Notturno soleggiato di
Federico
Volpe Io vivo di notte, come un
gufo. Di giorno dormo. La sera apro il locale
alle nove, mai prima. Vendo alcolici e sogni, offro piccoli spuntini, musica jazz
e blues, ammetto il fumo e pago le tasse. Accolgo artisti e sbandati,
musicisti, poeti e altri uccelli notturni. Da me entra il popolo della notte.
È un club privato, dove in realtà può accedere chiunque, basta che non rompa
i coglioni. Sui tavoli di legno mi lasciano ricordi indelebili, poesie,
disegni, numeri di telefono, dichiarazioni d’amore, scolpiti per sempre con
la punta dei coltellini. Quando usano le tovagliette di carta, li incornicio
e li appendo ai muri. In fondo al locale c’è una piccola pedana, con un
pianoforte e la batteria. Io suono il sax, ma non sempre, soltanto quando
sono in vena, quando mi prende lo spleen e darei un braccio per una donna
come dico io, una tosta, una con carattere, cervello e belle tette, che non
si fa paranoie per una semplice scopata. È tanto che non ne vedo una. Dove
sono finite? Ai miei tempi ce n’erano a bizzeffe. Vicino alla porta c’è la
lavagna con i cocktails del giorno. Potrei fare
anche altro, ma mi scazzo. Di solito non ci penso, ma
stasera questa musica, combinata col Negroni, mi ha
fatto un brutto effetto, mi ha condotto a ripensare a quella troia di Emma e
a quel bastardo di Ruggero. Perché non li ho ammazzati? È proprio una serata
da sax. Fa niente se non c’è Lorenzo per il basso. Io vado. Franco mi vede
arrivare e sfuma il pezzo al pianoforte. Io gli faccio un cenno. Ci
comprendiamo al volo. Fabio ci segue alla batteria. Mi inumidisco le labbra,
prendo fiato e parto per il paese dei sogni. Suono ad occhi chiusi, con lo
stomaco, con le gambe, col busto, con l’anima che mi fa il controcanto. Un
po’ alla volta, cala il silenzio. Una goccia di sudore mi scivola
dall’attaccatura dei capelli, lungo il lato del viso, la sento scorrere come
una carezza. La musica è fatica, è dolore, ma è anche ricompensa, rinascita,
consolazione. La musica è passione, desiderio inespresso, sangue che scorre,
battito del cuore. Dov’è il mio cuore? È nelle note che salgono dal sax. È
stanco, lo sento, ma non si arrende. Mi è complice nella notte, che già sfuma
nell’alba. Qualcuno applaude. Qualcuno si alza e se ne va. Rocco è alla
cassa, come un cane da guardia, nessuno passa senza pagare il conto. Altri applausi. Non suono per questo, lo
faccio per me, per ritrovare le coordinate, fare il punto della situazione.
Ecco, adesso so chi sono, dove sono e cosa sto facendo. Mi sento meglio.
Finisco l’ultimo pezzo. Dico “Grazie a tutti e buonanotte” nel microfono e
poi lo spengo, asciugandomi il sudore con un fazzoletto. Le cinque. -
Gaetano,
sei un grande. – mi dice Rocco. -
Grazie. Vai
a casa, adesso, che chiudo io. – -
Va bene.
Buonanotte. – -
Buongiorno,
Rocco, sono le cinque. – -
Ah, sì, è
vero. – ride, afferrando il giubbotto e buttandoselo su una spalla. Fuori fa freddo, ma lui ha
in circolo il calore di tre o quattro Negroni. Questo
mestiere ci ucciderà. Chiudo la cancellata, e
poi la porta. Metto l’allarme e torno al bancone. Mentre lavo i bicchieri,
canticchio un motivo. Poi vado a pulire i tavoli, raccogliendo i tovaglioli.
Prima di gettarli, li guardo bene. Ci ho trovato cose affascinanti, a volte.
Vere opere d’arte, roba da ubriachi, ma geniali. Eccone uno. “Vorrei essere il tuo sax,
farmi suonare come solo tu sai fare, con il ritmo che sai imporre. Le tue labbra… le tue labbra…” Beh, questo non lo
appendo, non mi pare il caso. E quest’altro? Un ritratto. Bella, questa. Era
qui? Non l’ho vista, peccato. Assomiglia a qualcuna che conosco, ma non mi
viene in mente. Questa la incornicio, mi piace. Spengo le luci. Nel
retrobottega c’è un portoncino che sbuca sulle scale. Salgo di sopra, al mio
appartamento. Prima mangio qualcosa e poi vado a dormire. Io vivo così. Tra
poco sorgerà il sole e non voglio vederlo. Alle tre squilla il
telefono. Non ho avuto ancora la forza di alzarmi, ma sono sveglio. Quasi. -
Chi è? – -
Ciao,
Gaetano. Sono Delia. Ti ricordi di me? – -
La
cantante? – le chiedo, schiarendomi la voce. -
Sì, bravo.
Sai, mi sono licenziata. Tu mi avevi detto che quando fossi stata libera,
avrei dovuto chiamarti. Ecco, se hai ancora bisogno di una cantante, io sono
disponibile. – -
Vieni a
trovarmi, così ne parliamo. – le
propongo. -
Va bene,
vengo stasera. A dopo. – -
A dopo. – Delia. Brava, bella,
giovane, un po’ stronza. Ma mica si può avere tutto dalla vita. E poi le
stronze mi sono sempre piaciute. Il problema è che non posso pagarla molto.
Non so se si accontenta. Alle sei scende Kora. “Ce l’hai un po’ di zucchero?” È in divisa da
lavoro, una vestaglietta rossa di seta, aperta su un babydoll nero col pizzo,
perizoma, autoreggenti nere e decoltè rosse con i
tacchi a spillo. Io fingo che non mi provochi un leggero scompenso cardiaco e
mi dirigo con nonchalance in cucina. Lei mi segue. -
Quand’è che
vieni su da me? – me lo chiede da un anno, da quando le ho affittato
l’appartamento. -
Mai. –
rispondo, come sempre. Kora mi si strofina addosso, mi accarezza il
viso e mi da un bacio su una guancia. Poi prende lo zucchero e se ne va,
ancheggiando. -
Non sai
cosa ti perdi. – dice, chiudendo la porta, mentre io deglutisco a vuoto. Cazzo, se è bella. Un
giorno o l’altro mi accerterò se sa fare bene il suo mestiere. Scendo al bar, accendo lo
stereo, cancello la lavagna e mi armo di gesso. Cocktails Billow Mae West Soul Kiss Fourth Degree Agonie Davy Jones Ira Manhattan Mi assicuro di avere a
portata di mano tutti gli ingredienti e scendo in cantina a prendere quello
che mi manca. Rifornisco i portatovaglioli, cambio una lampadina che ieri
sera sfarfallava. Impilo i piatti sul bancone e vado ad aprire a Rocco, che
ha bussato nel retro. È lui che si occupa degli stuzzichini. -
Ciao, Gae, tutto bene? – -
Ciao. Che
ti sei messo? Sembri una profumeria ambulante.– gli dico, sventolandomi una
mano sotto il naso. -
È il
dopobarba. Passa subito. – -
Lo spero.
Lavati bene le mani, sennò nel menù di stasera dovremo aggiungere crostini al
bergamotto. – Rocco ride, ma va a
lavarsi. Io tiro fuori il disegno che ho trovato su un tavolo e lo stendo
bene, per infilarlo tra due vetri con le clips. -
Chi è? – mi
chiede Rocco, sbirciando da dietro la mia spalla. -
Non lo so,
ma mi piace. – -
Non era qui
ieri sera, altrimenti me ne sarei accorto. – -
Non avevo
dubbi. – Bussano di nuovo. È Delia. -
Allora! La
mia vocalist preferita! – -
Ciao,
Gaetano, ciao, Rocco. – Le trattative sono brevi e
concise. Per quello che le offro, può venire tre volte alla settimana. -
Fai
venerdì, sabato e domenica. – le dico. -
Ci sto. –
accetta Delia, dandomi il cinque. -
Per le
prove devi metterti d’accordo con Franco. Tra poco sarà qui. – -
Dove le
fanno? – -
Sempre nella
sua cantina. – -
Dio, che
squallore! – esclama, con espressione disgustata. -
Puoi
proporre di meglio? – -
Mi informo
in giro. – afferma con decisione. È evidente che non si
ritiene più tipo da cantina. Quando arrivano i ragazzi,
la lascio a loro e torno su a cambiarmi. Jeans, camicia denim e
gilè di pelle nera. Mi guardo allo specchio, mi riavvio i capelli, sempre più
brizzolati sulle tempie. La doppia ruga verticale tra le sopracciglia si sta
facendo più marcata, e anche le parentesi tonde ai lati della bocca. Dio, sto
invecchiando. Me lo leggo negli occhi, intorno agli occhi, nella ragnatela di
piccole rughe che cominciano a consolidare la loro presenza. Meglio che vada.
Sono le nove. Come tutti i giovedì c’è
poco afflusso. È una serata di stanca. Rocco va a sedersi a un tavolo dove ci
sono i suoi amici. Io mi sto rilassando col mio primo Soul Kiss, quando mi suona il cellulare. È Kora,
ma quando rispondo, sento soltanto delle urla. Mollo il cellulare e volo di
sopra, col cuore in gola. Sento il portone che si chiude. Trovo la porta
aperta ed entro di corsa, nel corridoio buio. Kora
è per terra, in camera da letto, tutta ripiegata su se stessa, illuminata
appena dalle abajour con
i paralumi rossi a frange. -
Kora. – urlo, precipitandomi su di lei. Kora si muove, gemendo. La aiuto a
sollevarsi. Ha indosso solo gli slip. -
Come stai?
– -
Male.
Quello stronzo… mi ha picchiata. – -
Hai niente
di rotto? – -
No, non
credo. – La aiuto a stendersi sul
letto disfatto e ad indossare la vestaglia che ho raccolto in terra. -
Prendimi un
po’ di ghiaccio, per favore. – Torno col ghiaccio, dentro
un tovagliolo e lei se lo appoggia sul viso, con estrema cautela. -
Mi verrà un
livido mostruoso. – geme. -
Chi è
stato? Lo conoscevi? – -
No, era uno
nuovo. – -
Bell’acquisto.
– commento. -
Lo sapevo che
sarebbe capitato, prima o poi. – -
Hai altri
impegni per stanotte? – -
No. – -
Allora
riposati. Ti serve qualcosa? – -
No, grazie.
Sei stato gentile a venire subito. – -
Allora, io
torno giù. Se hai bisogno di me, basta che chiami. – Le rimbocco le coperte,
con un vago senso di rabbia. -
Grazie,
Gaetano. Buonanotte. – -
Buonanotte,
Kora. – Torno
al bar, incazzato come una iena. Stanotte le è andata bene, ma bisogna fare
di più. Devo parlarne con Kora. Franco mi fa un
cenno, ma stasera non è aria. Gli faccio no con la testa. Rocco mi raggiunge
dietro il bancone. -
Che
succede? – -
Qualcuno ha
picchiato Kora. – -
Cazzo. Sta
male? – Rocco
l’ha vista solo di sfuggita, un paio di volte, ma è preoccupato anche lui. -
Stava
meglio prima. – affermo, sempre incazzato. -
Se vuoi andare
su, ci penso io, qui. – -
No, non c’è
bisogno. L’ho lasciata a letto col ghiaccio. Se ha bisogno, mi chiama. – -
Chi era il
tizio? – -
Non lo sa,
un cliente nuovo. – -
Deve stare
più attenta. – -
Gliel’ho
detto anch’io. - Alle
due tutti si sono tolti fuori dalle palle. -
Chiudiamo!
– urlo a quelli che stanno ancora suonando. Smettono
subito e mollano la postazione. -
Almeno
dacci da bere. – dice Franco. -
Che volete?
– chiedo, mentre Lorenzo e Fabio si siedono. -
Va bene
tutto. – risponde Franco, issandosi su uno sgabello anche lui. -
Vi siete
messi d’accordo con Delia, per le prove? – -
Iniziamo
domani. Però, che tipa! Mi pare una con la puzza sotto il naso. – afferma
Franco. -
È un po’
così, ma è brava. Te ne accorgerai. – -
Vedremo. – Io
intanto vado a pulire i tavoli. Su un tovagliolo hanno lasciato questa: “Calmo
e liscio il mare della
tua voce ha solo
lievi onde sulla riva dove
batte la parola che ti
ritorna indietro. Lo
scoglio del silenzio ode la
risacca ai suoi piedi, amore
segreto, nascosto, intimo,
eterno impigliato
per sbaglio nel tuo
cuore e tu
non sai che farne. Resti a
guardarlo, muto e
imbarazzato e
vorresti disfartene, ma non
ti lascia scampo.” Questa
la conservo per me. Ho una cartella piena di roba simile. Magari un giorno la
metto insieme, me la faccio pubblicare e ci faccio pure un po’ di soldi. Ho
già il titolo: poesie ubriache. E di
nuovo quel ritratto di ieri sera, in versione capelli raccolti all’indietro.
