Il mito di Orione

 

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Figlio di Poseidone, il dio che agita il mare e lo placa, è Orione, il grande cacciatore. Egli dedica i suoi giorni alle fatiche della caccia, trovando piacere solo nell’inseguire le prede e nell’abbatterle. Non sacrifica all’aurea Afrodite, la dea che incendia i cuori: solo in onore di Artemide dalla freccia infallibile, la dea cacciatrice, egli immola pingui vittime. Pago della sua vita, il grande Orione percorre con lunghi passi la terra. Suoi amici sono i cacciatori e le creature dei boschi, con cui a volte unisce il suo corpo per saziare il desiderio della carne, non la brama del cuore. Conosce il desiderio, ma non l’amore.

Un giorno, inseguendo un cervo dallo splendido trofeo, egli incontra quattro uomini, maschi vigorosi che si uniscono a lui nella grande caccia. Per giorni e giorni essi braccano il superbo animale, che sempre riesce a sfuggire. Ma quando infine giungono nella pianura della Tessaglia, fertile di campi coltivati, la lancia di Orione abbatte la magnifica preda: non manca il bersaglio l’arma del divino cacciatore. Dopo aver sacrificato alla divina Artemide, Orione offre le carni ai compagni di caccia. Si spogliano gli uomini ed imbandiscono un banchetto, in una radura. Distesi intorno al fuoco, su pelli di animali, essi narrano antiche storie, mentre le carni della vittima rosolano. E dopo essersi nutriti, ormai sazi di cibo e bevande, essi rimangono distesi intorno al fuoco che si spegne. I compagni ammirano la bellezza del divino Orione e il desiderio riempie i loro cuori. Quando il sacro carro del Sole scende oltre i monti e la notte copre con il suo manto lucente il cielo, i cacciatori offrono i loro corpi al possente Orione ed essi giacciono insieme, nei dolci giochi d’amore, fino al mattino.

Quando Aurora dalle dita di rosa esce dal mare per illuminare il cielo a Oriente, essi sciolgono i loro abbracci, sazi di una notte che non scorderanno. Prima di lasciarsi, parlano ancora davanti al fuoco che nuovamente arde. I compagni narrano a Orione che nella bella Chio, dove regna Enopione, belve feroci fanno strage degli armenti e dei pastori. Coloro che hanno cercato di ucciderle, hanno perso la loro vita e più nessuno osa affrontarle. Il re ha promesso una grande ricompensa per chi abbatterà le belve che infestano il suo regno. Poco si cura della ricompensa Orione, ma bello gli sembra liberare l’isola dal flagello. Perciò, salutati gli amici, Orione raggiunge la costa e si dirige a Chio, gemma splendente nel mare Egeo. Non si imbarca su una nave dalla solida chiglia, perché il padre divino gli concesse di camminare sulle acque così come si muove sulla terra. E quando un navigante avvista la figura che si muove sulla placida distesa del mare, grande stupore riempie il suo cuore e chiama i compagni ad ammirare il prodigio.

A passo veloce raggiunge la città il grande cacciatore e si presenta alla reggia. Siede sul trono di bronzo Enopione, il possente, e nel vederlo il cuore di Orione si turba, agitato da un sentimento nuovo. Uguale turbamento prova il re, che con calore accoglie il cacciatore, ma non vorrebbe vederlo partire per la gloriosa impresa a cui si appresta. Teme per la vita di colui che da poco conosce, perché già arde il suo cuore.

Nulla può trattenere Orione, che freme per affrontare le belve, e il desiderio che è in lui si è acceso per Enopione, nobile d’aspetto, lo spinge a non frapporre indugi ed a lanciarsi subito nell’opera improba: il divino cacciatore vuole tornare vittorioso e gettare ai piedi di Enopione le prede, sperando di suscitare nel cuore del re un desiderio pari al suo. Non sa, Orione, che già il cuore del re arde e che vorrebbe trattenerlo perché ha timore che le belve mettano fine ai suoi giorni e facciano orrendo strazio delle sue carni.

