è Tomas. Quando qualcuno al giornale mi dava contro, o
disprezzava il mio lavoro, io mi dicevo: chi se ne frega, Tomas mi ama. Sì,
Tomas mi amava, ma io ero pazzo di lui. Non so se puoi capirmi. Mi capitava
di pensare a lui ogni volta che i miei pensieri non erano concentrati sul
lavoro, o in qualunque altra attività. Nella mia mente non c’erano più spazi
vuoti, ogni vuoto era colmo di lui. E poi, un giorno, un balordo ubriaco
fradicio l’ha falciato sulla via del ritorno, quasi davanti al portone di
casa. Ho sentito il botto, nemmeno una frenata. Ho sentito gente che urlava. Ho sentito un vuoto allo stomaco e un
tremore dappertutto. Sono corso alla finestra e ho riconosciuto i suoi
vestiti, quelli con cui era uscito al mattino. Da allora non sono più stato
lo stesso. - Me ne dispiace, davvero. Non ho parole. - Grazie. Adesso capisci perché non mi
piace scherzare sull’amore. - Certo, scusami. Erano solo battute
stupide. Non intendevo rattristarti. - Non è niente. Tu non potevi saperlo. - No, certo, ciò non toglie che tu abbia
ragione, non si può scherzare sull’amore. L’ufficio
di Delgado era sempre lo stesso, mentre la città
pullulava di gente in festa. - Tutti gli altri si divertono, mentre noi
siamo qui. - sospirò Consuelo, osservando la parete
che avevano ribattezzato il muro del pianto. - Non siamo gli unici a lavorare, oggi,
Torres. Per far divertire la gente, c’è un sacco di manodopera impegnata. - Già, hai ragione, come sempre, ma non è
che mi consoli molto. - Sei riuscita a controllare gli alibi
della rock band? - Affermativo. Il Fan Club, l’albergo e un
ristorantino, dove avevano un tavolo fisso, hanno confermato la loro presenza
in quei giorni. Hanno lasciato l’albergo il 15 maggio. - Allora dobbiamo scavare più a fondo sul
circo. Hai notizie di Fidalgo? - È venuto e se n’è andato. A quanto pare,
ha trovato compagnia. - Il giornalista? - Proprio lui. L’ha aiutato a entrare nel
backstage e a intervistare qualcuno. Mi ha detto che stava tornando là. Pare
ci siano alcuni soggetti interessanti, uno soprattutto, il nome non me lo
ricordo, ma è l’ultimo punto interrogativo della colonna Sanz. Delgado si avvicinò al muro, per leggere. - Stevan Mercé? - Sì, proprio lui. - E che fa esattamente? - È un giocoliere. Sa scherzare col fuoco. - Molto bene. Hai riprovato a chiamare l’Entredòs? - Sì, ormai so il numero a memoria. Di
sicuro sono chiusi per ferie. - Certo, sarà così, ma tu non mollare. - Fidati, capo, io non mollo mai. Stevan Mercé aveva il fisico scolpito con
l’accetta. Si allenava in mezzo all’arena formata dal tendone e dalle
roulotte, sotto un sole impietoso già dalla sua prima apparizione. Una musica
ritmata sottolineava i suoi movimenti, provenendo da una delle case a ruote.
Era a piedi scalzi, con un paio di pantaloncini da boxe neri, e un berretto
rosso con su scritto NY, indossato con la visiera sulla nuca. A ogni movimento,
i suoi muscoli possenti saettavano sotto la pelle abbronzata e già lucida di
sudore. Diego e Oscar lo osservavano da una certa distanza. Quando decise di
prendersi una pausa, Stevan si avvicinò a un
barile, vi immerse un piccolo secchio e poi se lo versò sulla testa, dopo
essersi tolto il berretto. - Però! - commentò Diego. - Peccato per quel carattere di merda. -
aggiunse Oscar. - Andiamo a parlargli. Stevan non sembrò molto felice di quella
decisione, ma la parola polizia lo ricondusse immediatamente a più miti
consigli. Comprendendo, non si sa come, che la conversazione sarebbe andata
per le lunghe, li accompagnò all’ombra di un telone, tirato tra due recinti,
uno abitato da un paio di cammelli spelacchiati e un altro, più piccolo, in
cui si aggirava un ippopotamo pigmeo. Il tanfo rendeva l’aria densa e
irrespirabile, quasi corposa. Stevan si allontanò
per pochi istanti, tornando con una lunga panca di legno, su cui si sedette
per primo. - Allora, cosa volete sapere? Stevan Mercé era un gitano. Benché la sua
famiglia fosse ormai stanziale da un paio di secoli, nel suo DNA scorreva a
fiumi il carattere incontenibile del nomadismo. Per questo, a 14 anni, era
fuggito di casa, unendosi a un circo di passaggio. Gli artisti se l’erano
ritrovato tra i piedi alla prima tappa, scoprendo che aveva viaggiato come
clandestino nel carro dei pony. Uno di loro l’aveva riportato a casa. La
seconda volta aveva 16 anni e i suoi genitori, raggiunti da una telefonata
che li avvertiva di non preoccuparsi e che presto gliel’avrebbero
riconsegnato, si affrettarono a dichiarare che era meglio che se lo
tenessero. Visto che il circo lo attirava tanto, che imparasse un mestiere e
forse avrebbe combinato qualcosa nella vita. A casa non era mai ritornato. - Ne deduco che non eri molto legato alla
tua famiglia. Come mai? - Mi hanno sempre odiato. Non erano mai
contenti di quello che facevo. Mio padre mi picchiava per farmi andare a
scuola. Andarmene è stata una liberazione. Se ti tenessero in prigione e un
giorno ti capitasse di uscirne, cercheresti di tornare indietro? - Beh, se la metti così, no, non credo
proprio. - Appunto. - Quando il circo si ferma da qualche
parte, ti piace andartene in giro, conoscere la gente del luogo, magari
trovarti qualche compagnia femminile? - Prima mi capitava, quando avevo
venti-venticinque anni, ma poi mi sono stancato. Io la gente la capisco poco.