Questo è fissato. Se ti piace tanto, perché non vai da lei, invece di venire
qui a bere? Magari è già impegnata, oppure l’ha appena mollato. Le storie non
sono mai tutte facili e lineari, io lo so bene. I
ragazzi se ne vanno. Chiudo il cancello e la porta del locale. Inserisco
l’allarme. Lascio tutto come sta e vado di sopra. Apro con le doppie chiavi,
cercando di non fare rumore e vado a vedere come sta Kora.
La luce sul comodino è ancora accesa. Sta
dormendo. Il tovagliolo col ghiaccio è finito per terra. Lo raccolgo e lo
porto in cucina, poi torno indietro ad asciugare il pavimento. Resto indeciso
se spegnere la luce, ma mi dico che è meglio lasciarla accesa. Che ne so di
come la preferisce? Magari è abituata così. Lascio la stanza e sto per
andarmene, quando sento che si agita. Torno indietro. -
Ah, sei tu.
– mi dice, con la voce impastata. -
Sono venuto
a vedere come stavi. – -
Va meglio.
Ho preso un’aspirina. – -
E il viso?
– -
Mi verrà un
bel livido, ci scommetto, nonostante il ghiaccio. Dov’è? – -
Era finito
per terra. Si è sciolto tutto. – -
Sei un
badante perfetto. Quanto prendi? – -
Non ho
prezzo. – -
Nel senso
che lo fai gratis? – -
Nel senso
che se mi facessi pagare, dovresti chiedere un finanziamento. – -
Peccato. Mi
piaceva averti intorno. – -
Dormi. Se
ti serve qualcosa, sai dove trovarmi. – -
È sicuro il
portone? – -
Vuoi che
inserisca l’allarme? Di là non lo metto mai. – -
Mettilo.
Non aspettiamo nessuno, vero? – -
No. Per
stanotte abbiamo finito. – -
Ho paura. –
-
Senti,
visto che ci siamo, ho pensato che potremmo piazzare un altro allarme da qui
al bar. Potremmo nascondere un pulsante nel letto. E poi piazzare una
telecamera col registratore sopra al portone. Che ne pensi?- -
Tutta
questa tecnologia solo per me? – -
Per stare
più tranquilli. Hai detto che hai paura, no? – -
Ma dai, è
assurdo. Farò più attenzione. – -
E come? – -
Non
accetterò nuovi clienti. Ne ho già a sufficienza di quelli soliti. – -
Come vuoi.
Comunque, pensaci. – -
Lo farò.
Grazie per le cure e l’interessamento. – -
Non c’è di
che. Buonanotte. – -
Buonanotte,
Gaetano. – Torno
di sotto e inserisco l’allarme al portone. Finisco di pulire i tavoli, metto
tutto in lavastoviglie, spazzo e lavo il pavimento e cancello la lavagna.
Visto che ci sono, mi preparo per domani, tanto a quest’ora non riuscirei a
chiudere occhio. Quando ho finito, torno di sopra. Di dormire non se ne parla
proprio. Accendo la televisione. Alla fine del primo tempo di un film cinese,
dove gli attori si assomigliano tutti, sono al terzo sbadiglio e capisco che
è meglio tentare. Sono le cinque. Spengo l’ultima sigaretta, l’ultimo barlume
di pensiero, l’ultima nota che vaga nella mente e mi butto sul letto. Chissà
se Kora dorme con la luce accesa. È l’una
e sono già sveglio. Ho fame. Mentre infilo due fette di pancarré nel
tostapane, bussano leggermente alla porta. Può essere solo Kora. -
Buongiorno.
– Ha indosso
un paio di jeans e una t-shirt viola, che fa un bel contrasto con i suoi
capelli biondi. -
Buongiorno,
come stai? – le chiedo, osservandole il volto. Ha una bella macchia scura sul
lato sinistro. -
Abbastanza
bene. – -
Hai già
fatto colazione? – -
No. Mi sono
appena svegliata. – -
Vieni.
Mangia qualcosa con me. – Kora non si tira indietro, seguendomi in
cucina. Tiro fuori il pane e ne metto a tostare dell’altro. Sul tavolo ci
sono già il burro e le marmellate. -
Il latte
come lo vuoi? – -
Freddo,
grazie. – -
Ecco il
caffè. – dico, sedendomi di fronte a lei. -
Ti tratti
bene. – commenta, ridendo. -
Che nome è Kora? – le domando. Ho questa curiosità, da quando l’ho
conosciuta. -
-
E che
c’entri tu col Senegal? – -
I miei
genitori ci sono andati in viaggio di nozze e quando sono tornati, ero già in
viaggio anch’io. Sono nata qui. – -
Capisco. – -
E tu di
dove sei? – -
Sono nato
all’Elba. Poi ho vissuto in Sicilia, in Puglia, ad Ancona, a Roma, a Livorno
e adesso ho messo radici qui da dieci anni. – -
Un vero
giramondo! Come mai tutti questi spostamenti? – -
Mio padre
era un militare. Lo trasferivano spesso. – -
Una bella
rottura. – -
C’ero
abituato. – -
Però hai
scelto un lavoro sedentario. – -
Adesso sì.
– -
Perché,
prima che facevi? – -
Il
poliziotto. – -
Ah. – mormora,
con espressione improvvisamente imbarazzata. -
Non
preoccuparti, se ti beccano sono io che vado nelle rogne, con una bella
accusa di favoreggiamento e sfruttamento. Vuoi ancora caffè? – -
Sì, grazie.
Come mai hai mollato la polizia? – -
Preferirei
non parlarne, ti dispiace? – -
Figurati.
Odio essere invadente. – -
No, non sei
stata invadente, ma non ho voglia di ripensarci. Che fai oggi? Pensi di
lavorare? – -
No, per un
paio di giorni mi riposo. – -
Perché non
fai un salto giù? Abbiamo una nuova vocalist.- -
Con questa
faccia? – -
Ti dai una
bella spalmata di fondotinta e ti siedi in un angolo buio. Chi ti vede? – -
Ci penserò.
Ero venuta a chiederti se avevi degli spaghetti, ma dopo questa colazione,
non ne ho più bisogno. Adesso però devo andare. – -
Ci si vede.
– -
Grazie per
la colazione. – -
Di niente.
– rispondo, guardandola andar via. I
capelli tirati su, mi mostrano un piccolo tatuaggio che ha sulla nuca. Non ho
fatto in tempo a capire cos’è. Delia ha
il jazz nel dna. Quando canta, mi fa salire i brividi lungo la schiena. Rocco
è impazzito. Si è messo a scattare foto a raffica per immortalare la serata,
come se fosse un evento eccezionale. Spero non importuni i clienti. Il locale
è pieno. C’è anche un gruppo di giovani studenti, che hanno chiesto solo
birra. Sono contento, odio vedere i ragazzi che bevono superalcolici. Fumano
in molti e gli aspiratori non ce la fanno. Mi chiedono un Kremlin.
Non è nel menù, ma posso farlo. Lo preparo per due, così uno me lo bevo io.
Un bicchiere di vodka, 1/3 di rhum della Giamaica, 1/3 di succo di limone, un
cucchiaino di granatina e ghiaccio. Metto tutto nello shaker e agito a tempo
con la musica. Mentre lo verso per il cliente, vedo entrare Kora. Ha i capelli sciolti e pettinati in avanti sul lato
sinistro del viso, per occultare il livido. Le sorrido. -
Siediti al
banco, non c’è neppure un posto libero, stasera. - le dico. -
Allora
dammi qualcosa da bere. – mi risponde, issandosi sullo sgabello davanti a me. -
Prova questo.
– le offro, svuotando lo shaker. -
Buono, che
cos’è? – -
Kremlin. – -
Me lo devo
ricordare. – afferma, chiudendo gli occhi, come per concentrarsi meglio. Poi si
perde nei suoi sogni, o in quelli di Delia, che intanto si è scaldata e tira
fuori tutta la sua voce da violino. A uno
dei tavoli più avanti c’è uno che ha adocchiato Kora
e non la molla con lo sguardo per un attimo. Rocco ha finito il suo servizio
fotografico e si decide a tornare al suo posto. - Che ne farai di queste foto? - - Qualcuna possiamo appenderla, no? – - Penso di sì. Potremmo anche farci un
poster da mettere fuori con le date delle serate di Delia.
– -
Giusto. Ci
penso io, conosco la persona giusta. – -
Sei sempre
pieno di risorse. – Ad un
tratto, Kora si alza e mi saluta con la mano,
facendomi cenno che esce dal retro. Io annuisco, salutandola. Forse il jazz
non è la sua musica preferita. Dopo un po’ mi accorgo che il tizio che la
guardava se n’è andato anche lui. Delia
raccoglie un successone. Ho fatto un buon acquisto. Alle tre smette di
cantare. Ha fatto un sacco di pause, ma è davvero stanca. La capisco. Alle
quattro il locale è vuoto e mi dedico alla raccolta delle schegge artistiche.
Stranamente c’è solo il solito ritratto, proprio al tavolo dell’ammiratore di
Kora e mi rendo conto, per associazione d’idee, che
quella del ritratto è proprio lei. È voltata di tre quarti, di spalle, e ha
un piccolo disegno sulla nuca, una farfalla. Lo conservo nella cartella e
continuo le pulizie. Rocco pensa al bancone ed io al pavimento. Alle cinque
abbiamo finito. Spengo tutto e ci salutiamo davanti al portone, poi metto
l’allarme e salgo in casa. Mi sfiora l’idea di salire da Kora,
ma me la faccio passare subito, è quasi l’alba. Ogni
primo lunedì del mese, due ragazzi filippini vengono a lavare le vetrate del
locale, che sono piombate, con vetri colorati a losanghe. Io ne approfitto
per fare l’inventario e ordinare quello che mi serve. Faccio un po’ di conti,
metto in ordine le fatture e le bollette pagate. È un lavoro che odio, per questo
mi sono imposto una scadenza mensile. Quando finisco sono più stanco e
annoiato che nel resto del mese. Non ho neppure voglia di andare al cinema,
come faccio il lunedì, che è il mio giorno di chiusura. Così vago per la casa
come uno zombie. Kora non si è più vista. Il livido
le è passato, ma non la paura. Se non vuole farsi dare una mano con la
tecnologia, io sono impotente. Posso
soltanto sperare che sia prudente. Mi ha raccontato che la sera che è venuta
giù, nel locale c’era il tizio che l’aveva picchiata, per questo è scappata
via. Da allora mi domando chi fosse. Rocco ha fatto stampare il manifesto. È
venuto bene. Lo abbiamo appeso fuori. Ha fatto ingrandire un paio di foto e
le abbiamo appese a una parete, tra i contributi artistici dei clienti e una
foto tratta dal film La città del Jazz,
che ritrae Louis Armstrong con la sua Jazz Band. Anche
stasera Lorenzo ha trovato una scusa per non venire. Mi ha detto che non sta
bene. Menomale che è martedì. Lorenzo è l’unico esemplare di uomo di neanderthal ancora esistente al mondo. È un primitivo
sotto mentite spoglie. Il suo aspetto da bel ragazzo qualunque, nasconde un
carattere ai limiti della semplicità, così poco sfaccettato da risultare
scarno. È tetragono. Il suo eloquio è da autistico appena risvegliato. I suoi
movimenti sono da robot malamente programmato, impacciato a tal punto da
misurare male le distanze, andando ad urtare goffamente contro qualunque
ostacolo. È un vero disastro. Il suo unico pregio è che suona bene il
contrabbasso, unico momento in cui mi pare di scorgere in lui una larvata
forma di sentimento. Per
fortuna, gli altri della cosiddetta band, sono molto diversi. Fabio
ha il ritmo nel sangue. Suona la batteria da quando aveva quattro anni. Adesso
ne ha ventiquattro e si può ben definire un veterano. È di poche parole, ma
ben calibrate. Non spreca fiato in stronzate, da autentico saggio. Ha la
mania del surf e ogni tanto sparisce a caccia di onde, restando latitante
finché non si è sfogato. Però, prima di sparire, mi trova sempre un
sostituto. Lo apprezzo molto. Franco
ha un metabolismo da vagabondo, che ha sbagliato strumento. Se si fosse
invaghito di una chitarra, oggi starebbe vagando per le strade del mondo,
rincorrendo i suoi sogni. Ma è dura fare l’autostop con un pianoforte, ai
bordi di una strada. La sua passione per i tasti è la zavorra che l’ha
inchiodato qui. I suoi assoli sono rimasti l’unico
momento di fuga verso nuovi e sconosciuti orizzonti. Un po’ frustrante, a
volte, lo capisco, ma è proprio allora che dà il meglio di sé, come me, del
resto, che non suono mai più soddisfacentemente il sax, di quando mi afferra
lo spleen. -
Mi fai un
Florida? – mi chiede un tizio con gli occhi a mandorla, che sembra
completamente fuori posto. -
Subito. –
gli rispondo, afferrando uno shaker alle mie spalle, senza neanche voltarmi,
facendolo roteare in aria, prima di aprirlo. -
Bella
musica, qui. – mi dice, fissando le mie mani che versano il dry gin. -
Sono
contento che piaccia anche a te. – commento, spremendo un’arancia. -
Peccato per
il volume, che è un po’ nemico della conversazione. – mi fa, senza staccare
mai gli occhi dalle mie mani. -
È più
basso, quando non suonano dal vivo. Se vieni dopo le tre, puoi chiacchierare
quanto vuoi. - gli rispondo, mettendogli davanti il Florida. -
Mi
organizzerò. – commenta, sorridendo e guardandomi negli occhi. Mentre
servo altri clienti, noto che resta al banco, appollaiato sullo sgabello, a
fissare nello specchio quello che accade dietro di lui. Ha un’espressione
concentrata, attenta, come se i suoi pensieri fossero tesi alla soluzione di
un problema di estrema importanza. Ha i capelli così neri che le luci ne
traggono riflessi di blu e un velo di barba gli scurisce il volto dai
lineamenti vagamente orientali. Quando finisce il suo drink, scende dallo
sgabello, con movenze quasi feline, mi fa un cenno di saluto e passa da Rocco
a pagare, quindi esce dal locale. Alle
tre i ragazzi smettono di suonare e il locale si svuota. Io chiudo tutto ed
esco dal retro con Rocco. Il portone è spalancato. Mi preoccupo. -
Che c’è? –
mi chiede Rocco. -
Non so.
