Derive di
Federico
Volpe Bonaventura Certo non avrei mai
immaginato di vivere altrove, quando, ragazzo appena quattordicenne,
passeggiavo sulla lunga spiaggia a nord di Otranto, casa mia. Nei lunghi pomeriggi
assolati, scovavo sassi tondi e piatti nella sabbia, poi li lanciavo a pelo
dell’acqua, contando i rimbalzi. Cinque, sette, dodici, quindici. Mi sentivo
un eroe. Nessun pensiero, nessuna preoccupazione, oscuravano il cielo limpido
della mia adolescenza. Finchè non si videro
giungere all’orizzonte tutte quelle vele, sospinte da un impetuoso vento di
tramontana. C’è una tale confusione,
per calli e campielli e un tale traffico di gondole e barconi sui canali.
Sono inseguito da un contrattempo dietro l’altro, proprio oggi, che Leonardo
mi sta aspettando. Voleva una buona luce, ma ormai, forse, è troppo tardi. Mi
ha proposto di fargli da modello per alcuni cartoni preparatori a cui sta
lavorando, per un grande quadro che Isabella d’Este gli ha commissionato. Mi
ha confidato di essere fuggito da lei, per la sua opprimente insistenza.
Voleva trasformarlo nel suo pittore di corte, perché Mantegna ormai si è
fatto vecchio e lei non sopporta di essere circondata che da bella gente,
possibilmente giovane e di talento, in ogni caso, gente che possa esserle
utile. Leonardo, però, ama essere libero. Ha resistito per qualche tempo, poi
ha trovato una buona scusa per andarsene ed è venuto a Venezia. Il primo marzo, che qui
chiamano Battimarzo, è il primo giorno dell’anno.
Ed è stato proprio quel giorno che il mio amico Josquin
Des Prez mi ha presentato
Leonardo. Mi è sembrata una circostanza significativa. Un capodanno davvero
promettente. Leonardo è una persona veramente speciale, la cui umanità mi ha
colpito al cuore. Ci conosciamo da appena nove giorni, ma ho come
l’impressione di conoscerlo da sempre. Il portoncino è aperto.
Salgo in fretta le scale, entro nello studio, che ha la porta appena
socchiusa. Davanti a me si tende un lungo telo bianco e leggero appeso ad un
filo, da un angolo all’altro della stanza, come lenzuola stese ad asciugare.
Mi ha spiegato che serve per diffondere la luce e per renderla più morbida.
Sono in ritardo. Lo scosto in fretta. E lo lascio ricadere
immediatamente, tornando subito indietro. Spero non si siano accorti
di me. Le gambe non mi reggono. I ricordi mi si accavallano nella mente,
ricordi lontani, ancora vivi, ancora fonte di violente emozioni. Meglio che
mi sieda. Qui, subito, accanto alla porta, in questo corridoio buio e soffocante,
così adatto ai ricordi che mi opprimono adesso. Il turco mi aveva
afferrato per i capelli e mi aveva trascinato sulla spiaggia, agitando la sua
scimitarra davanti a sé, come se qualcuno avesse potuto opporsi. Io volavo.
Ero terrorizzato, ma correvo con lui, assecondando i suoi passi ed il suo
ritmo, temendo che, oltre ai capelli, mi staccasse anche la testa dal collo,
con quella maledetta scimitarra. Più tardi, mi ritrovai su una galea. Ero
fortunato ad essere ancora vivo. Molti uomini, donne e bambini, senza
distinzione, erano stati violentati, mutilati ed uccisi, dentro le mura della
città. Tutti gli uomini rimasti, dai quindici anni in su, più di ottocento,
erano stati catturati e portati sul colle della Minerva. Ero fortunato,
perché avevo solo quattordici anni. Le donne e i bambini sopravvissuti, li
conducevano via, riducendoli in schiavitù. Ma prima, ci avevano radunato
tutti sul colle ad assistere al loro
perverso spettacolo di morte. Mia madre mi si stringeva addosso inondandomi
di lacrime ed il suo lamento era una specie di cigolio continuo, un suono
stridulo ed inumano che non dimenticherò finché campo. I turchi imponevano a
ciascun prigioniero di convertirsi al culto di Allah e, ad ogni rifiuto, una
scimitarra si abbatteva sul collo del povero disgraziato, tenuto in ginocchio
e afferrato per le braccia da altri due infedeli. Le teste rotolavano davanti
a noi come in una macabra danza di giocolieri. Respiravo l’odore del sangue.
Un odore che mi entrava dal naso e finiva nello stomaco. Lo avrei voluto
vomitare. La mia giovane età mi permetteva di avere una piccola speranza di
sopravvivere. Per il momento, non ero tra quelli scelti per il macello, ma
ero convinto che la mia vita sarebbe stata breve, e che per tutto il tempo,
quell’odore di sangue me lo sarei portato addosso. Comandante della flotta
turca era Gedik
Ahmet Pascià, che chiamavano Giacometto, governatore del sangiaccato di Valona. E fu là che ci portarono. Il viaggio fu un incubo
senza tempo, gli uni ammassati sugli altri, senza quasi acqua né cibo. La
puzza era nauseante. Sembrava solida, come un pugno allo stomaco, e si
mischiava con quella del sangue che ancora sentivo su di me, come se ci
avessi fatto il bagno. I bambini, inebetiti, restavano muti e tranquilli,
quasi senza muoversi. Le donne piangevano e pregavano in segreto, in silenzio, muovendo appena le labbra. Io mi
chiedevo se davvero Dio le avrebbe ascoltate. Me lo chiedevo, mentre una
convinzione si faceva strada dentro di me, quella che il nostro Dio stesse
guardando altrove, perché altrimenti non ci saremmo ritrovati tutti
ammucchiati come bestie su quella galea. Era un pensiero, tuttavia, che mi
spaventava, facendomi sentire colpevole, e che mi sembrava orribile ed
ignobile, tanto era sacrilego. A Valona
ci fecero scendere a terra. Fu l’ultima volta che vidi mia madre. Ci
separarono subito. Le donne furono portate via, non so dove. Noi ragazzi, con
i bambini, fummo stipati in uno stanzone che si affacciava sul mare. Ci
guardavamo intorno, e tra di noi, con la disperata rassegnazione di chi non
può attendersi aiuto da nessuno. Non avevamo idea di cosa ci aspettasse, ma
quell’attesa fu breve. Presto ci condussero in un salone dove alcuni uomini
ci studiarono attentamente. Capivo che ci stavano scegliendo, che ci compravano
come avevo visto fare, nelle fiere, con le capre e le pecore. Non eravamo che bestie, senza più nulla di
umano. Mi ritrovai consegnato ad un turco che mi legò una lunga corda in vita
e, appena fuori, la agganciò alle finiture del suo cavallo. Non fu facile
seguirlo. Manteneva un’andatura sopportabile, ma io ero già stremato dalla
fame e dalla sete, sofferti prima e durante la navigazione. Le gambe mi
sembravano di legno. Pensavo che sarei caduto e mi sarei lasciato trascinare
fino a morire. Più volte fui tentato di gettarmi in terra e farla finita, ma
una voce interiore mi spingeva a resistere ancora un poco, ancora un poco.
Così resistetti, non so davvero come. Ma quando giungemmo a destinazione ed
il turco scese da cavallo, caddi a terra esausto. Immediatamente fui sorretto
da più braccia che mi diedero aiuto per rialzarmi e mi offrirono da bere. Ero
ancora vivo. Questo era l’unico pensiero che mi girava nella testa. Ero
ancora vivo. Per quanto? Presto scoprii che il turco che mi aveva comprato
era solo un intermediario. Il mio padrone si chiamava Suleyman
Na’Ima. In seguito seppi che aveva ventotto anni.
Fui relegato con gli altri servi della cucina, che dormivano in uno stanzone
su stuoie e cuscini gettati in terra. Poiché non sapevano come utilizzarmi,
mi mandavano continuamente al pozzo ad attingere acqua nel grande cortile
centrale. Non dovevamo mai restare inoperosi, altrimenti ci prendevano a
frustate. La casa doveva essere piuttosto grande, ma gli unici luoghi che
vidi per settimane, furono la cucina, il dormitorio ed il cortile. Non vidi Quella sera mi portarono
da lui, dopo avermi fatto un bagno, unto la pelle con un olio profumato e
rivestito di una semplice tunica leggera. Non capivo cosa volessero da me.
Ero spaventato. Quando fui nella sua grande stanza, Suleyman
non perse tempo in spiegazioni. Mi afferrò per le spalle, mi spinse sui
cuscini a pancia in giù e, sollevandomi la veste, mi infilzò come un fagiano
allo spiedo. Paralizzato dallo stupore, non riuscii ad urlare il mio dolore e
la mia rabbia, ma il mio odio salì al cielo come una silenziosa preghiera
blasfema. Ogni colpo che mi infliggeva, penetrando sempre più in profondità
nelle mie viscere, era come un ferro rovente che mi trapassasse da parte a
parte. Lacrime si affacciarono ai miei occhi, ma le ricacciai indietro con
tutta la forza d’animo di cui, nonostante tutto, ero ancora provvisto.
Continuò per un pezzo, finché il dolore si attenuò e la mia mente si schiarì.
Sapevo di essere soltanto uno schiavo, ma nei miei pensieri si radunarono
idee di fuga, di vendetta, di odio puro.
Volevo fuggire, ma prima lo volevo ammazzare. Fui condotto da lui per
diverse sere di seguito. Ogni volta il dolore mi sembrava intollerabile. Poi,
una sera, tutto quel suo andare e venire, spingere e fermarsi, mi procurò
altre sensazioni. Sensazioni che rifiutai, come fossero una resa al nemico,
ma quello che la mia testa rifiutava, era evidente che il mio corpo traditore
lo accettava volentieri. Lui finì e si ritirò. Io rimasi immobile. Non avevo
il coraggio di muovermi. Quando mi impose di
alzarmi e di andarmene, una macchia sul cuscino fu la prova di quel
tradimento. Suleyman scoppiò a ridere e,
scegliendolo da un piccolo vassoio accanto a sè, mi
lanciò un lokum che io afferrai al volo, d’istinto.
Poi mi cacciò via. Ero sommerso dalla vergogna. La sera seguente mi opposi
al suo trattamento di favore. Lui afferrò una frusta e prese a battermi,
mentre io fuggivo per la stanza. Suleyman avrebbe
potuto chiamare i suoi sgherri, che erano appostati fuori, ai lati della
porta, ma non lo fece. Quel gioco lo divertiva e lo eccitava. Poi riuscì a
costringermi all’angolo e, per evitare che mi frustasse in viso, gli voltai
la schiena. Mi prese là, in piedi, ansimandomi in un orecchio, penetrandomi
con lentezza, ma più a fondo e, alla fine, con più forza delle altre volte,
mentre con la frusta mi accarezzava il ventre. L’esplosione dei sensi mi
tramortì, convincendomi che ero perduto. Dovevo fuggire. Per salvarmi dovevo
evadere, o sarei diventato uno schiavo felice. Meglio morto che felice. E mi
dicevo che ottocento uomini avevano preferito la morte che convertirsi
all’Islam. Io non volevo cedere. Quello era il diavolo. I piaceri della carne
non dovevano vincere su di me. E invece vinsero. Quelle
notti con Suleyman mi regalarono un piacere
immenso. I nostri giochi si trasformarono in un’intesa inquietante. Sapevo
per istinto ciò che voleva il padrone e lui mi ricambiava, con un’incredibile
tenerezza, lasciandomi stordito e quasi esanime. Mai avrei immaginato che
tutto il mio odio si potesse trasformare in amore. Eppure così fu. Quando Suleyman
fu richiamato a Costantinopoli, decise di portarmi con sé. Ormai comprendevo
abbastanza bene la sua lingua per capire quello che mi disse, che mi voleva
con sè perché non aveva mai trovato un altro come
me. Allora pensai che non mi ritenesse solo uno schiavo come gli altri, che
anche lui mi amasse, e che quella confessione, ben difficilmente, poteva
essere più esplicita. Quello era il massimo che poteva permettersi o forse il
massimo di cui fosse capace. Quell’ultima sera, prima di lasciarmi andar via,
mi baciò sulla bocca con passione. Nonostante questo, io
rimanevo uno schiavo e la coscienza di esserlo non si allontanò mai dalla mia
mente. Partendo, Suleyman portò con sé un ridotto numero di servi, poiché
prevedeva di ritornare presto. Quando la galea gettò l’ancora a Modon, per il rifornimento d’acqua, io fui mandato a
terra con altri schiavi, sotto lo sguardo truce di tre turchi armati di
scimitarra. Vidi che c’era in rada, ben distante dalla nostra, una seconda
galea, sventolante bandiera veneziana. Al pozzo, che si trovava più o meno a
metà strada, c’era una moltitudine di gente, in fila per rifornirsi come noi.
Tra gli altri, un gruppo di pellegrini. Uno di essi incrociò il mio sguardo e
non lo distolse subito, ma anzi, mi fece un cenno e mi sembrò che volesse
parlarmi. Nella calca fui sospinto verso di lui, fino a trovarmi al suo
fianco, ma anche allora non fece in tempo a dirmi nulla, perché,
all’improvviso, scoppiò una rissa. Nella confusione che ne seguì, il
pellegrino mi afferrò per un braccio e mi trascinò lontano dalla folla.
Nascosti dal tumulto, giungemmo ad un edificio vicino, all’interno del quale
mi spinse, richiudendo immediatamente la porta alle nostre spalle. Poi si
mise a spiare fuori da una finestrella stretta ed alta, che si affacciava sul
piazzale. In fondo alla stanza, che in realtà era un magazzino, c’erano altri
pellegrini, che sistemavano alcuni bagagli e che si limitarono a guardarci
incuriositi. Dopo qualche minuto, l’uomo emise un sospiro di sollievo, si
staccò dalla finestrella e si voltò verso di me. Così mi ritrovai faccia a
faccia con il mio salvatore. -
Mi chiamo
Teodoro. Stai bene? – -
Sì, grazie.
– -
Sei uno
schiavo dei turchi di quella galea, vero? – -
Sì. – -
Dove ti
hanno catturato? – -
Ad Otranto,
più di un anno fa. – risposi. -
L’avevo
capito subito, che sei della mia terra. Noi siamo pellegrini in viaggio per
Gerusalemme. Ti possiamo nascondere tra noi. Non se ne accorgeranno. Non ti
preoccupare, non ci ha visto nessuno, altrimenti sarebbero già qui. – -
Perché hai
rischiato tanto per me? Non sai nemmeno chi sono. – gli chiesi, quasi
stordito dalla rapidità con cui il mio destino stava mutando. -
Ecco,
questo sarebbe un momento buono per dirmelo. – -
Mi chiamo Bonaventura. – -
Allora, Bonaventura, sono davvero contento di conoscerti. Adesso
vediamo di conciarti in modo che nessuno di quei turchi là fuori possa
riconoscerti. - -
Se mi
scoprono, mi ammazzano. – obiettai. -
Motivo in
più per fare le cose per bene. Tanto ormai è fatta, – mi disse – e se torni
là fuori, metti in pericolo anche noi. Ma tu non vuoi tornare dai turchi,
vero?– Sì, volevo tornare da Suleyman, con ogni fibra del mio corpo, ma la mia mente
mi impose di non ascoltarlo. E comunque era vero, ormai
ero uno schiavo in fuga. Cosa avrebbe fatto, Suleyman,
vedendomi tornare? Mi avrebbe ucciso davvero? Mi avrebbe ripreso con sé? Tanto valeva che mi
giocassi il tutto per tutto. Quindi non mi restò che mostrarmi grato,
assecondandolo, anche se il mio pensiero andò più volte a Suleyman
e a cosa avrebbe provato sapendo che ero fuggito. Mi fecero indossare un
saio uguale al loro, mi legarono i capelli e mi coprirono con un vecchio
mantello dal largo cappuccio che, una volta tirato sulla testa, nascondeva i
miei tratti. Più tardi, mentre il
giorno moriva, uscimmo tutti insieme per raggiungere la galea. Io ero proprio
nel mezzo, nascosto d’ogni parte. Giunti al battello senza incidenti,
l’ufficiale ci fermò. Non gli tornavano i conti. Io friggevo. Avevo sbirciato
in direzione della galea turca da cui ero sbarcato e mi ero accorto di una
certa agitazione a riva. Di sicuro mi stavano cercando. Teodoro, dopo avermi
sottratto alla mia sorte, ora discuteva con l’ufficiale, dicendogli che, se
non mi avesse preso a bordo, ero spacciato. Alcuni turchi stavano intanto
venendo verso di noi. L’ufficiale gettò un’occhiata indifferente su di loro,
e nel frattempo parlava di costi. I turchi erano sempre più vicini.
L’ufficiale sembrava insofferente alle pressioni dei pellegrini. Ora
parlavano tutti insieme. Esasperato e terrorizzato, mi avvicinai al suo
orecchio, per farmi sentire in mezzo a quel clamore, e gli dissi che per
pagarmi il passaggio potevo remare, assicurandogli che ero molto forte e che
non se ne sarebbero pentiti. Lui mi guardò per un momento, poi, che a convincerlo
fossero state le mie parole, l’insistenza dei pellegrini o i turchi che si
facevano sempre più vicini, mi ingiunse di salire in fretta sul battello. E
fu quello che feci, subito seguito dall’intero gruppo, che mi nascose alla
vista. L’ufficiale salì per ultimo, impartendo l’ordine di tornare
immediatamente alla galea. Vedendoci già staccati dalla riva, i turchi
tornarono sui loro passi. Così come d’accordo, fui
messo ai remi. Mi ero offerto volontario. Ma nonostante non fossi uno schiavo
tenuto in catene, mi capitò di ricevere ugualmente la mia dose di frustate.
Ero certamente più fortunato degli altri, che indossavano solo un perizoma e
dovevano trascorrere le giornate e le nottate incatenati a quei banchi, ma
dovetti, per il resto, subire la loro stessa sorte: poco cibo, poca acqua,
poco sonno. Io avevo il vantaggio di potermi sgranchire le gambe e dormire
sul ponte, anche per evitare topi e scarafaggi che tra i banchi circolavano
tranquillamente, attirati dagli escrementi. La puzza era feroce, ma dopo
qualche tempo non ci feci più caso. Quando ero preso dalla disperazione, mi
dicevo che ero vivo. E quello solo importava. Vivo e libero, nonostante la
pessima condizione in cui versavo. Avrei raggiunto Gerusalemme e là avrei
potuto sfuggire a quell’incubo, andandomene per la mia strada, qualunque essa
fosse. Dovevo solo resistere fino ad allora. Anche un altro pensiero
ritornava spesso a tormentarmi, quello di Suleyman.