Le città sono quasi tutte uguali, le donne poi, sembrano fatte con lo
stampino. - Però mi dicono che hai successo con loro,
che vengono a cercarti. - Sì, dopo gli spettacoli mi capita di
trovarne qualcuna che mi aspetta. A volte le invito nel mio carrozzone, altre
volte mi limito a riaccompagnarle a casa. - Ti è capitato ultimamente, a Sevilla, a Madrid o qui a Burgos? - Sì, a Madrid. Non che fossi proprio
convinto, ma quella non era una donna, era una tigre con i denti a sciabola.
Mi ha costretto con la forza. - Povero ragazzo. - ghignò Oscar, non
riuscendo a trattenersi. - E tra i tuoi colleghi ce ne sono, che
d’abitudine se ne vanno a spasso per la città? - Qualcuno. - Chi, per esempio? - Victor e Buezo. - Buezo, come il vino? - domandò Diego. - È il suo soprannome. L’hanno sempre
chiamato così e sinceramente non ricordo il suo vero nome. - E a loro capita di andare in cerca di
donne? - Questo dovete chiederlo a loro. - Lo faremo. Toglimi una curiosità, non ti
viene mai il desiderio di fermarti in un posto, uno qualunque? Non so, un
giorno vedi un panorama che ti fa innamorare, lo guardi e pensi che lì
potresti viverci. Non ti capita mai? - No. Quando un posto mi piace molto, ci
sto con piacere, ma so che ci saranno altri posti e che mi piaceranno anche
quelli, quindi, perché rinunciarci? E poi io amo il mio lavoro. Non saprei
fare altro. - Voglio venire a vederti, stasera. -
affermò Diego, con un tono che sembrava quasi una sfida. - Aspetta, vado a prenderti due biglietti.
O te ne servono di più? - No, va bene, ti ringrazio. Mentre Stevan
si allontanava, Oscar domandò: - Con chi ci vieni? - Con te. - Non mi chiedi neppure se mi va? - No. - Sei un prepotente. - No, non direi. Mi fa piacere stare con
te. - E se a me non andasse? - Me lo diresti, no? Vuoi una barretta di
cioccolato? - Sì. - Sì me lo diresti o sì alla barretta? - Sì a tutto, temo. A te non si può proprio
dire di no. Fu
solo a metà pomeriggio che Diego si decise a lasciare la compagnia di Oscar,
per fare una puntata nell’ufficio di Delgado. - Ruminante! Chi non muore si rivede! -
esclamò Consuelo. - Ti sono mancato, dolcezza? - Ma insomma, sei venuto qui per seguire le
indagini per i fatti tuoi? La collaborazione dove sta? - Buona, buona. Sto seguendo una pista, ma
per il momento non mi ha portato da nessuna parte. Ci vuole tempo. Se tra due
giorni non avrò ancora nessun sospettato, seguirò il circo. So che va a Zaragoza e poi a Barcelona.
Santo cielo, ma non hai fatto niente per quell’occhio? E voi cosa avete
scoperto, nel frattempo? Delgado si dondolò sulla poltroncina, con le
mani intrecciate sullo stomaco, e gli lanciò uno sguardo acuto come una
freccia. - Noi abbiamo escluso la rock band e stiamo
cercando di contattare qualcuno alla Entredòs. - E che cosa sarebbe questa Entredòs? - La fondazione dove la Araus
ha frequentato il corso di scrittura creativa. Dai documenti raccolti sulla
Velasco e sulla Sanz, non si riesce a dedurre dove
abbiano frequentato il corso. Per questo abbiamo bisogno di parlare con
quelli della Entredòs. - Capisco. - Abbiamo spulciato tutti i dossier. Le
uniche piste che abbiamo sono quella del circo e quella del corso. In tutti e
tre i casi, abbiamo trovato che in casa delle vittime c’era un naso da clown.
Quindi, per quanto mi riguarda, credo che il circo sia la pista più
probabile. Con quel naso l’assassino lascia la sua firma. - Lo penso anch’io, ma l’altra pista è da
seguire ugualmente. - Certo. Lo faremo. - Benissimo. Io stasera torno là. Stevan Mercé mi ha regalato un biglietto per lo
spettacolo delle nove. - Buona serata, allora. - Anche a voi. Ah, dolcezza, deciditi a
fare qualcosa per quell’occhio: somigli a un panda. Consuelo lo fulminò con lo sguardo. Diego lanciò un’ultima occhiata al muro
del pianto, poi fece un cenno con la mano e se ne andò. - Torres, che ne diresti se ce ne andassimo
anche noi? - Ottima idea. Buona serata, capo. - Buona serata, vice. Delgado restò ancora cinque minuti a osservare i
foglietti e le foto attaccati alla parete, poi chiamò Paco. Per i giorni seguenti non riuscirono a
fare un solo passo avanti, poi il circo levò le tende, Diego li salutò e
sparì all’inseguimento dei carrozzoni. Oscar lo seguì, ma questa rimase
un’informazione privata tra loro. Ogni tanto Diego telefonava per tenerli
al corrente, ma sembrava che non si riuscisse proprio a cavare un ragno dal
buco. Un giorno raccontò di aver perquisito la
roulotte di Stevan Mercé e di averci trovato un
naso da clown. Delgado ritenne che non fosse un
elemento rilevante, trovandosi in un circo, ma Diego non fu affatto
d’accordo. Lo considerava quasi una prova. Informò Delgado
che avrebbe tenuto d’occhio Stevan, ventiquattrore
su ventiquattro. Delgado spulciò ogni singolo elemento, ogni
rapporto, ogni più stupido particolare. La relazione di Pérez
lo confortò nell’ipotesi che l’assassino fosse lo stesso per tutti e tre i
casi. Ci lavorò per due settimane con grande attenzione, poi fu costretto a
passare a un’altra indagine, mentre Consuelo
sperava sempre di riuscire a parlare con la Entredòs.
