La vendetta

 

 

A San’yūtei Enchō

 

Izubuchi Jirokichi discendeva da un’illustre famiglia di samurai e aveva la fama di grande guerriero. Lo shogun, da cui dipendeva direttamente, aveva piena fiducia in lui e Jirokichi viveva agiatamente. Il suo unico cruccio era la mancanza di figli maschi: aveva avuto tre figlie, la maggiore delle quali era ormai in età di sposarsi, ma nessun figlio per continuare la casata. Si era perciò rassegnato all’idea di adottare un giovane, che si sarebbe trasferito nella sua residenza e avrebbe assunto il suo nome di famiglia. Le figlie non si erano ancora sposate, ma il samurai pensava di scegliere uno dei generi, come si usava.

Nel periodo in cui stava valutando la scelta del marito da dare alla prima figlia, Jirokichi si recò a Edo, presso il grande tempio dello Yushima Tenjin, in occasione di un matsuri, festa e rito shintoista. C’era, come sempre in queste occasioni, una grande folla che riempiva tutta l’area del tempio e quella circostante: fedeli in visita al tempio, venditori che esponevano la loro merce, curiosi attratti dall’animazione delle vie, prostitute in cerca di clienti.

Per l’occasione Jirokichi si era vestito con grande cura, come richiedeva il suo rango. Indossava un’elegante sopravveste blu scuro, con una fodera riccamente decorata, sulla tradizionale gonna-pantaloni e calzava sandali con la suola di cuoio. Il portamento fiero e la sobria eleganza dell’abbigliamento indicavano la sua posizione sociale anche a coloro che non avevano mai avuto modo di vederlo. La gente si spostava per lasciarlo passare e alcuni si fermavano ad ammirarlo: Jirokichi era un bell’uomo. Perciò il samurai si stupì quando un uomo si staccò dalla folla ai lati della strada e si fermò esattamente davanti a lui, bloccandogli il passaggio. Corrugò la fronte e fissò lo sconosciuto. La testa rasata e l’abito bianco indicavano chiaramente che si trattava di un monaco, ma il sudiciume degli indumenti e l’odore intenso che emanava dall’uomo faceva piuttosto pensare a un mendicante.

Prima che Jirokichi potesse chiedergli che cosa voleva, l’uomo parlò:

- Samurai, tu vorresti un figlio maschio.

Jirokichi si stupì che l’uomo, che sembrava non conoscere neppure il suo nome, sapesse del suo desiderio.

- E lo vorresti abile nell’uso delle armi, forte, coraggioso e leale, come il grande Minamoto no Yoshitsune. Lo sarà. Il suo nome sarà lodato da coloro che lo conosceranno.

Il samurai scosse la testa. Certamente avrebbe voluto un figlio come l’eroe del passato che il monaco aveva citato, ma questo non era avvenuto. Sua moglie aveva partorito la loro ultima figlia dieci anni prima e da allora non c’erano più state gravidanze. La donna era ancora abbastanza giovane, perché Jirokichi, che aveva compiuto da poco i cinquant’anni, si era sposato a trent’anni, scegliendo un moglie con dodici anni in meno, ma gli sembrava improbabile che la donna potesse generare dieci anni dopo la conclusione dell’ultima gravidanza.

Prima che il samurai potesse dire alcunché, l’uomo prese un sacchetto di stoffa che portava appeso alla cintola e ne estrasse un ciondolo legato a un nastro di seta, che mise sul palmo della propria mano, mostrandolo al suo interlocutore. Il luccichio dell’oggetto attirò lo sguardo del samurai che fissò stupito quello che appariva uno tsuba, il cerchio alla base della lama che impedisce alla mano del samurai di scivolare sulla parte tagliente della spada: il disco aveva infatti al centro il tipico taglio verticale, per far passare la lama. L’oggetto però sembrava d’oro, un metallo che non veniva abitualmente usato per le spade. La superficie era artisticamente lavorata e raffigurava un guerriero che combatteva contro un mostro a più teste, vicino a un ciliegio in fiore. L’albero era rappresentato con grande cura e il tripudio di petali bianchi impreziosiva la scena cruenta.