Mi faceva soffrire l’idea che non lo avrei mai più rivisto, che non ci
sarebbe mai più stato nulla tra noi. E poi mi dicevo che ero fuggito appena
in tempo, che l’affetto che mi univa a lui, mi avrebbe ben presto impedito di
lasciarlo. Ma sapevo, in fondo al mio cuore, che già in quel momento, se,
quasi a forza, non fossi stato sottratto alle sue grinfie da uno sconosciuto
pellegrino, io non sarei fuggito. Era stato soltanto un
colpo di fortuna, oppure un aiuto venuto dal cielo, da quel Dio che non
pregavo più, sin dal giorno in cui avevo assistito al macello del colle della
Minerva. Forse avrei dovuto ringraziarlo, dal momento che mi aveva
appositamente inviato un suo emissario, ma non ci riuscivo. Lo feci una volta sceso a
terra. E di nuovo quando raggiunsi Venezia a bordo di un’altra galea
straripante di pellegrini. Il viaggio di ritorno riuscii però a pagarlo,
avendo eseguito per loro innumerevoli commissioni dietro compenso, sia a
Gerusalemme che durante il lungo viaggio attraverso l’Egitto, che ci aveva
condotti al porto di Alessandria e alla galea diretta a Venezia. Salaj esce dallo studio e mi dice che il
maestro mi sta aspettando. Poi sparisce. Ancora frastornato dai ricordi che
mi si sono accalcati nella mente, varco nuovamente quella porta. Leonardo mi sorride,
vedendomi. -
Nutro fiducia
che non divulgherai ciò che hai visto poco fa in questa stanza. – mi dice. -
Puoi starne
certo. – gli confermo, deluso d’esser stato scorto. -
Ti vedo
turbato, Bonaventura. – -
Non è
niente. – -
Ho la
presunzione di credere di conoscerti ormai abbastanza bene. Dovendo valutare
dalla tua espressione, direi che non si tratta di una cosa da nulla. É per
quello che hai visto? – -
No, è solo
colpa dei miei ricordi. Ricordi che sono affiorati non richiesti. – -
E che ti
fanno soffrire. – -
Solo
sporadicamente. Ormai sono sepolti nel passato. – -
Non ti va
di parlarmene? – -
É una lunga
storia. – -
Abbiamo
tutto il tempo. Tu ti siedi là, mentre io disegno. E intanto puoi raccontarmi
questa storia, sgravandoti di un peso. – Non sono certo di voler
fare il bis proprio in questo momento, ma la sua disponibilità mi consola e
in fondo mi sembra che Leonardo sia l’unica persona al mondo a cui potrei mai
raccontare quello che mi è accaduto, con la vaga speranza di essere davvero
compreso. -
Tu sai
perché mi chiamano “il Turco”? – -
So che
fosti catturato dai turchi, in giovane età, ma che riuscisti a fuggire,
all’incirca un anno dopo. – -
É esatto,
ma non sai quello che accadde durante la mia schiavitù. Non l’ho mai
raccontato a nessuno. – -
Ebbene, ti
ascolto. - Sì, credo sia giusto che
gli racconti la mia storia. Mentre mi confido con lui,
senza mai essere interrotto, scende il buio. Lui smette di disegnare,
raccoglie i suoi fogli, mettendoli da parte, accende varie candele e poi si
siede di fronte a me, osservandomi attentamente. Quando resto in silenzio,
Leonardo fa un respiro profondo e mi sorride. Quindi, avvicina con
delicatezza la mano sinistra al mio viso, iniziando a tastarlo lievemente,
come un cieco che segua i tratti di un volto per assimilare forme che non può
vedere. Il suo tocco è come la carezza di una piuma, vellutato come un petalo
di rosa. -
Sei
bellissimo. – mi dice Leonardo. – É comprensibile che Suleyman
non abbia resistito a sfogare su di te la sua libidine. Dicono che i
turchi siano come i pipistrelli, i
quali, per la loro sfrenata lussuria, non rispettano alcuna regola universale
di accoppiamento, anzi, così come s’incontrano, a casaccio, il maschio
s’accoppia con il maschio e la femmina con la femmina. Può darsi che anche
noi siamo come pipistrelli. E dopo Suleyman, non
hai più avuto nessuno? – Al prolungarsi del mio
silenzio, aggiunge – Non è necessario che tu me lo dica, Bonaventura.
Perdona la mia curiosità. – Invece sento la necessità
di rispondergli. -
Mi rapirono
nel 1480. Sono passati vent’anni. E in tutto questo tempo non ho mai
conosciuto nessuno che mi abbia ispirato un qualche sentimento simile a
quello che provavo per Suleyman. – -
Ho il vago
sospetto che tu non l’abbia neppure cercato. – -
Hai
ragione, Leonardo. Ho tenuto per me questo ricordo come un peccato inconfessabile
e solo quello che ho visto poco fa, mi ha spinto a raccontartelo. – -
Certo, ti
capisco. Nella vita non è facile fare gli incontri giusti. Io posso ritenermi
fortunato, perché ho Salaj, quella peste. É
talmente bello che per anni non ho fatto che prenderlo a modello. Ma è un
vero furfante. É bugiardo, ladro, capriccioso, testardo, goloso. I suoi vizi
sono infiniti. Ci sono giorni in cui vorrei strangolarlo, ma lo amo troppo,
così finisco sempre per perdonargli ogni cosa. Lui lo sa, e se ne approfitta.
Ora ha vent’anni, ma tra qualche tempo credo che assomiglierà a te, sempre
che non lo ammazzi prima. – dice ridendo. -
É da molto
con te? – -
Sono ormai
cinque anni. Senza di lui non saprei come fare, tanto mi sono abituato alla
sua presenza. É un allievo perfetto, sa come accontentarmi. Ha imparato
moltissimo da me e mi aiuta in tutto. – -
É bello che
tu abbia un compagno così completo. – -
É un dono
del cielo. - -
Si è fatto
tardi, Leonardo. Sarà meglio che vada. – -
Non
vorresti cenare con me? – -
Ti ringrazio,
ma stasera non sono dell’umore adatto. Non ho intenzione di tediarti
ulteriormente. – -
Come
preferisci, Bonaventura, ma ti aspetto domani. Se
riesci, vieni sul presto, quando c’è la luce migliore. – Congedandomi dal maestro,
mi volto verso la porta e là, appoggiato allo stipite, vedo Salaj. Non mi sono accorto del suo ingresso. Mi chiedo
quanto abbia potuto ascoltare. Non che mi preoccupi di ciò che possa pensare
di me, ma la sua reputazione di ladro e bugiardo mi fa temere che possa
essere anche una spia, rivendendosi un ghiotto pettegolezzo che potrebbe
rovinarmi. No, non lo farà, per non
rischiare che in cambio io possa denunciare lui e il suo benefattore. In
fondo la mia è una storia che appartiene al passato, mentre la sua è incisa
nel presente. Tornando lentamente verso
casa, ascolto distratto lo sciabordio dell’acqua nel canale lungo il quale cammino. Ad ogni casa, una
lanterna accesa, agganciata alla finestra del primo piano, illumina
lievemente i miei passi, consigliando il mio percorso, che pure conosco a
memoria, tanto da non badarci. I festeggiamenti per il carnevale sono
concentrati in Piazza S. Marco, a Rialto e lungo Da qualche finestra, odo
giungere un chiacchiericcio di donne, una risata di bambino, la musica di un
liuto. Completamente assorto nei miei pensieri e nel mio umor nero, mi
ritrovo in Campo di S. Maria Formosa. Un gruppetto in maschera passa ridendo.
La porta della chiesa è aperta e da essa provengono le note di un organo e un
canto che non ha nulla da invidiare ad un coro d’angeli. Senza riflettere,
entro. Non c’è una funzione. Si tratta forse delle prime prove per la
prossima Pasqua, che cade il 19 aprile. Mi siedo in fondo all’ultima panca,
nell’angolo più buio. Voglio rimanere invisibile, inosservato. Questa sera
tutti i miei pensieri sono tristi e cupi. Desidero soltanto restar solo. I
rimorsi e i rimpianti hanno un rifugio sicuro, dentro di me, un nascondiglio
segreto. Non appartengono a me, ma a qualcun altro che porta un altro nome, Wajdi. La mia mente vaga verso altri incontri che il caso
ha voluto fissarmi, come appuntamenti di un destino inevitabile. Coloro che
mi hanno sostenuto nei primi giorni in cui vagavo smarrito a Venezia,
provengono dallo stesso paese che un tempo mi ha reso prigioniero. Qualcuno entra, forse
anch’egli attirato dalla musica, e mi si siede accanto. Mi domando perché
abbia scelto, tra tanti, proprio questo posto, dal momento che la chiesa è
completamente deserta. Un po’ seccato, mi volto a guardarlo ed allora lo
riconosco. É Fra’ Cherubino. Non lo vedo da anni. Lui mi sorride e mi assesta
una pacca sulla coscia, in segno di saluto. Fisso lo sguardo davanti a me,
verso l’altare, dietro al quale un Cristo in croce piega la testa verso il
lato opposto ad un sostegno carico di ceri accesi, come a voler rifiutare
anche quella tenue luce, per non mostrare il suo volto. É sempre così che lo vedo, un Dio impietoso
che guarda dall’altra parte. Quando le prove sono
terminate, mi alzo per uscire, seguito dal frate. -
Ah, la
musica, come riesce a portare in alto i nostri cuori! – -
Di nuovo a
Venezia? – gli chiedo, sperando che sparisca in fretta. -
Sono di
passaggio. E tu come te la cavi? Ti piace sempre remare? – -
Ma lo sa
che proprio oggi ripensavo a quel viaggio? Che incredibile caso. – -
Caso?
Viaggi ancora nell’oscurità, Bonaventura? Non hai
compreso dunque che tutto ciò che muove il mondo è volontà di Dio? - -
Lo so, lo
so. – -
Bada a te, Bonaventura. Cadere in errore è la cosa più facile del
mondo, per chi non si attiene alle Sacre Scritture.– -
So anche
questo. – -
Lo sai
nella testa, forse, ma non lo senti nel cuore. – e dopo questa affermazione lapidaria,
mi benedice e se ne va per la sua strada. Fra’ Cherubino
accompagnava i pellegrini della galea veneziana che mi aveva portato a
Gerusalemme. Da quando ero salito a bordo, mi aveva osservato attentamente.
Io ero continuamente consapevole del suo sguardo che mi seguiva e ciò mi
infastidiva oltre ogni dire. Quando riemergevo dai banchi, per andarmi a
gettare esausto in qualche angolo, a dormire, lui mi si avvicinava e mi
rivolgeva qualche parola di conforto, ma, soprattutto, chiedeva. Mi poneva mille
domande, ed in ciascuna indovinavo un trabocchetto. Ciò che davvero gli
interessava, era giudicare quanto l’islam avesse fatto breccia nella mia
anima. Io restavo sempre sulla difensiva, evitando di dargli soddisfazione,
ed alla fine lui mi lasciò in pace. Anni dopo lo incontrai a
Venezia. Mi trovavo nella bottega di
Lorenzo da Pavia, il liutaio, quando lui entrò. Mi riconobbe subito,
chiamandomi “piccolo turco”. Mi invitò ad andarlo a trovare presso i Frati
minori da cui si era alloggiato, perché avrebbe avuto piacere di parlarmi.
Quando se ne andò, Lorenzo mi sconsigliò di farlo. Fra’ Cherubino aveva una
strana fama, mi disse. Alcuni uomini che lo avevano frequentato durante i
suoi brevi soggiorni, erano finiti in prigione. Portava sfortuna o, più probabilmente,
era proprio lui ad impersonare la sfortuna stessa. Lorenzo ne era certo.
Tuttavia, il giorno seguente, preso da uno strano impulso, decisi di andare
ai Frari. Proprio mentre stavo per giungervi, mi
imbattei nell’amico Josquin Des
Prez, il quale, venendo a sapere chi stavo per
incontrare, mi afferrò per un braccio e mi trascinò via. -
Si può
sapere che ti prende? – mi ribellai. -
Quello è
uno che è meglio tenere alla larga. – affermò Josquin. -
Perché? – -
Perché è
pazzo. Basta che tu abbia letto un libro che non gli è piaciuto, o magari
dipinto una tela in un modo che lui non approva, o anche solo frequentato
ambienti che trova biasimevoli, ed ecco che ti ritrovi gettato in una
segreta, senza nemmeno passare dal giudizio. Lo hanno spesso sentito criticare
e lamentarsi del Papa. Se non ha rispetto per lui, come puoi pensare che ne
abbia per te, che sei stato a lungo in compagnia degli infedeli, e che
considera ormai un appestato? – -
Non ho
certo sofferto la schiavitù per diletto! – -
Ma lui è
fermamente convinto che a te sia piaciuto. – affermò Josquin. -
Come fai a
dirlo? – -
Me lo hanno
riferito. – -
Chi? – gli
chiesi. -
Fra’ Luca Pacioli. - -
Perché non
me l’hai detto? – -
Lo sai che
non mi piace disseminare pettegolezzi e poi non credevo che un giorno avrei
dovuto impedirti con la forza di consegnarti nelle sue grinfie. – Così, benché in effetti
non conoscessi Fra’ Luca Pacioli, e non sapessi
quanto credito dare alle sue parole, decisi di fidarmi del mio amico. Non
solo quel giorno non ci andai, ma evitai da allora di incontrarlo. In questo
non fui fortunato, ma ogni volta che accadde, me la svignai alla svelta,
sparendo dalla circolazione o nascondendomi dietro una maschera, per tutto il
tempo che si fermava a Venezia. L’incontro di questa sera
non mi sembra diverso dagli altri. In fondo si è trattato di una
conversazione brevissima e del tutto inoffensiva. É una mattina limpida e
azzurra. L’acqua nei canali ha riflessi di madreperla sui palazzi, le cui
facciate assumono l’aspetto di conchiglie appena uscite dal mare. I
gondolieri cantano, per darsi il ritmo sul remo. Deciso ad accontentare
Leonardo, questa mattina mi presento da lui molto presto. Lo trovo in compagnia di un uomo che non ho
mai visto. Sono evidentemente molto impegnati. Tuttavia, Leonardo mi accoglie
con un sorriso e mi invita a sedermi. -
Resta pure,
Bonaventura. Paciolo ed
io stiamo completando un lavoro. Ci vorrà poco. – Quando le coincidenze si
accumulano, il destino si dipana. Così diceva mia madre. -
Tu sei quel
Bonaventura che chiamano il Turco? – mi chiede il
suo ospite. -
Sì. E tu
sei quel Fra’ Luca Pacioli che conosce bene Fra’
Cherubino? - Fra’ Luca resta
interdetto. -
É di nuovo
in partenza per Gerusalemme, grazie a Dio. – commenta soltanto. -
Cos’ha di così
tremendo questo Fra’ Cherubino? – gli domanda Leonardo, incuriosito. -
É
certamente un servo dell’Inquisizione. Ma a Venezia non ha appoggi, per il
momento, anche se gli riesce di fare danni ugualmente, di tanto in tanto.
Tempo fa si era convinto che l’amico Bonaventura
fosse un rinnegato, inviato dai turchi a spiarci. Si aspettava da un momento
all’altro che partisse per riferire, ma la sua attesa è rimasta delusa. – -
E tu lo
sapevi, Bonaventura? – mi chiede Leonardo. -
No, sapevo
soltanto che aveva dei sospetti su di me, ma non di quale natura. Questo è
più grave di quanto temessi.– -
Persone che
stimo mi hanno parlato molto bene di te. Conoscendo Fra’ Cherubino e la sua
follia, non dubito che tu sia innocente. Non preoccuparti, starò attento alle
sue intenzioni e se ci sarà pericolo, ti avvertirò. Mi domando, però, da dove
siano sorti i suoi dubbi su di te.– -
Era sulla
galea che ha permesso la mia fuga. É là che mi ha conosciuto. – -
Devi
avergli dato un’impressione sbagliata. – -
Soffrivo
molto. Forse si aspettava invece di vedermi felice, perché ero scampato alla
schiavitù. - -
Può darsi.
– commenta Paciolo. -
E comunque
non sono stato io a fuggire, diciamo piuttosto che uno di quei pellegrini mi
ha praticamente rapito. Fra’ Cherubino non può non esserne stato a conoscenza.
– -
Magari avrà
pensato che la tua fuga fosse stata troppo facile, che in effetti ti avessero
permesso di fuggire. – -
Se è quello
che pensa, si sbaglia. – Paciolo sembra riflettere un momento e aver
l’intenzione di ribattere, ma la sua indecisione permette a Leonardo di
intervenire. -
Beh,
torniamo al lavoro. – -
Sì, hai
ragione. Manuzio mi aspetta. - -
Il mio rombicubottaedro è pronto. Però mi è venuta un’idea. Se
lo facessi fare di vetro e lo riempissi a metà d’acqua, potrei dipingerlo con
le sfaccettature che riflettono la luce, mettendo in evidenza la diversa
rifrazione del vuoto e del pieno.– -
Oh, è
un’idea veramente brillante, ma ci vorrebbe troppo tempo, Leonardo. Va bene
così. Manuzio sta aspettando con ansia che gli
fornisca gli ultimi disegni, per poter iniziare la stampa. Per pubblicare il
nostro De Divina Proporzione, sta rimandando altri
lavori e la sua pazienza è agli sgoccioli. – -
Come vuoi
tu. Allora, con questo, abbiamo finito. – -
Credo
proprio di sì. Dopo due anni di lavoro, mi sembra quasi impossibile. Vedrai
che Manuzio vorrà farci fare altre rettifiche.
Quell’uomo è incontentabile. – -
Aspira alla
perfezione, proprio come te. – Fra’ Luca ride. Raccoglie
i disegni, ci saluta e se ne va. -
Allora, ho
l’onore di accogliere nel mio studio una spia dei turchi? – dice Leonardo,
sorridendomi, ironico. -
Ti sembro
una spia? – -
Vediamo,
sì, oggi voglio proprio disegnare una spia dei turchi. Spogliati. – Io lo guardo, interdetto,
mentre un brivido mi corre lungo la schiena. -
Spogliati, Bonaventura. E siediti là. – mi ordina Leonardo. Io eseguo. Lui mi avvolge
un telo bianco sulla testa, a mo’ di turbante, e drappeggiando un panno di
velluto color zafferano, mi copre una spalla, il ventre e le cosce. Poi
inizia a disegnare. Nonostante le finestre
siano chiuse, un senso di freddo mi invade. Leonardo mi osserva e poi la sua
mano scorre attraverso il cartone. Mi guarda ancora e ancora disegna, con
mano sicura. Qualunque cosa faccia, è sempre concentrato, come se in quel
momento null’altro esistesse o avesse la minima importanza. Non si lascia
distrarre facilmente dal compito che si è imposto. Mi osserva ed è come se mi
guardasse attraverso, o dentro, troppo in fondo. Non dovrei permetterglielo. -
Raccontami
di Suleyman. – dice, dopo quel lungo silenzio. É come se un pugnale mi
colpisse ad un fianco. -
Sei ancora
tanto sensibile al solo sentir pronunciare il suo nome, da impallidire. –
commenta. -
É un nome
che nessuno ha mai pronunciato in mia presenza. Preferirei che lo
dimenticassi. – -
Io credo
invece che parlarne ti aiuterà a guarire. É una ferita che si è chiusa troppo
presto, lasciando sotto la pelle il marcio. Bisogna riaprirla, fare asciugare
bene la carne e, soltanto dopo, permettere che si richiuda. – La luce mi sembra
all’improvviso troppo accecante ed i miei occhi si inumidiscono. -
Dai, Bonaventura, fidati di me. Parlarne ti farà bene. – -
Mi
dispiace, non ci riesco. – -
Era un
amore così profondo, che il solo ricordo di averlo perduto ti fa soffrire
ancora così? – -
Credo di
sì. Lo amavo disperatamente. Ma all’inizio l’ho odiato. Lui era il padrone
turco ed io solo un povero schiavo spaventato. Meditavo continuamente di
ucciderlo, immaginando come. Sognavo per esempio di sottrarre un coltello
dalle cucine e nasconderlo nelle pieghe della tunica, arrivare da lui
fingendomi remissivo e una volta a terra, a faccia in giù, mentre lui si
sollazzava, voltarmi di scatto e sgozzarlo. Sapevo che poi mi avrebbero
ucciso, ma non mi sarebbe importato nulla. – -
Cosa ti ha
impedito di portare a termine il tuo progetto? – mi chiede Leonardo. -
La mia
tunica era troppo stretta per poterci nascondere qualcosa. – rispondo. Leonardo ride. -
I progetti
si costruiscono su basi realizzabili. – -
Infatti i
miei erano soltanto sogni. Mi aiutavano a sopportare la realtà che stavo vivendo.
– -
Eppure, in
seguito, i tuoi sogni sono cambiati. - -
Sono
cambiati tanto da farmi sentire colpevole. Sentivo che era sbagliato. Lui era
il mio nemico. Cedere a Suleyman significava
rinnegarmi. Ma il piacere che provavo con lui era qualcosa di sublime, che mi
innalzava al di sopra di me stesso. Anzi, in quei momenti io scomparivo.
Esistevano soltanto il mio corpo ed il suo. E poi c’erano i suoi occhi di
fuoco, che invadevano ogni mio pensiero, mi prosciugavano completamente.
Possedendomi, mi aveva vinto. Ero una cosa sua. Ed era quello che io volevo.