Nel frattempo aveva scoperto che avrebbe riaperto i battenti a fine
settembre. Era già qualcosa. Fidalgo ficcò il naso nella vita di ciascuno
degli artisti al seguito del circo de Esgueva.
Valutò con attenzione i rapporti intercorrenti tra loro, mettendo in luce le
antipatie e le simpatie, scoprendo le coppie che si erano formate, quelle che
erano scoppiate, le consuetudini, i piccoli incidenti di percorso, gli odi e
gli amori, tutto il panorama di interconnessioni personali di quella comunità
chiusa. In quel piccolo mondo inaccessibile, ogni sentimento risultava
inevitabilmente più esasperato e le conseguenze avevano un impatto più
enfatizzato. Eppure la convivenza seguiva le sue regole rigide e ferree, che
in un modo o nell’altro consentivano alla comunità di sopravvivere nonostante
se stessa. I suoi sospetti si appuntarono su Stevan.
Il suo carattere irascibile, tetragono e impulsivo, lo eleggeva di diritto a scassapalle numero uno. Se questo significava anche che
potesse essere un omicida, Diego ancora non lo sapeva. La sua vita aveva preso una strana piega.
Da una parte indagava - un po’ distrattamente, doveva ammetterlo - su Stevan, dall’altra viveva appieno la sua storia con
Oscar. Non pensava al futuro, si accontentava ed era ben felice di quel
presente. Neppure Oscar parlava del futuro, ma era
stato lui a decidere di seguirlo, con grande sorpresa di Diego. - Non mi va di lasciarti proprio adesso,
sul più bello. - gli aveva detto, facendo le valigie. Il più bello era l’inizio di una
relazione che prometteva molto bene. Ma l’indubbia compatibilità sessuale non
era tutto. Oscar era combattuto, passava da momenti di entusiasmo e allegria
ad altri di tetro pessimismo. La sua sensibilità era esasperata. Bastava un
nulla per scatenare una reazione o l’altra. Diego, empatico per natura,
rispondeva con la sua solidarietà, con la comprensione e la capacità di
consolazione, che generosamente sapeva elargire. Ogni notte, dopo lo spettacolo, Diego e Oscar
spiavano i movimenti di Stevan. Un paio di volte
era capitato che una donna l’avvicinasse. In entrambi i casi, Stevan si limitò ad accompagnarle a casa, salutandole al
portone. Diego si domandò se per Isabel, María Andrés e Gracia, avesse fatto
un’eccezione, salendo nel loro appartamento. Forse, in quei casi, le ragazze
erano state troppo insistenti e lui si era incazzato, tanto da afferrarle per
il collo, pur di levarsele dai piedi. Conoscendolo, non era un’ipotesi da
scartare con leggerezza. Poi Diego e Oscar tornavano in albergo.
La notte era il momento della giornata che Diego preferiva, e rotolarsi nel
grande letto con Oscar, l’attività che più d’ogni altra prediligeva. Non gli
bastava mai. Era diventata una specie di droga. Oscar gli aveva fatto scoprire
nuovi orizzonti. Lui, che si era sempre rifiutato di farsi penetrare, si era
ritrovato a desiderarlo, per la prima volta, come se, soltanto in tal modo,
il loro rapporto avesse potuto trovare un’appagante perfezione. Mentre Diego e Oscar vivevano la loro
luna di miele, Consuelo, esattamente il 21 di
settembre, riuscì a contattare Victoria Martín,
l’addetta alla reception della Entredòs. La donna,
molto collaborativa, si rese disponibile ad incontrarla il giorno seguente. Qualche giorno prima, Diego aveva
comunicato che il circo si spostava a Barcelona.
Sarebbe stato una delle attrazioni per la Festa della Mercè,
che si teneva dal 22 al 25 settembre. Se qualcosa doveva accadere, sarebbe
avvenuto in quei giorni. Consuelo si fece lasciare davanti al Café Teatro Arenal, pagò il
taxi e attraversò la strada. Passando davanti a un Burger
King, si rese conto di non aver toccato cibo dalla sera precedente. Ma le
indagini avevano la precedenza. Quel figlio di puttana poteva colpire ancora.