Vado a vedere Kora. – dico, inquieto. -
Vengo con
te. – mi dice Rocco, seguendomi per le scale. Anche
la porta di Kora è spalancata. Le luci sono accese.
Resto un attimo sulla porta, col cuore in gola, poi entro di corsa con Rocco
alle calcagna ed entrambi ci blocchiamo davanti alla camera da letto,
sconvolti, di fronte allo spettacolo che si offre ai nostri occhi. Rocco
torna indietro gemendo. Io mi avvicino a Kora,
evitando accuratamente di mettere i piedi dove non devo. Toccandola, capisco
subito che è inutile chiamare un’ambulanza. Afferro il cellulare e chiamo il
113. Un sudore freddo mi scorre dalla fronte. Mentre telefono, lo sguardo mi
corre tra le tende bianche, gli abatjour rossi, la poltroncina su cui è
adagiata la sua vestaglietta di seta e una pantofolina
che è finita sotto la finestra. Arriva
la volante. Guardo stupito l’uomo con gli occhi a mandorla che si fa avanti,
con due agenti in divisa. Lui si presenta. -
Ispettore Daverio. – -
Ispettore… – ho solo la forza di dire, indicandogli
la porta, al di là della quale Kora giace in un
lago di sangue. -
Ha toccato
qualcosa? – -
No, mi sono
soltanto accertato che non servisse un’ambulanza. – -
Non ce n’è
più bisogno. – commenta un agente, che si è già chinato su di lei. -
Lo avevo
capito subito, ma speravo… non so. – dico. -
La
conosceva bene? – mi chiede l’uomo con gli occhi a mandorla. -
Solo
superficialmente. Abitava qui da un anno. – -
Il suo
nome? – Mentre parliamo,
prende appunti su un taccuino. Poi arrivano altri agenti incartati in tute
bianche, che ci pregano di lasciare spazio. -
Vogliamo
andare di sotto? – propongo a Daverio. -
Sì, è
meglio. – accetta. Riaccendo
le luci nel locale e andiamo a sederci a un tavolo con Rocco. -
Come mai è
salito dalla vittima? – Vittima?
Kora non è già più Kora,
è la vittima. Non ho avuto il tempo di metabolizzare. Mi sento male. -
Mi scusi. –
dico – Devo bere qualcosa. – Mi alzo
e vado a prendere tre bicchieri, una bottiglia di whisky e una coca cola, poi
torno al tavolo. Me ne verso una dose, la ingollo in un sorso e poi inizio a
parlare. -
Siamo
saliti perché abbiamo trovato il portone spalancato. Mi sono preoccupato. E
anche la porta di Kora era spalancata, così siamo
entrati a vedere. – -
E ci avete
chiamato. Naturalmente è inutile che vi chieda se avete sentito qualcosa. – All’improvviso
mi ricordo del cellulare che ho lasciato sul bancone e vado a prenderlo.
Chiamata persa. Kora mi aveva chiamato ed io non
l’ho sentita. Mi sento impallidire. -
Che c’è? –
chiede l’ispettore. -
Mi aveva
chiamato. Alle undici. Ma io non ho sentito. – -
Proprio
mentre ero qui. – commenta lui, con una strana espressione. -
Già, perché
era qui? – gli chiedo, vagamente insospettito. -
Sono io che
faccio le domande. Mi parli della ragazza. – -
Faceva la
squillo. – -
Era suo
l’appartamento? – -
No,
gliel’ho affittato io. – -
Ah. – -
Ho scoperto
solo dopo, il mestiere che faceva. Io dalle nove alle cinque, all’incirca, sono
sempre qui. Non potevo sentire l’andirivieni nel suo appartamento. – -
Ma quando
l’ha scoperto, l’ha fatta restare. – -
Sì, l’ho
fatta restare. – -
Mi dovrà
mostrare la sua licenza per il locale e il contratto d’affitto. – -
È tutto in
regola, non c’è problema. – rispondo, leggermente seccato. -
Non ha
qualche dubbio, qualche idea su chi potrebbe essere stato? Qualunque cosa che
possa aiutare le indagini?- -
C’è stato
un tizio che l’ha picchiata, qualche tempo fa. Lei aveva paura che tornasse.
È stato anche qui al locale. Credo che abbia lasciato i suoi ritratti sui
tovaglioli. Adesso glieli faccio vedere. – L’ispettore
Daverio, quando apro la cartella, mi dice di non
toccarli. Apre la borsa che ha con sé e ne estrae un paio di guanti in
lattice e un paio di buste di plastica, poi prende i disegni. -
Ce n’è un
altro che ho appeso alla parete. – -
Lo prenda.
– Mette
tutto nelle buste e si toglie i guanti. -
Che tipo è,
questo tizio? Me lo può descrivere? – -
Rocco, dove
hai messo le foto della prima serata di Delia?- -
Le vado a
prendere. – Quando
torna indietro, ci mettiamo a studiarle. -
Eccolo, è
lui. – gli dico, indicandolo. -
Ne siete
sicuri? – -
Sono sicuro
che quella sera non le ha tolto gli occhi di dosso e che al suo tavolo ho
trovato quel ritratto con la farfalla sulla nuca. Kora
aveva i capelli giù e il tatuaggio non si poteva vedere. E poi Kora mi ha detto che quella sera c’era nel locale il
tizio che l’aveva picchiata. Io ho messo insieme le cose, ma non potrei
giurare che quel tale c’entri qualcosa. – -
Dall’insieme
delle parti può uscire qualcosa di più della somma delle stesse, insegna Durkheim. Beh, se qui ci sono le sue impronte, sapremo
almeno che la conosceva. Non ci sono molte donne con una farfalla tatuata
sulla nuca. Lei gliel’ha vista, no? – -
Ho visto
che aveva tatuato qualcosa, ma non sono sicuro che fosse una farfalla. L’ho
vista da lontano. – -
Sta
tentando di mettere le distanze tra lei e quella donna? – -
Le sto
dicendo la verità. – -
Mi sta
dicendo che non eravate intimi. – -
Infatti non
lo eravamo. – Daverio sospira, come se gli fosse davvero
difficile credermi. I suoi occhi a mandorla mi fissano con intensità,
concentrati su di me, per prendere una decisione. Poi mette via tutto quello
che è sparpagliato sul tavolo, compresa la foto, beve un sorso di coca cola e
si alza. -
Per adesso
può bastare. Si tenga a disposizione. – -
Non mi
muovo da qui. Il locale è aperto dalle nove. Se mi cerca prima, abito di
sopra. – -
Ho bisogno
del suo cellulare, solo fino a domani. Glielo rendo, non si preoccupi. E
dovete anche passare al Commissariato
per le impronte, così da escluderle nel caso le trovassimo di sopra, e
sui disegni. Ho bisogno anche delle chiavi del suo appartamento. Dobbiamo
perquisire anche quello e il locale, qui. – -
Va bene.
Capisco. – acconsento, porgendogli prima il cellulare e poi le chiavi di casa
mia. Lui se
li mette in tasca e poi, come se si ricordasse solo in quel momento della
presenza di Rocco, si rivolge a lui chiedendogli: -
E lei ha
niente da dichiarare? – -
No. –
risponde Rocco. -
Resti nei
paraggi. – -
Io lavoro
qui. – afferma Rocco, come per dire “dove vuole che vada?”. -
A dopo. –
ci saluta, lasciandoci al tavolo a guardarci come due allucinati. Io
riempio i bicchieri e mi dedico alla più salubre delle sbronze. Quando
sentiamo che il trambusto di sopra è finito, gli agenti entrano nel locale
per la perquisizione. -
Possiamo
andare di sopra? – chiedo ad un agente. -
Sì, la
stanno aspettando. – mi risponde. Non
poteva dirmelo prima? Impongo a Rocco di venire a dormire da me. È troppo
ubriaco per tornare a casa, anche se è allenato. Daverio
è davanti alla mia porta, con le chiavi in mano. -
Possiamo
andare a dormire? – gli chiedo. -
Sì, ecco le
sue chiavi. Ci scusi per il disturbo, ma è la prassi. – dice, osservando
attentamente prima me e poi Rocco, con qualcosa nello sguardo che non
capisco. -
Capisco
perfettamente. – gli dico invece. - Quando avete finito, chiudete il portone,
per favore. – aggiungo, entrando in casa. Sono già le otto. -
Vuoi
mettere qualcosa sotto i denti, prima di andare alla branda? – chiedo a
Rocco. -
Voglio solo
chiudere gli occhi. – mi risponde, andando a buttarsi sul divano, togliendosi
appena le scarpe. Io gli
butto sopra una coperta, mentre già sta russando. Mi guardo intorno per
verificare in che stato l’ha lasciata il passaggio delle forze dell’ordine.
Non c’è poi molto caos. Mi mangio un panino e vado a dormire anch’io. Alle
quattro siamo svegli e affamati. Dopo colazione, Rocco va a casa a cambiarsi,
mentre io rimetto in ordine il locale, che la perquisizione ha messo un po’
sottosopra. Alle cinque, mentre preparo la serata, suonano al portone. Vado
ad aprire e mi trovo davanti Daverio. -
Buongiorno.
Venga, stavo preparando il menù. – Lui mi
segue ed entriamo dal retro. -
Posso
offrirle qualcosa? – gli dico. -
No, grazie.
Perché non me l’hai detto, ieri sera? – -
Che cosa? – -
Che sei un
ex-collega. – -
Non mi
sembrava rilevante. – mi giustifico. -
Lo è
abbastanza, invece. Le tue deduzioni hanno un senso. Avevo capito che ragioni
come uno sbirro. – -
E adesso
sai perché. – affermo. -
Non ti sei
pentito di aver dato le dimissioni? – -
No. Dopo
quello che era successo, ho capito che non potevo restare. Avrai letto il mio
fascicolo, immagino. – -
Sì. È stata una reazione comprensibile, la tua.
– -
Non dire
sciocchezze. Stavo per strangolare mia moglie. Lo trovi davvero tanto
comprensibile? – -
Ma ti sei
fermato in tempo. – -
Senti, Daverio, non voglio rivangare il passato. – -
Ti senti
ancora colpevole? Avrei avuto anch’io una reazione del genere, se mia moglie
avesse permesso che mia figlia morisse, distratta da un altro uomo nel mio
letto.– -
Adesso
piantala. Ti ho detto che non ci voglio pensare. – -
Scusami.
