Questione di pelo

 

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Il tizio è una specie di scimpanzé. Le braccia sono sproporzionate, troppo lunghe, e coperte da una peluria fitta e scura. Ha l’andatura di chi è sceso dall’albero da poco e su due zampe si muove ancora incerto. La faccia ha la mandibola sporgente e l’espressione non è precisamente sveglia.

Donato dà di gomito a Giovanni e dice:

- Ad Ezio quello piace di sicuro: è peloso come una scimmia.

Andrea interviene:

- È vero che una volta allo zoo ha cercato di entrare nella gabbia del gorilla per farselo?

Io li guardo con un’espressione di compatimento e non replico.

Gli amici mi pigliano sempre per il culo perché mi piace il pelo. Non è che mi piacciano solo i maschi pelosi: in realtà le due storie davvero importanti della mia vita le ho avute con uomini dalla pelliccia alquanto scarsa (almeno per i miei gusti; qualcun altro potrebbe avere un’idea diversa). Però è vero che per me il pelo è un valore aggiunto e che un uomo, per altri aspetti non particolarmente interessante, può comunque piacermi se è piuttosto villoso.

Non ho mai raccontato agli amici qual è l’origine di questa mia passione, ma la conosco molto bene. Devo andare indietro nel tempo, agli anni dell’adolescenza, al mio primo rapporto.

 

Dopo la separazione dei miei, tutte le estati trascorrevo qualche settimana con mio padre, di solito ad agosto. Andavamo in giro in auto, in Italia o in altri stati europei: mio padre ha sempre amato viaggiare e quando divenni maggiorenne mi portò anche in altri continenti. Ancora oggi, che ha superato da un pezzo i sessanta, viaggia spesso e due anni fa mi ha trascinato in Australia (pagandomi il viaggio), con la scusa che aveva bisogno di un autista (poi ha guidato quasi sempre lui, dicendo che con la guida sulla sinistra ero un disastro – solo perché una volta uscendo dal parcheggio di un bar ho preso la strada contromano).

Quell’anno però si era fratturato una gamba in montagna, per cui decise che avremmo passato la seconda metà di agosto in una località costiera dell’Abruzzo, dove i suoi genitori avevano una casa.

Mio padre camminava molto, nonostante la sua gamba ingessata, ma non veniva sulla spiaggia, dicendo che nelle sue condizioni sarebbe stato scomodo: avrebbe patito il caldo e si sarebbe sporcato l’ingessatura. In realtà mio padre non amava stare in spiaggia: per lui il mare era nuotare per ore ed ore, non crogiolarsi al sole. Aveva deciso di andare in Abruzzo solo per non costringermi a stare a casa sua, a Verona, dove temeva che mi sarei annoiato.

Io andavo al mare da solo, attraversando il bosco che separava la strada dalla spiaggia, e ci passavo lunghe ore nuotando. Non conoscevo nessuno, ma già il secondo giorno feci amicizia con alcuni ragazzi della mia età, con cui giocavamo a palla. Loro si conoscevano da tempo, ma mi inserii facilmente nel gruppo. Ci trovavamo in spiaggia, dove trascorrevamo buona parte della giornata, e poi la sera in piazza. Con mio padre godevo di una grande libertà: mi lasciava andare in giro per conto mio giorno e notte, ponendomi solo alcuni limiti. Avevo imparato tempo prima che quei pochi limiti andavano rispettati: su quello mio padre non scherzava.

Passavo buona parte del tempo gli amici. Come spesso avviene a quell’età, si parlava molto di sesso e tutti sostenevano di avere avuto grandi esperienze, a volta alludendovi soltanto, più spesso raccontando, con dovizia di particolari. Io partecipavo poco, ma ogni tanto davo il mio contributo, perché non mi credessero ancora vergine. Ovviamente non facevo mai riferimento al fatto che sapevo (o almeno intuivo) che mi piacevano gli uomini.

Tra gli amici di quell’estate c’era Luca, che aveva anche lui i genitori separati ed era in vacanza con il padre: la sua era una situazione abbastanza simile alla mia, ma non eravamo molto legati. Luca era un po’ ai margini del gruppo, pur conoscendo gli altri da anni, perché aveva un pessimo carattere: si lamentava sempre, si atteggiava a vittima, litigava facilmente e poi teneva il broncio in modo infantile.

Luca arrivava in spiaggia quasi sempre da solo. Un giorno però venne anche suo padre. Era un uomo sui quaranta-quarantacinque, non molto alto, con spalle larghe e un fisico robusto. Portava la barba corta. Il torace, il ventre, le braccia e le gambe erano ricoperti da una peluria molto fitta in alcune aree, meno in altre. Non era l’unico uomo villoso sulla spiaggia, ma di certo lo era più della media. Io comunque non badai molto a lui. Giocammo a palla, nuotammo, scherzammo, come al solito. Poi alcuni se ne andarono alle loro case, ma io, Luca e gli altri rimasti ci stendemmo sulla sabbia.