Aveva fretta di parlare con Victoria Martín, con
cui aveva appuntamento quella mattina. La sede della fondazione aveva appena
riaperto, quando Consuelo aveva chiamato. Era già in ritardo. Imboccò Calle de Esparteros e poco dopo raggiunse l’indirizzo della Entredòs. Alla reception trovò la donna, che la stava
aspettando. Consuelo si presentò, si scusò e arrivò
subito al sodo. Victoria, che naturalmente sapeva della morte di María Andrés Araus, ma era all’oscuro delle altre due, impallidì. - Credo che siano state nostre clienti
anche loro. - Può accertarsene, per favore? - le chiese
Consuelo. - Certamente. Venga con me. Giunte in fondo a un corridoio, entrarono
in una sala riunioni. Victoria Martín cercò un
faldone tra quanti erano allineati su uno scaffale e quando lo trovò, lo
prelevò e lo appoggiò sul grande tavolo ovale. - In questa sala si svolgono i corsi di
scrittura creativa. Questi sono i partecipanti del corso che ha frequentato María. Lei lavorava qui da noi come fisioterapista, era
una donna simpatica, solare. Mi è dispiaciuto immensamente per quello che le
è successo. Guardi qui! Velasco e Sanz. C’erano
anche loro, ricordavo bene. Consuelo provò una fitta allo stomaco, osservando
la lista. Vi apparivano altri nomi, forse una decina, tra cui molte donne. - Devo copiare questa lista. Mentre estraeva dalla sua capiente borsa
un mini scanner e si metteva in azione, Consuelo le
domandò: - Avete altre notizie su di loro? Gli
indirizzi, i numeri di telefono? - Sì, certo. Quando ha finito, glieli
mostro. Consuelo si chiese se l’assassino potesse essere
uno di loro. - Ricorda se è accaduto qualcosa di
particolare durante questo corso? Non so, una lite, un problema tra i
partecipanti... - Non mi sembra. Ecco, questo è lo
schedario dei clienti, con gli indirizzi, i numeri di telefono, i corsi che
hanno frequentato. Non potrei mostrarglieli, senza autorizzazione, ma posso
far finta di non vederla, mentre lei si copia tutto. - Grazie, Victoria. Mi fa risparmiare un
sacco di tempo. E ho paura di non averne molto. - Crede che gli omicidi non siano finiti? - Il problema è che non sappiamo perché
qualcuno sta ammazzando queste donne. Come facciamo a capire se ha finito? - Lei che ne pensa? - Penso che potrebbe esserci la prossima,
in questa lista. Dopo qualche minuto di silenzio, Victoria
si agitò. - Forse una cosa diversa dal solito c’è
stata, in quel corso. Consuelo sollevò la testa di scatto. - Mi dica. - Solo uno scherzo. Non credo che possa
entrarci qualcosa. - Fa niente, me lo racconti lo stesso. - Alcune partecipanti hanno scritto delle
parodie di un racconto letto dal relatore. Era solo un gioco. Non avevano
nemmeno intenzione di farle leggere agli altri, ma qualcuno le ha scoperte e
le ha lette davanti a tutti. Quella sera, tra risate, fischi e schiamazzi,
sembrava di essere a una partita di calcio. - Questi racconti si possono leggere? - Ne abbiamo una copia. - Con questo scanner ci metto un mese. Non
potrei fotocopiarli con la vostra macchina? - Lo faccio io, mentre finisce con le
schede. - Lei è un angelo. - E lei è un diavolo. È riuscita a
spaventarmi. Consuelo concluse il suo lavoro e tornò alla
reception ad aspettare che Victoria finisse di fotocopiare i documenti. Si guardò intorno. Le pareti erano di un
caldo color albicocca chiaro, le luci di alcune piantane distribuivano una
tenue luce verso il soffitto bianco. C’erano piante pendenti che scivolavano
a cascata da un mensolone che correva lungo tutta la parete, a una sessantina
di centimetri dal soffitto, e da cui pioveva una fascia continua di luce più
chiara, quasi azzurrina. Infine notò una fontana in un angolo, una di quelle
a ciclo continuo, da cui proveniva un tenue rumore d’acqua corrente.
Nell’aria si respirava un soave profumo di gelsomino. Era un ambiente molto
rilassante, quasi sensuale, che le provocava il desiderio di sprofondare sui
comodi divani e restare là a lungo, a meditare, a distendersi, a riposarsi,
lasciando che il mondo continuasse a correre dietro quella porta e che se ne
andasse pure all’inferno, se proprio ci teneva. Dopo un tempo che non avrebbe saputo
calcolare, Victoria tornò da lei con un’impressionante pila di fogli.
Vedendola, Consuelo ebbe una reazione di stupore. - Glieli ho fotocopiati tutti. Non si sa
mai. Quelli con i titoli evidenziati sono i racconti delle quattro ragazze
che hanno scritto quei buffi racconti. - Ho un problema, Victoria. Come me li
porto? - Posso darle una borsa della palestra di
yoga. Mi aspetti un attimo. - Anche di più. Si sta talmente bene qui. Victoria rise. - Questo è proprio lo scopo della nostra
fondazione. Il benessere è la nostra priorità, per il corpo e per la mente. - Se queste sono le premesse, avrei voluto
conoscervi quando vivevo qui a Madrid. - Magari ci ritornerà, un giorno. E noi ci
saremo ancora. Diego accarezzava Kiko,
che Oscar teneva sulla spalla, a crogiolarsi al sole. Il mare era calmo. La
panchina su cui erano seduti era lontana dalle altre. In quel momento non
passava nessuno. Diego avvicinò le labbra a un orecchio di Oscar. - Io ti amo. - E me lo dici così? - Oscar, come te lo devo dire? Con un giro
di parole? Mi devo mettere in ginocchio? Te lo devo dipingere su un muro?
Devo mettere uno striscione sulla coda di un aeroplano? Te lo scrivo sulla
sabbia? - Okay, okay, calmati, adesso. Ho capito.