Nulla può fermare l’arciere infallibile ed egli si muove rapido verso gli oscuri boschi dell’isola. Un feroce leone si avventa contro di lui, per dargli atroce morte, ma la lancia che gli trafigge la gola spegne la sua vita. Sul fianco della montagna si muove cauto un branco di lupi, dalle zanne aguzze. Uno dopo l’altro li abbattono le frecce di Orione, che senza mai sbagliare bersaglio fanno strage orrenda delle belve.

Instancabile l’eroe percorre i boschi e ogni volta che una belva lo assale o cerca invece di sfuggirgli, la sua lancia o le sue frecce ne spengono la vita.

Con preda immensa ritorna a valle il cacciatore divino, mentre gran folla di contadini e pastori lo accoglie festante, cantando le sue lodi.

Non indugia, il divino Orione, e rapido si dirige verso la reggia, dove sta colui che in cuore desidera. Le spoglie della caccia depone ai piedi del re. Le ammira Enopione e chiede quale ricompensa vuole il grande cacciatore, perché tutto gli darà, dovesse egli chiedere la mano di sua figlia o metà del regno. Non a questo ambisce Orione, ma non sa come formulare il suo desiderio. Infine questo gli pare meglio, invitare il re a cacciare con lui e poi, nel folto dei boschi, immergersi insieme in un torrente, di quelli che scendono ricchi d’acqua dai monti: qui, se il re vorrà, i loro corpi percorreranno insieme la via che conduce al piacere. Perciò queste parole rivolge al re di Chio:

- Solo questo ti chiedo, mio re, di venire a caccia con me nei boschi della tua isola fiorente.

Accetta senza esitare Enopione, in cuore desiderando di rimanere solo con il divino cacciatore.

Il giorno seguente, prima che il carro del Sole si levi in cielo, partono il re e il cacciatore divino, con un seguito. Ai piedi dei monti, essi lasciano i servitori e soli salgono lungo le pendici scoscese. Non vi sono più lupi famelici e leoni feroci, ma i cani stanano un magnifico cinghiale, preda degna di una grande caccia. Potrebbe abbatterlo senza fatica, il divino Orione, ma lascia che sia il re a scagliare la lancia ed a colpire l’animale. Il verro, cui la ferita non ha tolto la forza, ma ha accresciuto la furia, si rivolta contro colui che l’ha colpito ed orrendo strazio farebbe delle carni del re, se la lancia di Orione non l’abbattesse.

- Hai liberato il mio regno dalle belve feroci e hai salvato la mia vita. Grazie, Orione.

Nulla dice Orione, ma si carica sulle spalle lo splendido animale e insieme al re scende verso la città. Ma quando giungono adun torrente, Orione si rivolge al re:

- Sovrano possente, caldo è il giorno, alto è il sole in cielo. Perché non ci bagniamo, per rinfrescare le nostre stanche membra, e non rimaniamo un po’ qui, presso quest’acqua cristallina?

Ben volentieri accetta la proposta, il re. Nel suo cuore c’è lo stesso desiderio che brucia in Orione e nella sua mente un identico pensiero. E quando hanno deposto le vesti della caccia e sono nudi entrambi, si immergono nell’acqua, detergono il sudore e poi escono. Ma ora, che sono uno di fronte all’altro, i loro corpi nudi, uno stesso pensiero li guida ad avvicinarsi. Ognuno dei due sfiora il corpo che gli si offre, le sue mani lo accarezzano, lo stringono, poi le bocche si uniscono, il desiderio preme impetuoso, come un fiume che invano gli uomini hanno cercato di domare: a lungo la corrente è stata bloccata da una diga costruita per difendere i campi dalle piene, ma quando infine la forza dell’acqua riesce ad aprirsi un varco, essa distrugge ogni resistenza, travolge tutto ciò che trova ed allaga la pianura, sommergendola. Così il desiderio che li guida non ha freni e più e più volte i loro corpi si congiungono e le loro mani, le loro bocche, i loro fianchi gridano un piacere che non hanno mai provato così intenso.