Il padre di Luca non era molto distante. Era seduto su una sdraio ed aveva una gamba piegata sull’altra, con la caviglia destra sul ginocchio sinistro. Indossava solo un paio di pantaloncini larghi. Noi chiacchieravamo, senza badargli. A un certo punto però, guardando nella sua direzione, mi resi conto che in quella posizione potevo vedere lungo la gamba fino sotto i pantaloncini. Non portava mutande e si vedeva chiaramente un grosso coglione peloso. 

Ammutolii di colpo, lasciando a mezzo la frase che stavo dicendo. A fatica distolsi lo sguardo, ma non appena fui sicuro che i miei amici non mi stavano guardando, tornai a fissare. Non si vedeva solo un coglione, anche la cappella sporgeva. Mi sentii avvampare.

Chiacchieravo e mi guardavo intorno, simulando indifferenza, ma lo sguardo ritornava sempre a dirigersi verso un punto preciso, finché Sandro se ne accorse.

- Che cazzo guardi?

Io mi sentii mancare.

- Niente, niente.

- Come, niente?

Si guardò un momento intorno, poi scoppiò in una risata.

- La signora popputa? Vergognati, Ezio, avrà cinquant’anni, quella.

Io ridacchiai, sollevato all’idea che non avesse sospettato, e dissi qualche scemenza, del tipo:

- Se proprio mi pregasse, magari potrei anche… Solo perché sono buono.

La cosa finì lì.

 

Due giorni dopo Luca cadde mentre cercava di prendere una palla e si fece male al braccio. Luca temeva di esserselo rotto, per cui decise di tornare a casa, per farsi accompagnare dal padre al pronto soccorso. Aveva diverse cose da portare ed io mi offrii di accompagnarlo. Non lo facevo per simpatia o perché mi facesse compassione: conoscendolo, sospettavo che stesse esagerando il dolore che provava, perché era sempre pronto a fare la vittima. Lo accompagnai per un unico motivo: speravo di rivedere suo padre, a cui avevo pensato più volte in quei due giorni.

Luca abitava ai margini della cittadina, non lontano dalla spiaggia. Quando fummo davanti alla porta, Luca ebbe un sorriso imbarazzato e disse:

- È meglio che entri solo io. Non so com’è mio padre…

Io non capivo e lo guardai con aria interrogativa. Lui disse sottovoce:

- Mio padre è un porco.

Rise, una risatina nervosa. Poi aggiunse:

- Gira nudo per la casa, va al cesso senza chiudere la porta. Controllo che sia presentabile.

L’idea di vedere il padre di Luca nudo mi tolse il fiato. Stavo cercando le parole per dirgli che non aveva importanza (ne aveva, eccome!, ma in un senso opposto a quello che intendeva lui), quando Luca aprì la porta, proprio mentre  suo padre, che aveva sentito la voce del figlio, stava arrivando. Ce lo trovammo davanti di colpo, in costume adamitico.

Internet allora non c’era, in palestra non andavo e non avevo certo molte occasioni di vedere uomini nudi: solo mio padre, più che altro in viaggio.

Ora avevo davanti a me, senza nessun velo, un maschio vigoroso, che si stava grattando i coglioni, ma smise di farlo vedendomi.

Io avevo la gola secca, Luca era fortemente imbarazzato, ma suo padre era perfettamente tranquillo.

- Entrate. Come mai così presto, Luca? Hai dimenticato qualche cosa?

- No, mi sono fatto male al braccio. Ezio mi ha aiutato a portare le mie cose.

- Fa’ vedere.

Poi si rivolse a me:

- Entra pure, Ezio.

Prese il braccio di Luca e si mise a esaminarlo. Lo mosse un po’, facendo sussultare Luca: non doveva essere molto delicato o forse Luca esagerava nel lamentarsi, come sempre.

Pareva essersi dimenticato del tutto della mia presenza. Io lo osservavo, per non dire che lo divoravo con gli occhi. Spesso il mio sguardo scendeva al cazzo e ai coglioni. Mi accorsi che mi stava diventando duro e la faccenda era imbarazzante, avendo io addosso solo il costume da bagno. Mi nascondevo tenendo davanti al costume la spugna di Luca. Alla fine dell’esame il padre di Luca sentenziò:

- Non è mica rotto.

Luca piagnucolò.

- Ma mi fa male!

- Che palle! Va bene, andiamo al Pronto Soccorso. Riesci sempre a farmi perdere tempo.

Poi il padre di Luca si rivolse a me:

- Posa pure quella roba. Lasciala a terra. Io vado a vestirmi.