Anche nel caso non fosse d’oro, l’oggetto doveva avere sicuramente un grande valore, dato il livello eccezionale della lavorazione. Come era possibile che questo monaco cencioso possedesse un tale gioiello?

- Tienilo al collo quando ti dedicherai ai giochi del piacere, e tra nove mesi avrai il figlio che ogni padre desidera.

Jirokichi fissò il monaco. L’uomo stava cercando di vendergli un monile che aveva certamente rubato. Avrebbe dovuto scacciare questo importuno o, meglio ancora, portarlo alle autorità. Ma con un movimento rapido, il monaco gli mise il ciondolo al collo e in un attimo si dileguò tra la folla, senza chiedergli nulla.

Il samurai rimase un momento fermo, sorpreso dalla rapidità del gesto del monaco, poi si guardò intorno, senza riuscire a vedere l’uomo. Si portò una mano al collo e sentì sotto le dita la placca d’oro. Il ciondolo, che avrebbe dovuto pendergli sul petto, era invece alla base del collo, come se il monaco avesse stretto la corda di seta che lo teneva: questo però non era possibile, perché non aveva avuto il tempo per farlo.

Jirokichi era turbato. Avrebbe voluto parlare con il monaco, ma questi sembrava essere svanito nel nulla: d’altronde nella folla festosa che riempiva tutta l’area, non era certo difficile per un uomo dileguarsi.

 

Il samurai tornò alla sua casa, nei pressi di Kyoto. Quando, giunta la sera, si stese con la moglie, mantenne al collo il ciondolo. La donna osservò stupita lo splendido gioiello che non aveva mai visto. Il marito non era solito portare ornamenti al collo e non ne teneva nessuno quando si coricava.

- Non hai mai messo questo ciondolo. Un lavoro di grande raffinatezza.

Jirokichi annuì.

- Me lo ha dato a Edo un monaco straccione, al tempio. Mi ha detto che se lo avessi indossato questa notte, io e te avremmo generato un figlio.

La donna fu alquanto sorpresa nel sentire le parole del marito, che non era il tipo da credere agli amuleti venduti da monaci straccioni. Per di più l’oggetto sembrava davvero d’oro ed era di una fattura talmente elegante da far pensare a un abilissimo artigiano.

- Non l’avrà rubato?

- L’ho pensato anch’io, ma non mi ha chiesto niente ed è svanito nel nulla, prima che potessi dargli qualche cosa o rendergli il gioiello.

- Strano, davvero.

Jirokichi e la moglie si dedicarono ai giochi del piacere, in cui il samurai eccelleva, senza più pensare al ciondolo. Ma quando si distesero l’uno accanto all’altra, ormai sazi, il samurai portò la mano al collo e con il dito percorse il rilievo che lo decorava. Poi toccò il bordo, che non era liscio, ma zigrinato. Si chiese se davvero il monaco potesse aver detto la verità: avrebbe dato volentieri la vita, per generare un figlio valoroso e giusto.

 

Le parole del monaco si rivelarono veritiere. La moglie di Jirokichi rimase incinta e il samurai era felice, perché era sicuro che sarebbe nato un figlio maschio e che sarebbe stato coraggioso. Come tutti, conosceva bene le imprese del grande Minamoto no Yoshitsune, il più forte guerriero del tempo delle lotte tra i Taira e i Minamoto.

Quando, nove mesi dopo la festa al tempio, nacque il figlio maschio tanto desiderato, Jirokichi voleva chiamarlo Yoshitsune, in onore del grande guerriero vissuto secoli prima, ma poi preferì abbreviare il nome in Yoshi.