 

Lunghi e felici sono i giorni che Orione trascorre presso il re. Identico amore arde nei loro cuori e ogni notte si congiungono i loro corpi.

Ma un giorno Orione vede Astiano, figlio di Menolpo, entrare nella sala. Guarda i capelli neri come l’ebano, gli occhi scuri, le guance che si velano della prima barba, le labbra come corallo e dice ad Enopione, che gli siede a fianco:

- Bello è quel giovane.

All’udire le parole di Orione, nel cuore di Enopione ardono rabbia e gelosia. Esse divampano senza freni, come quando un tizzone viene lanciato in un pagliaio in un meriggio caldo d’agosto. Subito si accende un fuoco devastatore, che nulla può fermare, e le fiamme crescono e tutto distruggono. Così in Enopione cresce a dismisura la furia gelosa e già gli pare che il tradimento sia consumato, quando Orione ormai ad altro ha volto i suoi pensieri e del giovane di certo più non si cura: troppo saldo è il suo cuore.

Ma ormai folle è Enopione, troppo forte il desiderio che prova per l’uomo con cui divide il giaciglio. Egli odia gli occhi dell’uomo che ama, perché vedono altri uomini. Quando giunge la notte, i loro corpi si stringono in un nuovo abbraccio, ma al re pare che un serpente feroce si nutra del suo cuore.

Dorme infine Orione, spossato e sereno, nulla sospettando dell’orrore che lo attende. Enopione si alza in silenzio e prepara un succo malefico, che brucerà gli occhi del grande cacciatore e lo renderà cieco per sempre. Guarda l’eroe che dorme il suo sonno sereno, sul corpo ancora umide le tracce del loro amore. Esita Enopione, ma poi la gelosia guida la sua mano ed egli versa il liquido fatale sugli occhi del dormiente.

Bruciano gli occhi di Orione ed egli si alza gridando e invoca l’aiuto e il conforto del suo carnefice, non sospettando che colui che ama gli abbia fatto un tale dono di morte. Ma gli svelano la verità le parole di Enopione:

- Non guarderai altri uomini, mai più.

L’orrore riempie il cuore del grande cacciatore. Fugge Orione, brancolando cieco, non si cura di dirupi o rocce, di serpenti o nemici. La morte vorrebbe, perché il dolore per il tradimento dell’amico è ben maggiore della sofferenza per la vista perduta.

Corre gridando Orione e spesso cade e si rialza e si lamenta lo sventurato, non della cecità, ma della crudeltà di colui che era suo amico e amante. Al padre divino, il dio che agita il mare e lo placa, si rivolge per chiedergli di dargli la morte, che ormai brama.

Non si pente di quanto ha fatto Enopione, in cuore ancora acceso d’ira, e dice a chi gli chiede i motivi del suo gesto, che Orione cercava di sedurgli la figlia. Menzogne, ma esse vengono credute e la fuga disperata del cacciatore divino pare a molti la prova di un misfatto che mai avvenne.

E intanto fugge Orione, fugge lontano, per giorni e giorni, preda del dolore che gli brucia gli occhi e il cuore. Giunge al mare e il dio che gli è padre calma le onde, perché il figlio possa correre sulla superficie senza incespicare. E fugge, il divino cacciatore, fugge, ma il dolore lo accompagna ogni giorno, ogni notte, quando si stende, sfinito, quando corre.

Il dio che gli è padre guida i suoi passi verso la costa della fertile Italia. Qui, stanco di tanto correre, il corpo sporco di terra e sangue, Orione si abbandona al suolo, ancora scosso dai singhiozzi.

- Che ti succede, straniero?

Compassionevole è la voce che giunge alle sue orecchie.

- Un uomo che amavo mi ha privato della vista, versandomi un veleno negli occhi: di certo gli dei mi hanno in odio.

L’uomo pone una mano sulla spalla di Orione.

- Quale crimine hai compiuto, sciagurato, perché una punizione così terribile ti colpisse?