Sono venuto a restituirti il cellulare. – mi dice, tirandolo fuori dalla
tasca. -
Grazie. – -
Ieri sera
non ero qui per caso. – -
Stavi
cercando qualcuno? – -
Proprio il tizio
che tu hai sospettato. Avevo un identikit fatto per un’aggressione a una
studentessa, il mese scorso. Qualcuno lo aveva visto da queste parti. Ero nel
posto giusto, ma al piano sbagliato. – -
Se è stato
di sopra, avrà lasciato qualche impronta. – -
Comunque ci
sono i disegni e le foto. Non potrà negare di essere stato qui. – -
Ma non ieri
sera. Sono sicuro di non averlo visto qui, ieri.- -
Vedremo.
Stiamo studiando il cellulare della vittima, di sicuro c’è almeno una sua
chiamata. – -
Senti, ti
dispiacerebbe chiamarla Kora? – -
Scusa,
capisco che per te sia difficile. – -
Non mi sono
ancora abituato all’idea. Era una donna così solare. Se la chiami Kora, me la ricordo com’era, se la chiami “la vittima” mi
torna in mente come l’ho trovata ieri sera, e vorrei scordarmelo. – -
Va bene. –
accetta Daverio, comprensivo, con un lieve sguardo
ironico nei suoi occhi a mandorla. -
Senti, Daverio, adesso ti va qualcosa da bere? - -
Chiamami
Ferdinando. – mi fa – Per bere, torno quando sono fuori servizio. Adesso devo
andare. – -
Un’altra
cosa. Avete trovato l’arma? In terra non c’era niente. – -
Infatti.
Sei un ottimo osservatore, non c’era. Ma di questo non posso ancora parlare.
– -
Certo,
capisco. – -
Vado. - -
Dammi il
tuo numero, non si sa mai. – gli dico. -
Te l’ho già
registrato sul cellulare, perché non si sa mai. – risponde, sorridendo. -
Ti
accompagno, Ferdinando. – -
Non c’è
bisogno, conosco la strada. A presto, Gaetano. – È
appena mezzogiorno, quando suonano al portone. Mi alzo in coma e rispondo
come posso. -
Sono
Ferdinando. – Apro il
portone e mi metto addosso un paio di jeans. Quando arriva sono ancora a
torso nudo. Al primo sguardo, capisce che stavo dormendo. -
Scusa, ti
ho svegliato. – -
Non
importa, tra un paio d’ore mi sarei svegliato comunque. – Lui
ride e mi osserva, dalla massa di capelli arruffati ai piedi nudi. -
Forse ti ci
vuole un caffè. Posso fartelo io? – -
No, faccio
io. – gli dico, precedendolo in cucina. -
Cosa volevi
dirmi? – chiedo, mentre preparo la caffettiera. -
Abbiamo
fatto un buco nell’acqua. Nel confronto tra le impronte trovate in casa e
quelle sui disegni non c’è corrispondenza. Ma ci stanno ancora lavorando.
C’erano un sacco di impronte diverse, in camera da letto. – -
Dubito che
fosse armato di guanti, ci saranno pure le sue, da qualche parte. – commento. -
A meno che
non si sia trattato di omicidio premeditato. – -
Non so cosa
pensare. Comunque, Kora stava molto attenta e
apriva la porta solo dopo aver guardato dallo spioncino. – -
Quindi
siamo fuori strada. Non può aver aperto ad uno che l’aveva già picchiata una
volta. – -
No, credo
di no. – -
Forse non
servirà a niente, ma mi daresti le altre foto che mi hai fatto vedere? – -
Certo. – -
Sono le
uniche che avete? – -
Devo
chiedere a Rocco. È lui che si diletta. – Verso
il caffè nelle tazzine. Ferdinando lo prende amaro, come me. -
Non ti è
venuto in mente niente, che possa aiutarci? – -
Purtroppo
no. La conoscevo poco e non mi ha mai parlato dei suoi clienti. Faceva vita
molto ritirata. Non usciva mai, o solo per fare la spesa, e a volte neanche
per quello. Veniva a chiedermi in prestito di tutto, dallo zucchero alle
carote. Di giorno dormiva. – -
Come te. – -
I
nottambuli vivono così. – commento. -
Già. – -
Non avete
ricavato niente neppure dall’agenda? – chiedo. -
Quale
agenda? – -
La sera che
l’hanno aggredita, c’era un’agenda di pelle sul comodino. – -
Non
l’abbiamo trovata. – -
Eppure dev’esserci. Forse lì prendeva nota degli appuntamenti. – -
Accidenti.
Bisognerà ripetere la perquisizione. – -
Chissà dove
la teneva? Se non l’hanno trovata, forse la nascondeva. – -
E c’è
riuscita bene. Magari c’era scritto qualcosa di compromettente, perciò ci
teneva a non mostrarla ai suoi clienti. Hai idea di quanti fossero? – -
Io non ne
ho mai visto neppure uno. Salivano mentre ero impegnato al locale. – -
Neanche
Rocco o i tuoi strumentisti l’hanno mai frequentata? – -
Che io
sappia no, nessuno me ne ha mai parlato. Rocco non l’ha neppure riconosciuta
nei ritratti. L’aveva incrociata solo un paio di volte, al portone. – -
Insomma,
non ti risulta se avesse qualche amica, qualcuno che potrebbe parlarci più
approfonditamente di lei? – -
Non ne so
niente. Studiate i tabulati telefonici e trovate quell’agenda. – -
Va bene. Ti
terrò informato. Adesso vado e tu vestiti, fa troppo freddo in questa casa,
per camminare scalzi. – Così mi
accorgo che sono ancora a torso nudo. -
Hai
ragione, mi sono distratto. In effetti il pavimento è piuttosto freddo. –
rispondo, sorridendogli. -
A presto. –
mi dice dalla porta, senza voltarsi. Da chi
avrà preso quegli occhi a mandorla? Dopo un
paio di giorni, una squadra rompe i sigilli sulla porta di Kora e torna a ravanare
nell’appartamento. Dopo un pò, Ferdinando mi si
presenta davanti, piuttosto irritato. -
Sei sicuro
di non essertela sognata, quell’agenda? – -
Dammi un
paio di guanti e di soprascarpe. – gli dico, con tono imperioso, leggermente
irritato anch’io. -
Che devi
fare? – -
Voglio
cercare quella fottutissima agenda. – Ferdinando
mi guarda fisso, sostenendo duramente il mio sguardo, ma dopo qualche secondo
leggo un barlume di cedimento. Infine capitola. -
Va bene.
Vieni. – Mi
proteggo mani e piedi ed entro. Non ho più messo piede qui da quella notte.
Non hanno spostato niente. O quasi. Qualche cassetto è rimasto semiaperto,
anche l’anta dell’armadio. Non so perché, il primo posto che mi viene in
mente è la cucina. Ci ho visto dei libri di ricette. Non è che Kora cucinasse molto, in realtà, quindi a che cosa le
servivano? -
Dove vai? –
mi chiede Ferdinando. -
Kora non cucinava un granchè.
In cucina ci sono dei libri. Sono gli unici che ho visto in casa. – -
Li abbiamo
già visti. L’agenda lì non c’è. – Io
entro in cucina. Guardo nel freezer, sposto tutti i libri, salgo sul tavolo
per guardare sopra ai mobili, poi apro il forno. È pieno di padelle e di
teglie nuove di zecca. Le tiro fuori e, tra una padella e l’altra, vedo un
tovagliolo a quadrotti rossi e bianchi. Lo sfilo,
ed ecco apparire l’agenda. -
Hai visto
che c’era? – gli dico, consegnandogliela. -
E dire che
lì ci avevamo guardato. – commenta lui. -
Non
abbastanza, si vede. – affermo, riprendendo il corridoio e tornando di sotto,
senza nemmeno salutare. L’ho
sempre detto che se vuoi un lavoro fatto bene, devi fartelo da te. Ferdinando
mi segue. Io ricomincio quello che ho lasciato a metà. Stavo svuotando la
lavastoviglie e riponendo i bicchieri sulla rastrelliera. Lui si arrampica su
un trespolo, pianta i gomiti sul bancone e mi segue con lo sguardo. -
Vuoi bere
qualcosa? – gli chiedo, dopo aver finito. -
Niente di
alcolico, per favore. – -
Certo, era
sottinteso. Coca, succo d’arancia, sprite,
chinotto, latte? – -
Coca,
grazie. Come mai tieni tutta questa roba non alcolica in un posto del genere?
– -
Qui da me è
vietato somministrare alcolici ai minori di diciotto anni. – -
Ma va?
Chiedi i documenti? – -
Ci pensa Rocco.
Quando sei venuto quella sera non ti ha bloccato all’ingresso dicendoti che
questo è un club privato? – gli chiedo, porgendogli il bicchiere. -
Sì. Mi ha
detto che la prima volta si può dare un’occhiata, ma alla seconda bisogna
fare l’iscrizione. – -
E se tu
fossi stato un ragazzino, ti avrebbe anche chiesto i documenti. Si entra con
il tesserino, viola per gli adulti, giallo per i minori. – -
Non scherzi
con le regole, tu. – -
Dimentichi
che sono un ex-poliziotto. Le regole fanno parte del mio corredo genetico. – -
Mi rendo
conto. – nel suo tono c’è una parvenza di ammirazione. -
Spero che
troviate qualcosa di utile, in quell’agenda. – -
Me lo
auguro anch’io. – risponde. Prima
che vada via, gli consegno un tesserino viola col suo nome. -
Per la
prossima volta. – gli dico. -
Ah, già.
Grazie. – risponde, mettendoselo in tasca. Come
disse Friedrich Nietzsche, “A guardare troppo a lungo dentro l’abisso,
l’abisso finisce per guardare dentro di te.” Per questo sono cotto a puntino
per la mia serata di Jam Session, anche senza
Lorenzo, che ancora non ritorna. Sto rimuginando sulla misteriosa vita di Kora, da una settimana, cercando appigli che non trovo e
sentendomi sempre più sprofondare in un pozzo senza fondo. Lo spleen sta
rasentando l’agonia. Evito
con cura di suonare BilliÈs Bounce,
così come ho pregato caldamente la vocalist di evitare di cantare Summertime,
semplicemente perché hanno veramente rotto le palle. Solo perché forzati da
una gentile ma decisa richiesta, alla fine della serata, abbiamo fatto Georgia on my
mind, che benché sia un pezzo da novanta, tollero ormai come il mio mal
di fegato, anche perché di solito la suonano da schifo. E, infatti, anche
stavolta, non si sono smentiti. Mentre metto via il sassofono, leggermente
incazzato, scorgo Ferdinando al banco e mi avvicino. -
Sei un
grande. – si complimenta – Non mi avevi detto che suonavi anche tu. – -
Non me lo
hai chiesto. – rispondo, asciutto. -
Bella
quella di Ray Charles, come si chiama? Georgia in my
mind. – -
È Georgia on my mind e non è di Ray Charles. L’ha
scritta una trentina di anni prima un certo Hoagy Carmichael. E poi, se si suona in FA, bisogna evitare di
mettere il RE7 a metà della quinta battuta, quando ci va il MI7. – preciso,
rendendomi conto della mia sterile pedanteria. -
Senti, io
non ne capisco niente di musica. Mi piace ascoltarla e basta, e quello che ho
ascoltato mi è piaciuto.- -
Scusami,
sono un po’ fuori. - -
Non fa
niente, ti capisco. – Non so
se mi capisce davvero, ma apprezzo la buona volontà. Per smussare
gli angoli, gli chiedo cosa vuole bere. -
Mi faresti
un Montana? – -
Dì, ma dove
vai a bere di solito? Questa roba non la chiede più nessuno. – -
Io sono per
le vecchie tradizioni. Puoi farmelo o no? – -
Certo che
te lo faccio. – confermo, afferrando un mixer e infilandoci qualche cubetto
di ghiaccio. Lui mi
osserva le mani con molta attenzione, come per carpire un segreto che è in
attesa di svelare da tempo. Verso sul ghiaccio un bicchiere e 1/3 di cognac,
1/3 di porto bianco e 1/3 di vermouth dry. Poi mescolo piuttosto
energicamente, lascio riposare un paio di secondi e ricomincio a mescolare,
ma più lentamente. Lui continua a guardare la mia mano, mentre lo verso in
due coppette da cocktail. Uno glielo metto sotto il naso, l’altro lo tengo
per me. Lui solleva il bicchiere e lo urta contro il mio. Non so se sia di
buon augurio, ma di sicuro è un buon inizio della sbronza con cui ho il fermo
proposito di andare a dormire all’alba. Giro intorno al bancone e lo invito a
sederci ad un tavolo. -
Qualche
svolta nelle indagini? – gli chiedo. -
Il diario è
molto interessante. – mi rivela. -
Quale
diario? – -
L’agenda
che hai trovato, non era per i suoi appuntamenti, era un diario. Soprattutto
l’ultima parte è molto singolare. Parlava di te. Pare fossi l’unico che la
trattava con rispetto, come una vera signora. Questo le aveva messo in testa
che poteva tornare ad esserlo davvero. Stava cercando lavoro e inoltre aveva
allontanato i clienti. Nell’ultimo periodo pare stesse con un uomo che non
sapeva nulla del suo mestiere, un certo L. Può darsi che lui abbia scoperto
all’improvviso quello che faceva e l’abbia colpita in preda ad un raptus di
gelosia. Sarebbe comprensibile. Non trovi? – -
Quindi
l’arma era in casa. Un omicidio passionale, un uomo spaventato dalla
improvvisa consapevolezza di quello che ha fatto, fugge spaventato,
portandosi dietro l’arma, presumibilmente un coltello da cucina, per andarlo
a gettare chissà dove, lontano da qui. Sì, sarebbe plausibile. – -
Era un
coltello da cucina, infatti. Mancava dal ceppo che era di fianco ai fornelli
e in casa non lo abbiamo trovato. – -
Bisogna
trovare questo L. – -
Avremmo
proprio bisogno di un colpo di fortuna. – -
Kora se lo merita. – -
Parlava
molto bene di te. Le piacevi. – -
Anche lei
mi piaceva. – -
Ne eri
innamorato? – -
Quel
capitolo l’ho chiuso dieci anni fa e ho deciso di non scriverne altri. – -
Non è una
cosa che si può decidere. Un giorno ci si innamora e basta. Non puoi farci
niente. – -
Non io.