Si voltò e si diresse verso la sua stanza. Guardai il suo culo, muscoloso e peloso. Deglutii.

La voce di Luca, appena un sussurro, mi riscosse:

- Te l’avevo detto che era un porco!

Lo guardai. Era in imbarazzo.

Scossi le spalle e finsi una risata.

- Ma dai, che importanza ha? Siamo tutti maschi, no? Adesso vado.

Luca mi ringraziò. Stavo per uscire, quando suo padre ritornò, purtroppo vestito. Salutai tutti e due e scappai via. Non tornai subito in spiaggia. Mi fermai nel bosco, in una macchia. Chiusi gli occhi. Rivedevo il padre di Luca in ogni dettaglio e la tensione saliva. Dovetti usare la destra per tenerla sotto controllo.

 

Nel primo pomeriggio decisi che sarei andato a chiedere notizie di Luca, che non era ritornato in spiaggia. Sapevo benissimo che l’unica cosa che mi muoveva era la speranza di rivedere il padre di Luca nudo. Stavo per arrivare a casa sua, quando la porta si aprì e vidi Luca uscire, con il braccio fasciato. Merda!

L’idea mi attraversò la testa in un lampo. Mi nascosi tra i cespugli ed aspettai che Luca passasse. Attesi ancora dieci minuti, poi mi mossi. Raggiunsi la casa e suonai.

Il padre di Luca mi aprì, nudo come Dio l’aveva fatto, dicendomi:

- Hai dimenticato…

Si interruppe, vedendo che non ero Luca.

Sfoderai un sorriso (cercando di nascondere le sensazioni prepotenti che mi sommergevano) e mentii:

- Sono venuto a chiedere notizie di Luca.

Intanto me lo scannerizzavo con gli occhi, centimetro per centimetro, almeno fino a dove osavo abbassare lo sguardo.

- È appena uscito. Non vi siete incontrati? Avrà preso un’altra strada.

- Oh, peccato! Come sta?

- Bene, è solo una contusione. Però niente palla e niente nuoto per qualche giorno.

La conversazione era finita. Altro non avevo da dire, anche se avrei dato qualsiasi cosa per prolungarla. Dissi ancora:

- Meno male. Certo che gli spiacerà.

Il padre di Luca scrollò le spalle. Poi, vedendomi lì fermo, come un idiota, mi disse:

- Se corri lo raggiungi. Io mi preparo perché devo uscire.

Io annuii, salutai e me ne andai. Ma non mi misi a correre dietro a Luca. Non me ne importava nulla.

Mi fermai al margine del bosco e rimasi lì, guardando la casa di Luca. Dopo un po’ vidi uscire suo padre. Pensai di seguirlo. Era un’idea assurda, lo sapevo, ma mi dissi che tanto non se ne sarebbe accorto e che in ogni caso, se mi avesse visto, avrei potuto dire che stavo tornando a casa: infatti si dirigeva verso il paese.

Lo seguii a una certa distanza. Erano le ore più calde del giorno e non c’era molta gente in giro. Ad un certo punto lo vidi svoltare ed infilarsi in un vicolo.

Avrei dovuto fermarmi, lo sapevo: nella stradina si sarebbe facilmente accorto che lo pedinavo ed io non avrei saputo che scusa inventare. Arrivai fino all’angolo e lanciai un’occhiata nel vicolo. Lo vidi entrare in una casa, guardandosi intorno. Non mi parve che si fosse accorto di me.

Mi fermai e mi diedi dell’imbecille: che cazzo credevo di fare, giocando a Sherlock Holmes? E come contavo di proseguire?

Svoltai nel vicolo, senza pensarci. Tanto era entrato e quindi non poteva vedermi. Mi diressi fino alla casa. La porta sulla strada era aperta. Non avrebbe avuto nessun senso entrare: avrei solo rischiato di incontrarlo per le scale, se fosse uscito subito. O magari mi sarei imbattuto in qualcuno degli inquilini. Eppure entrai e salii. C’erano due appartamenti per piano.

Arrivato al primo piano, ebbi di colpo paura. Scesi rapidamente, uscii e, senza guardarmi intorno, raggiunsi la strada principale. Mi diressi verso casa, ansimante.

Mio padre si stupì a vedermi arrivare a quell’ora. Era a torso nudo ed io lo guardai, improvvisamente confuso.

Dissi che faceva troppo caldo e mi ritirai in camera. Mio padre capì benissimo che qualche cosa non funzionava, ma mi lasciò in pace: a differenza di mia madre, sapeva essere discreto e non cercava di forzarmi a raccontargli tutto.