Scusa, ma non me l’aspettavo. - D’accordo, mi sono calmato. - È che mi sento spaesato, capisci? - Non c’è bisogno che tu risponda niente.
L’importante è che tu lo sappia. - Grazie, Diego. Non è facile per me. Ci
sono orizzonti verso cui non ho più guardato, da moltissimo tempo. Non li ho
più considerati. - Ma adesso che conosci me, ti
dispiacerebbe affacciarti per lo meno al balcone? Potrebbe darsi che questo
panorama ti piaccia. - Mi lasci il tempo di pensarci? - A che devi pensare? - A te, a me. A noi. - L’amore non ha bisogno di riflessione. Lo
provi oppure no. È l’unica cosa facile da riconoscere nella vita. - Per te, forse. Per me non lo è affatto. - Non preoccuparti, Oscar, va bene così. Va bene un cazzo, pensò Diego. Proprio di
quel lunatico doveva innamorarsi. Alla sua età, poi! Ma come cazzo era potuto
succedere? Kiko lo osservò roteando un occhio verso
di lui. Sembrava volerlo prendere in giro. Può lo sguardo di un’iguana
assumere un’espressione ironica? Ebbene, Kiko ci
riusciva. Ma è poi davvero così vero che ti amo? Mi
sembra. Forse è solo un’illusione. Forse è solo che mi rispecchio in te.
Forse, se tu fossi diverso da me, fisicamente, nemmeno ti cagherei. Troppi
forse per un pomeriggio solo. Consuelo decise di concentrarsi completamente
sulla lettura dei racconti che si era trascinata dietro da Madrid. Rey le consigliò di restarsene a casa, così da non dover
subire distrazioni. Quella mattina, spalancò tutte le
finestre, si preparò un ettolitro di caffè e si rannicchiò comodamente sul
divano. Sul tavolino accanto a lei, incombente, la temibile pila di fogli
fotocopiati. In cima, in pole position, quelli di Isabel Velasco, María Andrés Araus e Gracia Sanz. Con un sorso di caffè e un respiro profondo, si
tuffò sul primo. Due ore dopo, Consuelo
iniziò a tirare le somme. Le ragazze ci erano andate giù pesanti. Le parodie
erano davvero buffe, un po’ esagerate, a tratti persino volgari. Il racconto
di Ana Maria Gutiérrez
era invece di ben altro tenore. Di una cosa, comunque, era ormai certa:
gli omicidi s’ispiravano a quei racconti. In uno c’era un personaggio goffo e
brutto, con la descrizione di occhi da bovino, strabuzzati e ributtanti, che
qualcuno avrebbe fatto bene a cavargli, per non spaventare la gente. In un
altro il personaggio aveva capelli di fil di ferro, orrendi e arruffati, per
i quali si consigliava un bel taglio deciso. In un altro veniva preso in giro
un amore tra due nani, due pagliacci, che di eccezionale possedevano soltanto
i nasi e le dimensioni dei loro randelli. Nell’ultimo non erano presenti
scene umoristiche, ma solo aspri rimproveri per quello che l’autrice non
riusciva in nessun modo a considerare amore. Una critica feroce per una
storia d’amore tra due uomini, che aveva soltanto sentito raccontare e che di
sicuro avrebbe preferito non sentire. Quello che le mancava era il racconto che
avevano preso di mira. Come faceva a capirci qualcosa, se non leggeva quello
che aveva scatenato la loro reazione? Chi l’aveva scritto? Doveva leggerlo
assolutamente. Attaccò con accanimento tutti gli altri racconti, ma senza
trovare quello che cercava. Evidentemente non faceva parte dell’archivio. E se quel racconto fosse stato opera
dello stesso relatore? Consuelo afferrò il cellulare e chiamò Victoria a
Madrid, per chiederle notizie di lui. Era l’unica cosa di cui non avessero
parlato. Ma adesso le sembrava essenziale saperlo. Diego non era deluso, in fondo se
l’aspettava, era stato avvertito. Oscar aveva messo le mani avanti già da
tempo. Gli aveva confessato che per lui Tomas era stato l’unico vero amore e
che sapeva perfettamente che non si sarebbe innamorato mai più. Diego, senza
sospettarlo, l’aveva colta come una sfida. Si poteva essere più stupidi?
Andarsi a innamorare proprio di Oscar... Il circo de Esgueva
era stato montato in Diagonal Mar, a due passi
dalle spiagge e dal porto nautico. Mentre osservava Stevan
esercitarsi con le sue mazze di acciaio, cui dava fuoco durante lo
spettacolo, pensò che in tutta la sua vita non era mai stato tanto bene con
qualcuno come con Oscar. Poteva sopportare il fatto che lui non lo amasse.
Che differenza avrebbe fatto? Lui si sentiva apprezzato lo stesso. In quei
giorni, Stevan non aveva mai lasciato il circo. Non
aveva ricevuto visite, era metodico nei suoi spostamenti attraverso il campo.
Aiutava a governare gli animali, si allenava, riposava, leggeva, sistemava le
attrezzature, le ripuliva, ogni tanto faceva due chiacchiere con qualcuno.
Niente, assolutamente niente di strano, nel suo comportamento. L’unico chiodo
che gli si era ficcato nella testa era il naso da clown che gli aveva trovato
nella roulotte. E se Delgado avesse avuto ragione?