Solo allora, quand’ero tra le sue braccia, quand’ero completamente suo, mi
sentivo davvero vivo. Nient’altro aveva importanza per me. Così trascorrevo
ogni giorno aspettando con impazienza che calasse la notte e che lui mi
richiamasse a sé. – -
Vedo che
neppure la consistenza del velluto può nascondere l’effetto che ti causano
questi ricordi. – commenta Leonardo, posando sul tavolo cartone e sanguigna,
ed avvicinandosi a me. Di nuovo, come ieri sera, mi
accarezza il volto. Poi continua percorrendo altre vie, mentre io
rabbrividisco. Fa cadere il drappo di velluto ed inizia a baciarmi,
inseguendo con le labbra il percorso delle sue mani. Quando finiamo a terra,
stesi sul telo di velluto, non mi sembra possibile che sia proprio io, quello
che ora accarezza il suo volto, che cerca le sue labbra, con le mani
intrecciate ai suoi lunghi capelli, che lo guarda negli occhi, specchi
limpidi color dell’ambra. Quel che ha detto Leonardo
è vero. Ora mi sento liberato, non più costretto a mentire a me stesso o a
negarmi, e soprattutto, non più colpevole. Avergli raccontato il mio rapporto
con Suleyman, ha cancellato il mio dolore,
lasciandomi di quell’amore soltanto un ricordo dolce e tenero, con il tenue
rimpianto per una felicità che non potrà mai tornare. Ma non importa, in
fondo, ora che posso viverne un altro. Leonardo è dolce e
gentile, affettuoso e generoso. É incredibilmente intelligente, forte,
allegro, elegante e ancora bello, nonostante sia di tredici anni più vecchio
di me. Questa in fondo è la stessa differenza di età che mi separava da Suleyman, il cui pensiero oggi torna ad essere lontano,
come un sogno che al mattino si ricorda appena. Leonardo mi ha guarito. Lui
mi ritiene un amico prezioso. Ma rispetto alle altre mie amicizie, la nostra
ha legami più intimi, che ci coinvolgono in maniera più profonda, causando un
certo scontento nel suo allievo Salaj, che
inevitabilmente ha intuito quali siano i nostri rapporti, dal momento che
spesso mi trattengo durante la notte. Leonardo è stato convocato
in casa del nobile Soncino Tonin.
Come mi aveva già informato, è stato da lui contattato per organizzare il
banchetto di Pasqua, avendo sentito che alla corte di Milano ha fatto cose
strabilianti. Leonardo non ne è per nulla soddisfatto, avendo da tempo
perduto interesse per questo genere di lavoro. Vuole perciò che collabori con
lui in questo affare, forse addirittura con l’idea che lo sostituisca in
tutto ciò che sia possibile. Ci avviamo quindi verso Palazzo Tonin, camminando con passo spedito. Ad un tratto Leonardo mi
dice: -
Ho notato
che il portico di alcune chiese è deturpato dalla presenza di palizzate.
Perché questo scempio? – -
É a causa
di un editto di dodici anni fa, che è stato emanato allo scopo di chiuderle
per la notte, per impedire che possano essere utilizzate come ritrovo e luogo
d’incontro dai buzeroni. – -
Cosa sono i
buzeroni? – -
I sodomiti.
– traduco. -
É una
sciocchezza. Avranno trovato di sicuro altri luoghi più accoglienti. –
commenta Leonardo. -
In effetti
è così. Proprio per questo, quattro anni fa, hanno emanato un decreto che
comprende altri luoghi da sorvegliare: magazzini,
bastioni, scuole, portici, taverne, postriboli, le case dei pasticceri e le case delle oneste cortigiane; le
pattuglie che trovano dei sospetti in questi luoghi, hanno l’ordine di
arrestarli. Nel passato hanno effettuato molti arresti, che sono
rimasti famosi, perché vi erano implicati parecchi nobili. Eppure credo che
si siano dimenticati dei barbieri. Ho notato un incremento del movimento nei
pressi delle loro botteghe. – -
Trovo
questa persecuzione incomprensibile. – commenta.- Nella libera Venezia non
pensavo di trovare la stessa ottusità che vige a Firenze o a Milano. Qui, in
fondo, -
A Firenze e
a Milano le cose vanno peggio? – gli chiedo. -
A Firenze,
molto tempo fa, ho rischiato una condanna. A Milano, ho dunque preferito
mantenere accuratamente segreti i miei incontri. Qui mi ero quasi illuso che
riguardo alle nostre preferenze ci fosse una maggiore indulgenza. – -
Non è così,
purtroppo. – -
Mi ci
rassegnerò. Ormai da lungo tempo mi sono convinto che l’ottusità umana non ha
limiti e non c’è molto che io possa fare in proposito. Ho compreso che, se
esiste davvero un paese in cui vige la libertà, questo è un paese puramente
interiore. – Tonin ci accoglie con una certa fretta.
Probabilmente, come magistrato, ha qualche impegno ben più importante di
questo. É elegante ed ha un bel portamento, un viso regolare, con un naso
dritto e affilato. Deve avere buon fiuto. Leonardo mi presenta come suo
stretto collaboratore. Non so chi, tra Tonin e me,
è più stupito di questo. Di certo Tonin mi guarda
in modo strano, con i suoi occhi acuti, come uno che stia cercando di far
combaciare un’immagine mentale con una reale. Che qualcuno gli abbia parlato
di me? Durante il nostro
colloquio con Tonin, Leonardo suggerisce di
assumere il suo amico Bergonzio Botta, che ha messo
in scena un balletto durante il banchetto di nozze fra Gian Galeazzo Sforza e
Isabella d’Aragona. Da allora, lo spettacolo danzato è stato ripreso più
volte e Bergonzio è ormai uno specialista delle
rappresentazioni allegoriche in danza, che cura in ogni minimo dettaglio. Tonin si dichiara d’accordo. A me viene in mente Ziralda. É una
ballerina meravigliosa, che ha allietato con i suoi spettacoli le serate di battimarzo e poiché Tonin
ha avuto l’occasione di ammirarla, decidiamo di farli incontrare. Ma
evidentemente Tonin è di fretta. Ci presenta il suo
scalco e ci dà praticamente carta bianca, felice di lavarsene le mani. Lo scalco, Ippolito Scalabrin, è molto alto e magro. Sembra nervoso. Agita le
mani scompostamente, mentre parla. Già dalle prime battute che scambiamo, si
lamenta del capocuoco, da poco alle dipendenze del palazzo, suggerendo di
trovarne uno all’altezza del compito. Leonardo si ricorda di aver incontrato,
nella tipografia di Aldo Manuzio, il cuoco
personale del Patriarca di Aquileia, Tiziano de Rubeis, il
quale ha scritto un libro di ricette culinarie, che sta proprio per essere
stampato. La
sua fama ha raggiunto anche lo scalco, che decide immediatamente di
scrivergli. Un’altra
accalorata discussione si accende quando l’argomento tocca la tavola.
Leonardo pretende che si appronti per ciascun commensale un truccabocca, un cucchiaio, una forchetta, un coltello, un
piatto singolo e un calice personale. Ippolito resta di stucco. Quella non è
la corte di Milano. -
Le belle maniere non devono essere lasciate alle
corti, ma devono diffondersi ovunque. – sentenzia Leonardo. -
Qui alla Serenissima siamo avvezzi alle novità, ma questa mi sembra
piuttosto sorprendente. – osa commentare lo scalco. -
Vorrà dire che il tuo signore ti apprezzerà maggiormente. - Alla
sola idea, Ippolito non riesce a resistere. Alla
fine però è assalito dai dubbi. -
Dove troverò i truccabocca
ed un così gran numero di forchette? – si lamenta. -
A tutto questo ci penso io. Sono qui apposta. – lo informo. Una
volta tornati in strada, mi rivolgo a Leonardo per chiedergli, con una
curiosità che non riesco più a trattenere: -
Vuoi dirmi, di grazia, cosa diavolo sono i truccabocca? – Leonardo
scoppia a ridere. -
Sono una mia invenzione: teli quadrati o rettangolari di lino o cotone,
in cui ci si può pulire la bocca e le mani, evitando la pessima abitudine di
farlo con la tovaglia, che così rimane decorosa e pulita, per quanto sia
possibile. – -
Se si tratta di questo, devo pensarci immediatamente, altrimenti le
ricamatrici non avranno il tempo per accontentarmi. -
Ricordati
di procurarti anche le stoviglie. – -
Non
preoccuparti, questo è il mio mestiere. Prima, mentre ne parlavamo, pensavo
che se vi facessi imprimere lo stemma della casata, risulterebbero ancora più
eleganti. Che ne dici?– -
Dico che Tonin non potrà che rimanerne soddisfatto. – -
I piatti li
farei fare in maiolica. – -
Sei un
vulcano di idee, Bonaventura. - -
Quello che
mi preoccupa sono le forchette. A parte quelle da cucina e da portata, non ne
ho mai viste di altro tipo, in commercio. - -
Non ancora.
Ma dopo questo banchetto, tutti le vorranno. - Mentre Leonardo si
disinteressa tranquillamente del suo incarico, avendolo praticamente
scaricato in toto sulle mie spalle, io inizio i miei viaggi tra le isole. Prima vado a trovare il
ceramista Scagnetto, che ha bottega a Murano. Si
dice che dal suo forno nascano le più belle maioliche della Repubblica. Lo
trovo al tornio, che fa ruotare azionandolo ritmicamente con un pedale,
mentre le sue mani, inumidite tuffandole nell’acqua, danno forma ad un vaso
d’argilla. É un tipo rozzo, dal viso giallognolo, come di chi non veda mai la
luce del sole. E in mezzo alla faccia ha un naso grosso e bitorzoluto, rosso
in punta, come se fosse avvezzo a bere molto e a far baldoria. Lui mi saluta
appena, ma quando gli spiego il motivo della mia visita, il suo interesse lo
porta a rallentare il lavoro, fino a fermarsi. Si asciuga le mani grosse e
rugose e mi chiede di quanti pezzi ho bisogno. -
Quaranta. –
gli dico. – Anzi, meglio quarantadue. - Scagnetto fischia. -
Quanto
tempo mi dai? – -
Devono
essere pronti per Pasqua. – -
No. Dovrei
abbandonare ogni altro lavoro. – si oppone, deciso. -
Dovrai
anche assumere altri decoratori, perché ci voglio nel mezzo lo stemma dei Tonin. – -
Sei
impazzito? Chi ti ha messo in testa un’idea simile? – -
La vuoi o
no questa commessa? – -
Non credo
di poterti accontentare. – decide Scagnetto,
intrattabile. -
Allora
andrò a Bassàn. Da Ponte ne sarà felice. –
concludo, mostrando di volermene andare. -
Da Ponte
non sa fare maioliche belle quanto le mie. Hai visto che tinte? Solo io so
ottenere col lustro queste sfumature iridescenti e cangianti che danno il
colore dell’oro e del rubino. – -
Allora
falle. Quarantadue, per Pasqua, con lo stemma dei Tonin.
– -
Non abbiamo
ancora parlato di denari. – ribatte, scontroso. E anche di quelli
discutiamo a lungo. Per i calici è meno
complicato. Fare affari con Agostino Barovier è
sempre un piacere. Da suo padre ha ereditato i capelli biondi e gli occhi
cerulei, oltre all’arte dei calici in vetro cristallino, che sono senza
dubbio i più belli e più eleganti in circolazione. Restiamo d’accordo che
realizzerà qualche esemplare di prova e solo quando ne sarò soddisfatto, ne
riprodurrà il numero desiderato. Inoltre, in qualunque momento, potrà
fornirne degli altri, accaparrandosi un cliente che difficilmente lo
abbandonerà più. Quello della fabbricazione
del vetro è uno dei segreti meglio custoditi della Serenissima. É tutto
racchiuso in quest’isola, che sembra un mondo a parte. Murano è l’isola dei
fuochi. Tutte le attività che comportano l’accensione di forni, sono state
relegate qui, per timore degli incendi. Persino gli strumenti per ottenerlo,
anch’essi coperti da segreto, sono fabbricati qui, nelle officine di questi
fabbri che non s’occupano quasi d’altro. Ma nonostante sia profuso il massimo
impegno per mantenere accuratamente nascosto ogni mistero di questa attività,
io ho scoperto un segreto che potrei
persino rivendermi, e cioè che i colori per il vetro vengono ricavati
dalle alghe della laguna. Non è stato Agostino a svelarmelo, bensì il via vai
di barconi carichi di alghe che ho visto scaricare nei magazzini delle
vetrerie, con eccessiva circospezione. Poi, vado a trovare Morosina Zanier, a Burano. La brava ricamatrice mi ha già aiutato in altre
circostanze e so che sicuramente accetterà la commessa. La stanza in cui lavora,
con l’aiuto di quattro o cinque apprendiste, è tutta una nuvola di pizzi e
ricami, appoggiati ovunque, e appesi su fili che vanno da una parete
all’altra, come panni stesi. Un paio delle ricamatrici osservano il proprio
lavoro attraverso globi di vetro, che permettono loro di ingrandire
l’immagine dei loro minuti e preziosi ricami. Quando le annuncio di cosa
ho bisogno, Morosina sgrana gli occhi, il cui
sguardo, di un intenso azzurro, risulta quasi intimidatorio. -
Quaranta? – -
Sì,
quaranta. – confermo. -
In così
poco tempo, posso ornare gli orli di pizzo, ma non posso certo ricamarli. – -
Neanche un
piccolo ricamo in un angolo, come ad esempio lo stemma dei Tonin? – -
Le cifre si
possono fare, ma i ricami no. – ribadisce Morosina,
irremovibile, sistemandosi la cuffia immacolata sui capelli raccolti. -
Faremo a
meno dei ricami, ma devono essere pronti per Pasqua, tovaglie e truccabocca. – -
Lo saranno.
– mi conferma, con sicurezza. Il barcone che mi riporta indietro,
passa sotto le mura dell’Arsenale. Ogni volta che le vedo, alte ed imponenti
a nascondere un altro grande segreto della Serenissima, mi verrebbe voglia di
scalarle, per guardarci dentro. Ci lavorano quattromila persone, che sono un
numero enorme se ci penso, ma per quello che esce dai cantieri mi sembrano
persino insufficienti. Da qui si varano le galee che viaggiano in lungo e in
largo per il Mediterraneo, all’incredibile ritmo di sei al mese. Certo,
adesso che i turchi cercano di affondarle non appena se le trovano a tiro,
forse dovranno serrare i ranghi. Nell’arsenale fanno proprio tutto. Entrano
tronchi d’albero, prelevati direttamente dai boschi di proprietà della
marina, ed escono imbarcazioni, sia quelle commerciali che da guerra. Al di
là di queste mura, si intreccia il cordame, si cuciono le vele, si fabbricano
attrezzi, catene, ancore, cannoni, ogni singolo chiodo per tenere il
fasciame. E nessuno che sia estraneo a questo formicaio di attività, può
metterci piede o ficcarci il naso. Il mio, curioso, una volta ci ha provato,
senza grande successo. Devo arrendermi di fronte
all’evidenza. Anche a me può capitare di fallire. Questa sera torno da
Leonardo un po’ sconsolato. Di forchette, in tutta Venezia, non v’è ombra.
Nemmeno i miei contatti turchi hanno potuto aiutarmi, benché da loro questo
attrezzo sia usato da tempo. Poiché non ve n’è richiesta, non l’hanno mai
esportato. -
Mi hanno
raccontato che, molto tempo fa, Leonardo solleva un
sopracciglio e sbuffa. -
É sempre la
Chiesa a mettere i bastoni tra le ruote, davanti a qualunque progresso o a
qualunque novità. Sarebbe tempo che s’occupasse di mettere ordine nei suoi ranghi,
piuttosto che infilarsi dappertutto, per porre veti senza senso. – -
Non farti
sentire. Anche nella libera Serenissima si può essere accusati di eresia. –
dico, precipitandomi a chiudere la finestra. -
É più
eretica -
Meglio che
tu non lo dica in giro, Leonardo. Ricordati che hanno bruciato Savonarola. – -
Lui aveva
sfidato l’autorità del Papa e dei Signori di Firenze. É stato condannato
soltanto per utilità politica. – obietta. -
Comunque ti
preferisco vivo. Facciamo a meno delle forchette. – Bergonzio Botta è appena arrivato, che già
preme per conoscere Ziralda. Bergonzio ha quarantasei anni, ma è molto
atletico, parla velocemente, come se gli mancasse il tempo, e continuamente
si porta una mano ai capelli, come per accertarsi che ci siano ancora.
Leonardo e Bergonzio rievocano per qualche momento
i loro comuni ricordi, di quando insieme, dieci anni fa, hanno realizzato per Ludovico il Moro le rogge Bergonza
e Bergonzina e le derivazioni idrauliche del
Po, dalle colline dell’Oltrepò fino a Branduzzo e Calcababbio. Mi
chiedo cosa c’entri la danza con l’idraulica. -
Ma oggi sei
qui in qualità di maestro di ballo. – sottolinea Leonardo. -
E infatti
ho portato con me quattro danzatori, due suonatori di liuto e una sarta per i
costumi. Se ti decidi a presentarmi la meravigliosa creatura di cui mi hai
scritto, possiamo iniziare subito a lavorare. – -
Possiamo
accompagnarti da Ziralda oggi stesso. – suggerisco. -
Tu, lo
accompagnerai, Bonaventura. Io devo incontrarmi con
un architetto per il progetto di un ponte. – -
Fai sempre
troppe cose insieme, Leonardo. E finisce che non ne completi una. – lo
rimprovera Bergonzio. Leonardo sembra
rattristato dalle parole del suo amico, ma si limita a spingerci verso la
porta. Mentre Bergonzio scende in strada, quasi di
corsa, io mi volto verso di lui. -
Non è
importante quello che ti ha detto. Non farci caso. – -
Lo so bene,
qualcosa ho completato, nella vita. Però sono del parere che un amico, se ha
motivi per riprenderci, lo debba fare in privato. Che lo abbia fatto di
fronte a te, non m’importa, in realtà, perché tu sei più che un amico, ma il
fatto è che lui non lo sa. – -
Gli amici
non sono poi tutti uguali. – commento. -
Lo so. Va,
ora, Bonaventura. – mi congeda, dopo avermi posato
un lieve bacio sulla bocca. Colpevole d’aver
rattristato Leonardo, Bergonzio mi appare subito
meno simpatico. Lo conduco da Ziralda a malincuore.
A Rialto incrociamo Salaj, che finge di non avermi visto. Lo incontro spesso,
ma il più delle volte, incontro la sua schiena. Credo che non possa vedermi. Dev’essere geloso di me. Bergonzio
si ferma ad ogni singola bottega del ponte di legno. Osserva tutto con
l’espressione di un bambino capitato per magia nel paese della cuccagna.
Faccio fatica a trascinarlo via, mentre medita di comprare spezie, ricchi
tessuti e cibi provenienti dall’oriente. Lo convinco solo rassicurandolo che
potrà fare i suoi acquisti al rientro. Non appena faccio ritorno
nel suo studio, Leonardo mi chiede se ho visto Salaj. -
L’ho
incontrato a Rialto. – gli rispondo. -
Qui non si
è visto per tutto il giorno. Cosa diavolo sta combinando? – -
Non
preoccuparti, avrà deciso di prendersi una vacanza. – -
Ogni volta
che sparisce, si mette nei guai o ci mette qualcun altro. – commenta
Leonardo, con aria preoccupata. - E com’è andata con Ziralda?
– -
Benissimo.
Credo che il tuo amico ne sia rimasto fulminato. – -
Sì, gli
accade sempre quando conosce una bella donna. – -
Lo scalco
dei Tonin mi ha detto che Tiziano De Rubeis ha accettato di incaricarsi del banchetto. Lo
incontreremo domani. Tutti gli ordini fanno progressi nei tempi previsti.
Anche il balletto sarà in prova da domani. Direi che possiamo essere
soddisfatti. – -
Tu devi esserlo,
io ho fatto ben poco. – -
Sai che non
è vero. – -
Comunque
sia, adesso abbiamo di meglio da fare. Che ne dici di posare ancora per me? – -
Sono a tua
completa disposizione. – rispondo, sorridendo. -
Bonaventura, - dice, accarezzandomi il viso – vorrei
conoscerti meglio, scoprire cos’hai davvero nel cuore. – -
Ho te, nel
cuore. – -
Soltanto
me? Davvero? – -
É facile.