Il piccolo era un bambino robusto, che crebbe sano, superando le malattie dell’infanzia senza difficoltà. Molto presto dimostrò di possedere intelligenza e coraggio in misura superiore ai bambini della sua età. Non sembrava aver paura di nulla. Un giorno la nutrice gli raccontò la storia della lanterna delle peonie, alla cui luce due spiriti femminili camminavano di notte, per raggiungere l’abitazione di un uomo amato dalla più giovane. Dopo aver ascoltato con grande attenzione la storia e la sua tragica conclusione, il piccolo chiese se era possibile vedere le due donne-fantasma. La nutrice gli disse che a volte passavano di notte vicino alla loro casa e che per questo non bisognava uscire quando era buio. Quella sera stessa, quando tutti si misero a dormire, Yoshi uscì per vedere i fantasmi delle due donne e rimase a lungo all’aperto, fino a che la nutrice scoprì la sua assenza e il padre uscì a cercarlo.

Jirokichi incominciò presto a istruirlo nell’uso delle armi e vide con piacere che il figlio imparava molto in fretta: a quattordici anni riusciva a mettere in difficoltà il padre che, per quanto avesse ormai sessantacinque anni, era ancora un guerriero molto forte ed era esperto nell’uso della spada, dell’arco, del pugnale e della lancia. Vedere il figlio così abile era fonte di soddisfazione continua per Jirokichi, che ringraziava gli dei per la loro generosità.

Il samurai portò spesso il figlio a confrontarsi con altri guerrieri e a sedici anni Yoshi era in grado di battere la maggioranza degli avversari: ben pochi riuscivano a tenergli testa, quasi nessuno a sconfiggerlo. Lo abituò a sopportare disagi di ogni tipo, per rafforzarne il carattere: lo espose al freddo e una volta lo fece camminare per ore nella neve, mentre soffiava un vento gelido, coperto appena dal fundoshi; gli impose di camminare dall’alba al tramonto, portando un peso sulle spalle, in torride giornate estive; gli impose digiuni di più giorni, che non doveva interrompere, anche se gli venivano offerti cibi succulenti; gli ordinò di non bere per un giorno intero, pur avendo accanto una ciotola piena d’acqua; lo fece rimanere legato ventiquattro ore in uno stanzino buio, senza potersi muovere in nessun modo. Yoshi non si lamentava mai e sopportava ogni disagio senza mostrare turbamento, obbedendo sempre al genitore.

Padre e figlio si affrontavano spesso, ma quando Yoshi compì sedici anni, anche per Jirokichi divenne impossibile batterlo.

Il samurai osservava il comportamento del figlio e notò che non sembrava mostrare interesse per le donne, che a loro volta non sembravano attratte da lui: d’altronde Jirokichi lo aveva educato a combattere e a sopportare disagi e fatiche, non a intrattenere le dame in piacevoli conversazioni.

Nonostante questo, se Yoshi avesse voluto una delle serve di casa, nessuna si sarebbe certo rifiutata e lo stesso valeva probabilmente per molte contadine che vivevano nella proprietà. Ma il giovane sembrava preferire i combattimenti ai piacere dell’amore.

Jirokichi decise perciò di portare il figlio nel quartiere di Shimabara. Il figlio lo seguì, con l’obbedienza che lo caratterizzava, e il samurai ebbe modo di verificare che nei giochi del piacere il figlio mostrava lo stesso vigore di quando maneggiava la spada.

Tornando nella tenuta di famiglia, parlò al figlio:

- Yoshi, sei ancora troppo giovane per sposarti. Se però vuoi, posso procurarti una concubina.

- Vi ringrazio, padre. Se questo è il vostro desiderio, non sarò certo io a oppormi al vostro volere.

La risposta del figlio stupì il samurai.

- Yoshi, a te non farebbe piacere?

- No, ma se voi lo desiderate, sarà un piacere obbedirvi.

Jirokichi scosse la testa, alquanto perplesso.

- Non voglio forzarti. Non ne farò nulla, ma il giorno in cui lo desidererai, te ne procurerò una.

- Vi ringrazio, padre.

 

Quando entrambi erano nella tenuta si allenavano, all’interno nel periodo più freddo, all’aperto nei mesi più caldi. In estate spesso sceglievano la radura di un boschetto nella proprietà della famiglia. Yoshi diventava sempre più forte.

Infine, quando il giovane ebbe diciassette anni, avvenne quanto Jirokichi desiderava: Yoshi riuscì a batterlo con la spada. Si affrontarono più volte, ma il giovane ebbe quasi sempre la meglio.