Quel genere di cose non fa per me. – -
Pensi di
restare uno spettatore distaccato? Raccogli poesie d’amore scritte da gente
un po’ sbronza e resti a guardare come le storie qui dentro nascono, crescono
o muoiono e pensi che tutto ciò non ti riguardi? Sei proprio convinto che non
verrà mai il giorno in cui uno schizzo d’amore non raggiunga per sbaglio il
tuo bel gilè, proprio all’altezza del cuore? – -
Non ti pare
di essere troppo sdolcinato per essere un ispettore di polizia? – -
Sono fuori
servizio. – mi dice, con un mezzo sorriso e un leggero ammiccamento degli occhi
a mandorla, scolandosi il bicchiere. -
E tu, sei
innamorato? – gli chiedo, benché non me ne freghi niente. -
Mi sto
adoperando. – -
Da chi hai
preso gli occhi a mandorla? – -
Da una
nonna vietnamita, che ha sposato un siciliano emigrato in America. Dopo la guerra
era rimasto l’unico erede di una specie di feudo dalle parti di Siracusa e si
sono trasferiti in Italia. I miei sono ancora là e fanno un ottimo vino. Beh,
lasciamo da parte la famiglia. Hai un elenco dei tuoi clienti? – -
No, cosa
dovrei farmene? – -
Peccato.
Potevamo cominciare almeno da tutti quelli che frequentano il tuo locale, il
cui nome inizi per L. – -
Già. –
dico, mentre il mio cervello comincia a fare i salti mortali carpiati con
triplo avvitamento. -
Che c’è? –
mi chiede Ferdinando, stupito dalla mia espressione riflessiva. In
effetti è un esercizio che evito come la peste. -
Il nostro contrabasso si chiama Lorenzo. – -
Quale contrabasso? – -
Quello che
è assente dalla sera del delitto. Mi aveva telefonato dicendo di sentirsi
poco bene e non è ancora tornato. – -
E cos’ha? – -
Mi ha detto
che si è fatto male a una mano e non può suonare. – -
Faccio
prendere le impronte sul contrabasso, anche se sarà
sicuramente una perdita di tempo. Nel diario, Kora
non accenna mai al fatto che questo L. abbia a che fare col locale. – mi
dice. -
Meglio non
tralasciare niente. A forza di escludere, qualcosa resterà. - -
Regola base
delle investigazioni. – -
Ti faccio
un altro Montana? – -
No, meglio
che vada a dormire. Sto bevendo dalle undici e devo guidare. Se mi fermano i
colleghi della stradale, mi becco un cazziatone coi fiocchi. – -
Allora non
puoi guidare. Ti offro il divano in soggiorno. – -
Ti
ringrazio per la gentilezza, ma non posso accettare. – -
Perché? Io resto qui. Non disturberesti affatto. – -
Non è per questo.
– dice, alzandosi in piedi, senza barcollare. Regge l’alcol come un
camionista rumeno. -
Allora ti
chiamo un taxi. – -
Smettila di
fare il baby-sitter. So badare a me stesso. Buonanotte. – mi dice, forse un
po’ duramente, dirigendosi poi verso la cassa. Rocco
mi guarda e io gli gesticolo un no con un dito. Lui insiste, ma deve cedere,
davanti alla sua pervicace faccia da poker. Ferdinando si volta verso di me
e, a mani giunte sulla bocca, mi fa un leggero inchino alla maniera
orientale, prima di uscire. A una gheisa, ecco a
cosa mi ha fatto pensare. Se lo sapesse, sono certo che mi sparerebbe con la
sua pistola d’ordinanza. Ancora
uno dei miei risvegli rocamboleschi. C’è del lucido cinismo nella irritante
abitudine che Ferdinando ha preso di venirmi a svegliare prima di
mezzogiorno. Mi sto ancora abbottonando i jeans, quando entra. -
Ti ho
svegliato? – mi chiede, osservandomi attentamente dai piedi nudi alla testa,
soffermandosi un momento sul torace. -
Dì che lo
fai apposta e che ci godi. Facciamo prima. – rispondo, lievemente incazzato. -
Ora che mi
ci fai pensare, forse c’è qualcosa di vero in quello che hai detto. – Mi
sorge spontaneo un adeguato vaffanculo, ma non osa
attraversarmi le labbra. Sarebbe oltraggio a pubblico ufficiale. -
Sono fuori
servizio. Puoi dirmi liberamente tutto quello che ti passa per la testa. – mi
invita, ridendo e dimostrando di sapermi leggere nel pensiero. Anche
perché i miei pensieri, appena sveglio, non hanno nulla di originale. -
Meglio di
no. – rispondo. -
Ti ho
portato delle brioches. – mi fa, porgendomi un
sacchetto bianco, piuttosto panciuto, come segno di pace. -
Ti va un thè, un caffè, una bibita? – gli offro. -
Un caffè,
anche se sto per andare a dormire. Spero non mi tenga sveglio. – -
Anche tu
hai degli orari del cavolo. – commento. -
Ho fatto la
notte. Ho smontato da un’ora, ma sono andato a fare la spesa. Avevo il
frigo vuoto. – Ne
deduco che vive da solo. -
Novità? –
gli chiedo, dopo che si è seduto al tavolo della cucina. -
Niente di che.
Le solite risse tra rumeni e un accoltellamento vicino alla stazione. – -
Intendevo
dire novità sulle indagini. – -
Ancora
niente. Se non si arriva a un risultato subito, e che sia il più scontato
possibile, dopo un mese si può considerare chiusa l’inchiesta. Nel frattempo
se ne sono aperte altre dieci. – -
Quando
pensate di prendere le impronte sul contrabasso? – -
Cosa? Non
sono ancora venuti? – -
No. – -
Sei sicuro?
– -
Sicurissimo.
– -
Cazzo! –
gli sfugge, autorizzandomi, da questo momento in poi, ad usare liberamente il
mio gergo. -
Senti, -
gli dico, mentre rovescio le brioches in un cestino
– ci sto pensando da un po’ e qualcosa mi dice che Lorenzo potrebbe entrarci
qualcosa. È tornato ieri sera, ma ancora non può suonare. Mi ha detto che si
è tagliato affettando il pane. Gli hanno messo sei punti. Poi, prima di
quella sera, era già da un mese che saltava qualche serata, giusto un paio
alla settimana, e non era mai successo. I tempi coinciderebbero. – -
Ma lui ti
aveva già detto, quella sera, che non si sentiva bene. – -
Potrebbe
essere stata la solita balla e poi, invece, si è fatto male sul serio. Kora si è difesa. Aveva dei tagli alle braccia, li ho
visti. Potrebbe avergli fatto scivolare il coltello e causare una ferita
anche a lui. – -
Non è stato
trovato altro sangue, a parte quello di Kora. – -
Senti, ci
avrà messo sopra un fazzoletto. Ne teniamo sempre in tasca almeno uno, per
abitudine, sai per il sudore. – gli dico, estraendo il mio dalla tasca
posteriore dei jeans. -
Vedo. Però
non mi convince. Che tipo è questo Lorenzo? – -
Un
troglodita.- -
Cioè? – -
Puoi
capirlo solo conoscendolo. – -
Puoi farlo
venire al locale e presentarmelo senza farlo insospettire? – -
Perché
tutta questa cautela? – -
Non c’è uno
straccio di collegamento tra il delitto e il tuo bassista. Come dovrei giustificare,
per esempio, una perquisizione, per ottenere un mandato? Il magistrato mi
riderebbe in faccia. – -
Comincia
dalle impronte, allora, e poi ne riparliamo. – -
Spegni il
caffè. – mi dice, con voce stanca. -
Non è che
ci vuoi un po’ di zucchero? – gli chiedo, ironico. -
Non ti
azzardare. – -
Almeno
mangia una brioche, per addolcirti la vita. – -
Il
girovita, sicuramente. – risponde, sorridendo, e addentandone una, con
un’espressione di sano godimento. Gli verso
il caffè, seduto di fronte a lui e sorrido, guardandolo. -
Che c’è? – -
È un
piacere vederti mangiare. – mi sfugge. -
E tu che
aspetti? Sono buone. – Ne
prendo una anch’io e la mangio insieme a lui. -
Sei libero
lunedì sera? – gli chiedo, senza rifletterci. -
Devo vedere
i turni. Perché? – -
È la mia
serata dedicata al cinema. Mi piacerebbe andarci con te. – -
Perché? – -
Così. – -
Mi pare un’ottimo motivo. Ti farò sapere. – È
venerdì, la sera di maggior affollamento per il locale, quando vedo spuntare
Lorenzo. Lancio un sos a Ferdinando e lui arriva
dopo un quarto d’ora. Ha sempre quell’aria di essere fuori posto, sarà per
l’abbigliamento. È in borghese, ma ha la peculiarità di sembrare in divisa.
Con nonchalance lo presento a Lorenzo e me ne torno dietro il banco, cercando
di non mollarli mai con lo sguardo, nonostante riempia bicchieri e
distribuisca tartine, con Rocco, come in una catena di montaggio. Ferdinando
sorride, con espressione serena. È un attore provetto o davvero trova
divertente Lorenzo? Il fegato mi dà una stilettata di preavviso. Stasera sarà
meglio che mi tenga sull’analcolico. Porto un thè a
Ferdinando, mimetizzato da whisky in un tumbler, e
un gin tonic a Lorenzo, che non beve altro, scambio
con loro un paio di battute e torno dietro il banco. Rocco mi guarda strano.
Io alzo le spalle. È tutto improvvisazione e speranza di una botta di culo.
Se Lorenzo c’entra qualcosa, forse lo scopriremo presto. Intanto ieri hanno
finalmente preso le impronte. Se ne hanno tratto qualche deduzione, ancora
non mi è dato sapere. Delia è scatenata e si lancia in acuti struggenti che
mi mandano in tilt la spina dorsale.
All’improvviso Ferdinando e Lorenzo si alzano e vanno verso l’uscita.
Io li guardo senza capire. Ferdinando mi sfiora con lo sguardo solo un
attimo, con calma e un piccolo sorriso, come per invitarmi a stare
tranquillo. I suoi occhi a mandorla e il suo atteggiamento sicuro innalzano
la bandiera del tutto sotto controllo, ma io non sto affatto tranquillo.
Vorrei seguirli, ma non posso lasciare Rocco da solo in mezzo a questo
casino. Non so perché, ma ormai mi sono convinto che Lorenzo non c’entri
niente. I suoi sentimenti e i suoi pensieri sono molto primitivi, ma non
tanto da non distinguere il bene dal male. E poi credo che sarebbe incapace
di fare del male persino a una mosca. La curiosità di sapere cosa si siano
detti mi tiene sulle spine. Aspetto fino alle cinque, poi non resisto più e
lancio un messaggio sul cellulare di Ferdinando: “Chiamami”, al quale non
giunge risposta. È già a casa a dormire? Alle otto non riesco ancora a
chiudere occhio e lo chiamo al cellulare. Non risponde. Non so più cosa fare.