Sei così grande che occupi tutto lo spazio. E tu, ce l’hai un posticino per
me? – -
Ce l’ho. Lo
sto creando. E se non basta, spazzerò via quello che non serve. – -
Credo di
amarti, Leonardo. – -
Anch’io
credo proprio di amarti. – risponde Leonardo, con un’espressione quasi
sorpresa. Per il momento, il
ritratto dovrà aspettare. Dopo l’incontro con De Rubeis, tornando da Leonardo, ci trovo Salaj, che disegna un ritratto del mio amico, mentre lui
si occupa del progetto di un ponte, sempre molto concentrato. Leonardo mi
saluta senza smettere quello che sta facendo. Salaj
si limita ad un cenno con la testa. Io mi avvicino ad una finestra e mi metto
a guardare fuori. Gondole che vanno in su e in giù, passanti frettolosi,
altri più tranquilli, che passeggiano chiacchierando. Mantelli più leggeri,
mantelli più pesanti. Fa ancora piuttosto freddo, benché sia ormai giunta la
primavera. Ma del resto abbiamo visto un inverno pesantissimo, che ci ha
stretto nella sua morsa per molti mesi. La laguna era completamente
ghiacciata, di un ghiaccio solido e profondo su cui i carri delle merci
potevano tranquillamente viaggiare, passandoci sopra senza alcun timore,
proprio come fosse terraferma. -
Sogni? – mi
chiede Leonardo, all’orecchio, facendomi sobbalzare. -
No. Pensavo
che finalmente è primavera. – -
Hai potuto
parlare con il cuoco? – -
Non è
soltanto un cuoco, Tiziano De Rubeis è un artista.
– -
Benissimo.
Allora per il banchetto di Tonin siamo a posto.- -
Lui ha le
forchette. Le farà venire da Udine e le presterà ad Ippolito per il
banchetto. – -
Questa è
davvero una notizia sorprendente. Allora è davvero tutto organizzato nel migliore
dei modi, direi. – -
Direi
anch’io. - -
Bene.
Meglio così, perché il Provveditore Andrea Zancan
mi ha convocato per domani mattina. Gli ordini vengono direttamente dal
Senato, quindi non penso sia il caso di tirarmi indietro, anche perché avevo
già dato la mia disponibilità. – mi
annuncia Leonardo. -
Per quel
progetto della diga mobile? – -
Sì. Sarò
costretto a partire presto, credo. – -
Non prima
di Pasqua, spero. – -
Non lo so
ancora. – Mi sembra così strano
essere qui, nello studio di Leonardo, senza di lui. Sto aspettando già da
molto, mentre l’ansia mi prende. Perché non torna ancora? So cosa deve
avergli raccontato Zancan. Lo scorso luglio, 1200
uomini sono stati inviati a Gradisca, sotto il Comando di Andrea Zancan, per difendere i confini orientali. É stata una
mossa previdente. In settembre, infatti, i turchi hanno iniziato una
terribile scorreria, compiendo stragi e saccheggi di ogni genere. Gli uomini
di Zancan però sono riusciti ad assaltare con
successo gli accampamenti turchi a Spilimbergo, respingendoli. Di sicuro
torneranno. Ma questa volta, a Gradisca, saranno pronti a scacciarli,
allagando il territorio che i turchi occuperanno, ponendo una diga
sull’Isonzo. Una diga mobile, che potranno spostare secondo le necessità,
grazie all’ingegno di Leonardo. Ma perché non torna ancora? -
Bonaventura, svegliati. – -
Scusa, mi
sono addormentato. Ci hai messo così tanto, che pensavo t’avessero rapito. – -
E questo
inquietante pensiero ti ha dato sonnolenza? – commenta Leonardo, sorridendo
con ironia. -
Allora, che
ti ha detto Zancan? Non lasciarmi sulle spine. – -
Dobbiamo
partire subito. – -
Dobbiamo?
Tu devi. – obietto. -
Tu verrai
con me. – -
No, sono
quasi vent’anni che non mi muovo da Venezia e non ho intenzione di cominciare
adesso. – -
C’è tutto
un mondo là fuori, Bonaventura. Il mondo è bello, è
vario, ricco di sorprese, di panorami meravigliosi e memorabili. La natura è
un incanto. Perché vuoi restare prigioniero di questa manciata di isole
puzzolenti? – -
Puzzolenti?
Che dici? Venezia non puzza. – -
Sì, che puzza,
Bonaventura. Tu non te ne accorgi perché sei sempre
stato qui e quindi non puoi fare paragoni. -
Non
m’importa, Leonardo. Io devo ancora occuparmi del banchetto dei Tonin. – -
A quello ci
penserà lo scalco. A sua disposizione lascerò Salaj,
per ogni evenienza. Durante la nostra assenza penserà lui al resto. E Bergonzio ha una grande esperienza. Non c’è di che
preoccuparsi. Sarà tutto perfetto. – -
Ma ho altri
clienti. – ribatto, sempre più ostinato. -
In questo
momento non hai nessuna commissione. Hai solo paura. – Non m’ero reso conto di
questo. É vero. Ho paura di lasciare la città che mi ha dato rifugio, che mi
ha fornito la possibilità di guadagnarmi da vivere, che mi ha offerto amici,
una casa, una vita. Ma adesso ho anche paura di allontanarmi da Leonardo. -
Hai
ragione. Ho paura. – ammetto, infine. -
Vieni con
me. – Lo dice guardandomi dritto
negli occhi, è sleale. C’è una preghiera nel suo sguardo. Ma è una richiesta
umile, non un’imposizione. Una richiesta che mi lascia libero di decidere.
Eppure non mi resta che piegarmi a questo sguardo. -
E va bene.
Verrò. – Il suo sospiro di sollievo
mi dice insieme due cose, che ci tiene molto e che non sperava di
convincermi. Salaj ci accompagna alla partenza, mantenendo
il tenace broncio dei giorni scorsi. Ammiro la sua costanza. Gli sguardi che
mi lancia, mi suggeriscono la certezza che nutra per me un odio profondo.
Quando saliamo sul battello, non risponde al mio saluto. Leonardo gli
raccomanda di mettersi subito a disposizione di Ippolito Scalabrin
e di Bergonzio. Lui risponde che sarà fatto e ci
volta le spalle, senza neppure aspettare che il battello si scosti dalla
riva. La galea che ci ospita è
del tutto simile alle altre su cui ho viaggiato. É di medie dimensioni e
trasporta merci da far giungere al Patriarcato di Aquileia.
Già un messaggio ci ha preceduti per comunicare ai fratelli Del Borgo che
stiamo per raggiungerli a Gradisca. Qualcuno ci verrà a prendere a Panzano. Così ci ha assicurato Zancan,
che viaggia con noi. Leonardo si è portato dietro due intere casse di libri e
disegni. Mi ha spiegato che da vent’anni progetta nuove armi, sempre più
potenti. Questa è senz’altro una strana contraddizione, per lui, che dichiara
di odiare la guerra e di considerarla una vera bestialità. Una delle tante.
Ma ugualmente progetta balestre, macchine da guerra, bombarde e cannoni, per
chiunque glielo chieda e lo paghi. -
La guerra è
un’inevitabile peste, per gli uomini. L’unica speranza di farla smettere più
in fretta è affrontarla con armi più potenti, che facciano immediatamente
desistere il nemico. – mi ha spiegato Leonardo. Vicino all’albero maestro
c’è il boccaporto principale, attraverso il quale, scendendo sette gradini,
si accede al locale che ci hanno assegnato. Ci sistemiamo nello spazio
lasciato libero dal carico, che lo occupa in centro e per tutta la sua
lunghezza. Ci hanno ordinato di restare qua. Non ci vogliono tra i piedi, per
non ostacolare le manovre durante la navigazione. Il locale non riceve luce
se non dai quattro boccaporti di entrata. Non è sufficiente né per leggere,
né per disegnare, quindi, per la prima volta, vedo Leonardo inoperoso. Per fortuna il viaggio sarà breve. Leonardo
non è uno che riesca a restare con le mani in mano. Parla. Racconta. Mi svela
mille aneddoti delle corti che ha frequentato, prima a Firenze e poi a
Milano. Comprendo che vuole tenermi allegro. Forse teme che ritrovarmi su una
galea mi faccia riemergere brutti ricordi. Cerca di distrarmi. Mi racconta
della gigantesca statua di un cavallo la cui realizzazione ha inseguito per anni. Gli occorrevano soltanto cento tonnellate
di bronzo. Io sorrido. Lo dice come se fosse una sciocchezza e non una
quantità esorbitante. Poi prosegue, aggiungendo che, quando finalmente il suo
progetto stava per trasformarsi in realtà, proprio allora i francesi hanno
deciso di invadere Milano. Per difendersi, il ducato D’Este aveva bisogno di
cannoni e poiché i cannoni si fanno col bronzo, la sua statua dovrà ancora
aspettare. A Panzano
ci attendono con i cavalli. Io ne sono intimidito. I carri sono fermi in
lontananza, su terreno più solido.
L’immensa distesa di sabbia mi ricorda vagamente la mia terra. Inspiro
profondamente per dimenticare l’odore della galea. Leonardo si china a
raccogliere un sasso tondo e piatto, seminascosto dalla sabbia e poi lo
lancia a pelo d’acqua, come anch’io facevo da ragazzo. Due, cinque, nove,
tredici rimbalzi. Io sorrido. Una volta sapevo fare di meglio. Cerco anch’io
un sasso, lo trovo, lancio. Tre, sei, nove, quindici rimbalzi. Rido. Leonardo
mi guarda, divertito. Ci riprova. Quattordici rimbalzi. - Hai vinto. – mi dice,
sorridendo. Zancan ci guarda, senza commentare. Forse pensa
che non sia il momento di giocare. Ma per Leonardo neanche questo è un gioco,
credo. Anche un cimento del genere per lui è occasione di studio. Zancan lascia metà degli uomini per proteggere
il convoglio durante il viaggio, una volta che lo scarico delle merci dalla
galea ed il successivo carico sui carri sarà completato. Noi invece partiamo subito
con l’altra metà degli uomini a farci da scorta. Quando vede che sono in
difficoltà, Leonardo affianca la sua cavalcatura alla mia e insieme seguiamo Zancan e gli altri cavalieri. Ben presto il panorama
cambia, Leonardo si guarda intorno con soddisfazione. Attraversando distese
di cespugli in fiore, me ne indica qualcuno col suo nome. Nomi che tra poco avrò già dimenticato.
Ci aspetta una mezza giornata di cammino. Leonardo parla poco. É concentrato
sul paesaggio, sembra felice di essere in viaggio. Ogni tanto mi controlla
con la coda dell’occhio. Per fortuna mi hanno affidato un cavallo mansueto.
Ho cavalcato pochissimo, e, quel pochissimo, molti anni fa. Leonardo invece è
un cavaliere esperto. Me ne sono accorto subito e poi mi ha raccontato che
uno dei suoi più grandi piaceri, sin dalla giovinezza, era quello di
andarsene a galoppare sulle colline intorno a Firenze. Ci inoltriamo in boschi di pioppi,
carpini
e frassini,
passando per Monfalcone e Ronchi dei Legionari. Subito dopo ci fermiamo a
mangiare e a far riposare i cavalli. Pane e
formaggio passano di mano in mano. Leonardo mi resta vicino per tutto
il tempo. Dopo poco riprendiamo la strada, passando per Fogliano,
prima di giungere al borgo di Sagrado e al passo
della barca. Dobbiamo attraversare l’Isonzo, per raggiungere Gradisca, che è
sull’altra riva. Il fiume ha il colore dello smeraldo. Il traghetto è una specie di grossa
zattera, che non mi ispira alcun senso di sicurezza, ma sono incoraggiato da
coloro che ci accompagnano e che evidentemente hanno dimestichezza con questo
mezzo. I cavalli salgono tranquillamente. Anche loro devono esserci abituati.
Uno dei barcaioli, quello che resta a
terra, ritira il dazio prima del nostro passaggio. Non è molto confortante. E finalmente vediamo
Gradisca. É un’imponente fortezza, con una cinta di mura alte almeno venti
metri, posta sulla riva del fiume e circondata da un ampio fossato, in cui è
stata deviata l’acqua dell’Isonzo. La cinta muraria è rafforzata da sette
torri fortificate. Già al solo guardarla si percepisce una forte impressione
di inespugnabilità. Prima di entrarvi, Zancan ci tiene a descrivercela. All’interno della
fortezza c’è un borgo con larghe strade che si intersecano ad angolo retto,
così progettate per facilitare le manovre militari. Ma oltre all’insediamento
militare, con la rocca e l’arsenale, ci si è stabilita una comunità civile,
con tanto di Chiesa. Zancan ci annuncia inoltre che
saremo ospitati nella Casa del Provveditore, la sua dimora, finché durerà in
carica. Viste da sotto, mentre attraversiamo il ponte levatoio, le mura mi
appaiono ancora più possenti. C’è da chiedersi se i turchi avranno mai il
coraggio di tentare un assalto. Ci sistemiamo nella Casa
del Provveditore. Veramente non c’è molto da sistemare, dal momento che i
nostri bagagli sono sui carri che arriveranno più tardi, o forse domani.
Leonardo parte subito alla scoperta della rocca, mentre io decido di fare un
giro di esplorazione a partire dalle mura. Vi salgo e mi affaccio, mandando
lo sguardo lontano, nella direzione da cui si aspettano i turchi. Tutto è
tranquillo. Contemplo i monti in lontananza, respiro l’aria pura. Mi chiedo
perché, in tutti questi anni, non mi sia mai deciso a lasciare Venezia. Ci ho
vissuto come un recluso, come un confinato. La libertà in cui mi convincevo di
vivere era la mia prigione, il mio esilio, il mio eremo. É stato Leonardo a
liberarmi. Leonardo è sempre impegnatissimo. Io invece passo la giornata bighellonando
e raccogliendo informazioni di ogni tipo. Ho fatto amicizia con il fabbro,
con il fornaio, con il curatore della biblioteca del Palazzo. É un frate
minore, Guglielmo, che viene da Catania. Quando gli chiedo perché tanto
lontano da casa, lui mi risponde che la sua strada è quella che il Signore
gli ha indicato. -
E tu perché
sei qui? – mi chiede a sua volta. Non so rispondergli. Ho
accompagnato Leonardo, ma non so mai dov’è. La sera, quando ci rivediamo, mi
racconta di tutti i suoi progetti per rafforzare le difese, per dotarle di
eccezionali macchine da guerra, di nuove bombarde, di superbi cannoni e di
una gran quantità di artiglieria. Faccio fatica a riconoscerlo. Mi dice che
il progetto della diga è stato adattato all’Isonzo, nel punto in cui Zancan ritiene sia più proficuo piazzarla. Pare vogliano
metterne un’altra sul Vilpacco. Già che c’era, ha
progettato un ponte che sostituisca le zattere di Sagrado.
Penso ai dazi perduti e immagino che non daranno mai l’autorizzazione per
costruirlo. Ogni tanto mi sovviene la
domanda di Fra’ Guglielmo: e tu perché sei qui? Sono qui per Leonardo, ma
stiamo così poco insieme. E il pensiero mi torna sempre più spesso a Suleyman, a quanto fosse diverso quell’amore da questo.
Mi tornano in mente il suo sorriso abbagliante e la sua tenerezza. Con
nostalgia, mi ripeto il nome con cui mi chiamava, Wajdi.
Il rimpianto mi scava dentro con l’irragionevole crudeltà di una tortura
immeritata. I giorni trascorrono senza
che neppure me ne accorga. Leonardo mi comunica che lo hanno richiesto ad
Udine, presso il Patriarca di Aquileia. Là
trascorreremo Poco prima di partire, ci
giungono due missive da Venezia, una per me ed una per Leonardo. Io leggo la mia e consegno
a Leonardo la sua, non appena ritorna a Palazzo. Lui l’apre e la legge
davanti a me. Il suo volto si rabbuia immediatamente. Devono esserci pessime
notizie. Infine la lascia cadere su un tavolo e mi guarda. -
Che è
successo? – -
È di Paciolo. – -
Il libro
non è venuto bene? – -
Il libro
non c’entra. Bergonzio gli ha raccontato qualcosa
che ti riguarda. Hanno trovato una denuncia anonima a tuo carico, in una
bocca di leone. É capitata tra le mani di Tonin. –
mi spiega, con aria grave. -
Che genere
di denuncia? – gli chiedo, preoccupato. -
Afferma che
sei una spia dei turchi. – -
Ma non è
vero! – reagisco, con la maggior forza possibile. -
Questo non conta.
A quanto pare, si tratta della seconda denuncia, e la prima era di Fra’
Cherubino. Per questo devono indagare. – La sua espressione è
sempre più grave. Una profonda ruga gli appare tra le sopracciglia. -
Fra’
Cherubino non ha prove. Non mi sono mai mosso da Venezia, tranne che in
questo caso, per seguire te. – -
C’è
un’altra notizia. La galea su cui era imbarcato Fra’ Cherubino, partita
appena da due giorni, è stata assalita dai turchi e colata a picco. – Potrei dirgli che so tutto
di quell’assalto, ma la solita prudenza mi spinge a tacere. -
É morto? – -
Sono morti
tutti. – -
Questo vuol
dire che non potrà più accusarmi. – replico, con cinismo. -
A Venezia
aspettano il tuo ritorno per interrogarti. – -
Non hanno
prove. Non possono condannarmi. – Leonardo mi guarda negli
occhi. Nei suoi leggo una pena profonda e una grande preoccupazione. -
Bonaventura, non tornare a Venezia. – -
E dove vuoi
che vada? – Venezia è l’unica casa che
conosca. Il mio unico rifugio. -
Va’ a
Mantova. Io ti raggiungerò non appena mi sarò liberato di questo impegno. – -
A Mantova?
E dove? Là non conosco nessuno. – -
Scriverò a Josquin. Il nostro amico ha una piccola casa là. Ti
ospiterà di sicuro. – -
Non
possiamo andare insieme? Aspetterò che tu possa partire con me. – -
É troppo
pericoloso. Se aspetti ancora, rischi di farti arrestare qui. – Leonardo ha ragione. -
Come vuoi.
Allora domani partirò per Mantova. – -
Stanotte. É
meglio non sfidare la sorte. – replica. -
Stanotte? – -
Sì, subito.
Adesso. – Adesso. Mentre ancora sono
libero di farlo, libero di andarmene per la mia strada, qualunque essa sia.
Ripiombo su una galea che mi conduce a Gerusalemme, vent’anni fa. -
Ma la porta
è già chiusa. – -
Conosco
qualcuno che te l’aprirà. – -
E va bene.
Voglio darti ascolto. Vado a preparare i bagagli.- -
Ti aspetto
qui. – Preparo i bagagli, in
maniera febbrile. Mi tengo leggero. Per i viveri provvederò strada facendo. Leonardo mi spiega come
raggiungere la casa di Josquin, poi mi consegna una
borsa piena di monete. -
Non posso
accettarla. – mi difendo. -
Devi.
Potrebbe servirti per salvarti la vita. E poi devi procurarti un cavallo. – -
Leonardo… - -
Non dire
più niente. - Poi mi saluta con un
bacio, lunghissimo, carico di disperazione, stringendomi forte. É un
abbraccio che non vorrebbe mai interrompersi. -
Adesso ti
accompagno alla porta. Ci rivedremo a Mantova. Presto. Farò in fretta. – -
Leonardo,
questo è stato il periodo più felice della mia vita. – -
Ce ne
saranno altri. Presto ti raggiungerò a Mantova e da là potremo andare dove
vorremo. – Alla porta, come Leonardo
ha previsto, c’è qualcuno che mi lascia passare. -
A presto. –
mi dice Leonardo, commosso. -
Addio. –
gli rispondo. Mentre cammino nella
notte, guardo la luna piena che illumina i miei passi. Mi sento leggero. Mi
fermo ad osservarla con attenzione. Ha una faccia che mi guarda sorridente.
Anch’io le sorrido e all’improvviso mi rendo conto di non essere mai stato
più libero in tutta la mia vita. Alle spalle, una fortezza inespugnabile da
cui sto fuggendo. Davanti a me, un mondo intero di possibilità. Il senso di
libertà mi si spande nelle vene come un liquore forte ed inebriante.