Poi si spogliarono e si bagnarono nel fiume che scorreva poco lontano. Riemersero e tornarono alla radura. Jirokichi si stese e guardò Yoshi, che si chinava per sistemare gli abiti che aveva appoggiato a terra. Ne guardò i fianchi e pensò al tempo in cui aveva addestrato i giovani samurai. Più d’uno di loro gli si era offerto e Jirokichi ne aveva colto la verginità. Si augurò che anche Yoshi potesse un giorno avere discepoli che gli donassero tanto piacere: il figlio non era certo bello, ma Jirokichi era sicuro che il suo valore e la sua forza avrebbero attratto i giovani guerrieri.

 

Quando Yoshi compì vent’anni, Jirokichi, che ormai ne aveva settanta, lo chiamò e gli disse:

- Figlio, la mia vita si avvicina al suo termine. Gli dei mi hanno dato la gioia di vedere crescere un figlio come ho sempre desiderato. Sei stato obbediente e ti chiedo di non opporti all’ultima decisione che intendo prendere per te. Poi sceglierai di fare ciò che vuoi della tua vita.

- Dite, padre.

- Voglio che tu ti sposi.

Yoshi non desiderava sposarsi, ma non manifestò la sua contrarietà, poiché riteneva suo dovere obbedire al padre.

Il samurai aveva scelto una fanciulla di buona famiglia e il matrimonio venne celebrato. Nove mesi dopo nacque il primo figlio, un bel maschietto. Due anni dopo nacque il secondogenito, ma subito dopo il parto la moglie di Yoshi si ammalò gravemente e non fu possibile salvarla.

Poche settimane dopo la nascita del secondo nipote e la morte della nuora, Jirokichi si ritirò in un monastero buddhista, dove contava di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in preghiera, espiando i propri peccati. Prima di lasciare la casa, diede al figlio il ciondolo che portava al collo la notte in cui l’aveva concepito e gli raccontò la storia del monaco straccione.

Quando divenne il capofamiglia, Yoshi non introdusse cambiamenti nella casa, dove la vita continuò a svolgersi come sempre. Gli anni seguenti scorsero senza eventi significativi. Yoshi accompagnò il suo signore in diverse imprese. Lo shogun lo considerava il migliore tra i suoi samurai e il giovane era stimato da tutti.

Yoshi non si risposò, non si prese una concubina e non frequentava donne. Tra le dame che vivevano alla corte dello shogun, nessuna si interessava a lui, per quanto tutte ammirassero il suo valore. Il samurai non era certo un bell’uomo: era alto e forte, ma massiccio e molto più peloso di quanto non sia usuale in Giappone; il viso aveva tratti duri, che gli davano un aspetto truce, e una cicatrice lo sfigurava sul lato sinistro, dalla fronte al mento; le mani erano tozze, adatte a maneggiare ogni arma, più che alle carezze; il colorito era scuro. Il suo aspetto incuteva timore e in diverse donne anche repulsione.

Yoshi non viveva però nell’astinenza. Non di rado alcuni giovani si offrivano a lui, attratti dalla sua fama e dal suo valore. A volte il samurai si recava in una casa ai margini del quartiere di Shimabara, che si rivolgeva a coloro che preferivano i maschi. Qui sceglieva giovani uomini, con qualche anno in meno di lui, e si dedicava ai giochi del piacere.

 

Quando Yoshi compì ventott’anni, si presentò da lui un giovane, di nome Saito Benkei. Era figlio di un samurai di Osaka, ma suo padre, sconfitto in battaglia, si era ucciso e da allora la famiglia era vissuta in miseria. Benkei aveva ventidue anni ed era molto bello: aveva un corpo forte, ma snello ed elegante; il viso aveva tratti molto regolari, tanto che era un piacere guardarlo.

Benkei chiese a Yoshi di prenderlo al suo servizio.

- Sono figlio di un samurai, ma non ho ricevuto un’educazione corrispondente al mio rango. Vorrei poter servire un grande samurai e imparare a usare la armi. Voi siete il più valoroso dei samurai e per me sarebbe un grande onore servirvi.