 

Tornai in spiaggia nel tardo pomeriggio. Raccontai a Luca che ero passato a chiedere sue notizie, ma suo padre mi aveva detto che era appena uscito. Tornando, accompagnai Luca a casa, con la scusa di portargli la spugna: non ce n’era nessun bisogno, ma in effetti passare da lui era per me una deviazione minima dal mio percorso.

Cercai di portare la conversazione sui nostri padri. Gli dissi che il mio lavorava all’ufficio del turismo di Verona e che aveva una donna in città. Non ne avevo mai parlato a nessuno, ma speravo di indurre Luca a ricambiare la confidenza.

In effetti Luca mi parlò di suo padre, che si chiamava Miklos: era greco, ma si era stabilito in Italia quando aveva diciott’anni. Io non avevo colto nessun accento straniero nelle sue parole, ma non è che avessimo parlato molto. Mi disse che i suoi si erano separati quando lui era molto piccolo e che vedeva suo padre di rado, quasi solo in estate, perché stava in un’altra città.

- Anche lui si sarà rifatto una vita.

Sapevo di essere un ficcanaso. Luca ridacchiò:

- Lo sai, l’hai visto. È un porco. Non ha una donna fissa, ma scopa tutti i giorni. Fino ad una settimana fa ne aveva una da cui andava il mattino ed una il pomeriggio. Adesso quella del mattino è partita. Veniva a casa. Lui non chiudeva nemmeno la porta della stanza. Nemmeno la porta di casa chiude, a volte. Se tornavo a casa li trovavo a scopare. È un porco, te l’ho detto.

Era quanto volevo sapere. Quando fummo quasi arrivati diedi a Luca la spugna e lo salutai.

 

Nei giorni seguenti ogni pomeriggio mi appostavo vicino al vicolo, confondendomi con la gente. Quando Miklos arrivava, aspettavo che scomparisse nella casa, poi ci entravo anch’io. Salivo le scale fino al terzo piano, poi scendevo, guardando le porte. Non sapevo quale fosse l’appartamento. Sapevo solo che dietro una di quelle porte Miklos stava scopando e al pensiero mi veniva duro.

Il quarto giorno una delle porte del primo piano era socchiusa. Rimasi fermo a fissarla. Miklos poteva essere lì dentro. Il desiderio di entrare era fortissimo, ma come avrei potuto giustificarmi, se dentro avessi incontrato qualcuno? Non avrei saputo spiegare nemmeno la mia stessa presenza davanti a quella porta socchiusa. Mi avrebbero preso per un ladro.

Stavo per allontanarmi, quando sentii una risata, forte. Mi parve di riconoscere la voce di Miklos, anche se non l’avevo mai sentito ridere. Rimasi fermo, impietrito.

In quel momento al piano di sopra una porta si aprì. Stavo per essere scoperto.

Rimasi un attimo paralizzato.

L’appartamento oltre la porta sembrava immerso nell’oscurità: nell’ingresso non doveva esserci nessuno. Mi dissi che avrei potuto aspettare dentro che lo sconosciuto scendesse e poi andare via.

Spinsi la porta, entrai e riaccostai. L’ingresso era buio: dalle porte delle due camere proveniva poca luce, perché le imposte dovevano essere chiuse, a difesa dal calore soffocante di quelle ore.

Da una delle camere venivano dei rumori: sospiri, gemiti e il cigolio di un letto.

Feci due passi verso la camera. Mi fermai. Sudavo, avevo le mani fredde e mi mancava il respiro. Mi sembrava di essere sul punto di svenire.

Arrivai quasi sulla soglia e sporsi la testa.

La camera era immersa nella penombra, ma potevo distinguere perfettamente il corpo di Miklos, disteso su quello di una donna. Il suo grosso culo si muoveva con un movimento a stantuffo, continuo. Dalla posizione in cui ero, il viso della donna era del tutto nascosto: di lei vedevo le gambe, con le ginocchia sollevate. Di Miklos vedevo la schiena e la testa. Se si fosse girato, avrebbe potuto vedermi. Non riuscivo a staccare gli occhi. Non riuscivo ad allontanarmi. Avevo la gola secca. Sentivo una tensione violentissima crescere nel ventre. La donna gemeva, Miklos ansimava ed io fissavo quel culo peloso che si muoveva ritmicamente. Infine lui emise una specie di grugnito, forte, poi un altro. Lei urlò. Lui spinse più forte, sempre grugnendo come un porco e lei urlò ancora. Poi lui si afflosciò su di lei. In quel momento mi sentii risucchiato in un vortice di piacere e venni anch’io.

Mi allontanai dalla porta. Uscii dall’appartamento. Sulle scale mi resi conto che avevo i pantaloni bagnati. Non avevo nulla per coprirmi. Mi sfilai la maglietta: erano in molti ad andare in giro a torso nudo, anche se io non lo facevo; mio padre lo considerava un segno di trasandatezza. Tenendo la maglia in mano, davanti ai pantaloni, mi diressi rapidamente a casa, ancora ansimante.