Se si trattava proprio di una presenza insignificante, dal momento che si
trovavano in un circo? Era tanto distratto, quel giorno, che
quasi gli sfuggiva. Stevan, vestito di tutto punto,
con lunghi calzoni color panna e una polo blu, stava uscendo dal recinto
esterno. L’aveva riconosciuto in extremis. Del resto non l’aveva mai visto
vestito in pieno giorno. Anche così, era un uomo davvero attraente. Diego si
mosse dietro di lui. Seguendolo da solo, Stevan
l’avrebbe notato meno, abituato com’era a vederlo con l’inseparabile
compagno. Ma quel mattino Oscar aveva mal di testa, e aveva preferito
rimanere in albergo. Stevan aveva raggiunto la vicina fermata della
metro, Selva de Mar. Diego aveva cercato di confondersi tra la gente che
scendeva le scale. La linea gialla portava in centro e quella sembrava la
direzione scelta da Stevan. Diego si nascose dietro
un angolo, finché non giunse il treno, poi si accertò che Stevan
salisse, quindi salì anche lui. La Rambla era
un unico fiume di gente che scorreva tra due ordinati filari di alberi. Diego
dovette avvicinarsi a Stevan per non rischiare di
perderlo di vista. Si teneva esattamente alle sue spalle, per evitare di
essere visto a sua volta. Dopo aver camminato per un buon tratto sul largo
marciapiede centrale, Stevan cambiò direzione,
attraversò la strada e si infilò alla Casa del Libro. Diego decise di tornare sul marciapiede
centrale per tener d’occhio la porta a vetri, nascosto da un albero. Si
accese una sigaretta e cominciò ad aspettare. Pensò nel frattempo di chiamare
Oscar, per chiedergli se si sentiva meglio, ma il suo cellulare sembrava
defunto. Fu solo dopo la terza cicca, schiacciata sotto il tacco, che vide il
lampo chiaro dei calzoni di Stevan uscire dalla
libreria con una busta rigonfia e riprendere la via del ritorno. A metà
strada entrò in un portone, senza neppure fermarsi a suonare il citofono.
Quando Diego ci arrivò, il portone era chiuso. Osservò la pulsantiera,
cercando i nomi degli inquilini, ma al loro posto trovò solo una lista di
numeri. Dove diavolo è andato? Diego cominciò ad agitarsi. Suonò a qualche
campanello, finché qualcuno gli aprì. Quindi si lanciò su per le scale. A
ogni pianerottolo appoggiava l’orecchio alle porte, in cerca di voci
concitate. Arrivò fino al sesto piano, poi, sempre più agitato, si accinse a
ripetere la medesima operazione nel corso della discesa. A un tratto, sotto
di lui, una porta si aprì rumorosamente. Diego si bloccò, sporgendosi dalla
ringhiera delle scale. Udì chiaramente una risata, poi la porta si richiuse
con un tonfo e Stevan, in compagnia di un altro
uomo, scese in fretta le scale. Quando Diego giunse in strada, non riuscì a
individuare in quale direzione fossero andati. Li aveva persi. Provò a girare
l’angolo più vicino, tornò indietro di corsa, poi rifece la strada in senso
inverso, ma non ci fu niente da fare. Con un certo malumore tornò in albergo,
per vedere come stava Oscar. - Ho voglia di uscire. Sto molto meglio,
ora. - gli disse. - Mi fa proprio piacere. Vestiti, allora. - Mi faccio una doccia e andiamo. Non
voglio perdermi la festa. Sul letto rimase il borsone da cui Oscar
aveva prelevato un flacone di bagno schiuma. Era aperto. A un tratto lo
sguardo svagato di Diego fu attirato da qualcosa di rosso. Qualcosa che,
avvicinandosi, riconobbe immediatamente. Qualcosa che non doveva esserci. In
quel momento, Oscar uscì dal bagno. Si guardarono negli occhi. Poi lo sguardo
stupito di Diego si spostò sulla pistola che Oscar gli puntava contro. Era
proprio la sua pistola d’ordinanza, che in un momento di infinita incoscienza
aveva lasciato in camera, nel cassetto del comodino. Si affrontarono in
silenzio. - Che cosa credi di fare? - gli chiese
Diego, con incredibile calma. - Ancora non lo so. Per ora credo che ti
lascerò qui. Ho messo fuori uso il tuo cellulare. Non ti dispiace se
t’impedisco di cercare aiuto, vero? Sai, ho qualcosa da fare, stasera, e non
ti voglio tra i piedi. M’intralceresti. - Oscar! Pensa a quello che fai. Rifletti
sulle conseguenze. - È un anno e più che ci penso, mio caro.
Tu non mi fermerai. Nessuno mi metterà i bastoni tra le ruote. Devo finire
questo lavoro. - Lavoro? - Sì, un bel lavoro di pulizia. Tutto il
genere umano ne avrebbe bisogno. Ce ne vorrebbero tanti come me. Non trovi? - Oscar, tu hai bisogno di cure. - No, al contrario. Sono proprio io la
cura. Messo al corrente degli sviluppi da Consuelo, Rey riconobbe che era
necessario effettuare subito una perquisizione. - Come facciamo a... - Capo, non diciamo niente a nessuno.
Chiamo il giornale e vedo se riesco a farlo venire qui. Mentre io parlo con
lui, tu puoi andare a casa sua a ficcare un po’ il naso. - E da chi mi faccio aprire? - obiettò Rey. Consuelo lo osservò per un istante con la sua
espressione più ironica. - Non fingere, con me. Mi hanno raccontato
che un certo Pascal ti ha insegnato le arti del mestiere... - Paco! Stasera lo strangolo. - Lascia stare, ci sono già abbastanza
strangolati in questa storia. Dobbiamo fare in fretta, Rey.