- Presso chi hai servito fino a ora?

- Sono stato da un mercante di ferramenta di Yotsuya per un anno, poi presso un fabbro di Shinbashi e infine da un artigiano di libri illustrati di Nakadori.

Yoshi era perplesso: Benkei aveva svolto diversi lavori e questo significava che non era rimasto mai a lungo presso lo stesso padrone. Ciò non deponeva a suo favore.

- Hai cambiato spesso lavoro.

- È vero. Ho cercato di svolgere nel modo migliore i compiti che mi venivano assegnati, ma tutti questi lavori erano molto lontano da ciò che desideravo. Vorrei servire un samurai e vederlo esercitarsi.

Yoshi rifletté un momento, poi disse:

- Ritorna tra tre giorni e ti farò sapere che cosa ho deciso.

Yoshi raccolse alcune informazioni. Coloro al cui servizio era stato Benkei, gli dissero tutti che era coscienzioso, onesto e intelligente e che lo avrebbero volentieri tenuto ancora con sé, ma che era stato il giovane a licenziarsi. Il samurai perciò decise di prenderlo al suo servizio.

Non si pentì della sua decisione: Benkei si dimostrò un lavoratore solerte e attento, per quanto i suoi compiti fossero umili. Yoshi ne era molto soddisfatto. Lasciava che il giovane assistesse nei momenti in cui si esercitava e, vedendolo seguire con grande interesse, un giorno gli chiese:

- Vuoi che ti dia lezioni nell’uso della spada?

Benkei si chinò fino a toccare la terra con la fronte.

- Sarebbe per me un grandissimo onore.

- Allora lo farò. Incominceremo domani.

Quando Benkei alzò il capo e lo ringraziò, Yoshi vide che c’erano le lacrime nei suoi occhi. Si stupì dell’emozione che la sua offerta aveva destato.

 

Benkei imparò rapidamente a usare la spada e Yoshi fu colpito dai progressi che il suo allievo faceva ogni giorno. Dargli lezioni era un piacere.

In due anni Benkei divenne molto abile e capace di battere guerrieri più esperti, anche se certamente non era in grado di rivaleggiare con il suo padrone.

In estate Yoshi gli dava lezioni all’aperto, come suo padre aveva fatto con lui, nella radura vicino al fiume. Dopo gli allenamenti, si bagnavano e Yoshi ammirava il corpo armonioso di Benkei. Lo desiderava, ma non manifestava il suo interesse, perché gli sarebbe sembrato indegno approfittare della posizione del giovane.

 

Una notte Yoshi ebbe un sogno strano. Gli sembrava di essere in un castello. Un gruppo di congiurati aveva assalito il suo signore, che non era lo shogun, ma un nobile di un tempo passato: armi e armature erano diverse da quelle in uso ai tempi di Yoshi. Nel sogno il samurai uccideva molti dei suoi nemici, ma mentre difendeva il suo signore, qualcuno lo colpiva alla schiena. Yoshi sentì il violento dolore e vide la punta di una spada uscirgli dal ventre. Quando l’assalitore ritirò la spada, Yoshi riuscì a voltarsi e a decapitare il suo assassino, prima di crollare a terra morto.

Si svegliò, madido di sudore e ansimante. Si alzò e aprì la porta scorrevole che dava sul giardino. Gli sembrava di soffocare. Uscì, senza rivestirsi.

Era una notte di plenilunio e una luce argentata illuminava il giardino. Camminò in silenzio sull’erba, mentre il battito selvaggio del suo cuore si calmava, ma era ancora troppo teso per tornare a coricarsi. All’aperto si stava bene. Yoshi si fermò a osservare i fiori del ciliegio, che sembravano risplendere alla luce lunare.

Un rumore nel giardino lo fece voltare. Chi poteva essere, nel cuore della notte? Una figura si fece avanti e quando uscì dall’ombra, Yoshi vide che si trattava di Benkei. Il giovane indossava una vestaglia e aveva in mano una spada.

- Benkei! Che ci fai qui?

Benkei si inchinò.

- Perdonatemi, signore. Ho sentito dei rumori in giardino e, vista l’ora, ho pensato che potesse esserci qualche malintenzionato.