- Nessuno! Il Sole che io non potrò più vedere mi è testimone: mai dal cielo il dio possente che guida il carro di fuoco mi vide commettere un’azione nefanda. E sua sorella, la Luna, che percorre il cielo la notte, tra le costellazioni, potrà dire la stessa cosa. Nessuna colpa ho. Ho dedicato la mia vita alla caccia, mai facendo violenza ad alcuno, rispettando i patti e onorando gli dei. Un dio è mio padre, ma non mi ha protetto, anche se il mio cuore era puro. Solo una gelosia senza motivo spinse colui che amavo a ripagare così il mio amore.

- Se è così, straniero, forse gli dei ti condussero a me. Io ti porterò nella fucina del gran fabbro, il divino Efesto, che doma il fuoco e i metalli. E se egli vorrà, saprà indicarti come guarire. Grande è il suo potere.

Una speranza si accende nel cuore di Orione. Potrà davvero ritrovare la vista?

- Non mi inganni, straniero gentile?

- No, ti guiderò. Tu appoggia la mano sulla mia spalla ed io ti condurrò al porto. Di lì una nave ci porterà vicino alla nostra meta, ma soli e a piedi dovremo percorrere l’ultimo tratto.

Potrebbe camminare sul mare, Orione, ma non così il suo generoso compagno. Essi perciò si imbarcano su una nave dallo scafo robusto, che solca le acque profonde. E placida è la distesa dei flutti, perché il dio Poseidone veglia sul figlio sofferente. Senza ostacoli giungono Orione e la sua guida all’immenso vulcano, sacra dimora del dio che forgia i metalli, il grande Efesto.

La guida accompagna Orione per l’ultimo tratto e poi gli dice:

- Non mi è concesso proseguire, Orione. Tu sei di origine divina, ma io sono mortale. Davanti a te è una porta. Bussa tre volte e di’ il tuo nome. Il dio artefice ti accoglierà nella sua dimora.

Orione percuote con la mano la bella porta dai battenti di bronzo, che il divino Efesto fabbricò. Non può vederla, il cacciatore, ciechi sono i suoi occhi, ma cupo risuona il metallo percosso. Al ciclope che apre la porta e minaccioso chiede chi mai osa presentarsi alla dimora di un dio, senza essere invitato, risponde il divino Orione:

- Sono Orione, figlio di Poseidone, che agita le acque. Ho perso la vista e so che il dio Efesto, nipote del mio grande padre, può ridarmela. Per questo sono venuto a bussare, chiedendo pietà per la mia sofferenza.

Non nega l’ingresso al grande cacciatore, il ciclope possente: sono entrambi di stirpe divina. Lo accompagna nella fucina del grande Efesto, dove le abili mani del dio creano nuove meraviglie.

Vede giungere il cacciatore, il dio che forgia i metalli. Bello è Orione, anche se gli occhi sono spenti, e una fiamma si accende nel cuore di Efesto. Ma non dice nulla di ciò che prova, il dio. Si rivolge al cacciatore e gli chiede:

- Perché mai vieni da me, tu che sei figlio del possente fratello del mio divino padre? Mai non ti vidi prima, Orione.

- Cieco sono diventato, grande Efesto, senza mia colpa. Uno straniero mi condusse fin qui, dicendomi che tu sai come posso guarire.

Guarda Orione, il dio artefice, e sente che la fiamma divampa nel suo cuore, ma cela il suo desiderio. Guarirà quest’uomo, figlio di un dio, e lascerà che vada per la sua strada.

- I raggi del Sole nascente ti risaneranno, Orione. Io ti darò una guida che ti condurrà a incontrarlo.

- Grazie, dio possente.

Efesto fa chiamare Cedalione, colui che gli insegnò l’arte divina di forgiare i metalli, e gli ingiunge di accompagnare Orione incontro al Sole nascente.

- Come potrò accompagnarlo, grande Efesto? L’infame vecchiaia rallenta i miei passi.