Ana Maria Gutiérrez
potrebbe essere la prossima vittima. Menomale che Fidalgo
è già a Barcelona. - E va bene. Chiama El
Correo. Forzare la serratura non era stato
difficile. Consuelo si era aggregata a Rey, quando aveva scoperto che Oscar Mayor era fuori
Burgos per lavoro. Speravano soltanto che non rientrasse proprio in quel
momento. La casa era ordinata, a suo modo. In due avrebbero fatto prima. Si
divisero i compiti e le stanze, guardando nei cassetti, negli armadi, sotto i
cuscini. Poi Consuelo
accese il computer. Dopo una lunga ricerca, trovò tra gli scritti di Oscar
una cartella contenente vari racconti. Quando iniziò a leggere La bambola di pezza, comprese
immediatamente che si trattava di quello che stava cercando. Rey la raggiunse e si mise a leggerlo
restando alle sue spalle. Rimasero in silenzio. Non c’erano commenti da fare.
Consuelo si domandò come una storia tanto delicata,
profonda e commovente avesse potuto scatenare una simile reazione in quelle
quattro oche. Restò sull’ultima pagina, una volta
terminato, riflettendo su quanto potesse esserci di vero e quanto
d’inventato. Si augurò che tutto il dolore che traboccava da quelle pagine
non fosse altro che l’esercizio di stile di un bravo scrittore. Si accorse
che Rey non era più con lei. Era tanto concentrata
su quella storia, che il mondo per un attimo aveva smesso di esistere. In cucina s’incontrarono. Tutto era in
ordine. Il frigo era chiuso. - Non ha sbrinato il frigo. Ha intenzione
di tornare presto. - commentò Consuelo. - L’avrà solo svuotato. - disse Rey, aprendone lo sportello. Gli scaffali erano effettivamente vuoti,
con l’unica eccezione di una bottiglia d’acqua. Consuelo aprì il freezer. - Cazzo! Cos’è quella roba? - No, non può essere quello che penso io... - Cazzo, Torres, questi sono... Consuelo si precipitò fuori dalla cucina, ma non
riuscì a raggiungere il bagno. Delgado la seguì. - Eppure ne hai visti di cadaveri, Torres,
che ti prende? - Ho visto cadaveri senza occhi, ma occhi
senza cadaveri ancora mai. - affermò Consuelo,
cercando di ripulirsi con un fazzoletto di carta. - Vediamo se c’è qualcosa per pulire questo
disastro. - A quello ci penso io, tu chiama subito Fidalgo. Stasera inizia la Festa della Mercè e Ana Maria Gutiérrez è a Barcelona! Se
Oscar Mayor non è qui, potrebbe essere andato là per ucciderla, come ha fatto
con le altre. Consuelo si allontanò per tornare poco dopo con
un secchio d’acqua e uno straccio. - Fidalgo non risponde. Il cliente non è
raggiungibile. - Merda! Partiamo subito, capo. Non c’è
tempo da perdere. È l’una. Se guido io, tra sette ore siamo là. - Hai finito? - Sì, è tutto come l’abbiamo trovato, non
preoccuparti. Delgado si bloccò. - Non posso, Consuelo.
Devo portare questa roba alla scientifica, e devo dire dove l’ho presa. - E va bene allora, chiedi
l’autorizzazione, aspetta Anson e compagni e
intanto io vado a fare i bagagli. Paco è a casa? - Sì. - Digli di prepararti una borsa e io la
passo a prendere. Poi torno qui e partiamo subito. Ah, avvisa la polizia di Barcelona di mandare qualcuno a proteggere la Gutierréz. E riprova a contattare Fidalgo. - Agli ordini, ammiraglio. - Scusa, capo, mi sono fatta prendere la
mano. - Ah, no. Stai andando benissimo. Eseguo.
Tu vai, adelante! Alla guida dell’Alfa 159, sparata come un
proiettile sull’autostrada, Consuelo poté
dimostrargli, per la prima volta, tutta la sua abilità di pilota con brevetto
di guida sicura. Rey, tra il preoccupato e il
divertito, ogni tanto si voltava a guardarla. Di sicuro la situazione
meritava tutta quella fretta. Diego Fidalgo era
sempre irraggiungibile. Dall’ultima conversazione intercorsa con i colleghi
di Barcelona, aveva capito che tutti gli uomini
erano impegnati nel servizio di sicurezza per la Festa della Mercè e non potevano permettersi di mettere qualcuno a
proteggere la Gutiérrez. Da quella parte sembrava
di non poter ricevere aiuto. Avevano tentato di contattare la donna, senza
risultato. Non si sapeva neppure se fosse davvero a Barcelona.