Yoshi sorrise.

- No, nessun ladro o assassino. Ho fatto un sogno che mi ha turbato e ho deciso di uscire un momento in giardino, a respirare .

- Non volevo disturbarvi, signore.

Yoshi rise.

- Credo di aver disturbato io te, svegliandoti. Nessun altro se n’è accorto. Hai il sonno leggero.

- Devo vegliare su di voi.

- Non sei il guardiano della casa.

Benkei aprì la bocca per dire qualche cosa, ma la richiuse e chinò la testa. Poi disse:

- No… mi scuso.

Sembrò esitare e Yoshi gli chiese:

- Che cos’hai? Volevi dirmi qualche cosa?

- Oggi un indovino mi ha detto che voi correte un pericolo.

- Un indovino? Perché mai ti sei rivolto a un indovino?

- Non l’ho cercato io. Mentre vi aspettavo con la lanterna alla porta del palazzo, un vecchio cencioso, credo un monaco, perché aveva i capelli rasati, si è avvicinato a me. Puzzava come un maiale. Mi ha guardato in faccia e mi ha detto…

- Continua, Benkei.

Benkei respirò a fondo, poi proseguì:

- Che un grave pericolo vi minaccia, che i morti vogliono vendetta.

Yoshi rimase perplesso ascoltando le parole di Benkei. Aveva combattuto per il suo signore e aveva ucciso in battaglia, ma sempre lealmente. Chi poteva volersi vendicare?

- Strano discorso. Non ha detto altro?

- Ha parlato di un talismano molto potente, da cui non dovete separarvi, ma prima che potessi chiedergli altre spiegazioni, una delle guardie all’ingresso si è avvicinato per scacciarlo. L’avrei fermato, ma in quel momento voi siete uscito.

Yoshi scrollò le spalle.

- Chiacchiere senza fondamento.

- È possibile, mio signore.

Yoshi si passò una mano sul petto, in un gesto istintivo. Pensò al sogno e il suo sguardo scese all’ombelico: alla luce della luna vide una cicatrice che non aveva mai avuto, nel punto dove nel sogno la spada era emersa dal ventre dopo averlo trafitto.

La guardò, perplesso, poi disse:

- Benkei!

- Ditemi, mio signore.

- Guarda se sulla schiena ho una cicatrice, poco sopra la vita.

Si voltò, in modo che i raggi lunari gli illuminassero la schiena.

Benkei si avvicinò.

- Sì, mio signore. C’è una cicatrice, che non ricordo di aver mai visto quando vi bagnate.

Yoshi era sempre più perplesso. Si voltò, in modo da guardare Benkei, che lo fissava, in silenzio. Si accorse la vestaglia del suo servitore all’altezza del cavallo aveva una vistosa protuberanza. Si stupì che il suo corpo nudo potesse fare quest’effetto su un uomo. Non era abituato a essere desiderato, neanche dagli uomini di piacere a cui si rivolgeva: essi apprezzavano la sua dotazione e la sua energia, ma non lo giudicavano attraente.

Benkei abbassò lo sguardo. Yoshi avanzò di un passo, poi gli mise una mano sotto il mento e lo sollevò, in modo che potessero guardarsi negli occhi.

- Non ti vergognare, Benkei.

- Perdonatemi, mio signore.

Il desiderio si impadronì di Yoshi, offuscandogli la mente. Aveva sempre evitato i rapporti con i servitori, preferendo rivolgersi alla casa di piacere di Shimabara, ma adesso il desiderio premeva.

- Lo vuoi, Benkei?

Benkei guardò Yoshi, poi, lentamente, annuì due volte. Yoshi si mosse e il giovane lo seguì. Si allontanarono dalla casa, raggiungendo un angolo del giardino nascosto tra gli alberi. La luce lunare filtrava appena attraverso i rami. Yoshi sciolse la cintura della vestaglia di Benkei. Il giovane non indossava nulla sotto, nemmeno il fundoshi: probabilmente si era infilata addosso la vestaglia di fretta, quando si era destato. Il samurai lo osservò. Aveva davvero un gran bel corpo, forte, ma snello e armonioso. Il cazzo era gonfio di sangue, ma non ancora rigido. Benkei era esattamente il tipo di uomo che piaceva a Yoshi: non un ragazzino, ma un maschio vigoroso.