Torno a letto, tentando di calmarmi con il mio mantra personale. Dormi, va
tutto bene. Dormi, va tutto bene. Dormi, va tutto bene. Dormi. Va. Tutto. Bene.
Alle
dieci suonano al portone. Ferdinando. - Ferdinando! Non mi hai fatto sapere più
niente. – esclamo, completamente rincoglionito dal sonno. -
Calma,
cow-boy. Stavo solo facendo il mio lavoro. Perché non ti vai a mettere
qualcosa addosso? – dice, osservandomi, innervosito – Fa un freddo cane. - Mi
rendo conto di essere in boxer e afferro un plaid dal divano, avvolgendomelo
intorno alle spalle. - Va meglio? – gli chiedo. -
Credo di
sì. – risponde, anche se non sembra molto convinto. -
Allora, che
è successo? Perché non hai risposto al mio messaggio e nemmeno alla mia
chiamata? – -
Avevo da
fare. – risponde con durezza. -
Che te n’è
parso di Lorenzo? – -
Uno strano
tipo, il tuo bassista. Non mi sembra normalissimo. – -
È un
eufemismo? – -
Sì, - risponde
ridendo – è un essere primitivo, appena sbozzato, sfuggito per sbaglio alla
preistoria. -
Un
troglodita, appunto. – sottolineo - E il confronto delle impronte? – chiedo,
ricordandomene improvvisamente. -
Positive.
Sono state ritrovate in tutto l’appartamento di Kora.
L’ho appena saputo. – -
Questa era
la prova che cercavi. Comincia a chiedere il mandato per la perquisizione. – -
Già fatto.
– mi comunica, seccato. -
Mi
raccomando, fammi sapere. – -
Perché ti
preoccupi tanto? – mi chiede, ancora infastidito come poco fa. -
Così. – -
Ah, a
proposito, lunedì per il cinema sono libero. – Mi
domando a proposito di che? -
Bene. Sono
contento. – rispondo, un po’ smarrito. -
Allora
ciao. – -
Tienimi al
corrente. – -
Torna a
dormire, le occhiaie ti hanno raggiunto le ginocchia. – mi dice dalle scale. Io
abbasso gli occhi e per la prima volta mi accorgo che davanti alla mia porta
non c’è il mio zerbino, ma quello di Kora. -
Ferdinando!
– -
Che c’è? – -
Torna su. – -
Che vuoi?
Non puoi aspettare? – -
No, è
importante. – Ferdinando
risale le scale con un’espressione poco amichevole. -
Dimmi. – mi
invita, con voce pericolosamente piatta. -
Questo è lo
zerbino di Kora. – -
E te ne
accorgi solo adesso? – -
Sei tu che
mi hai fatto guardare in basso. Stavo cercando le mie occhiaie, e invece ho
visto lo zerbino. Guarda bene, non ti sembra che ci siano delle macchie
scure? Potrebbe essere sangue. Questo era davanti alla porta di Kora. Avrebbe senso, che li abbiano scambiati, se qui
sopra ci fosse il sangue di un altro. – -
Ma che
cazzo! Erano tutti ubriachi quella sera? Fammi telefonare. – dice, duramente,
scavalcando lo zerbino. Quando
finisce, io sono ancora davanti alla porta. Qualcosa non mi torna. Per quale
accidenti di motivo Lorenzo non se l’è portato via, lo zerbino, se temeva che
ci trovassero il suo sangue? Non è poi così pesante. Perché scambiarlo col
mio? Pensava che da me non avrebbero controllato? Un uomo in fuga si mette a
fare il gioco delle tre carte con gli stoini? Un uomo in fuga, dopo un
omicidio, non ha soprattutto il terrore di essere scoperto e la fretta
impellente di sparire? -
Sì, anche a
me convince poco. – commenta Ferdinando tornando verso di me. -
Io non ho
detto niente. – -
Ma la tua
espressione è molto eloquente. – -
Di chiunque
sia il sangue che c’è qua sopra, se davvero si tratta di sangue, non è
dell’omicida. – -
Sono
d’accordo con te. – -
Ma che
significa? – -
Ancora non
lo so. Dammi un sacco della spazzatura, per favore. Devo portarlo alla
scientifica. – Vado e
torno. Gli tengo aperto il sacco e lui ce lo butta dentro come se si trattasse
di un gatto morto. -
Ah,
dimenticavo. Ti ho conservato il bicchiere di Lorenzo. Magari può essere
utile per il dna. - -
Tu sei
ancora un poliziotto, mio caro sassofonista. – commenta, divertito. Io vado
a prenderlo, ben chiuso in un sacchetto di plastica e lui butta nel sacco
anche quello. -
Fammi un
favore, adesso. Vai a dormire. – mi dice, con una voce tutta zucchero e
miele. -
Sono già in
fase rem, se non te ne fossi accorto. – gli rispondo, senza spostarmi dalla
porta e costringendolo a strofinarsi addosso a me, per uscire. Dalle
scale, si volta, mi fa l’occhietto e se ne va, ma forse l’ho solo sognato. Esalazioni
etiliche. Pensieri in libera uscita. Mi dedico ai soliti esercizi armonici, che
ho trascurato per troppo tempo. Emetto note lunghe, impegnandomi a mantenere
un suono uniforme su tutto il registro. Ormai, non temo più di disturbare
nessuno, qualunque ora sia. I miei due grammi di pazienza sono esauriti.
Penso alla perquisizione in casa di Lorenzo, e non suono come vorrei. O
penso, o suono. Concentrati, Gaetano. Se ci saranno novità, qualcuno verrà a
dirtelo, prima o poi. Suono e sudo, soffiando nel bocchino di ebanite, come
se ne dipendesse della mia vita. Ma in realtà è un po’ così, la mia vita è
appesa da tempo al mio sassofono Yamaha, ai cocktails
che riesco a spararmi la notte, con il fermo proposito di stordirmi, alle due
chiacchiere sui massimi sistemi che intavolo con i soliti beoni che
ondeggiano a tempo di musica, davanti al mio bancone. Guardo l’orologio. Ho
appena il tempo di farmi una doccia e scendere di sotto. I
ragazzi stanno già suonando. Rocco si destreggia tra tartine e cruditè. Io lo avevo preso in giro, ma hanno conseguito
uno straordinario successo, soprattutto con le donne, che tra una fettina di
pane tostato coperta da una fetta di sano lardo di Colonnata
e un triste gambo di sedano, preferiscono il secondo. Stasera abbiamo anche
ostriche. Stiamo esagerando. La profondità del mio spleen mi ha permesso di
raggiungere concetti astratti al di là della ragione. Guadagno la pedana e dò inizio al mio sfogo. Ho tutta questa roba di cui
liberarmi e che non vedo l’ora di buttare addosso a qualcuno. Ricomincio a
sudare. Alle dieci arriva la vocalist ed io le cedo il microfono. Sono
stanco. Raggiungo il bancone appena in tempo per bloccare Ferdinando che se
ne sta andando. - Ehi, dove credi di andare? – gli urlo, per
farmi sentire. - C’è troppo casino, qui. – mi risponde. - Vieni di sopra un attimo. – Lui mi
fa un cenno di assenso e ci troviamo nel retro. -
Hai novità?
– -
Sì. – mi
risponde, mentre usciamo. Una
volta in casa, avvolti da un relativo silenzio, ci andiamo a sedere sul
divano. -
Allora? – -
La
perquisizione non ci ha portato a niente. Lorenzo non c’entra nulla. Però ha
ammesso che stava con Kora, da poco più di un mese.
– -
E sullo
zerbino? – -
Ancora non
ho notizie, mi dispiace. – -
Dunque,
Lorenzo stava con Kora. Non ci posso credere. Cosa
ci avrà trovato in un tipo come lui? – -
La
semplicità, forse. – Io lo
guardo. Un velo di barba gli scurisce le guance. -
Certo è una
dote che può affascinare. – ammetto. -
Non so, può
darsi che la tua amica fosse stufa di complicarsi la vita. – -
Può darsi.
Senti, mi sono sempre dimenticato di chiedertelo, ma era davvero una farfalla
che aveva tatuata sulla nuca? – -
Sì. – -
Forse
bisognerebbe tornare ad indagare sul tizio dei ritratti.- -
Si era
detto che Kora non gli avrebbe mai aperto. – -
Kora no, è vero, ma se ad aprirgli fosse
stato Lorenzo? – Ferdinando
mi guarda con una certa espressione, che non so decifrare. -
Forse non
ho finito, con il tuo bassista. – -
Forse
conviene aspettare le analisi sullo zerbino. – -
Adesso devo
proprio andare. Domani sono di turno al mattino. Ho bisogno di riposare. – -
Vengo giù
con te. – Gli
apro il portone. -
Buonanotte,
Ferdinando. – -
Hai suonato
con sentimento, stasera. – -
Suono
sempre con sentimento. – Lui mi
guarda in modo strano, e sembra pronto a ribattere qualcosa, ma poi ci
rinuncia e abbassa gli occhi. Siamo vicinissimi. -
Buonanotte,
Gaetano. – mi dice, con una voce un po’ più profonda, che mi fa scorrere un
brivido lungo la schiena. Hey, che mi sta succedendo? Chiudo il portone e torno dietro al banco.
Delia è nel bel mezzo di Summertime. Non
le avevo chiesto di abolirla dalla lista? Lunedì.
Alle tre chiamo Ferdinando per accordarci sul cinema, ma non mi risponde. Gli
mando un messaggio: “a che ora stasera?” Alle otto non ha ancora risposto e
non risponde neppure alla seconda chiamata. Decido di andare da solo. Appena
uscito dal portone, mi assale la nebbia. Una nebbia fitta come non ne vedevo
da tempo. Mi passa la voglia. Invece di andare a prendere la macchina, arrivo
in piazza, alla pizzeria da asporto. Mi faccio preparare due pizze e me le
porto a casa. Scelgo un film dai miei dvd, Heat – La sfida, e lo inserisco nel lettore. Al Pacino e pizza ai
peperoni: è il massimo della goduria. A metà della pizza, Al Pacino si
rivolge alla moglie Diane, dicendole: “Devo
tenermi la mia angoscia. La devo proteggere. Perché mi serve: mi mantiene
scattante, reattivo, come devo essere.” Forse
ho scelto il film solo per questa frase. Sto rimuginando sulla mia scelta,
quando suonano al citofono. È Ferdinando. Alla buonora! Fingo
che non avessimo un appuntamento di massima, che non mi abbia dato buca e che
non sia incazzato con lui. Lo saluto tranquillamente e torno a sedermi. -
Siediti. Ti
va una pizza? – -
Magari.
Sono affamato. – -
Birra? – -
Sì grazie.
– Vado in
cucina e torno con le ordinazioni. Niente bicchiere. Gliele piazzo davanti, sul
tavolino dove c’è già la mia, mentre il film scorre, nella nostra più
completa indifferenza. Lui si tuffa sulla pizza come un affamato cronico del
terzo mondo, con lo sguardo spaurito di chi teme che gliela portino via. -
Mangia con
calma, sennò ti resta sullo stomaco. – gli consiglio. -
Fame. Non
mangio da ieri sera. – riassume, per non perdere tempo. -
Il tuo
lavoro aiuta a mantenersi in forma. - Non
spreca fiato a commentare o ribattere, si attacca al collo della bottiglia
senza battere ciglio. Mi viene da ridere. Vorrei chiedergli cosa gli è
successo, ma piuttosto mi mangio le palle. Voglio proprio vedere che scusa
trova. Quando finisce la pizza, si rilassa, appoggiando la testa allo
schienale del divano. Io alzo il poggiatesta, accessorio che a suo tempo,
insieme al poggiapiedi, mi ha convinto all’acquisto. Lui mi
guarda soddisfatto. Che diavolo ci fai qui? Aspetto
che dica qualcosa, ma dopo un po’ sento il suo respiro regolare. Dio, sta
dormendo. Gli sollevo il poggiapiedi, spengo il video e gli butto addosso un
plaid, poi spengo la luce centrale, lasciando accesa la piccola lampada
vicino alla tv e me ne vado a letto. Quando
mi sveglio, sono le dieci. Non sono abituato a queste alzatacce. Mi ricordo
del poliziotto in soggiorno e vado a vedere se c’è ancora. Ha lasciato il
plaid perfettamente piegato. I cartoni della pizza e le bottiglie vuote sono spariti. Vicino
alla tv, ha lasciato un biglietto: “È bello avere un amico come te.” Sorrido.