Mio padre era steso sul divano: in quelle ore molto calde preferiva non uscire. Mi vide arrivare sconvolto e questa volta mi chiese che cosa c’era. Era preoccupato. Dissi che non era niente e mi rifugiai in camera.

 

Mi ci volle parecchio tempo per riprendermi. Quel pomeriggio non andai in spiaggia. Mio padre bussò dopo due ore e si sedette sul bordo del letto. Era a torso nudo, come sempre in casa, e nuovamente vederlo mi turbò. L’immagine del padre di Luca era chiarissima nella mia mente.

- Che c’è, Ezio? Stai male?

- No, no! Non è niente.

- Ezio, è qualche giorno che sei un po’ strano. Qualche problema con gli amici? È successo qualche cosa in spiaggia?

- No, no. Non è niente.

- Ezio, non voglio costringerti a confidarti, ma se c’è qualche problema, parlarne può aiutare.

Io continuai a negare. Mi lasciò, senza insistere. Guardai la sua schiena mentre usciva dalla stanza.

 

Il giorno dopo ritornai al mio solito posto di osservazione. Miklos entrò nella casa ed io feci un breve giro, poi mi infilai nel vicolo e salii al primo piano. La porta era di nuovo socchiusa. Non si sentiva nessun rumore. Con il cuore in gola spinsi ed entrai. Appena fui dentro, la porta si richiuse di scatto ed io sussultai. Mi girai. Davanti a me, nella semioscurità, potevo vedere Miklos, con addosso solo i pantaloncini.

La sua voce era rabbiosa, ma bassa: non voleva che dagli altri appartamenti potessero sentirci:

- Adesso mi spieghi che cazzo vuoi, stronzo.

Lo guardai, cercando le parole, anche se sapevo che non c’era nessuna scusa che potevo inventare. Si avvicinò. Era a pochi centimetri da me. Sentivo il suo odore di sudore.

- Sono cinque giorni che mi segui, ieri mi hai spiato mentre scopavo. Che cazzo vuoi? Sei solo un fottuto guardone o vuoi provare anche tu?

Si era accorto che lo seguivo. Sapeva che lo avevo spiato ieri. Aveva lasciato la porta aperta apposta, probabilmente. Non riuscivo a parlare.

Mi mise una mano intorno al collo e per un attimo temetti che mi strangolasse.

- Adesso ti faccio provare, stronzo.

Mi afferrò per le spalle e mi spintonò, facendomi entrare nella camera da letto.

- Spogliati, stronzo.

Si calò i pantaloncini. Ce l’aveva duro. Era la prima volta che vedevo un cazzo duro. Lo guardai, senza parole.

Mi fu addosso, mi spogliò senza che riuscissi ad oppormi, senza che ci provassi. Mi sbatté sul letto, a pancia in giù. Mi allargò le gambe.

- Adesso te lo faccio assaggiare, questo cazzo, perché è quello che vuoi.

Voltai la testa a guardarlo. Era di fianco al letto, il grosso cazzo duro teso in avanti. Mi sembrò che la stanza ruotasse. Non riuscii a dire nulla.

Salì sul letto. Mi sputò sul buco del culo. Passò due dita intorno all’apertura. Sputò di nuovo. Poi avvicinò la bocca e sentii la carezza umida della sua lingua. Sussultai.

Dissi:

- No!

Ma non badò a me.

La paura cresceva, diventava terrore. Cercai di sollevarmi, ma si gettò su di me, forzandomi a stendermi di nuovo.

- Piantala, troia, era questo che volevi.

- No, no!

La sua mano mi tappò la bocca: dovevo aver urlato.

Non volevo, non volevo che mi prendesse. Avevo paura. Mi divincolai, ma lui era molto più forte di me.

Sentii la pressione del suo cazzo contro il buco. Mi tesi. Miklos avvertì il mio terrore. Mi disse, con un tono meno duro:

- Calmati!

Io cercai ancora di divincolarmi.

Lui mi ripeté, più dolcemente:

- Calmati, non devi aver paura.

Io ansimavo. Tolse la mano che mi tappava la bocca.

- È la prima volta, vero?

Annuii, ancora incapace di parlare.

- Ti farà un po’ male, ma ti piacerà.

Si sollevò, tirandosi indietro e nuovamente sentii la sua lingua che accarezzava il buco e poi risaliva lungo il culo. Si muoveva con sicurezza. Lentamente il terrore che si era impadronito di me si attenuò ed il mio corpo si rilassò. La carezza della sua lingua era piacevole ed avvertii il desiderio risvegliarsi dentro di me. Il sangue affluiva al mio cazzo. Ebbi un gemito, di piacere.