A lui si rivolge allora Orione:

- Sulle mie spalle ti porterò, guida divina, in modo che tu non debba affaticare le tue gambe.

Si china Orione ed il vecchio gli sale sulla schiena.

Efesto guarda allontanarsi il grande cacciatore. Turbato è il suo cuore.

A lungo cammina Orione, portando sulle spalle il vecchio che gli indica la strada. Ed al termine della terza notte, egli si siede sulla riva del mare, il viso rivolto verso il cielo, là dove Aurora dalle dita di rosa accende l’orizzonte. E quando il dio che guida il carro del Sole lascia le sue case dalle porte bronzee, i raggi illuminano il viso di Orione ed egli può vedere attraverso le palpebre abbassate la gran luce del giorno che nasce: il dio ha risanato gli occhi bruciati.

Solleva le palpebre Orione e guarda davanti a sé, mentre il cuore gli si riempie di gioia.

Orione si inchina davanti all’astro fulgente e innalza una preghiera di ringraziamento al Sole ed a tutti gli dei. Poi si fa dare un arco da un cacciatore e abbatte una magnifica preda, un cervo dalle lunghe corna, che offre in sacrificio agli abitanti dell’Olimpo.

Quando il fuoco ha divorato la sua offerta, nuovamente si carica sulle spalle Cedalione e lo riporta alla dimora del dio artefice, il possente Efesto. E da lui vuole recarsi, per ringraziarlo della guarigione.

Lo lascia passare il ciclope di guardia alla porta.

Efesto lavora nella fucina. Non sa che è giunto Orione, a cui il pensiero spesso è tornato in questi giorni. Improvvisamente gli appare il cacciatore divino, in tutta la sua fulgida bellezza, lo splendido corpo, i capelli d’oro, gli occhi risanati in cui brilla l’azzurro del mare. E ben consapevole è il dio del proprio corpo sgraziato, coperto da un vello fitto; delle gambe deformi, su cui zoppica; del viso senza bellezza, su cui scende il sudore. Efesto sa bene di non essere né il giovane Apollo, dai bei riccioli, né il fulgente Dioniso. Desidera il cacciatore che è di fronte a lui, ma è certo che mai potrebbe suscitare in quell’uomo un’uguale bramosia.

Di identico desiderio arde Orione, quel corpo forte accende la sua brama, ma sa che quello che ora è di fronte a lui è un dio possente, è Efesto, colui che doma il fuoco e i metalli. Figlio di un dio è Orione, ma non dio, non immortale, anche se la sua vita è assai più lunga di quella degli umani. Non osa manifestare ciò che cela il suo cuore.

Muti si guardano, il divino cacciatore e l’artefice immortale.

E l’uno e l’altro tacerebbero il desiderio che arde dentro di loro, ma sono entrambi maschi vigorosi e i loro corpi gridano la brama che ora li accende. Nudo è il dio che sa fabbricare ogni strumento e lavorare ogni materiale, nudo è il divino cacciatore. E il dio ed il cacciatore vedono nel corpo dell’altro il fuoco che li consuma, riflesso come in uno specchio.

Muove un passo in avanti, il dio Efesto, ancora incredulo, e un passo muove il grande cacciatore, Orione. Tende la mano il dio Efesto ed Orione stringe quella mano, la accarezza. E poi il desiderio solo è la loro guida ed ebbri di gioia essi si stendono. Il fuoco che arde nella fucina non è più forte di quello che brucia i loro petti e che continua ad ardere, insaziabile, dopo che più e più volte essi hanno raggiunto il piacere.

E quando infine il sonno scende su di loro, li trova abbracciati, in una stretta che si scioglierà solo al loro risveglio, per rinnovarsi ancora.

Da allora Orione vive accanto al dio che doma i metalli. Spesso durante il giorno va a cacciare, ma al ritorno stringe il dio in un abbraccio e mai si saziano i loro corpi: sempre si rinnova il desiderio.