Una volta arrivati, fecero la prima tappa
all’hotel dov’era sceso Diego, nella vaga speranza di trovarlo là. Alla
reception dissero di averlo visto salire da poco. Questa notizia li rincuorò,
ma quando bussarono alla porta, nessuno rispose. Stavano per allontanarsi,
quando udirono un rumore. Si guardarono con espressione interrogativa. Consuelo fece un cenno verso la maniglia. Rey assentì. Aprire la porta fu questione di un attimo,
mettersi al riparo dai proiettili, una questione di velocità e prontezza di
reazione. Dalla sua posizione, sporgendo solo un poco la testa, Consuelo poté vedere Diego, imbavagliato e legato a una
sedia. Oscar doveva essere là dentro, dietro la porta. Diego aveva uno
sguardo terrorizzato e accennava di no con la testa. Immaginando che Oscar
stesse per sparargli, decise di rischiare il tutto per tutto. Si mosse. Rey, intuendo le sue intenzioni, le sussurrò a denti
stretti: - Non ci provare. - Devo. Coprimi. - Ma che caz... Consuelo era già dentro. La lotta fu breve ma
intensa. Il tizio era forte, molto forte, ma non conosceva la tecnica dell’hook kick, dell’high kick, né dell’axe kick con cui Consuelo lo
disarmò e lo stese a terra, mentre Rey, già dietro
di lei, si precipitava ad ammanettarlo. - E questo chi cazzo è? - chiese Rey, rivolgendo lo sguardo su Diego. Consuelo andò a liberarlo, togliendogli il grosso
nastro adesivo che gli tappava la bocca. - Quello è Stevan
Mercé. - E perché ce l’ha con te? - È in combutta con quel pazzo furioso di
Oscar Mayor. Quello stronzo è andato a farne fuori un’altra. - Sì, Ana Maria Gutiérrez. Andiamo, ti raccontiamo tutto mentre andiamo a
casa sua. Facciamo presto! Ma intanto di questo che ne facciamo? - chiese Consuelo. - Per ora riserviamogli lo stesso
trattamento con il quale mi ha beneficiato. Facciamo i conti dopo. - suggerì
Diego. - Sono d’accordo. - approvò Rey. Le strade di Barcelona
erano già piene di gente. Sembrava di avanzare con una lentezza esasperante. - La ragazza sarà anche lei in mezzo alla
strada. - Può darsi. È tutto il giorno che proviamo
a telefonarle, ma non risponde nessuno. - Se non la troviamo noi, non la trova
neanche lui. - affermò Consuelo, speranzosa. Una volta giunti all’indirizzo della Gutiérrez, provarono a suonare il citofono. Con loro
grande sorpresa, il portone venne aperto. - E adesso? - Saliamo. Non mi convince. Se non risponde
al telefono, come mai ha aperto, senza nemmeno chiedere chi è? Salirono in silenzio, leggendo i nomi sui
campanelli. Al terzo piano, trovarono l’appartamento di Ana
Maria. Mentre decidevano se bussare alla porta, il battente si aprì. La donna che apparve nel vano aveva un
punto interrogativo stampato in faccia. - Chi siete? - Polizia. Signora Gutiérrez,
è tutto il giorno che... - Non sono la signora Gutiérrez.
Sono Cristina Moradillo. Abbiamo fatto uno scambio di
abitazione per le vacanze. Anna Maria si trova a Vigo, a casa mia. Rey, Diego e Consuelo
si scambiarono uno sguardo interdetto. - Ha ricevuto visite strane, nelle ultime
ore? - le chiese Rey. - A parte le vostre, e a parte il telefono
che ha squillato tutto il giorno, direi di no. - E si può sapere perché non risponde al
telefono? - Perché non è il mio. Le ho appena detto
che non sono la Gutiérrez. Delgado e Fidalgo
sospirarono in coro. Consuelo tentò di nascondere
un sorrisetto. - Le spiace se entriamo? Dovremmo parlarle. Alle tre bussarono alla porta. Era l’ora
in cui qualcuno cominciava a rientrare dalla festa. Consuelo
mandò un sms a Rey, poi fece un cenno di assenso in
direzione della porta, appiattendosi alla parete, di fianco al battente.
Cristina aprì in pigiama. - Chi è lei? Cosa vuole a quest’ora? - Chi sei tu! Dov’è Anna Maria? - È a letto. Sta già dormendo. - E tu che ci fai qui? - Sa che è un bel tipo? Questa è anche casa
mia: sono la compagna di Ana Maria. - Ma che dici? Mi stai prendendo per il culo?
Quella troia bigotta non può essere lesbica! - Glielo vorresti impedire tu? - Togliti di mezzo, stronza! Cristina si beccò un manrovescio che le
fece attraversare al volo metà della stanza. Ma appena messo piede
nell’appartamento, Oscar dovette fare i conti con una scatenata Consuelo. - Spero che ti sia limitata allo stretto
necessario. - disse Rey, entrando. - Ho paura di no. Scusami, capo. A volte mi
faccio prendere la mano. - Anche il piede, mia piccola guerriera. -
aggiunse Diego, ghignando. - Grazie, Cristina. Mi dispiace che tu
abbia dovuto sopportare... - ... Non vi preoccupate per me, mi ritengo
ampiamente vendicata. Sei stata grande, Consuelo.
Quando lo racconterò ad Ana Maria, le dispiacerà
non essere stata qui. Ma del resto, era spaventata a morte, proprio non ce la
faceva a restare. - Se aveva capito tutto, perché non si è
rivolta alla polizia? - L’ha fatto, ma quando ha raccontato del
corso di scrittura creativa e di quello che era successo, le hanno riso in
faccia. - Merda! - esclamò Diego. - Impacchettiamo questo signore e
andiamocene. - ordinò Delgado. Per Kiko non
sembrò fare molta differenza. La spalla su cui era comodamente appollaiato,
non era più quella di Oscar, ma quella di Diego, che non se l’era sentita di
abbandonarlo al suo triste destino. - Dunque, Ruminante, hai deciso di
adottarlo? - gli domandò Consuelo, mentre si
salutavano. - Ormai mi ci sono affezionato. Mi
mancherebbe. Ragazzi, è stato un piacere lavorare con voi. Delgado sollevò un sopracciglio. - Francamente, non è che ti abbiamo visto
molto. - Sono le migliori collaborazioni, non
credi? - ghignò Diego, facendogli l’occhietto. |