- Vedi, troietta, che è bello?

Sussultai. Avevo ancora paura.

Lui continuò a leccare con cura, poi si distese su di me. Sentii la sua lingua dietro l’orecchio ed ebbi un guizzo. In quel preciso momento entrò dentro di me.

Emisi un gemito.

- Tranquillo. Adesso ti abitui.

Mi faceva male, non poco, ma in effetti il dolore si attenuò.

Dopo un momento si spinse più avanti. Gemetti di nuovo.

- Rilassati.

Respirai a fondo e lui si spinse ancora più avanti. Chiusi gli occhi e mi morsi le labbra. Faceva male, troppo male. Ma sapevo che non avrei potuto fermarlo.

Attese un attimo, poi arretrò e prese a muoversi avanti e indietro.

Il dolore crebbe. Chiusi gli occhi. Mormorai ancora:

- No, no…

Ma ormai non aveva più senso. Mi abbandonai completamente. Lasciai che continuasse a spingere. Il dolore era forte, ma mi ci stavo abituando, come aveva detto lui.

Mi sembrava che nella testa ci fosse solo un immenso vuoto.

Dopo aver spinto a lungo, venne e si lasciò andare sul mio corpo.

- Hai un bel culo, troietta.

Poi si ritrasse, si girò sulla schiena e si stese di fianco a me. Dopo un momento sentii il suo respiro farsi pesante: si era addormentato.

Lentamente riemersi dal torpore in cui ero sprofondato. Mi voltai su un fianco e lo guardai. Dormiva tranquillo, la bocca socchiusa. Guardai il torace sollevarsi e abbassarsi. Poi il mio sguardo scese fino al cazzo, non più rigido, ma ancora gonfio di sangue. Lo fissavo, incapace di scuotermi. Mi aveva preso, con la forza, senza curarsi di quello che volevo. Avrei dovuto odiarlo, ma non sentivo nulla dentro di me.

Mi passai una mano sul viso e solo in quel momento mi accorsi che avevo pianto.

Questo era il sesso? Ciò che avevo desiderato sperimentare, che avevo a lungo sognato?

Mi sentii invadere da un profondo senso di scoramento. Non avevo provato piacere, nessuno. Mi era venuto duro solo per un momento, poi il dolore era stato più forte di tutto. Non era stato terribile, ma di certo non era stata una bella esperienza.

Avrei dovuto alzarmi ed andarmene. Ma fissavo affascinato quel cazzo che avevo sentito in culo. Lui aveva goduto. Avevo in culo il suo sborro.

Non riuscivo a staccare lo sguardo da quell’uomo che mi aveva preso, che mi aveva usato per il suo piacere. Oscuramente sentivo che qualche cosa mi legava a lui.

Sentii lo stimolo a espellere il liquido che avevo dentro. Mi alzai, cercando di non svegliarlo e raggiunsi il cesso.

Quando uscii dal bagno, lui era davanti alla porta, sorridente.

- Pronto per il secondo giro?

Rise, vedendo la mia faccia.

Mi spinse contro il muro e mi baciò. Era la prima volta che un uomo mi baciava. Al liceo mi era capitato qualche volta di baciare una compagna: non volevo che mi accusassero di essere un finocchio. Avevo anche avuto una ragazza, per qualche mese. Non che avessi combinato molto, comunque. E quei baci, quegli abbracci non avevano suscitato nessuna emozione in me. 

Il bacio di Miklos mi tolse il fiato: non provai piacere, ma mi sembrò che le gambe non mi sostenessero più.

Il bacio durò poco: Miklos era più interessato ad altro. Mi afferrò, mi sollevò senza sforzo, anche se io non ero certo piccolo ed ero abbastanza muscoloso. Mi mise sulla sua spalla destra, come un bambino, e ridendo, mi riportò in camera. Mi scaricò sul letto e si sedette di fianco a me. Mi accarezzò e le sue mani mi trasmisero un brivido.

Poi si stese di fianco a me, mi prese la testa e la guidò fino al suo cazzo.

- Succhia, datti da fare.

Le sue dita mi stringevano i capelli ed io non potevo allontanare la testa. Mi trovai il suo cazzo sulla bocca.

- E muoviti, stronzo! È buono!

Rise.

Aprii la bocca e mossi la lingua. Leccai la cappella. Era una sensazione del tutto nuova, che mi piacque, molto. Passai più volte la lingua sulla pelle e poi lo inghiottii. Era bello sentire il suo grosso cazzo, ormai perfettamente duro, riempirmi la bocca, mi trasmetteva una sensazione di piacere.