Un’immensa gioia esplode nel mio petto, trasformando il mio sorriso in una
risata che rimbalza dai tronchi degli alberi e dalla dura terra. Leonardo Finalmente a Mantova. Dopo essermi fermato ad
Udine il minimo indispensabile, non sono neppure passato da Venezia. Ho
scritto a Salaj di raggiungermi qui con il servo
che è rimasto con lui. Prima ancora di presentarmi da Isabella D’Este, sono
venuto in cerca di Bonaventura, in casa di Josquin. Ma qui mi dicono che non si è visto nessuno. La
delusione che provo non è paragonabile a nessun’altra che abbia mai
sperimentato. Mi sento smarrito. Provo un profondo senso di vuoto. Possibile
che Bonaventura sia ancora in viaggio? Che strada
ha fatto? Dov’è andato? Pieno di apprensione per
la sua sorte, mi rassegno a recarmi alla corte. Mi annunciano che, appena tre
giorni fa, Isabella ha messo al mondo l’erede maschio della casata: lo hanno
chiamato Federico. Il mio arrivo viene
salutato come quello dei Re Magi. Mi affidano immediatamente la preparazione
del banchetto per festeggiare il lieto evento. Ma la mia testa è altrove.
Scrivo a Josquin e a Bergonzio
di raggiungermi. Quest’ultimo saprà meglio di me come organizzare ed
allietare questa festa. E Josquin potrà comporre la
musica adatta da suonare. Io devo cercare Bonaventura.
Ho scritto anche a Paciolo. Se c’è in giro qualche
voce su Bonaventura lui saprà di certo
intercettarla. Salaj è appena giunto con il servo ed il resto
dei bagagli che avevo lasciato a Venezia. Adesso la mia casa è al completo.
Manca solo Bonaventura. Dov’è finito? Salaj mi saluta, informandosi della mia
salute. -
Tutto bene
a Venezia? – gli chiedo. -
Sì. Il
banchetto dei Tonin è stato un grande successo. E a
Gradisca com’è andata? – -
Sarebbe
andata meglio se il mio amico Bonaventura non
l’avesse dovuta lasciare, per un’accusa ingiusta e maligna. Circola qualche
voce a Venezia? - -
Bonaventura è ricercato come spia dei turchi. Questa
è l’unica voce che circola. Ma comunque nessuno l’ha più visto. – mi
risponde, seccato. -
Sei proprio
sicuro? – -
Sono
sicuro. Neppure Fra’ Luca è riuscito a saperne nulla.– -
Chi l’ha
denunciato è stato tanto vigliacco da non firmarsi. Così è troppo facile.
Chiunque potrebbe inventarsi qualunque cosa, per danneggiare un proprio
rivale. – -
Infatti i
magistrati non tengono conto delle denunce anonime, a meno che non ve ne
siano diverse, e solo a quel punto cominciano ad indagare. – -
Bonaventura è innocente. – -
Ne sei
proprio convinto? – mi chiede Salaj, con la faccia
d’angelo ed il tono insinuante del diavolo. – Fra’ Cherubino era persuaso del
contrario. Ed io stesso l’ho visto più volte parlare a lungo con mercanti
turchi. Che cosa si raccontavano? – La sua insinuazione mi
irrita. -
L’hai
seguito, per caso? – -
Mi è
capitato. E poi se ne parlava, a Venezia. – -
Comunque,
Fra’ Cherubino è morto. – -
Ma quello
che ha detto, resta. – ribadisce, con tono lapidario. -
Può averla
fatta proprio lui, quella denuncia anonima. – annaspo. -
No, lui era
già partito. – All’improvviso mi sorge un
sospetto. -
L’hai fatta
tu? – Salaj sorride, sfacciatamente. Un sorriso
impertinente e provocatorio che mi fa nascere un impulso irrefrenabile di
schiaffeggiarlo. -
Perché
avrei dovuto fare una cosa del genere? – -
Perché sei
geloso di lui, delle attenzioni che gli ho dedicato. – -
E se
l’avessi fatto davvero, pensi che sarei tanto ingenuo da ammetterlo? – Nella sua espressione
leggo tuttavia una confessione priva di rincrescimento. -
Esci da
questa stanza. In questo momento non sono in grado di sopportare la tua
presenza. – D’improvviso mi sento
vecchio e stanco. I sospetti, le riflessioni, le congetture, non mi
porteranno a nulla. Ho bisogno di fatti. E l’unico fatto certo è che Bonaventura mi manca. Temo per lui. Che gli sia accaduta
qualche sventura, durante il viaggio? Possibile che nessuno ne sappia nulla? Ho deciso di iniziare il
suo ritratto. Mi sono procurato una tavola di pioppo e sono partito per un
viaggio che non avrei mai pensato di intraprendere. Ad ispirarmi ho i disegni
con cui ho tentato di catturare la sua anima sfuggente. Un uomo complesso e
imprendibile, eppure dall’apparenza semplice e lineare. Un animo tormentato
ed oscuro, che al contrario si mostra sereno ed innocente. Mi sono innamorato
delle sue contraddizioni, del suo mistero. Non voglio che questo dipinto sia
come tutti gli altri. Voglio che abbia un’anima. Quella che non si può
studiare, che non si può vedere, che non si può misurare. Invisibile e
misteriosa, eppure presente. E poi sono guidato dal suo ricordo, indelebile e
così incredibilmente vivo. All’improvviso mi rendo
conto di quante cose avrei voluto o potuto dirgli. E non l’ho fatto,
ritenendo di averne tutto il tempo. A Gradisca l’ho perso. Tutto preso dai
miei progetti, l’ho abbandonato a se stesso, senza riflettere sul fatto che
si trovava là per me, perché io glielo avevo chiesto. Si sarà sentito solo,
lontano dalla sua città, dai suoi amici, abbandonato da me, che correvo di
qua e di là come un ossesso. Cosa è accaduto a Gradisca? Ma no, niente. Lo ricordo
bene che voleva restare con me, che voleva aspettare che io potessi partire
con lui. Ricordo bene, quando ci siamo salutati. Perché non voleva partire?
Forse ha avuto un presagio di sventura. Forse ha sentito che qualcosa sarebbe
andato storto, ma non ha voluto dirmelo, per non farmi preoccupare. Che sia
caduto da cavallo? Bonaventura non sa cavalcare.
Che si sia ferito, lungo la strada, ed ora sia in difficoltà, senza l’aiuto
di nessuno che conosca? Mi sento in colpa. Eppure io sento che è
ancora vivo e libero da qualche parte. Sento che mi ama ancora, con la stessa
intensità con cui io l’amo. L’amore è una forza possente, che tutto supera.
Non appena potrà, sono certo che Bonaventura
raggiungerà il suo amore. Ormai da un anno, la marchesa
Isabella continua a darmi il tormento. Adesso vorrebbe un ritratto composto
secondo i suoi precisi dettami. Ne ha chiesto uno esattamente identico a Zorzi da Castelfranco, a
Giovanni Bellini e ad altri pittori più o meno noti. Vorrebbe esporli nel suo
studiolo, in modo da metterli in competizione l’uno con l’altro. Mi pare
l’idea più ridicola che si possa concepire.
Non ho più notizie di Bonaventura, ma non posso più trattenermi qui. Ho deciso
di partire, conducendo con me soltanto Salaj ed un
uomo di fatica. La meta del mio viaggio, se mai esiste, è un luogo dove
incontrare Bonaventura. Lo rivedrò mai? Porterò con
me il suo ritratto, che ritocco ogni giorno, con l’impressione che non sarà
mai finito. Sempre
in viaggio, sempre in movimento, senza trovare pace. Sempre con Salaj.
Ma tra di noi non è più come prima. Quando mi si offre, lo prendo senza
quell’eccitazione dei sensi che coinvolgeva i sentimenti che provavo per lui.
Spesso lo respingo. Salaj non capisce. O forse
capisce troppo bene, perciò mi provoca, mi stuzzica, fino a quando non cedo,
ma quello che faccio quasi mi ripugna. Spesso immagino che al suo posto ci
sia Bonaventura, e in quei momenti sono travolto
dalla sofferenza, più che dal piacere. Il piacere vero è morto con la sua
assenza, e con essa l’allegria dell’amore, la pace del cuore, la speranza di
un futuro sereno. Mi sento morto dentro. Continuo a chiedermi se Bonaventura sia scomparso per colpa mia, se l’averlo
fatto fuggire da Gradisca abbia causato la sua morte, o se l’abbiano
catturato durante la sua fuga verso Mantova, mantenendo segreta la notizia. Viaggi continui, continui
spostamenti, in mezzo a guerre e macerie, alle consuete sofferenze dei poveri
e alle alterne ricchezze dei nobili signori, ai quali devo affidarmi per
guadagnarmi da vivere. E come studio tutti quelli
che incontro, sperando che il destino mi riporti a lui, che me lo faccia
incontrare, inaspettatamente, in un luogo qualunque! Quante volte mi sembra
di riconoscerlo in qualcuno che mi passa accanto. Un tuffo al cuore, una
folle, improvvisa speranza, e poi, accorgendomi che non è lui, la delusione
che mi sommerge. Un periodo più tranquillo
a Vaprio D’Adda, con Paciolo
e Salaj. Mentre ritocco, come ogni
sera, il mio dipinto, Paciolo lo vede e ne rimane
colpito. -
Leonardo,
questo ritratto ha un’anima. Prego che tu non abbia davvero rubato la sua. – -
Mio caro
amico, non sei un ingenuo fraticello da convento di clausura. Non puoi
davvero credere a ciò che hai detto. – -
No, non lo
credo, eppure, a questo volto manca solamente la parola. – -
Se
l’avesse, vorrei che mi dicesse dov’è andato. – Suleyman Perché non aveva
raccomandato a quei tre imbecilli di controllare attentamente Wajdi durante lo
scalo? Mai e poi mai, avrebbe immaginato che il suo compagno di mille
piaceri potesse desiderare di fuggire da lui. Mai e poi mai. Era certo che Wajdi lo amasse davvero. Com’era potuto accadere? Chi lo
aveva aiutato? Non gli era stato facile,
dare l’ordine di ripartire da Modon. Per cercarlo,
avrebbe voluto sbarcare lui stesso, ma non poteva. Come avrebbe potuto
mostrare a tutti la sua debolezza? Li aveva fatti frustare, quei cani che se
l’erano lasciato sfuggire, ma era una soddisfazione da poco. Avrebbe
preferito di gran lunga farli decapitare, ma avrebbe mostrato, anche in quel
caso, in quale troppo alta considerazione tenesse il suo schiavo. La costa scorre sotto i
suoi occhi nella lenta avanzata verso sud, eppure Suleyman
è cieco a quella vista. Ciò che continua a scorrere davanti agli occhi della
sua mente è il compagno perduto. Wajdi, lo
chiamava, un nome che si adattava perfettamente a quel piccolo demonio che lo
aveva sedotto, un nome che significava “di forte emozione, passione e amore”.
La prima volta che lo
aveva visto attraversare il cortile con i due orci da riempire al pozzo, si
era detto che non ce l’avrebbe fatta. Forse ne avrebbe trasportato uno e poi
sarebbe tornato a prendere l’altro. Si era fermato, incuriosito, alla
finestra, ad osservare i movimenti di quello schiavo, che non aveva mai
visto. E la forza di quel ragazzo lo aveva sorpreso. Con movenze agili e
veloci aveva riempito i due contenitori e poi, come se fossero riempiti di
piume, li aveva afferrati entrambi e se li era portati via. Aveva trascorso
giorni e giorni, durante i suoi momenti di inattività, ad osservarlo dalla
finestra, mentre andava e veniva dal pozzo. I suoi lunghi capelli inanellati
in vortici, avviticchiati in boccoli splendidi, color della castagna, a cui i
raggi del sole infondevano scintillii rossi; le spalle larghe, il passo
sciolto ed agile, le movenze feline. Si indovinava una forza interiore
trattenuta, in quel passo, una potenza nascosta e indomabile. Il portamento
di un vero guerriero. Le braccia forti, nonostante la giovane età, un viso perfetto,
con gli occhi grandi e neri, le labbra carnose, il naso diritto. Non era suo
costume, approfittare degli schiavi per le sue voglie, ma Suleyman
aveva ceduto. Un giorno, e quel giorno non lo avrebbe mai dimenticato, aveva
abbandonato in fretta la finestra ed era sceso nel cortile. Una volta giunto
alle spalle del ragazzo, le sue mani si erano mosse indipendentemente dalla
sua volontà. Non aveva potuto trattenersi dal toccarlo. E toccarlo gli aveva
fatto perdere la testa. Impadronirsi
di lui, quella sera, non aveva fatto che peggiorare la situazione. Di Wajdi non ne aveva mai abbastanza. E poi, con lo scorrere
delle notti, e dei mesi, non si era più trattato soltanto di un desiderio
ardente. Di più, era diventato amore. E anche Wajdi
aveva ceduto a quell’amore. O almeno così aveva creduto, fino a quel giorno. Il sole è ormai calato,
lasciando nel cielo spruzzate di viola e di arancio. Il vento sbatte la vela
con cigolii di cime che si tendono. Suleyman torna
nella sua cabina, con passo da sonnambulo. Anche i suoi pensieri sbattono di
qua e di là, come impazziti, ma il vento che se li contende è un dolore che
lo lascia svuotato e privo di forze. Ripensa alla galea veneziana, ai
pellegrini che vi ha visto imbarcare. Per quella rotta, le galee veneziane proseguono
in ogni direzione, ma la presenza di quei pellegrini, significa che è diretta
a Gerusalemme. Cosa ha a che fare con la fuga di Wajdi?
Non può esserne sicuro, ma sente che quella è la strada giusta. La galea
veneziana, i pellegrini. Wajdi è con loro? Tra i
pellegrini c’era qualcuno che lo aveva riconosciuto e lo aveva aiutato ad
evadere? Può darsi, può darsi. È quest’incertezza, che non può sopportare.
Sapere almeno dove sia andato, gli renderebbe un barlume di tranquillità.
Sapere che sta bene, che non è in pericolo. Sapere che la sua vita scorre
luminosa, anche se lontano da lui. Ayman e Bashir si
guardano intorno. I loro turbanti li rendono immediatamente riconoscibili,
pur in mezzo alla folla che gremisce il porto. Oggi non sono là soltanto per
vendere i loro tappeti. Del resto sanno che quello non è il posto giusto.
Rischiano di essere scacciati da un momento all’altro. Dovrebbero essere a
Rialto, l’unico luogo in cui commerciare gli sia concesso. Ma oggi hanno un
compito diverso dal solito. Sono in attesa di veder sbarcare i pellegrini
provenienti da Alessandria. -
Tu pensi
che ci sarà? – chiede Bashir, lisciandosi i baffi. -
Non lo so.
Ma se c’è, ci guadagneremo entrambi. – Il primo battello sbarca i
passeggeri. Non tutti hanno qualcuno che li aspetti, anzi, la maggior parte
di essi, sbarcando, non si guarda neppure intorno, limitandosi a raccogliere
i propri bagagli e ad allontanarsi, schivando a fatica la folla. Tra questi
non c’è nessun giovane che somigli alla descrizione accurata che Suleyman Na’Ima ne ha fatto. Bashir sospira. Ayman gli
sorride. -
Qualcun
altro sarà più fortunato di noi. Magari è rimasto a Gerusalemme, oppure è
andato in Spagna, o chissà dove. – -
È presto
per dirlo. Sta arrivando altra gente. – gli risponde Bashir,
sollevandosi in punta di piedi, per vedere meglio. -
Lo vedo. – -
Quello!
Quello è giovane, ha i capelli proprio come ce li ha descritti. – -
Ed è bello.
Sì, è davvero bello. Potrebbe essere lui. – Ayman e Bashir,
senza un attimo di esitazione, lo seguono, i tappeti in spalla, i turbanti
bianchi un po’ di traverso. Il ragazzo si allontana
dalla calca, con passo incerto. Attraversa Piazza San Marco, osservando
stupito l’immensa pavimentazione di cotto rosso, posata a spina di pesce, il
Palazzo Ducale con le sue possenti colonne, la chiesa, con le sue cupole, le
guglie e gli ori, che il riflesso del sole fa splendere come un gioiello, e
tutta quella gente che cammina in ogni direzione, colorata ed elegante. Il
ragazzo sembra del tutto frastornato. Gira intorno alla chiesa, si perde tra
le calli. Ayman e Bashir
capiscono presto che non sa dove sta andando. -
È giunto un
messaggio da Venezia, signore. – mormora il servo, tenendolo in bilico su un
piccolo vassoio d’argento, mentre si inchina più che può. Suleyman raccoglie con impazienza il foglio di
carta piegato in quattro e tenuto fermo da un punto di ceralacca, congedando
il servo con un cenno della mano. Apre il biglietto, divorandone in fretta le
parole. Suleyman sospira, rilassandosi sui cuscini. È
felice. Ha finalmente ricevuto la notizia che aspettava. Wajdi
è a Venezia. Riprende la lettura da capo, con più calma. Ogni parola è
importante. È un piccolo legame tra lui e Wajdi.
D’ora in poi i suoi contatti potranno riferirgli ogni notizia, anche banale,
che lo riguardi. Potrà seguire la sua vita da lontano. Risponderà
immediatamente a quella missiva, raccomandando a Bashir
di tenerlo d’occhio e di aiutarlo, se si accorgessero che il ragazzo si trova
in difficoltà. Invierà del denaro. Sono stati bravi, Ayman
e Bashir. Se lo meritano. Non deve dimenticare di
raccomandare a Bashir di seguirlo, se Wajdi dovesse
allontanarsi da Venezia. Suleyman non vuole
perderne le tracce. E per ultimo raccomanderà loro di non nominarlo mai. Non
vuole che Wajdi sappia che si interessa ancora di
lui. Perché? Questo, il comandante Na’Ima non lo
sa. Ma preferisce così. # # # Nel suo giardino, Suleyman passeggia, osservando i primi fiori di gelsomino
sbocciati tra i rami. C’erano gli stessi fiori nel cortile di Valona. Se li ricorda ancora. E ne ricorda il profumo
intenso, che lo stordiva, penetrando nella sua stanza. Anche qui accade, ma
non vi fa più molto caso, come se qualcosa gli impedisse ormai di
rallegrarsene. Come sempre, quei
minuscoli fiori gli ricordano Wajdi. Col tempo, Suleyman ha capito che non vivrà mai più un amore simile
a quello che lo univa a lui. Sono passati molti anni. Il ragazzo è diventato
un uomo. I suoi inviati, con cui Wajdi ha fatto
amicizia, lo hanno convinto a fornire informazioni. Certo, non segreti di
stato, soltanto piccole notizie di nessun conto, del tutto innocenti
all’apparenza, che però hanno un notevole valore per Suleyman.
Wajdi ha ceduto, ma non ha mai accettato denaro da
loro. Le sue informazioni però gli sono state preziose, in più di
un’occasione. Perciò gli è grato. Ma non è solo per questo che lo ama ancora.
Come gli piaceva da ragazzo, tanto più lo ammira come uomo. Tutti i resoconti
che gli sono pervenuti glielo hanno fatto apprezzare maggiormente. Vorrebbe sapere
come è cambiato, come è diventato. Spesso si dispiace che non potrà rivederlo
mai più. Ora i suoi informatori gli
hanno fatto sapere che Wajdi frequenta con
assiduità un certo Leonardo. Assiduità. Una parola che non vuol dire nulla.
Oppure che significa troppo. Il dolore è immediato. Inaudito. Accartoccia il
foglio nel pugno. Wajdi ha trovato un altro amore.
Del resto anche Suleyman ha avuto altri amori. No,
non come quello. Ma non poteva restare solo per sempre. Tuttavia, quello che
lo ha gettato in un’ansia inesplicabile, è venire a sapere che un frate lo ha
denunciato come spia. Wajdi è dunque in pericolo?
Cosa possono fargli? Il suo amico Leonardo potrà aiutarlo? Deve lasciarlo al
suo destino, finalmente? Ma come può? Non c’è modo di spegnere il suo dolore
e la sua angoscia. E non c’è modo di convincersi che deve abbandonare Wajdi alla sua sorte. Cosa sa effettivamente quel frate?
La sua accusa potrebbe apparire fondata, ma il frate non può averne le prove.
E se invece le avesse? Una soluzione c’è. Si apre davanti ai suoi occhi con
un’estrema chiarezza, con una semplicità evidente, così come il sole del
mattino illumina il suo giardino. Quel frate deve morire. Bashir è seduto davanti alla porta della sua
piccola dimora, in un campiello talmente minuscolo da non meritarsi nemmeno
un nome su un nizioleto. Approfitta dell’ultima
luce del giorno per fare qualche rattoppo. Benché in molti la considerino
un’attività tipicamente femminile, a lui piace, e vi si dedica con calma,
quando non ha nulla da fare. Del resto, viaggiando a lungo sulle
imbarcazioni, capita spesso di dover rattoppare le vele, e lui ha imparato
così. La visita del suo amico Bonaventura non lo
sorprende. Accade spesso che passi a salutarlo. Bashir è preoccupato. Bonaventura
sta partendo per Gradisca con Leonardo. Da quando gli ha parlato di lui, Bashir ha capito che tra quei due sta accadendo qualcosa.