Non è il primo che me lo dice. Sono la perfezione fatta amico. Mi faccio
sempre i cazzi miei. So ascoltare. Non impongo consigli non richiesti. Non mi
incazzo se ignorano quelli richiesti. So consolare con pochi semplici accorgimenti: alcol, cibo, musica e una
pacca sulle spalle. Quando spariscono, non li cerco. In fondo, è solo questo
che tutti vogliono da me. Al poliziotto ho offerto anche un divano comodo su
cui schiacciare un sonnellino. Mi sto allargando. Guardo
fuori. Ancora nebbia fitta e tutta una settimana davanti a me. È ora di fare
colazione. Sta a vedere che oggi ci scappa anche un pranzo. Già
venerdì. Alle undici Delia attacca la serata con Besame Mucho. È impazzita? Cos’è questa? Una
provocazione? Una punizione perché l’ho cazziata
quando ha osato rifarmi Summertime? Come secondo pezzo ci mette Deedles’ Blues. Forse potrei perdonarla. Vedo
entrare il tizio dei ritratti. Questa volta non voglio lasciarmelo scappare.
Telefono a Ferdinando e lui mi chiede di bloccarlo con ogni mezzo, almeno per
un quarto d’ora. Io estendo la notizia anche a Rocco. Tra tutti e due, saremo
pure in grado di riuscirci. Mister X è affascinato dalla vocalist e non
sembra avere alcuna intenzione di distrarsi. Beve con calma. Fuma. Si mette a
scarabocchiare sul tovagliolo. Batte il tempo con un piede nervoso. Passa
mezz’ora prima che il cellulare mi vibri nel taschino. -
Abbiamo un
agente appostato fuori dal locale. Puoi lasciarlo andare. – -
Non ha
nessuna intenzione di andarsene. – -
Meglio
così. Aprimi il portone. – Vado ad
aprire senza capire. -
Perché
entri da qui? – chiedo a Ferdinando. -
Ho
dimenticato la tessera. – -
Per caso
hai già bevuto? – gli chiedo, insospettito. -
No, ho
intenzione di cominciare adesso. – -
Vieni, va.
– dico, richiudendo il portone. -
No,
aspetta. – mi ferma, afferrandomi con vigore per un braccio. -
Che c’è? – -
Il sangue
sullo zerbino è quello di Lorenzo. – Io lo
guardo nella luce giallognola della lampada a risparmio energetico. Lui mi
lascia il braccio, ma mi resta per qualche secondo l’impressione di calore
della sua mano. -
Andiamo. –
gli dico. Ferdinando
si issa su uno sgabello. -
Con che
cosa vuoi iniziare? – -
Fai tu. –
risponde distratto, cercando nello specchio il riflesso di Mister X. Lui è
ancora al suo posto, in adorazione di Delia. Spero che non abbia trovato una
nuova vittima. Metto davanti a Ferdinando un Negroni
e comincio a scolarmi il mio. Lui beve senza partecipazione, come recitando
una parte all’unico scopo di mimetizzarsi con l’ambiente. -
Sei in
servizio? – gli chiedo, sporgendomi verso il suo orecchio. Lui
annuisce, sorridendo. Non mi sembra prudente che beva in servizio. Se
l’avessi saputo, gli avrei dato del thè. Mister
X svuota il bicchiere e io me lo vado a riprendere, infilandolo in un
sacchetto che ho preparato sotto il bancone. Non
vuole altro, quindi ne deduco che tra poco alzerà i tacchi. Alla pausa della
band, infatti, si alza e va a pagare. Ferdinando lo segue dallo specchio.
Quando esce, lui ritorna tra noi. -
Fatta. –
dice, con l’espressione soddisfatta che hanno certi ragazzini, quando hanno
finito un’equazione. Io lo
guardo, sorpreso che non si butti alle sue calcagna. -
Adesso puoi
darmi da bere. – mi fa. -
Ti sei
appena scolato un Negroni. – gli ricordo. -
Davvero? –
chiede, scendendo dalle nuvole. -
Parola mia.
- -
Sorprendente.
Allora dammi un thè. – -
Meglio.
Quando stacchi? – -
Un’ora fa. –
dice, guardando l’orologio. -
Forse è ora
che tu vada a casa a dormire. – -
Mi dai il
bicchiere che hai messo nel sacchetto? – -
Mi hai
visto? – -
No, ho
immaginato. – Prendo
un sacchetto di carta da pane e ci ficco dentro il bicchiere. Poi vado nel
retro e Ferdinando mi raggiunge, togliendomelo di mano. -
Siamo una
bella squadra. – commenta. -
Io sono un freelander. – ribatto. -
Grazie,
comunque. – mi dice, appoggiandomi una mano sul petto, all’altezza del cuore. -
Buonanotte,
Ferdinando. – -
Buonanotte,
nottambulo. – Non lo
accompagno. All’improvviso non vedo l’ora che si tolga dalle palle e sparisca
dalla mia vita. Quando
vado a pulire i tavoli, cerco il tovagliolo di Mister X e non lo trovo. Se
l’è portato via. Il sospettato è sospettoso. Finalmente
Lorenzo si degna di tornare a suonare. È guarito. Non so come abbia preso la
triste dipartita della sua ragazza, perché, come al solito, dal suo
atteggiamento non traspare nulla, e ancor meno dalle sue parole. Tristezza o
felicità, sul suo volto, hanno la medesima espressione, un po’ come su
Harrison Ford. Fingo di non sapere nulla della perquisizione, né
dell’interrogatorio a cui è stato sottoposto. Ho avvertito Delia del pericolo
che può rappresentare per lei l’attenzione di Mister X e si è organizzata per
farsi sempre accompagnare dai ragazzi. Meglio non correre rischi. Domenica
sera. Il locale è ancora chiuso, quando arriva Lorenzo. I miei due neuroni
devono essere già un po’ diluiti nell’alcol, perché altrimenti non farei
quello che sto per fare. -
Lorenzo, mi
spieghi perché hai scambiato il mio stoino con quello di Kora,
quando l’hai sporcato di sangue? – Lorenzo
mi guarda con espressione terrorizzata. -
Non
preoccuparti. Non lo dico a nessuno. Sono solo curioso. E poi, come ti sei
tagliato? – Lorenzo
deglutisce un paio di volte, restando in silenzio. -
È così
tremendo quello che hai fatto, da non potermelo confidare? – -
Io non ho
fatto niente. – -
Lo sapevo.
Ne ero sicuro. Allora raccontami com’è andata.- -
Quello ha
detto di essere un amico di Kora e io l’ho fatto entrare.
Sembrava lì per parlare, poi ha chiesto un caffè. È venuto in cucina con me,
ha preso un coltello e me l’ha sventolato contro, urlandomi di sparire. Io
indietreggiavo, indietreggiavo, ma alla fine, sulla porta, mi ha colpito, qui
e qui. – mi dice, mostrandomi la
cicatrice sulla mano e toccandosi un fianco. -
Fammi
vedere. – Lorenzo
solleva la camicia e vedo un lungo graffio appena sotto le costole. Gli è
arrivata di striscio, altrimenti adesso non starebbe qui a raccontarmelo. -
È così che
si è sporcato lo zerbino? – -
Sì. Allora
ho pensato che se faceva lo stesso
anche a Kora e trovavano il mio sangue, davano la
colpa a me. Per questo l’ho portato di sotto. Lì nessuno ci avrebbe guardato.
E poi sono scappato. – -
E non hai
pensato di venirci a chiamare? Magari potevamo aiutarla e quel tizio non le
avrebbe fatto del male. – -
Ma voi non
lo sapevate che io stavo qui. Ti avevo detto che non potevo uscire, perché
stavo male. – -
Capisco. – -
Peccato che
quello la volesse tutta per sé, così adesso non ce l’avrà più nessuno. – -
Già. – -
Mi piaceva
tanto, Kora. Io le piacevo, sai? La facevo ridere,
e lei mi baciava sulla fronte. – -
Ti baciava
sulla fronte? – -
Sì, per
dimostrarmi che gli piacevo. – -
Santiddio. – esclamo. Lorenzo mi ha messo al
tappeto. Chiamo
Ferdinando e gli racconto tutto. Lui si precipita e porta Lorenzo di sopra,
in casa mia. Quando scendono, mi viene vicino e mi dice: -
Lorenzo ha
riconosciuto Massimo Defeo dalle foto. – -
E chi è
Massimo Defeo? – -
Il tizio
dei ritratti. – -
Ah, Mister
X ha un nome. Hai abbastanza per arrestarlo? – -
Sarebbe
meglio trovargli il coltello in casa, ma dubito che sia così stupido. – -
Non si sa
mai. – commento. – Lorenzo sembra innocuo, ma temo che sia contagioso. – -
Vedremo.
Adesso scappo. – -
Sì, scappa.
Cerca di incastrarlo, quel bastardo. – Ferdinando
mi stringe in un abbraccio frettoloso e si dilegua. Non ti starai prendendo
troppe libertà con me, mio caro sbirro? Mi attacco a una bottiglia di birra e
mi perdo nel piacere di sentire la band al completo. Manco solo io. Perché
sprecare questa splendida occasione? Idee
annacquate, sentimenti sfocati, movimenti che prendono iniziative arbitrarie,
lontane dalle mie abitudini consolidate. Rassettare i cassetti della
biancheria, impilare i piatti per dimensione e specie negli armadietti della
cucina, spolverare i mobili anche se non sembrano averne un’apparente
necessità. Davvero non so cosa mi stia accadendo. Ho bisogno di ordine,
intorno a me. Potessi fermarmi un momento e farne anche dentro di me. Pensavo
di essere al riparo, di aver trovato l’equilibrio perfetto, ma c’è qualcosa
che mi disturba e il pensiero ci scivola sopra, come quando mi cade la
saponetta nella doccia e non c’è verso di riafferrarla. Se prendo tempo, se
la lascio là, so che prima o poi si asciugherà ed allora non potrà più
sfuggirmi. Le
finestre splendono, le fatture sono in ordine, il locale è tirato a lucido e
ho fatto gli ordini per i fornitori. È uno splendido primo lunedì di marzo.
Ferdinando mi chiama per dirmi che ha bisogno di parlarmi. -
Parlami.
Sono tutto orecchi. – gli dico. -
Adesso? – -
No? E
quando vuoi parlarmi? – -
Stasera, a
cena? – mi fa. -
Va bene. –
dico. -
Ti porto in
un posticino che conosco. – -
D’accordo.
Dove ci vediamo? – -
Lì da te. – -
Allora ti
aspetto. – Che non
sia come quella volta, sennò ti strappo la tessera del club e ti inserisco
nella lista nera degli indesiderati. Giacca
blu sopra jeans e camicia azzurra, cravatta Pierre Balmain
- Paris, polacchine Clarks, un moderato spruzzo di Agua
Brava, reperibile ormai solo nel paese di produzione. Le otto. Decido di
andare di sotto a farmi un aperitivo. Oggi sono stato bravo, ho bevuto solo
acqua, una specie di penitenza che il mio fegato deve aver gradito, perché
non si è ancora fatto vivo. Non
faccio in tempo a scendere l’ultimo gradino, che suonano al portone. Apro in
tempo record. Ferdinando mi guarda stupito. Ho
fatto troppo presto? -
Ciao,
nottambulo. – -
Ciao,
Ferdinando. – -
Beh, allora
andiamo? – Esco in
strada, chiudendomi il portone alle spalle. Ferdinando mi precede verso la sua
macchina. Ha una Ford Ka Leather
Collection con i cerchi in lega, nera, che vista di
profilo sembra il casco di Darth Vader, il cattivo in Star Wars.
Quando mi arrotolo per entrarci, scopro che se non mi sposta il sedile,
rischio il soffocamento. Lui ride, mi allarga lo spazio e poi lancia un
giornale sui sedili posteriori. Partiamo a razzo verso destinazione per me
ignota. Guida bene, anzi benissimo. Riesce ad essere veloce e prudente allo
stesso tempo, scattando e frenando con sicurezza ed abilità. -
Sei
silenzioso, stasera. Sei di quelli che in macchina non stanno tranquilli se
non reggono il volante? – -
No. Sono di
quelli che preferiscono farsi scarrozzare, piuttosto che togliere la macchina
da un buon parcheggio.– -
Bene,
allora siamo contenti tutti e due. – -
Dove stiamo
andando? – -
Sorpresa. –
mi risponde, con un sorrisetto. Così
metto piede per la prima volta nel locale della concorrenza. Il posto si
chiama Summertime,
un nome che comincio ad odiare, bar ristorante con aspirazioni jezzistiche. Niente musica dal vivo, almeno non sarò
costretto a fare confronti. Ferdinando ha prenotato un tavolo d’angolo. Sono
i miei preferiti, perché puoi guardare in ogni direzione, con la certezza che
nessuno ti stia osservando la schiena. Ferdinando ha un’espressione rilassata.