Lui mi incoraggiava, ridendo, ed io mi davo da fare. Di certo non ero esperto e in alcuni momenti lo feci sussultare. Ma Miklos non se ne preoccupò.

- Avanti, troietta, avanti. Succhia ‘sto cazzo, è buono…

Sentivo nella sua voce la tensione salire.

Non mi avvertì quando fu sul punto di venire. Lo sentii solo grugnire nuovamente e mi ritrovai il suo seme in bocca. Cercai di liberare la testa, ma la sua mano mi impediva di sollevarla. Inghiottii.

- Buono, eh?

Rise ancora, senza togliere la mano.

Io ero frastornato. Gli leccai ancora il cazzo, ripulendolo, ma lui sussultò e mi allontanò la testa.

- Non sei ancora venuto? Diamoci da fare.

Si stese sulla schiena, mi mise su di lui. Era bello sentire il calore del suo corpo sotto il mio, il suo cazzo ancora duro tra le mie natiche. Mi afferrò il cazzo e incominciò a stuzzicarlo. Il mio corpo reagì immediatamente. Intanto Miklos mi mise l’altra mano sotto il culo e incominciò ad accarezzare con l’indice il buco. Poi, lentamente, introdusse il dito, fino in fondo. Il culo mi faceva ancora male, ma la sensazione era piacevole. E la mano che lavorava il mio cazzo sembrava sapere quello che faceva. Incominciai a gemere, di puro piacere.

- Non così forte, troietta!

Cercai di controllarmi, ma la sua mano mi trasmetteva sensazioni fortissime e quando venni, in un delirio di piacere, urlai. Lui mi tappò la bocca, abbandonando il cazzo, che ormai non aveva più bisogno di aiuto.

Non avevo mai goduto tanto e mi sentivo appagato.

Miklos mi tenne tra le sue braccia per qualche minuto, poi disse che doveva andare. Aggiunse che potevo rimanere nella casa ancora un momento, se volevo: l’appartamento era di sua proprietà e l’inquilina, di certo la donna che avevo visto il giorno prima, era partita in mattinata.

Io accettai la sua proposta. Non me la sentivo di tornare a casa ed incontrare mio padre, che in quei giorni mi osservava, preoccupato per me. Aveva certamente intuito qualche cosa.

- Torna domani. Alla stessa ora ti va bene?

- Sì.

- Quando vai via, tirati dietro la porta.

Non avevo deciso di tornare. Non mi ero nemmeno posto il problema. Troppo forti erano state le sensazioni, troppo confuse le mie idee. Avevo risposto automaticamente.

Miklos uscì ed io rimasi disteso su letto. Chiusi gli occhi, cercando di dare ordine ai miei pensieri. Avevo scopato, per la prima volta nella mia vita. Non ero più vergine. Avevo provato più dolore che piacere quando me l’aveva messo in culo, ma nonostante questo non era stata un’esperienza negativa. E quando mi aveva fatto una sega avevo goduto come non mi era mai successo.

Ricostruii senza difficoltà ciò che era successo. Miklos si era accorto che lo seguivo già il primo giorno. O forse allora mi aveva visto, ma aveva pensato a una coincidenza;  rivedendomi nei giorni successivi aveva invece capito che lo stavo spiando. Di certo aveva lasciato la porta aperta appositamente. Su una parete c’era uno specchio, in cui dal letto si poteva vedere la porta della camera: aveva verificato che io fossi entrato, probabilmente già pensando che mi avrebbe fatto prendere il posto della sua inquilina. Tutto questo mi era chiaro. Ma se cercavo di leggere dentro di me, i pensieri si sbriciolavano in frammenti, che non riuscivo a ricomporre in un insieme coerente.

Mi accarezzavo lentamente, guardando nello specchio la porta della camera.

Sarei tornato il giorno seguente? Mi dicevo che non lo sapevo, ma una parte di me era perfettamente conscia del fatto che stavo mentendo.

 

Tornai il giorno dopo e tutti i successivi, fino alla nostra partenza. Con il passare del tempo, quando Miklos mi prendeva avvertivo sempre meno dolore e sempre più piacere. Era bello sentire il suo cazzo grosso e teso dentro di me, che mi riempiva il culo. Ormai quando lui veniva, a me era diventato duro e bastavano pochi movimenti della sua mano esperta per farmi godere.

Quando mi prendeva, mi sembrava che mi facesse vibrare come una corda di violino: mi sentivo davvero uno strumento nelle mani di un grande suonatore. Oggi definirei Miklos più vigoroso – e dotato di grande resistenza - che esperto: ho conosciuto uomini ben più abili nei giochi del piacere, veri artisti in grado di farmi provare sensazioni nuove. Ma allora, nella mia totale mancanza di esperienza, Miklos mi appariva un maestro.