Bonaventura è cambiato. -
Tu che esci
da Venezia? Quasi non ci credo. – esclama Bashir,
assestandogli una pacca sulla spalla, con la confidenza che gli è concessa
dai lunghi anni di amicizia. Bonaventura ride. -
Non ci
credo neppure io. Ma Leonardo mi ha convinto che fuori di qui c’è il resto
del mondo e che vale la pena vederlo. – -
Ha ragione.
Io che ho viaggiato nel Mediterraneo in lungo e in largo, sono d’accordo con
lui. Ma cosa andate a fare proprio a Gradisca? – -
Leonardo
non me lo ha detto, ma lui progetta ponti. Forse hanno intenzione di farne
costruire uno proprio là, sull’Isonzo. – -
Capisco. E
magari troverai anche tu qualcosa da fare, così finalmente ti vedremo
lavorare. – Quello è un piccolo
scherzo con cui Bashir lo tormenta da anni. -
Comunque, se in tua assenza dovesse accadere
qualcosa di interessante, te ne terrò informato. – aggiunge. -
Cosa vuoi
che capiti? – -
Qualcosa
capita sempre, a Venezia. – -
Per
esempio, che Fra’ Cherubino si tolga dai piedi? – Bashir ride. -
La galea
per Gerusalemme sta per partire. Tra poco ti sarai liberato di lui. – -
Sì, almeno
per qualche mese. – sospira Bonaventura. Bashir sa che, in un modo o nell’altro, Bonaventura si libererà davvero e per sempre del frate,
ma non può rivelarglielo. Inoltre è certo che lo scopo di quel viaggio a
Gradisca sia diverso da quello che gli ha prospettato il suo amico, ma non
insiste. Non ha ricevuto ordini in tal senso e lui è sempre ligio al suo
dovere. Gli ordini che invece ha ricevuto sono quelli di far seguire Bonaventura, ovunque vada. Una volta salutato il suo
amico, dopo avergli augurato buon viaggio, Bashir rientra
in casa. -
Samir, hai visto quell’uomo con cui parlavo? – -
Sì, è lui?
– -
È lui. Devi
seguirlo. E devi darne notizia al Pascià. – -
Sono sempre
al suo servizio. – risponde Samir, con convinzione. Bashir lo guarda. Ha il volto scuro, gli occhi
di brace, ma un’espressione serena, che ispira fiducia. Non deve avere
neppure trent’anni. Sa che maneggia il coltello con destrezza e che se c’è da
battersi, lo fa come un leone. -
Devi
proteggerlo. – insiste Bashir, per essere sicuro
che a Samir sia chiara la situazione. E non è
soltanto perché lo ha ordinato il Pascià. Bashir
tiene molto a Bonaventura. Lo ha persino ospitato i
primi tempi in cui si trovava a Venezia, ragazzo smarrito, lontano da casa,
confuso e senza un soldo, in quella grande città in cui non conosceva
nessuno. -
Lo farò.
Non dubitare. Ho ricevuto ordini precisi dal Pascià. – gli risponde Samir. Il pugnale che ha sibilato
vicino al suo orecchio, andandosi a conficcare nel legno di un portone, ha messo
a Fra’ Cherubino le ali ai piedi. Nel buio, solo rischiarato da qualche rara
lanterna, il frate corre come il vento. Ha rinunciato a reggere la tonaca a
due mani. La sua stessa velocità gliela solleva sulle gambe, ed è ben più
violenta la paura di essere raggiunto che quella di inciampare. Le calli e le
callette sfilano davanti a lui in una sequenza da
labirinto, da perderci il fiato, incalzato dai passi cadenzati che lo
inseguono, senza cedere di un metro. Correndo, perde i sandali, prima uno,
poi l’altro, ma è l’ultima cosa a cui pensa. Il suo unico scopo è di non
perdere la vita. Fra’ Cherubino sembra correre a caso, ma ha una meta precisa: il portoncino laterale dei Frari, che lasciano sempre appena accostato. Da alcuni minuti non sente più risuonare i
passi che lo inseguono, ma è sicuro che a nasconderne il rumore, sia il rombo
stesso del suo fiato grosso, che gli rintrona nelle orecchie come un tuono.
Quando ormai non ce la fa più, raggiunge finalmente il suo traguardo. Sa di
essere in salvo, quando varca il portoncino e lo richiude in fretta dietro di
sé, abbassando il paletto, per maggior sicurezza. Il sangue che gli scorre
veloce nelle vene lo stordisce. Gli manca l’aria. Cade a terra, in ginocchio,
appoggia la fronte al pavimento freddo e ringrazia Dio misericordioso che gli
ha concesso ancora un po’ di vita. Ma chi? Chi lo vuole morto? Suleyman Pascià è un uomo solo. Guarda il mare
dalle finestre del suo Palazzo di Costantinopoli e pensa ai suoi vecchi amici
che da tempo lo odiano per il suo successo. L’invidia è la prova della sua
elevata posizione. È in cima. Perciò è solo. Il Sultano si fida di lui ed ha
mille motivi per essergli grato. A tutto ciò non è estraneo Wajdi, che, benché ignaro, gli ha fornito informazioni
molto utili per trattare con i diplomatici della Serenissima, e più di ogni
altro, con il suo bailo. Sul tavolino un foglio di
carta ripiegato, il sigillo rotto, e un’unica frase: “Il sicario ha fallito”. Ma Suleyman
è un uomo previdente. Ha già messo in moto un piano alternativo, per disfarsi
di quel frate, che sembra costituire un serio pericolo per Wajdi. Da quando ha saputo che a Venezia la condanna che
punisce lo spionaggio è la pena di morte, il suo unico scopo è proteggerlo, a
qualsiasi costo. In fondo, i loro due paesi non sono molto diversi. Anche
nell’impero ottomano la pena per lo spionaggio è la morte. Si augura che Bashir sia sempre molto prudente. Samir si è appostato vicino alla fortezza di
Gradisca. In questi giorni ha visto uscirne Bonaventura
soltanto un paio di volte, e sempre da solo. Gli è sembrato strano. Ha
passeggiato lentamente verso il fiume, si è fermato ad osservare l’acqua
limpida, color dello smeraldo, e poi è tornato indietro. Strano che non segua
Leonardo nei suoi continui spostamenti a cavallo. Non li ha mai visti
insieme. Samir è nascosto in mezzo agli alberi.
Nessuno deve vederlo, neppure Bonaventura. E per
ora non ha nulla da riferire. A volte c’è tanto movimento là intorno, che
preferisce spostarsi anche lui sul fiume, e nascondersi tra le alte canne. Ma
da quella posizione non può più vedere la fortezza. Non è un’impresa facile,
questa. C’è troppa gente. Tra il compito di seguire le mosse di Bonaventura, e
quello di non farsi scoprire, spesso è dilaniato dall’indecisione. Inoltre
sta per esaurire i viveri. Presto dovrà allontanarsi per procurarsi da
mangiare. Ma ha deciso di ridurre i pasti e rimandare ancora di un paio di
giorni. È notte fonda, quando
viene svegliato da una risata, che riecheggia intorno a lui con la nota
metallica che avrebbe in una stanza vuota. Samir è
immediatamente vigile. Al buio, raccoglie le sue poche cose e si dirige verso
l’origine di quel suono inusuale. Quando scorge Bonaventura,
rimane stupito. Cosa ci fa là fuori a quell’ora di notte? Non capisce. Forse
la galea diretta a Gerusalemme è già stata affondata, così come Suleyman Pascià ha ordinato. Bashir
deve avergliene fatto giungere notizia. Forse Bonaventura
ha deciso che ora può liberamente tornare a Venezia. Ma perché in piena
notte? E come ha fatto ad uscire dalla fortezza? Eppure è del tutto inutile
che si ponga tante domande. Il suo compito è uno soltanto: seguire Bonaventura e proteggerlo. Ne va della sua testa. Da giorni e giorni Bonaventura continua a seguire la costa. Nei borghi si
ferma a mangiare, a comprare cibo da portarsi in viaggio, ma poi dorme lungo
la strada, sotto gli alberi, lontano dalla gente. Non si ferma mai. Samir era convinto che Bonaventura
sarebbe tornato a Venezia, invece, con incredulità, ha capito ben presto che
si dirige nella direzione opposta. Samir non riesce
a capire cosa abbia in mente. Non ha preso un cavallo. Va a piedi, veloce. A
volte si ferma a guardare il mare. Pensa forse di imbarcarsi? E per dove? Per
fortuna Samir ha una buona resistenza. Riesce a non
farsi staccare troppo, ma a sera, quando Bonaventura
decide finalmente di fermarsi, Samir è così stanco
che pensa di non farcela. Eppure non ha ancora trent’anni. Ma lui non è
abituato a camminare. Nel suo paese, solo gli stranieri sono costretti ad
andare a piedi. Ammira la resistenza
di Bonaventura, la sua falcata sciolta e possente.
Sarebbe un buon compagno di viaggio, se viaggiassero insieme. Ma Bonaventura non l’ha mai visto, non lo conosce.
Accetterebbe di viaggiare con uno sconosciuto che neppure sa dove sta andando?
Samir trae forza dal pensiero di fare tutto
questo per Suleyman. Deve molto al suo signore. Ha
salvato la sua famiglia. I fedelissimi di Suleyman
Pascià hanno ottime ragioni per esserlo. Sono pagati profumatamente se
eseguono i suoi ordini. È anche vero che sono puniti con la morte se lo
tradiscono. Ma Suleyman è un uomo che sa premiare i
suoi dipendenti anche in altri modi. Li protegge, aiuta le loro famiglie, sa
comprendere i loro desideri e anticipa i loro bisogni. Per questo Samir è onorato di essere stato scelto per un compito
tanto delicato. Non vuole deludere la fiducia che il suo Pascià ha riposto in
lui. Ma è dura. È davvero dura seguire Bonaventura,
che non sembra un uomo normale. Ha risorse di energia insospettate. Non c’è
nulla che sembra possa scalfire la sua forza. Samir
invece è stanco. A Parenzo,
finalmente, Bonaventura si ferma. Fino a qui si
spingono le galee dei mercanti provenienti dal sud. Da come si aggira per il
porto, a Samir sembra che stia cercando un
passaggio, ma per dove? Samir decide che gli starà
alle calcagna, tentando di salire sulla stessa imbarcazione su cui Bonaventura deciderà di imbarcarsi. Suleyman Pascià sprofonda tra i cuscini. Il suo
Palazzo è magnifico. Da anni ricerca le meraviglie dell’arte che il mondo può
offrirgli e ne adorna la sua dimora. È un cultore della bellezza, in tutte le
sue forme. Finalmente è tranquillo. Il frate che minacciava Wajdi è ormai cibo per i pesci. A quest’ora Wajdi sarà tornato alla sua vita tranquilla di Venezia. Un servo gli si accosta
consegnandogli un messaggio. Negli ultimi tempi i suoi messaggeri hanno avuto
molto lavoro. Apre il sigillo con calma. Distende il foglio e legge. Suleyman ha un sobbalzo. Il messaggio è conciso, ma
chiarissimo. Wajdi è diretto a Valona.
Valona? Proprio là dove tutto è iniziato, e
dove Suleyman non è più tornato. Perché Wajdi vuole andare a Valona?
Non sarà, per caso…? No. Non può osare di
attendersi tanto. Non può concedersi una simile illusione. Eppure, a dispetto
di tutto, un’attesa vaga, incerta e forse inutile, si accende dentro di lui. Suleyman Na’Ima Pascià, contro
ogni sensata ragione, contro ogni prudente saggezza, spera. Wajdi vuole raggiungere Valona.
Per tornare da lui? Suleyman ha seguito da lontano
lo scorrere della vita del suo schiavo, anche se già da molto tempo non pensa
più a lui in questi termini. Wajdi si è guadagnato
la sua libertà, nel momento in cui si è guadagnato il suo rispetto. A Venezia
è stato libero. Perché ora desidera tornare da lui? No, non può essere. Deve avere altri
motivi. Motivi che a Suleyman sono sconosciuti. È una piccola galea
proveniente da Ragusa, quella che ha attirato l’attenzione di Bonaventura. Anche Samir si è
avvicinato. Ha chiesto se avevano bisogno di aiuto per scaricare la merce. Ha
preso un’iniziativa. Doveva farlo, perchè Bonaventura lo aveva visto bighellonare là intorno. Non
voleva che sospettasse di nulla. E quando Bonaventura
ha chiesto un passaggio, ha fatto lo stesso anche lui. Nella baia echeggia il
grido dei gabbiani. La mattina è così luminosa che guardare il mare fa male
agli occhi. Le vele sono tese da un vento sostenuto. Samir
si avvicina a Bonaventura, che guarda la costa già
lontana, appoggiato con i gomiti alla battagliola. -
Giornata
splendida per navigare! – gli dice, fermandosi accanto a lui. -
Magnifica,
davvero. – -
Se il vento
tiene, saremo a Valona entro pochi giorni. – -
Lo spero. – -
In cosa
commerci? – gli chiede Samir. -
Per ora in
nulla. Vorrei raggiungere una persona che conosco. – -
Chi è? Magari
la conosco anch’io. Conosco un sacco di gente a Valona.
– -
Non ti
offendere, ma preferisco non dirlo. – -
Come vuoi.
Ho un po’ di vino di Cipro. Mi fai compagnia?- Bonaventura accetta con un sorriso. Samir gli è simpatico. Ed il sentimento è reciproco. Una galea di Ragusa è
diversa dalle altre. Non ci sono schiavi alla voga. Il patrone, Marin Severitan, conversa da
qualche minuto con i suoi due passeggeri. Bonaventura
commenta positivamente l’assenza di schiavi costretti ai remi. Severitan spiega loro che Ragusa ha abolito la schiavitù
già da tempo e racconta con orgoglio che sulla porta della città, quella che
affaccia sul porto, c’è un’iscrizione: “La libertà non si vende per tutto
l’oro”. -
Credo che
potrei trovarmi bene, nella vostra città. – commenta Bonaventura. -
Tutti ci si
trovano bene. – risponde Severitan, tornando a
badare alla navigazione. Il viaggio scorre liscio
fino a Durazzo. Per tutto il tempo, Samir e Bonaventura si sono raccontati ritagli di vita che hanno
tessuto un arazzo colorato e confuso. Allo scalo, Bonaventura
si rifiuta di sbarcare, adducendo di non sentirsi abbastanza in forze. Samir lo guarda con espressione stupita. Salta agli occhi
che si tratta di una scusa. Samir crede finalmente
di aver trovato una spiegazione al viaggio di Bonaventura.
Durazzo è territorio di Venezia. Quindi è da Venezia che sta fuggendo.
Perché? Il frate ormai è stato tolto di mezzo. Questo è certo. Quando Suleyman ordina qualcosa, quella cosa si fa, in un modo o
nell’altro. Deve esserci qualche altra ragione. Ma quale? Samir
si risolve di chiederglielo, anche se il suo amico potrebbe decidere di non
rispondergli. -
Hai qualche
conto in sospeso con Bonaventura, che ha avuto modo di conoscere meglio Samir e ha iniziato ad avere fiducia in lui, valuta il
rischio e decide di prenderselo. -
A Venezia
sono ricercato. – ammette, sottovoce. -
Allora la
tua salute è perfetta. Temevo dicessi sul serio. Sai, è sempre meglio non
parlare di malori, a bordo delle navi, se non si vuole rischiare la
quarantena su qualche isolotto sperduto. Ci mettono un attimo a sbarcarti
forzatamente e a dimenticarsi di te. – -
Hai
ragione. Non ci avevo pensato. – Samir gli sorride. -
E cosa hai
combinato per far incazzare i veneziani? – -
Qualcuno ha
imbucato una lettera d’amore in una bocca di leone…
- -
Scusa, non
capisco. – ribatte Samir, titubante. -
Sei mai
stato a Venezia? – -
Sì, ci sono
stato un paio di volte. – ammette Samir. -
Allora
avrai notato delle cassette a forma di fauci leonine, sparse per tutta la
città. Quelle bocche hanno una fessura dove la gente può introdurre le
denunce ai danni di chiunque si macchi di crimini contro le leggi emesse
dalla Signoria. Spesso sono anonime e false, e questa volta ci sono incappato
anch’io. Qualcuno mi ha accusato di essere una spia dei turchi. E quindi sono
ricercato.- -
Adesso
capisco. Quindi temi che l’avviso di ricercarti sia già stato comunicato in
tutti i territori e che il tuo nome venga riconosciuto. Ma dimmi, quando ti
sei imbarcato, non potevi fornire un nome falso? – -
Non ci ho
pensato. – ammette Bonaventura, candidamente. Samir scoppia a ridere. -
Scusa se te
lo dico, ma come spia fai schifo. –
commenta Samir, ridendo ancora. -
Lo so. –
sospira Bonaventura. Samir però deve sbarcare. Ha notizie da
comunicare al suo Pascià. Sa che sicuramente ha già inviato i suoi messaggeri
lungo il percorso per Valona. Non farlo, potrebbe
costargli caro. Quando Suleyman lo ha istruito, è
stato molto chiaro: inviare notizie ogni volta che sia possibile. In effetti,
un mercante turco lo attende sul molo. Lo segue con lo sguardo e gli fa un
cenno preciso. È il segno di riconoscimento dei fedeli del Pascià. Si gratta
prima il naso e poi si tira un orecchio. Samir si
avvicina e gli racconta quello che ha scoperto. A portare le notizie, ci
penserà lui. Il viaggio della galea
riprende verso Valona. Il mare, che si è mantenuto
abbastanza calmo, a metà del pomeriggio, improvvisamente si agita. Onde
sempre più alte lanciano schizzi sul ponte. Il vento a raffiche sembra voler
strappare via la vela ed anche i marinai che tentano di ammainarla. La lotta
è dura, ma alla fine gli uomini, scalzi ed inzuppati, l’hanno vinta. Non
resta che proseguire a remi, dirigendosi al riparo della costa. C’è un’altra
nave, poco lontana. É apparsa all’improvviso, non si capisce da dove. Del
resto, a bordo, tutti erano distratti dalle manovre per salvare la galea.
Anche quella è in difficoltà e sembra mantenere la stessa direzione.
Avvicinandosi alla costa, il mare si fa meno spaventoso. L’altra imbarcazione
si fa più vicina. Poi, per un repentino ripensamento, muta la sua rotta e
sembra voler incrociare la loro. Che senso ha? Un tonante colpo di cannone rende tutto
immediatamente più chiaro. Il tempo di far giungere
un messaggio a Valona, il tempo che torni una
risposta, e Suleyman comprende che qualcosa è
andato storto. Suleyman sa che Samir
gli avrebbe mandato un messaggio da ogni scalo. L’ultimo gli è giunto da
Durazzo. Da quel messaggero ha saputo che Wajdi è
ricercato a Venezia, nonostante abbia fatto uccidere il frate. Una fatica
inutile. Qualcun altro ha denunciato Wajdi. Ormai è
del tutto insignificante domandarsi chi sia stato. Il danno è fatto. Ma Suleyman pensa che in fondo non sia un danno. Quella
situazione ha spinto Wajdi fuori da Venezia, lo ha
convinto a recarsi a Valona. Lo avrebbe mai fatto,
se non fosse stato ricercato? Non
importa. Quello che conta è che ora Wajdi sia in
viaggio. Il problema è che a Valona non è ancora
arrivato. Suleyman è preoccupato. Samir a quest’ora si sarebbe fatto vivo. È di certo
accaduto qualcosa. Suleyman è sulle spine. L’ansia
lo costringe a muoversi. Che senso ha tutto questo? si chiede. Gli agi e la
sua posizione lo hanno reso pigro. Un tempo non era così. Un tempo sarebbe
corso lui stesso a Valona, incontro a Wajdi. E allora? Cosa gli impedisce di farlo? Non si
allontana da Costantinopoli da troppo tempo. È ora che vada. Del resto,
l’ansia che prova non gli concede di indugiare ancora. La galea ragusana si è
arresa. Forse riuscirà a limitare i danni. In questo spera Marin Severitan, finché il
corsaro non si presenta a gran voce. È Kemal. Nonostante gli accordi
commerciali di Ragusa con Samir è preso dal panico. Non sa come
proteggere Bonaventura. A lui basterebbe
presentarsi come turco, per evitare qualunque offesa, ma c’è in gioco la vita
di Bonaventura, e se non farà tutto il possibile
per difenderla, il suo Pascià gli staccherà facilmente la testa dal collo. -
Non ti
opporre. Non fare niente. Obbedisci docilmente, qualunque cosa ti dicano.