Studiamo il menù, con qualche commento sagace, interrotto dall’arrivo del
cameriere in gilè stile Arbore and friends. -
Avete
deciso? – Odio
questa domanda, soprattutto se non è preceduta da un educato “buonasera”. Ferdinando
si lancia in un’ardita combinazione di antipasto di mare, spaghetti al
cartoccio e grigliata mista. Quando mangia, lo fa sul serio. Credo che faccia
così per ogni cosa. Il cameriere aspetta le mie decisioni, ma per quanto mi
riguarda, sono ben lungi dall’aver deciso alcunché. Così, per toglierci tutti
dall’imbarazzo, mi limito a dire: -
Per due. – -
Vino? – ci
chiede. -
Posso
vedere la carta dei vini? – Il
cameriere si allontana per un attimo e torna con la carta, porgendomela con
un “prego”. Mi pare che vada già meglio. Studio
per qualche secondo la scelta dei bianchi, ripensando a quello che mangeremo
e abbino mentalmente. -
Ci porti un
Vermentino di Gallura e poi, con la grigliata, un
Verdicchio di Matelica. – Il
cameriere mi fa un inchino e se ne va, per bloccarsi di colpo, tornare indietro
e chiedere: -
Vi porto
anche dell’acqua? – -
Sì, grazie,
avete -
Certo,
signore. - Soddisfatto,
finalmente, si dirige a passo spedito verso la cucina. -
Acqua di
Vichy? – gli chiedo, ironico. -
Era per metterlo
in imbarazzo. Non ha nemmeno salutato.– -
L’hai
notato anche tu? – E ci
mettiamo a ridere, non so perché, ma è un’esplosione così spontanea e
naturale, che mi fa star bene. -
Non ti
avevo mai visto con la cravatta. Ti sta bene. – mi dice Ferdinando. -
Grazie. –
rispondo – E tu sei molto elegante. Dovresti proprio abbandonare tutto quel
nero che metti di solito. – -
È la mia
divisa. Non riesco a farne a meno. – -
Di che cosa
volevi parlarmi? – -
Di me. Devo
lasciare la casa che ho in affitto, allora ho pensato, quando si decideranno
a togliere i sigilli dall’appartamento di Kora, che
ne diresti di affittarlo a me? – Non c’è
ragione al mondo per cui non dovrei acconsentire alla sua richiesta, eppure
un pensiero mi scivola nella testa, come la solita saponetta. -
Certo,
perché no? – Perché
continuerò ad averlo sempre intorno. Perché non potrò allenarmi al sax ad
ogni ora, come faccio adesso. Perché potrebbe diventare invadente. Perché
potrei innamorarmi di lui. Eccolo, il sapone. Lo sapevo che l’avrei
acchiappato, prima o poi, nonostante la sua schiuma. -
Sai, non
devi preoccuparti per il rumore. Io riesco a dormire anche in una discoteca.
Potrai continuare tranquillamente a fare tutto quello che fai. Non mi
disturberà affatto. Non ti accorgerai nemmeno che esisto. – -
Con gli
orari che fai, lo credo. – -
Lo sai
com’è il nostro mestiere. Non si possono fare programmi. Non esistono le
domeniche, né i Natali, né i Capodanni. Noi siamo sempre a disposizione. – -
Lo so. È
uno dei motivi che mi rendono felice di aver cambiato mestiere. In effetti
non è un lavoro, è una missione. – Arrivano
le bevande e, subito dopo, gli antipasti, con un cestino di piccoli panini al
sesamo, ai semi di papavero e alle olive. Per cinque minuti ci dimentichiamo
di parlare. Io ne
approfitto per rimettere ordine nei pensieri. Questa storia di averlo per
inquilino mi mette ansia. Sento le barricate che si rinsaldano e si
rinforzano, là dove la distrazione e la noncuranza avevano lasciato cadere
qualche asse. Sento i chiodi conficcarsi bene a fondo nel legno, per
sostenere la struttura portante della mia condizione di irriducibile lupo
solitario, inespugnabile come Ferdinando
si complimenta per la scelta dei vini, torna a dirmi come gli piaccia il mio
modo di suonare il sax, quanto abbia ammirato la maniera con cui ho gestito
lo pseudointerrogatorio di Lorenzo. Ma le sue
manovre non mi toccano più. Io sono già da un’altra parte, dove non c’è
spazio che per me, il mio locale, la mia musica e il mio modo di vivere da
gufo. Quando
mi riaccompagna, lo ringrazio per la serata e scendo dalla macchina con un
semplice buonanotte, guardandolo negli occhi solo per una frazione di
secondo. Giovedì
alle dieci, con la solita odiosa noncuranza, Ferdinando mi sveglia per dirmi qualcosa che non può aspettare. I
miei capelli sono più sconvolti del solito e la mia faccia deve essere uno
spettacolo. Ieri sera ho esagerato con gli assaggi. -
L’abbiamo
preso. – afferma, eccitato. -
Chi? – gli
chiede il mio unico neurone risvegliato dal coma. -
Il
ritrattista. Aveva in casa il coltello. Avevi ragione tu, Lorenzo dev’essere contagioso. – -
Bene,
allora è finita, finalmente. – commento, sbadigliando incontenibilmente. -
Sì, la
nostra parte l’abbiamo fatta. Adesso passa tutto in altre mani. – -
Sono
contento. – affermo, inserendo il pilota automatico. -
Torno
stasera per brindare. – -
O.k. –
rispondo, senza sapere a che cosa. -
Torna a
dormire. Stai cascando dal sonno. – dice, soffermando il suo sguardo a
mandorla nel mio. -
Non mi ero
accorto di essere sveglio. – rispondo, chiudendogli la porta in faccia, con
l’unica certezza che adesso posso continuare a dormire in una posizione più
comoda. Con
l’annuncio che hanno arrestato l’omicida, spargo un balsamo benefico sulla
mia band e sul mio braccio destro. Sono tutti soddisfatti dalla svolta delle
indagini. Lorenzo mostra sempre la medesima espressione, ma quando inizia a
suonare, ci mette una leggerezza che ha il sentore del sollievo. Anche il mio
sound si adegua e prende il volo, ricordandomi una farfalla che si era posata
sulla nuca di una deliziosa ragazza, che nei miei ricordi sarà sempre vestita
con un babydoll nero, autoreggenti e tacchi a spillo. Intorno
alle undici, mi cade lo sguardo su un tavolo, dove sono seduti Delia e
Ferdinando. Entrambi in divisa nera, con i capelli neri, hanno un aspetto
inquietante. Finisco il pezzo e presento la vocalist. Ti pago per cantare,
non per stare là a ciangottare con uno sbirro fuori servizio. Scendo dalla
pedana, facendo un cenno di saluto a Ferdinando e vado nel retro a riporre il
sax nella custodia. Sono sudato fin nelle mutande, così decido di salire un
momento in casa per cambiarmi. Mentre sto per affrontare le scale, sbuca dal
retro Ferdinando. -
Dove
scappi? – -
Devo
cambiarmi. Torno subito. – -
Vengo con
te. – Non so
come dirgli di restare dov’è, senza offenderlo. Quindi, nel dubbio, sono
costretto a tacere. Entra
in casa con me e va a sedersi sul divano. Io vado a ficcarmi sotto la doccia,
giusto due minuti. Poi mi asciugo i capelli con un asciugamano e mi cambio.
In tutto otto minuti. Torno in soggiorno e trovo Ferdinando che dorme
beatamente. Questa storia è ridicola. Lo lascio dov’è e torno di sotto. Rocco
è un po’ sottosopra. Da solo non ce la fa. -
Vai alla
cassa, Rocco. Qui ci penso io. – gli dico. -
Stasera eri
proprio in vena. Hai suonato da mito. – -
Serata in
onore di Kora. Doveva essere così. – -
Che ne
diresti di appendere una sua foto? – -
E Lorenzo?
No, meglio di no. Ce la ricorderemo lo stesso, vedrai. – -
E il
poliziotto che fine ha fatto? – -
Sta dormendo
di sopra. – -
Si è
scolato tre Bronx. Mi sa che non lo svegli neanche con le cannonate. – -
Non ho
nessuna intenzione di svegliarlo. – Alle
cinque torno di sopra. Ferdinando è coricato sul divano in una posizione
molto più comoda. Gli butto addosso il solito plaid e me ne vado a dormire. Quando
mi sveglio, all’una, il plaid è ben ripiegato sul tavolino, accanto ad un
biglietto con su scritto “Il Bronx non mi frega più. Comunque potevi pure
svegliarmi, stavolta mi mettono in punizione.” Arrivo
fino al lunedì senza chiedermi se in punizione ce l’abbiano messo oppure no.
È decisamente primavera e il mio unico obiettivo è di andarmene a passeggiare
in un parco. Mi compro il giornale e lascio a malincuore il miglior
parcheggio dell’anno, proprio di fronte al locale. Faccio benzina e dirigo
fuori città. Non ho idea di dove stia andando, ma appena trovo il posto
giusto, ho intenzione di fermarmi. Guido
da un’ora e mi convinco che il posto giusto non esiste. Torno indietro. Se
non riesco a sentirmi “giusto” dentro, nessun luogo al mondo potrà regalarmi
questa sensazione. È con me stesso che devo sentirmi a posto. Adesso non vedo
l’ora di tornare a casa e mettermi a suonare. Quando
arrivo, sono travolto dal miracolo di trovare subito un parcheggio, dietro
una Ford Ka nera. Scendendo dall’auto, le passo di
fianco, senza badarci. Una strombazzata di clacson mi fa sobbalzare. È
Ferdinando. -
Che ci fai
qui? – -
Ti
aspettavo. – -
Vieni su. –
gli dico, burbero ma rassegnato. Il mio
entusiasmo lo commuove. Lo capisco dalla sua espressione. Ma Ferdinando è uno
che non demorde. Purtroppo, ho capito anche questo. Una volta in casa, senza
una parola, mi si avvicina e mi si avvinghia addosso, imponendomi un bacio
che sembra voglia risucchiarmi anche l’anima. Vorrei scrollarmelo di dosso,
ma quello che mi si smuove nel basso ventre non sembra affatto essere
d’accordo. Ferdinando si stacca da me e mi guarda dritto negli occhi. -
Scusami. È
stato più forte di me. – dice ansimando. Io lo
fisso a mia volta e intanto comincio a spogliarlo. Ferdinando fa un sospiro
di sollievo. -
Non ero
sicuro che lo volessi anche tu. – -
Nemmeno io
sono tanto sicuro di volerlo, ma ormai che ci siamo…
- Gli
afferro il membro e stringo forte. È duro come l’acciaio. In un attimo siamo
già nudi sul divano. Non pensavo di potermi eccitare così tanto. Ferdinando
ha un corpo perfetto, sembra una statua greco-romana. Lo sguardo dei suoi
occhi a mandorla mi turba profondamente. Capisco da come si muove che per lui
non è la prima volta e la sua esperienza mi tranquillizza, perché io non so
cosa fare. È tutto così inaspettato e meraviglioso che sento come sciogliersi
le ossa. E il duro nodo aggrovigliato nella mia anima pare sciogliersi di
pari passo. Non sono mai stato tanto bene in vita mia. Oddio, che
sogno assurdo. Apro gli occhi. Sogno?
Ferdinando dorme tranquillamente accanto a me, con la testa appoggiata su un
cuscino. Dio, quanto mi piace. Dio, se vorrei innamorarmi di lui. Ma che
dico? Lo sono già. Ero convinto di non volere legami e adesso... “Che stai
facendo?” mi urla una voce dentro. Faccio l’unica cosa che devo fare, per
tornare tutto intero. Non sarebbe stupendo svegliarmi ogni tanto con lui
accanto, come in questo momento? Lo sveglio? No, mi piace guardarlo dormire.
Mi piace ridere con lui, osservarlo mangiare di gusto, vederlo concentrato
nei suoi pensieri, ammirarlo mentre guida la sua macchina. Mi piace come mi guarda attraverso i suoi
inquietanti occhi a mandorla, sentire la sua voce da brivido, calda e un po’
roca. -
Non
guardarmi così. – mi dice ad occhi chiusi. -
Come ti
guardo? – lo sfido. -
Come uno
che stia prendendo una decisione troppo importante. – mi dice, voltandosi a
guardarmi anche lui. -
Sei
bellissimo. – -
Anche
tu. Baciami. Avremo tutto il tempo, per le decisioni.- |