A livello fisico ero totalmente coinvolto, ma sapevo benissimo di non provare nessun sentimento: non ero certo innamorato di lui. Tra noi non c’era nessuna tenerezza, nessun dialogo. Scopavamo e basta. A Miklos non importava niente di me: gli offrivo la bocca e il culo e questo andava bene.

Dopo che avevamo scopato, Miklos spesso si addormentava, senza badare a me. Ma mentre dormiva, mi piaceva contemplarlo: era una sensazione bellissima, un piacere del tutto fisico. Guardavo il viso, incorniciato dalla barba; il torace ed il ventre villosi; le grandi mani che sapevano guidarmi al piacere; il cazzo, ancora gonfio di sangue; i coglioni pelosi; le gambe forti. Non era davvero bello, ma mi appariva splendido, mi trasmetteva una sensazione di forza, di potenza, di virilità: era un vero maschio.

Ma l’immagine che mi ero fatto di lui si andava definendo e modificando giorno dopo giorno ed ebbe una svolta del tutto imprevista quando, in una pausa tra il primo e il secondo tempo (c’erano sempre due tempi) gli chiesi:

- Ma vai con le donne e con gli uomini?

Lui disse:

- Certo. Se mi tira, vanno bene anche gli animali.

E scoppiò a ridere.

Annuii. Stava sporgendosi per prendere una sigaretta, dandomi la schiena, e io fissavo il suo grosso culo.

Avevo la gola secca, ma chiesi:

- Te lo hanno mai…

Non riuscii a completare la frase, bloccato da un improvviso imbarazzo.

Lui si voltò, mi guardò in faccia e capì.

- Me lo hanno mai messo in culo? Certo. Mi piace. Preferisco metterlo io in culo, ma va bene anche al contrario.

La sua risposta mi stupì. Dai discorsi fatti con gli amici, mi ero fatto l’idea che un uomo che va abitualmente con le donne è attivo anche con gli altri maschi. Miklos spezzava quello schema. Apparteneva a una categoria, non comunissima, ma neppure rara, aperta a qualunque esperienza sessuale. Non si poneva problemi di ruoli o di virilità. Per lui contava il piacere e lo poteva raggiungere in molti modi diversi.

Miklos rise:

- Vuoi mettermelo in culo? A tua disposizione.

Rise di nuovo.

- Così vedi com’è.

Si voltò sulla pancia e divaricò le gambe.

Io ero paralizzato, ma il desiderio cresceva in fretta.

Mi avvicinai. Posai le mani sulle sue natiche pelose.

- Sputa sul buco ed inumidisci un po’.

Eseguii. Poi, con molta lentezza, avvicinai la cappella al buco e la appoggiai. Mi parve che il suo culo fosse incandescente. Entrai e fu una sensazione intensissima, di certo la più forte che avessi mai provato. Spinsi dentro e quando arrivai fino in fondo, mi appoggiai su di lui, boccheggiando.

Poi presi a muovermi, avanti e indietro. Avrei voluto continuare a lungo, ma il piacere era troppo forte e venni quasi subito.

- Niente male, vero?

Annuii, incapace di parlare.

Poi fu il suo turno.

 

L’esperienza con Miklos mi segnò, profondamente. Non fu solo l’orgoglio di sentirmi adulto e la conferma, definitiva ed inappellabile, di quanto già sapevo sul mio essere attratto dagli uomini. Condizionò tutta la mia vita sessuale, insegnandomi ad essere prudente. Avevo scopato senza nessuna precauzione, illudendomi di non correre rischi. L’Aids era arrivato in Italia, ma a me sembrava una cosa lontanissima. L’infiammazione e le perdite che incominciarono due giorni dopo il ritorno a Verona scatenarono tutte le mie paure: dolore, vergogna e angoscia mi fecero impazzire, perché non sapevo di che cosa si trattasse. Mia madre colse il mio disagio e ne parlò a mio padre. Fu lui, un pomeriggio, a mettermi alle strette. Non gli fu difficile: aveva intuito molto di più di quanto io pensassi ed arrivò in fretta alla conclusione. Dalla gonorrea guarii senza problemi, ma la lezione mi fu utilissima. Quando vidi il sollievo con cui mio padre lesse il referto di sieronegatività, capii quanto si fosse preoccupato nell’attesa dell’esame e quanto grande fosse il rischio che avevo corso. L’aver parlato a mio padre della mia sessualità mi rese più facile aprirmi e viverla più serenamente, oltre ad aiutarmi a stabilire con lui un rapporto molto profondo, di grande confidenza.

Di fronte a tutto questo, l’altra eredità della mia prima esperienza, il gusto per il pelo, è davvero il meno.

 

Però quel tizio non è poi così brutto. I miei amici hanno un sacco di pregiudizi.

 

2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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