Passano mesi e anni. Mai ha conosciuto tanta felicità il dio Efesto, mai è stato amato con tanta passione. E Orione, nonostante la sua bellezza, sa che nessuno lo ha mai amato come il dio. Vivono appagati uno dell’altro, l’uno accanto all’altro.

 

Un giorno Orione, inseguendo un cinghiale, molto si allontana dalla sua dimora. Stanco della lunga corsa, lordo del sangue della preda, egli vede una pozza d’acqua alimentata da un getto che esce dalla roccia. Bello è il luogo e felice egli si bagna nella fonte e rinfresca le stanche membra nella frescura dell’acqua che sgorga e scorre. Non sa che sacra alla dea cacciatrice, la grande Artemide, è la fonte. Si bagna e il suo pensiero va al dio con cui divide il letto, il dio che accende in lui il desiderio ed il suo sesso vigoroso si riempie di sangue e si erge, possente.

E quando giunge la dea, stanca delle fatiche della caccia, per rinfrescarsi e bagnarsi nella pozza, vede lo splendido corpo di un maschio vigoroso.

Subito si accende di furia il cuore della dea vergine, per la fonte violata. Essa rapida sceglie una freccia, tende l’arco e scaglia il dardo mortale. Non sbaglia la dea, Artemide cacciatrice, né potrebbe. Trafigge il cuore di Orione la freccia fatale e il grande cacciatore sente la morte ghermirlo. Grida un nome, il nome dell’amato, e crolla a terra, senza più vita.

Sente il grido il dio, per quanto molto lontano. Più forte del battere dei martelli sulle incudini risuona la voce di Orione, perché solo essa giunge al cuore del dio. Efesto si ferma e gli sembra che la notte oscura avvolga il mondo, che l’aria divenga irrespirabile, che il cuore gli si schianti in petto. Perché la voce dell’amato era una voce di morte.

Corre Efesto e anche se zoppica si muove veloce come il vento, ma la vita ha ormai lasciato colui che il dio ama ed è tardi per coglierne l’ultimo respiro. Il dio stringe tra le braccia un corpo inerte, che le sue carezze e i suoi baci non bastano a destare.

Efesto grida il suo dolore, maledice gli dei tutti, il mondo intero. Per la prima volta ha davvero amato e breve è stata la sua felicità. Sconfinata è la sua sofferenza e il dio vorrebbe rinunciare alla sua natura divina, perché desidera la morte.

 

Zeus, mosso a pietà dal dolore di Efesto, decide di accogliere Orione in cielo: egli diviene una costellazione, luminosa nella notte. Grande è l’onore, ma ben altro desidera il cuore di Efesto, che ogni notte rimane a guardare le stelle fino a che le lacrime non gli offuscano la vista. Non trova pace il dio che forgia i metalli. Tacciono i martelli nella sua officina, giacciono immoti i ciclopi che forgiavano i fulmini di Zeus, nessuna delle opere intraprese viene più proseguita.

Invano gli dei gli chiedono ciò di cui hanno bisogno.

Invano Iride, la divina messaggera degli dei, invita Efesto a riprendere il lavoro. Invano Ermes, il dio alato, scende da lui e lo minaccia, perché terribile è la collera di Zeus.

Nulla più teme il dio, perché tutto ciò a cui teneva gli è stato tolto.

E infine Zeus concede quanto il cuore di Efesto brama. Ogni notte, quando la costellazione di Orione si immerge nei lavacri dell’oceano, il divino cacciatore riprende la sua forma umana, ma ormai immortale. Egli ritorna sulla terra, in quella che nuovamente è la sua dimora, dove lo attende il dio che forgia i metalli. E qui essi consumano il loro amore.

Solo quando la notte avvolge nuovamente il mondo con il suo manto lucente, solo allora Orione ritorna in cielo, lasciando le braccia impazienti del suo divino amante. Ma Efesto non soffre più: ammira nella notte lo splendore del divino Orione, come di giorno ne ammira la bellezza, e attende sereno il mattino, che gli restituirà il cacciatore immortale.

 

2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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