Pensa soltanto a restare vivo. – gli suggerisce Samir
in un orecchio. -
Non temere.
– risponde Bonaventura. – Restare in vita è sempre
stato il mio primo scopo. – Kemal porta un enorme turbante sulla testa.
Impugna la scimitarra più grande che Bonaventura
abbia mai visto. Il suo volto truce, cotto dal sole, è una ragnatela di rughe
impressionante, su cui spicca una cicatrice che gli attraversa una guancia,
rendendolo ancor più spaventoso. La sua voce stentorea riecheggia per tutta
la nave, come si potesse spostare alla velocità del vento. È ovunque,
rapidissimo e implacabile. I suoi ordini sono immediatamente eseguiti dai
suoi uomini, senza battere ciglio. Tutti coloro che sono imbarcati sulla
galea ragusana, vengono trasferiti su quella di Kemal.
Nessuno si oppone, sebbene pugni e calci vengano utilizzati in sostituzione
delle parole. Quando giunge il loro turno, non c’è più posto ai remi, quindi Samir e Bonaventura vengono
gettati nella stiva insieme agli altri che li seguono, nell’esiguo spazio
lasciato libero dalle merci che vi sono state caricate per prime. Il molo è in pieno
fermento. Suleyman ha fatto armare la galea in
tutta fretta. Il capitano Firas Hassan,
ha fatto del suo meglio ed anche di più, intuendo l’urgenza del Pascià, dalle
rughe che gli solcano la fronte. Non lo ha mai visto così preoccupato.
Sarebbe curioso di sapere cosa sta accadendo, ma non abbastanza da rischiare
la vita chiedendo. Sa che sarà messo al corrente di tutto ciò che gli occorre
per eseguire il suo compito, ma non di più. I suoi uomini eseguono
alacremente tutte le manovre che Hassan ordina per
lasciare velocemente il porto. La galea è già a metà del
Corno D’oro. Ma Suleyman non si accontenta della
velocità concessa dal vento, quindi ordina a Firas Hassan di mettere all’opera tutti i rematori. Il
capitano, con tutta la dovuta cautela, gli fa notare che sarebbe una follia.
Gli spiega che ha adottato la voga per turni, in modo da mantenere la
velocità costante e garantirsi sempre un turno di voga fresco. Suleyman vorrebbe esplodere, imponendo la sua autorità,
ma in fondo è un uomo saggio. Comprende che deve affidarsi all’esperienza di
coloro che in mare hanno sempre vissuto. Cede a malincuore. Vorrebbe già
essere a Valona.
Non ci ha più messo
piede negli ultimi diciotto anni. Era
così giovane, a quei tempi. Gedik Ahmet Pascià lo aveva notato e scelto, insieme con altri
comandanti, per guidare le sue truppe nell’assalto di Taranto. Il vento di
tramontana aveva invece spinto la sua flotta sulle coste di Otranto. Wajdi era figlio di quella città. Forse proprio per
questo si era trovato contrario a prolungarne l’occupazione, appoggiando con
forza l’opinione di Bayezid, il figlio del Sultano,
che riteneva troppo pericolosa, per Il viaggio gli sembra il
più lento che abbia mai affrontato. I suoi pensieri rincorrono un tempo ormai
lontano, riesumando momenti di cui non si aspettava di aver mantenuto
memoria. Con l’avvicinarsi di Valona, la sua ansia
si accresce, anziché diminuire. Il presentimento che lo ha spinto fin là,
attende soltanto una conferma. La costa è sempre la
stessa. Ne riconosce ogni anfratto, ne ricorda ogni ombra. A lungo ha
indagato quel profilo affilato in cerca di Wajdi,
che era appena fuggito. L’ancora scende in mare con gran fragore di catene. I
gabbiani si alzano in volo spaventati.
Suleyman ordina che qualcuno scenda subito a terra
in cerca di notizie. Lo farebbe volentieri lui stesso, ma la sua posizione
glielo impedisce. Oggi è prigioniero del suo rango e del suo prestigio. Un
paradosso che potrebbe farlo ridere, se non ne fosse così irritato. Osserva la lentezza con
cui il primo battello si avvicina alla riva. I remi che calano in mare, la
spinta dell’acqua, i muscoli dei marinai che si tendono, i remi che vengono
sollevati, lasciando sulla superficie del mare una scia di gocce d’acqua e
una schiuma leggera. È esasperante. Altri marinai vengono inviati a far
rifornimento d’acqua e di cibo. Suleyman continua
ad osservare le manovre con un’intima voglia di urlare. Finalmente, dopo un
tempo che gli appare infinito, vede ritornare gli uomini che sono andati a
chiedere notizie. I rematori si affrettano, come se intuissero la sua
impellente impazienza di sapere. -
Mio
signore, nessun mercantile ragusano è attraccato, ma circola voce che il
corsaro Kemal si stia aggirando nei paraggi e che
abbia già depredato e affondato due navi. – Kemal. Proprio lui! Erano stati ostili l’uno
all’altro, ai tempi in cui si decidevano le sorti di Otranto. Kemal aveva sostenuto Ahmet
Pascià. E aveva perso. Una volta divenuto Sultano, Bayezid
aveva fatto uccidere Ahmet, perché non si fidava
più di lui, e aveva guardato con sospetto a tutti i suoi seguaci, Kemal compreso. Suleyman,
invece, aveva fatto carriera. Bayezid lo aveva
tanto stimato da farlo Pascià. Kemal lo odiava. Di questo era certo. -
Voglio che
ripartiamo non appena possibile. – ordina a Firas Hassan – Voglio cercare Kemal.
Chiederemo notizie a qualunque imbarcazione incontreremo. – -
Certo, mio
signore. – risponde il capitano, inchinandosi. Il suo sguardo si posa per
un attimo sul volto di Suleyman Pascià. Non capisce
cosa stiano cercando, ma la preoccupazione è dipinta a chiare lettere sul
volto del suo signore. Vorrebbe confortarlo, ma non può osare tanto. Quello
che può fare è eseguire i suoi ordini il più in fretta possibile. Mette i suoi uomini di
vedetta per avvistare qualunque imbarcazione, imposta i turni di voga, fa
issare le vele. Non è difficile, in quella stagione, incontrare tre o quattro
vascelli al giorno, scendendo lungo la costa. E infatti ne incontrano,
chiedono notizie, e dopo due giorni, finalmente, ottengono le indicazioni che
cercavano. Kemal naviga poche miglia più a sud. Suleyman, sollevato, ordina di raggiungerlo. Samir non si fa riconoscere da Kemal, benché, essendo turco, sia protetto dalla legge,
che stabilisce che non possa essere fatto prigioniero. Però il suo primo
compito è restare vicino a Bonaventura. E poi sa
che Kemal è un nemico del Pascià, con cui forse ha
dei conti in sospeso, e non sarebbe prudente informarlo di essere al suo
servizio. Bonaventura si domanda se riuscirà mai a raggiungere
Valona. -
Dove ci
portano? – chiede a Samir. -
Non lo so. Kemal è il più temuto dei corsari, ma di solito, se non
uccide subito, le sue prede hanno per lui un valore. Vedremo. E poi qualcosa
ci inventeremo. Non preoccuparti. – -
È un po’
difficile non preoccuparsi. – -
Qualunque
cosa accada, cercherò sempre di restarti vicino.– Bonaventura non capisce. La loro amicizia non gli
sembrava già così solida da giustificare quelle parole, però glien’è grato. Finalmente Suleyman raggiunge l’imbarcazione di Kemal. L’ordine è di accostare. Kemal esegue un paio di manovre diversive per
sfuggire alla galea del Pascià, ma poi la curiosità lo vince. Le due galee si
accostano e i rampini uniscono le murate. È Kemal
che chiede, con voce tonante, perché la sua nave sia stata fermata. -
Ho regolare
patente di corsa. – afferma, con sicumera. -
Tuttavia ci
sono leggi che anche tu devi rispettare. – gli risponde Suleyman,
deciso. -
E quale
sarebbe questa legge che avrei trasgredito? – -
Su una
delle galee che hai requisito, c’erano due uomini che mi appartengono, Samir e Wajdi. – Kemal non è del tutto sorpreso. Ha notato la
presenza di un turco, tra i prigionieri, ma questi non si è fatto avanti. Ha
preferito per qualche motivo accettare lo stesso trattamento degli altri. -
Non ne ero
a conoscenza. Se è come dici, te li restituirò. – Uno dei marinai scende
nella stiva e scruta le facce dei prigionieri. All’unico che gli sembri un
turco, chiede: -
Come ti
chiami? – -
Samir. – -
Ci sono
altri turchi tra voi? – Nessuno risponde. -
Vieni, tu,
ti reclamano. – dice a Samir. Mentre il marinaio confabula
con Kemal, Samir
riconosce il suo Pascià e gli urla: -
Wajdi è con me. – Kemal gli affibbia un manrovescio per
zittirlo. -
Tu parli
quando lo dico io. – gli urla, afferrandolo violentemente per le spalle. -
È questo
uno dei tuoi uomini? – chiede al Pascià. -
Sì. É lui.
– -
Puoi
riprendertelo. – dice, spingendo di forza Samir a
passare sull’altra galea. -
Voglio
anche l’altro. – gli dice Suleyman. -
Non ci sono
altri turchi, qua sopra. Puoi andartene. – Nonostante sappia
perfettamente che un’offerta potrebbe essere un’arma a doppio taglio, il
Pascià è costretto a provarci. -
Ti offro
10.000 akce, se me lo rendi. – Kemal vede finalmente il modo di vendicarsi di
quel vecchio rivale, dei tempi della presa di Otranto. Molti anni prima, un
conflitto li aveva portati ad affrontarsi ed a diventare quello che erano
ora, là, uno di fronte all’altro, un corsaro e un Pascià. Suleyman
sa che non può obbligarlo. Kemal lo sa ancor meglio
di lui. -
Puoi
tranquillamente risparmiarteli. Gli altri sono miei. – -
A maggior
ragione puoi vendermelo. Ti darò 20.000 akce. –
replica Suleyman. -
Tutti gli
altri saranno venduti regolarmente al Mercato degli schiavi di
Costantinopoli. – lo informa Kemal, con voce
stentorea. – Se ci tieni tanto, potrai partecipare all’asta e pagarlo quel
che merita. – -
Non
guadagnerai tanto vendendolo al Mercato. Io ti offro molto di più. – -
Non è per
denaro. È una questione di principio. – risponde Kemal. Suleyman si arrende, perché sa quale sia questo
principio. Per Kemal vendicarsi di lui è molto più gratificante
che riempirsi le tasche. Bonaventura ha sentito Samir
urlare il suo antico nome, Wajdi. E un brivido è
corso lungo la sua schiena. Vuole chiedergli come faccia a conoscere quel
nome. Vuole mille spiegazioni. Ma l’attesa di vederlo tornare si fa sempre
più lunga. Bonaventura non capisce perché Samir non ritorni nella stiva. Poi qualcuno gli dice: -
Fortunato
il tuo amico! Un Pascià lo ha richiesto e Kemal
glielo ha ceduto. – -
Noi invece
saremo venduti al Mercato degli schiavi di Costantinopoli. Così ha detto Kemal. – aggiunge un altro. -
Venduti
come schiavi… – ripete Bonaventura. Di nuovo? Ma certo.
Cos’altro se ne farebbe di noi un corsaro? Schiavo per la seconda volta. Ma
il mio destino non è ancora segnato. Sono fuggito una volta, potrò farlo di
nuovo. A costo di farmi uccidere. Devo trovare il modo di tornare a Valona. Devo ritrovare Suleyman.
Di tutto il resto non mi importa niente. Samir sprofonda in un inchino davanti al suo
Pascià. -
Ti
ringrazio per avermi liberato, mio signore, ma ora Bonaventura?
– -
Lo
riprenderò al Mercato degli schiavi. – -
E se Kemal decidesse di venderlo altrove? Come lo ritroveremo?
– -
Inshalla! – risponde Suleyman,
con un sospiro di rassegnazione. Il viaggio di ritorno a
Costantinopoli si consuma in un breve volgere di albe e tramonti, a cui Suleyman bada appena. I suoi pensieri sono concentrati su
una piccola vendetta che vuole prendersi su Kemal.
Quel corsaro non deve vedere un akce per la vendita
di Wajdi. È deciso a riappropriarsene ed ha già in
mente uno stratagemma. Conosce bene Rashid, il capo
del Mercato. Lo farà convocare a Palazzo, non appena riuscirà a rimetterci
piede. Rashid indossa il suo baracano
più elegante, in segno di rispetto verso il Pascià che lo ha convocato. Fa
un’anticamera brevissima, circostanza che gli guadagna gli sguardi invidiosi
dei numerosi postulanti assiepati nella sala. Poi, in men
che non si dica, si profonde in un inchino ossequioso, davanti a Suleyman. -
In cosa
posso servirti, mio signore? – -
Rashid, ho un compito molto delicato per te. – -
Tutto
quello che desideri, mio signore. – -
Si tratta
di un affare per cui sarai pagato molto bene, non dubitare. Si tratta di
questo. - Mentre torna al suo
Mercato, Rashid è contento. Deve molti favori al
Pascià e quindi è giusto che abbia deciso di ricambiarlo a sua volta, senza
alcun compenso. Non si chiede perché ci tenga tanto, il Pascià, ma se si
tratta di una vendetta, lui è perfettamente d’accordo con Suleyman.
Non ha mai potuto sopportare l’arroganza, l’insolenza e la violenza gratuita
di Kemal. Certo non si aspetta di
trovarselo davanti così presto, proprio sul portone del Mercato. -
Devi
aspettare. Ho altri impegni in questo momento. Torna più tardi. – gli dice,
sbrigativamente. Ma Kemal
gli sbarra il passo. -
Farò in fretta.
Non c’è bisogno di tornare. – -
Invece
devi. Adesso non ho tempo. – ribadisce Rashid,
scrollandoselo di dosso e dirigendosi in fretta lungo il corridoio. Appena dentro la stanza
del suo segretario, Rashid sprofonda sui cuscini. È
tutto sudato. È agitato. Non ha fatto in tempo ad organizzarsi. -
Ravi, devi andare di corsa da Suleyman Pascià ed avvisare che Kemal
è già qui. Digli che mi mandino in fretta Samir.
Più in fretta che può. Corri! – lo incita, vedendo che sta ancora lì, con le
braccia penzoloni. -
Non
capisco. – si lamenta il segretario. -
Non devi
capire. Devi correre! Ho bisogno di Samir, subito!
– Ravi finalmente si muove, ma non alla
velocità che si augurerebbe Rashid. Deve fare in modo che il
lotto di Kemal spunti il minor prezzo possibile.
Non importa se nell’affare ci rimetterà, e molto. La sua percentuale resterà
davvero scarsa. Ma è irrilevante. E sa come fare per mantenere l’asta
bassissima. Presenterà gli schiavi così come arrivano, sporchi, malridotti,
maleodoranti, miserevoli e stracciati, e con i segni delle violenze subite.
Basterà questo, per sminuirne il valore. Ma per l’altra cosa ha bisogno di Samir. Si augura che arrivi in fretta. Quando giungono gli
schiavi, Rashid ordina che siano introdotti nella grande sala dove avvengono
le aste. Kemal li accompagnerà. È piuttosto
inusuale che gli schiavi in vendita non vengano prima ripuliti, nutriti e
lasciati riposare, per riacquistare un aspetto presentabile. Ma Kemal ha fretta di concludere l’affare e non ci fa caso.
Meglio così. Rashid se ne compiace. È Kemal stesso a fare il suo gioco. Non gli sarà difficile
accontentare il Pascià. Per quel lotto Kemal non
ricaverà neppure 10.000 akce, la metà di quanto Suleyman gli aveva offerto per il solo Wajdi. Rashid ha accompagnato Samir
a vedere la stanza dove dovrà andare a prendere Wajdi
ed ora, insieme, spiano nel salone da una piccola grata. -
Allora, Samir, qual è Wajdi? – -
Quello più
alto, il terzo da sinistra. - -
Va bene.
Adesso vado. Quando vedrai che Wajdi viene portato
fuori, potrai andarlo a prendere nella stanza che ti ho mostrato e condurlo
dal tuo signore. – -
Sarà fatto.
– risponde Samir, rimanendo a spiare dalla grata. Sta sudando. L’aria nella
piccola stanza segreta è soffocante. Ma deve restare nel nascondiglio per
seguire la conversazione tra Rashid e Kemal, per riportarla accuratamente alle orecchie del
Pascià, che glielo ha chiesto espressamente. Finalmente vede Rashid entrare nella sala ed osservare la lunga fila
degli schiavi, ad uno ad uno, sotto gli occhi di Kemal.
Poi Rashid si ferma davanti a Wajdi,
osservandolo dalla testa ai piedi, gli appoggia una mano sulla spalla e si
volta verso Kemal. -
Questo lo
prendo per me. – gli annuncia, con espressione sicura. -
E no,
proprio su questo contavo di guadagnare qualcosa di più che dagli altri. È il
più robusto e ben fatto, non lo vedi? – dice Kemal. -
Certo che
lo vedo, è perciò che lo voglio per me. – -
Non se ne
parla. – si oppone Kemal. Rashid ha un sorriso che gli distende appena le
labbra, mentre il suo sguardo sprizza malizia. -
Allora puoi
andarli a vendere altrove. Questo è il mio Mercato. Qui si fa come dico io o
non se ne fa niente. – Kemal finge di disperarsi. -
Ma questo è
l’unico Mercato decente di Costantinopoli! – -
Ed è anche l’unico
che accetterebbe un lotto tanto malridotto. Cosa gli hai dato da mangiare?
Topi putrefatti? Non senti come puzzano? – -
Come vuoi
che odorino, dopo essere stati per due mesi nella stiva di una galea? – -
Potevi
almeno farli lavare! – -
La prossima
volta, prima di portarteli, li farò gettare in mare, così saranno ben lavati.
– -
Se non me
lo cedi, non ci sarà né questa, né una prossima volta. – minaccia Rashid, afferrando per un braccio Wajdi. -
Tu vuoi la
mia morte. Mi vuoi vedere in rovina. – lo accusa Kemal. -
Hai detto
che vuoi venderli qui? – -
Sì, ma non
a questo prezzo. - -
Prendere o
lasciare. – gli intima Rashid, che ne ha
abbastanza. Di solito, mercanteggiare lo diverte, ma non questa volta. Kemal si guarda intorno, come in cerca di
sostegno, ma nessuno dei presenti sembra volerlo minimamente appoggiare. -
E va bene.
Però è un’ingiustizia bella e buona. – -
Qui comando
io e la giustizia sono io. – conclude Rashid, senza
alcuna pietà. Quindi fa condurre Wajdi in una stanza sul retro, mentre Samir
resta ancora un poco a spiare ciò che accade nella sala. Poi esce per
dirigersi nell’altra ala dell’edificio, dove incontrerà Wajdi.
Affronta i lunghi corridoi con passo spedito, incontrando pochi servi
occupati nei loro compiti. Nessuno lo degna di uno sguardo. Giunto nel
corridoio giusto, Samir conta le porte. È la
quinta. Senza bussare, entra nella stanza. Si guarda intorno. La stanza è
deserta. Non crede ai suoi occhi. Eppure è proprio questa. Ne ha la certezza
assoluta. Si guarda bene intorno ancora una volta, ma non ci sono nascondigli. E nonostante
l’inutilità del gesto, lo chiama: -
Bonaventura! – Ma solo il silenzio gli
risponde, ed un soffio d’aria gelida che gli taglia la nuca, come la lama
affilata della scimitarra che ben presto il Pascià impugnerà per staccargli
la testa. In fretta si lancia fuori e tenta di forzare ogni porta,
percorrendo a zig zag il
corridoio. Guarda in tutte le stanze aperte, si affaccia nei cortili. La
disperazione si impadronisce di lui. Con quale coraggio potrà dire a Suleyman che Wajdi è fuggito? L’uomo che ha accompagnato
Bonaventura, gli ha detto di aspettare là, poi è
uscito richiudendosi la porta alle spalle. Di tutto quello che è accaduto, ha
capito soltanto una cosa, non sarà venduto come schiavo. Il padrone del
Mercato lo ha reclamato per sé. Cosa ha intenzione di farne? Sarà quella la
sua nuova prigione? Bonaventura non ha sentito né un giro di chiave
nella serratura, né il tonfo di un paletto che la serra. È il momento di tentare la fuga. Forse non
si presenterà mai più un’occasione come quella. E se ci fosse una guardia
alla porta? Troverà una scusa. Non possono ucciderlo solo perché sbircia da
una porta. Ma fuori non c’è nessuno. Esce nel vasto corridoio deserto, lo
percorre con cautela fino in fondo, con le orecchie ben tese per percepire il
minimo rumore. Non incontra anima viva. Tenta di aprire qualche porta, finché
non ne trova una che cede e si introduce di soppiatto nella stanza. Chiude la
porta con il paletto. E poi si guarda intorno. C’è un giaciglio, tra due
finestre che affacciano su un piccolo cortile. In un angolo c’è un semplice
cassone di legno scuro. Ne solleva il pesante coperchio e trova all’interno
un gran numero di abiti. Decide in fretta di cambiarsi. Indossa un paio di
pantaloni bianchi di tela, che miracolosamente gli stanno bene, e una lunga
camicia bianca, di tessuto più leggero, che lascia fuori dai calzoni, come ha
visto che è d’uso tra i turchi. Nasconde dietro al cassone i suoi vecchi
abiti logori e poi si avvicina a una delle finestre. Il cortile è deserto.
Gli sembra di intravedere uno stretto cancello di ferro, nascosto dai
rampicanti di una siepe rigogliosa, che ricopre l’intero muro per tutta la
sua lunghezza. Scavalca la finestra nella speranza che quel cancello possa
condurlo fuori dal Mercato. Il cancelletto ha un lungo
chiavistello senza lucchetto, piuttosto arrugginito dalla salsedine. Il
cigolio degli strattoni che gli occorrono per sfilarlo dagli anelli, lo fanno
sudare freddo. Gli sembra che quel rumore stridulo, amplificato dalla sua paura,
possa essere sentito in tutta la città. Teme che presto qualcuno si affaccerà
ad una delle finestre e lo utilizzerà come bersaglio per il tiro con l’arco.
Ma finalmente è fuori, sul lato settentrionale del porto. Bonaventura
cammina spedito, ma senza correre, per non farsi notare. Svoltato l’angolo,
c’è una quantità di gente che entra ed esce dal caravanserraglio. Ben presto
si perde tra la folla. Suleyman Pascià è preoccupato. È giunto il
tramonto e con esso ancora nessuna
notizia di Samir e di Wajdi.
Si rifiuta di credere che ancora una volta qualcosa possa essere andato
storto. Tra poco Samir si presenterà. Non può
tardare. I cuscini su cui è appoggiato gli sembrano duri e pieni di spine. Si
agita. Batte le mani. Poco dopo, un servo entra nella stanza con un vassoio,
su cui sono appoggiati una piccola brocca d’argento e una tazzina di vetro
opalino. Si avvicina, si inchina e lascia il vassoio su un tavolino accanto a
Suleyman, ritirandosi in silenzio. Sa che il Pascià
preferisce servirsi il caffé da solo. Suleyman è confortato dal profumo che emana dal bricco.
Sospira. A che gli serve essere un Pascià, se non può ottenere quello che
vuole? Quello che vuole è Wajdi in quella stanza,
di fronte a lui, immediatamente. E strangolare Samir
con le sue stesse mani. Quando il cielo è ormai
nero e la luna alta sul mare, Samir è in ginocchio
davanti al suo Pascià, con la fronte che tocca l’intricato disegno
dell’immenso tappeto rosso e oro che ricopre il pavimento della sala. Non osa
fiatare, in attesa che Suleyman gli dia il permesso
di farlo. Samir trema. -
Che cosa è
successo? – gli chiede il Pascià, con voce piatta, che nasconde la sua rabbia
trattenuta. -
Prima che
potessi incontrarlo, Wajdi è fuggito, mio signore.
– Di nuovo? Questo è dunque il nostro crudele
destino? Suleyman sospira. Wajdi
di nuovo in fuga, e lui di nuovo deciso a ritrovarlo. Un serpente che si
morde la coda. La ruota del destino che non muta mai la direzione della sua
corsa. A che serve opporsi al destino? -
E tu l’hai
cercato, naturalmente. – ipotizza Suleyman,
ricordandosi di Samir, prostrato davanti a lui. -
Sì, mio
signore, ma non sono riuscito a trovarlo. Non ancora. Ma domani mi rimetterò
alla sua ricerca. Lo troverò. – -
Alzati, Samir. - Suleyman sospira di nuovo. Non vuole infierire su
Samir, che è l’unico che possa facilmente
riconoscere Wajdi. -
Sì, Samir, trovalo. Costantinopoli è una grande città, ma è
piccola per gli stranieri. Sono pochi i luoghi in cui possano nascondersi. – -
Sì, mio
signore. – risponde Samir, inchinandosi, ed indietreggiando
fin quasi alla porta. -
Samir, fai controllare i moli. Forse Wajdi ha sempre intenzione di raggiungere Valona. – -
Sì, mio
signore. – ripete Samir, uscendo. Fuori dalla sala, Samir si sente fortunato. Ha ancora la testa sul collo.
Però è profondamente dispiaciuto di aver deluso il Pascià. Non lo ha mai
visto così rattristato. Il bailo
di Venezia, Andrea Gritti, è convocato a Palazzo.
Tra Suleyman ed il bailo
ci sono già stati numerosi incontri, che hanno portato ad entrambi i loro
paesi profitti commerciali, in un gioco di equilibrismo che fa pendere la
bilancia ora da una parte, ora dall’altra, ma con piena soddisfazione di
entrambi. Non è affatto raro, dunque,
che il bailo venga convocato. È la modalità, che è
diversa dal solito. Normalmente, l’invito non comprende la parola
“immediatamente”. Il bailo si reca a Palazzo con un
senso di vaga preoccupazione. Il Pascià lo accoglie amichevolmente come
sempre. E come sempre, il bailo si guarda intorno
con un misto di ammirazione e di invidia. La ricchezza del Palazzo lo lascia
sempre un po’ frastornato e con un lieve senso di inferiorità, davanti a
tanto spudorato splendore. Dopo diversi minuti di
convenevoli da ambo le parti, il Pascià decide di averne avuto abbastanza e
arriva al punto. -
Voi conoscete
sicuramente, almeno di nome, il corsaro Kemal,
immagino. – -
Sì, certo.
E non è molto amato da nessuno dei mercanti che conosco. – -
Con fondati
motivi, naturalmente. È appena tornato a Costantinopoli con il frutto di due
arrembaggi. Al Mercato degli schiavi ha tentato di vendere, tra gli altri,
uno dei vostri, il quale però non si è trovato d’accordo ed è fuggito per
tempo. Era in viaggio per Valona. Me lo ha riferito
uno dei nostri mercanti, anche lui diretto a Valona,
e anche lui scampato alle grinfie di Kemal. Il
mercante che me l’ha raccontato, Samir, ci terrebbe
molto a ritrovarlo, perché aveva stretto alcuni accordi molto vantaggiosi con
lui. – -
Come si
chiama? – chiede il bailo. -
Bonaventura da Otranto. – -
A dire il
vero, il suo nome non mi dice nulla. - -
C’è
dell’altro. Samir mi ha raccontato che a Venezia
questo mercante era stato denunciato come nostra spia. Poiché neanch’io ne avevo mai sentito parlare, ho fatto indagare
a fondo sulla questione e vi posso assicurare, senza tema di smentita, che
quest’accusa è completamente falsa. Per il bene dei nostri precedenti
accordi, sarebbe il caso che vi interessaste per togliere dal suo capo
quest’accusa infamante, non tanto per lui, che non conosco neppure e di cui
non m’importa, quanto e soprattutto, per rispetto nei nostri confronti. Di
certo non abbiamo alcun bisogno di spie per svolgere i nostri affari, quindi
riteniamo che questo sia un vero e proprio affronto. Tornando a questo vostro
mercante, poichè proviene da Venezia, sicuramente
farà capo al mercato veneziano e probabilmente si rivolgerà a voi per essere
aiutato. Vi chiedo solo la cortesia di mandarlo qui per incontrare Samir, che ci tiene molto. Sapete come sono questi
mercanti. – Il bailo,
un diplomatico dei più fini, di solito molto arguto, è rimasto senza parole. -
È
nell’interesse del buon andamento degli accordi già stabiliti tra i nostri
due paesi. – insiste il Pascià. Il bailo
prende nota del velato ricatto. -
Certo.
Naturalmente. Farò tutto ciò che è in mio potere. – afferma Gritti, tentando di nascondere meglio che può il suo
stupore. Chi diavolo è Bonaventura da Otranto? Perché ci tiene tanto Suleyman Pascià? Il bailo di
Venezia, uomo piuttosto perspicace, se ne torna al suo Palazzo con una
convinzione ben precisa. Bonaventura da Otranto è una
spia di questo Pascià. Anzi, non una semplice spia, bensì una pedina
fondamentale della sua rete di spionaggio. Trovarlo e metterlo in catene
diventa la sua priorità assoluta. Non appena rimette piede nella sua
residenza, il bailo racconta tutto ai suoi messi e
li invia al Gran Bazar, per diffondere la voce, tra i mercanti veneziani, che
probabilmente questo Bonaventura si farà vivo.
Hanno ordine tassativo di condurlo immediatamente da lui. Nel gigantesco labirinto
di stradine, Bonaventura si aggira in mezzo alla
folla, come un comune viaggiatore desideroso di acquistare merci. È
tranquillo. Nessuno lo conosce. Il mercato è immenso. Le botteghe, una di
seguito all’altra, raggruppano per zone i mercanti di ogni provenienza, in un
caleidoscopio di colori che quasi ferisce gli occhi. Passano davanti a lui
volti di ogni colore ed abiti di ogni foggia. Ascolta idiomi di ogni origine
e percepisce gli aromi di ogni spezia. Si perde nei suoi pensieri. Quando è
partito da Gradisca, Valona gli sembrava immensamente
lontana. E invece, è finito fino a Costantinopoli. Adesso deve tornare
indietro, ad ogni costo. Se per tanti anni il pensiero di tornare da Suleyman è rimasto soltanto una specie di sogno vago,
adesso è la sua unica meta, la sua unica ragione di vita. Ma come può tornare
a Valona? Una possibilità ci sarebbe. Trovare un
mercante che debba far giungere le sue merci proprio là, offrirsi come
corriere, presentandosi con un nome diverso. Sì, prima di tutto, ha bisogno
di un nome pulito. -
Bonaventura! Sei proprio tu! – Bonaventura si volta, stordito. Non immaginava di
essere riconosciuto, così lontano da casa. In questo preciso momento, è
l’ultima cosa che avrebbe desiderato. -
Quando il bailo ha fatto circolare la voce, pensavo che fosse uno
scherzo. – Ma più che lo stupore di
vedersi di fronte la faccia larga e sorridente di Tebaldo,
con cui ha fatto affari a Venezia non molto tempo fa, è un’altra la cosa che
lo spiazza completamente. -
Il bailo sa che sono qui? – chiede, con voce malferma. -
Lo sanno
tutti. E anche della tua fuga da Kemal. Bravo! E di
quel mercante tuo amico, che ti sta cercando. Samir,
mi pare che si chiami. – Bonaventura passa di sorpresa in sorpresa. -
Anche Samir è qui? – -
E dove vuoi
che sia? È questo il centro del mondo. – Bonaventura resta interdetto. -
Devi andare
subito dal bailo. Ti aspetta. Ti vuol parlare. – Nella testa di Bonaventura nasce un vortice di pensieri che rischia di
travolgerlo. -
E dove lo
trovo? – chiede, fingendo di acconsentire all’invito. -
Al suo
Palazzo, naturalmente. – -
E Samir dov’è? – -
Al Palazzo
del Pascià Na’Ima. – Bonaventura sa che deve riflettere. È accaduto tutto
troppo in fretta. É confuso e spaventato. -
Va bene. Ti
ringrazio. – gli dice. -
Ti
accompagno io. – afferma Tebaldo, con espressione
decisa. Bonaventura comprende che questi sono gli ordini del
bailo. Chi lo trova, non deve lasciarselo sfuggire.
Bonaventura prende tempo. -
Aspetta. Ho
prima una commissione da fare, poi torno e mi accompagni. – -
Ma fai in
fretta, mi raccomando. Il bailo ti aspetta. –
insiste Tebaldo, indeciso se lasciarlo andare. -
Certo, ci
metto poco. – lo rassicura. Ci mette davvero poco, Bonaventura, a dileguarsi. Di sicuro, l’ultimo posto al
mondo dove vuole andare è il Palazzo del bailo. Non
ci tiene a finire in catene, gettato nella stiva di qualche galea diretta a
Venezia e dato in pasto al Consiglio dei Dieci. Samir invece è un punto interrogativo nella
sua mente. Come fa a sapere che si trova a Costantinopoli? E lui che ci fa?
Perché lo sta cercando? Forse vuole aiutarlo ad uscire dal ginepraio in cui
si è cacciato? Samir è un amico. E poi ha una
semplice domanda da porgli, che non ha ancora trovato risposta. Una domanda
che ha continuato a ronzargli nella mente dall’ultima volta che ha sentito la
sua voce, prima che sparisse dalla galea di Kemal.
Come mai lo ha chiamato Wajdi? Non è la cosa più facile
del mondo, per lui, straniero in quell’immensa città, trovare il Palazzo di
questo Pascià. Oltretutto teme ancora che il padrone del Mercato degli
schiavi lo stia facendo cercare. Quando chiede indicazioni, riceve risposte
vaghe o incomprensibili, ma non osa insistere. Però Bonaventura è uno
che non si arrende mai. Ed infine, dopo un lungo cammino, viene premiato
della sua ostinazione. Il Palazzo è superbo. Ma
ammirarlo, lo mette subito in uno stato di soggezione. Come può presentarsi
così, chiedendo semplicemente di vedere Samir? E se
lo cacciassero via, come un mendicante importuno e sfrontato? E cosa diavolo
ha a che fare, Samir, con quel Pascià? Non è del tutto sicuro di
quello che sta facendo, quando si avvicina alla guardia che sorveglia il
portone e gli chiede di Samir. Ma un largo sorriso
risponde alla sua richiesta. La guardia lo accompagna dentro, affidandolo ad
un servo con una sola spiegazione: -
Samir. – Il servo gli si inchina e
lo conduce per un magnifico scalone. Negli ultimi giorni, “Samir” è diventata una parola d’ordine, a Palazzo. Le
disposizioni, semplici e chiarissime, sono che qualunque straniero si
presenti chiedendo di Samir, debba essere
introdotto immediatamente alla presenza del Pascià. Bonaventura si guarda intorno affascinato, sempre
più sopraffatto da tanto splendore, finché il servo si ferma davanti ad una
porta, bussando leggermente. Poi l’apre davanti a lui, lo spinge con
delicatezza all’interno della sala e richiude la porta alle sue spalle. Bonaventura si aspetta di vedere Samir,
ma di sicuro l’uomo che si trova davanti non è lui. L’uomo gli va incontro.
Più si avvicina, più sembra a Bonaventura di vivere
all’interno di un sogno impossibile. -
Suleyman? – chiede, sbalordito. -
Wajdi, finalmente! – Lo slancio con cui si
abbracciano viene da molto lontano. C’è tutto il loro passato, dentro, e
anche un po’ del loro futuro. E nel bacio che si scambiano, la passione che
non hanno mai dimenticato. Infine, quasi increduli, si guardano dritto negli
occhi, non come un padrone guarda uno schiavo, e come uno schiavo guarda il
padrone, ma come due uomini ugualmente liberi, che apprendono di essere la
stessa cosa l’uno per l’altro. E poi si studiano. Suleyman, che a quanto pare ha trovato il modo di
diventare un Pascià, ha mantenuto il suo fisico asciutto, ma qualche ruga è
apparsa intorno agli occhi. Ed anche la fronte non è più liscia come un
tempo. I capelli e la barba hanno invece conservato lo stesso nero corvino
che Bonaventura ricordava, e identico è il suo
sorriso splendente come un giorno di sole. A Suleyman,
Wajdi sembra più alto e più robusto. Il volto ha
perduto la sua freschezza giovanile, ma ha acquisito personalità. È davvero
un bell’uomo. Ha sempre quello sguardo diritto e quell’atteggiamento fiero da
guerriero. Accarezza i suoi capelli, incastrando le dita in mezzo ai
riccioli, in un gesto di cui assapora tutta la nostalgia. È una novità quella
barba lunga, più rossa che castana. Lo trova più affascinante di quanto non
fosse da ragazzo. Per un momento entrambi
sono rattristati dal pensiero di aver perduto molto tempo, ma anche
rallegrati dalla certezza di poterlo recuperare. Bonaventura ripensa a Samir.
Poi gli tornano in mente Ayman e Bashir. -
Tu mi hai
sempre fatto seguire, vero? – -
Sì, non
potevo farne a meno. – confessa Suleyman,
sorridendo. -
Mi sei
mancato. Non volevo fuggire, davvero. Mi hanno praticamente rapito. – -
So tutto. Bashir è sempre stato al mio servizio. Mi ha tenuto
informato. – -
Però c’è
una cosa che non puoi sapere, perché non gliel’ho mai detta. – -
Che cosa? - -
Che non ho
mai smesso di desiderare di ritornare da te. – Nonostante l’emozione che
quelle parole gli scatenano, l’espressione ed il sorriso di Suleyman si fanno ironici. -
Per
diciotto anni? Però, ce ne hai messo a deciderti! – Bonaventura ride. -
È stata una
decisione meditata. – -
Credo
proprio che cambierò il tuo nome in Yaqab, il
“ponderato”. – commenta Suleyman. -
Facciamo un
patto: io accetterò qualunque nome con cui mi vorrai chiamare, se tu
accetterai che io resti con te. – -
Non ho
alcuna intenzione di perderti di nuovo, dopo tutta la fatica che ho fatto per
ritrovarti. Sarai per sempre il mio schiavo. - -
E tu il
mio. – risponde Yaqab. Leonardo “Mio caro amico, benché
sia trascorso diverso tempo da quando mi chiedesti qualunque novità ti
potessi fornire del tuo amico Bonaventura da
Otranto, sono certo che ti interesserà sapere quanto mi è stato riferito da
persona fidata. Bonaventura
si trova da alcuni anni a Costantinopoli, conosciuto sotto il nome di Yaqab. Vive presso il Pascià Suleyman
Na’Ima, occupandosi della ricerca e
dell’acquisizione di opere d’arte per suo conto. Questo è tutto ciò che mi è
dato sapere di lui. Mi
auguro di averti fatto cosa gradita e di non averti, al contrario, rinnovato
un dolore. Del resto, proprio tu hai sempre affermato che è meglio conoscere
una dura verità che rimanere con un dubbio angoscioso. Spero
di rivederti presto. Con
sincera amicizia, Luca
Pacioli” Richiudo la lettera e la
appoggio con calma sullo scrittoio. La mano mi trema. Durante questi anni, la
mia immaginazione mi ha trasportato spesso a formarmi un’idea del viaggio di Bonaventura e qualche rara volta mi ha spinto persino ad
ipotizzare che fosse andato in cerca di Suleyman.
Questa conferma pone fine ai miei vaneggiamenti e mi porta ad una
conclusione, a cui d’altra parte, ero ormai giunto per esperienza: chi non si
fida, non sarà mai ingannato. Osservo il suo ritratto, a
cui pongo mano ogni giorno. Penso ai ritocchi che farò tra poco. Coprirò le
sopracciglia e le ciglia. Sposterò una mano. Pian piano, tutto ciò che mi ricorda
Bonaventura, scomparirà. Ma per quanto possa fare,
non riuscirò a farne scomparire la sua anima. E di questo un poco mi
dispiace. |