- Sei bello, Benkei.

Benkei abbassò il capo. Appariva imbarazzato o forse aveva paura. Aveva cambiato idea?

- Se non vuoi, Benkei, non importa.

Benkei non rispose. Scivolò in ginocchio, come se non fosse in grado di reggersi in piedi. Alzò lo sguardo sul padrone. Yoshi non riusciva a leggere nello sguardo del giovane. Questi pose le sue mani sui fianchi del samurai e le sue labbra avvolsero il cazzo. Yoshi sussultò. Sentì il piacere crescere, mentre il sangue affluiva. Con una mano accarezzò i capelli di  Benkei. Il desiderio era troppo forte.

- Benkei, mettiti a quattro zampe.

Benkei alzò lo sguardo e fissò Yoshi. Sembrava spaventato, ma la luce lunare nella radura non era sufficiente per distinguere con chiarezza. Si staccò e si mise come richiesto. Yoshi guardò il culo che gli si offriva: un bel culo muscoloso e snello. Appoggiò le mani sulle natiche per divaricarle. Sorrise guardando l’apertura. Raccolse un po’ di saliva e la sparse tutt’intorno. Poi si inumidì un dito e lo spinse dentro. Si accorse che la carne cedeva a fatica. Si chiese si il giovane non fosse vergine.

- Benkei, lo vuoi?

- Sì, mio signore.

- Ne sei sicuro?

- Sì.

Yoshi si stese su Benkei e con la mano gli afferrò il cazzo. Lo strinse e lo accarezzò. Lo sentì acquistare consistenza e volume. Gli stuzzicò un po’ i coglioni. Poi premette la cappella contro l’apertura, morse con decisione una spalla a Benkei e spinse. Fece entrare solo la cappella, per lasciare al giovane il tempo di abituarsi. Avvertiva la tensione nel corpo del servitore. Lo accarezzò, poi, quando sentì che Benkei si stava rilassando, avanzò, lentamente, fino ad arrivare in fondo, fino a quando i coglioni batterono contro il culo del giovane. Gli accarezzò ancora la testa e poi prese a muovere il culo, arretrando e avanzando, spingendo a fondo il cazzo e poi ritraendolo. Le sue mani stringevano il culo di Benkei, gli scompigliavano i capelli, scorrevano sul suo petto, gli tormentavano i capezzoli, gli stringevano i coglioni, giocherellavano con il suo cazzo. Benkei gemeva. Yoshi avvertiva con piacere che il giovane gli si abbandonava completamente.

Yoshi procedette a lungo. Le sue mani percorrevano il corpo del servitore, accarezzando, stringendo, pizzicando. Quando si rese conto che ormai il piacere non poteva più essere contenuto, afferrò il cazzo di Benkei e mosse la mano lungo l’asta. Spinse con maggiore forza e infine vennero entrambi.

Yoshi si ritrasse. Era stato splendido, la migliore scopata della sua vita.

Benkei si alzò. Sul viso apparve una smorfia: il culo doveva fargli un male cane.

- Non volevo farti male, Benkei.

Benkei sorrise e scosse la testa.

- È stato bellissimo. Vi ringrazio.

Yoshi rientrò in casa. Sul letto ripensò a quanto era successo. Era stato molto bello. Si chiese se avrebbero scopato ancora. Lo desiderava.

Prima di riaddormentarsi gli vennero in mente le parole di Benkei. Allora si passò una mano sulla cicatrice al ventre. L’avvertimento del monaco, la cicatrice, il sogno: era tutto molto strano. Non sapeva che cosa pensare, ma si disse che avrebbe riflettuto l’indomani e si addormentò.

 

Quando si svegliò si chiese come si sarebbe comportato Benkei. Il giovane era sempre molto deferente e non gli sembrava probabile che potesse cambiare atteggiamento, mostrando una maggiore familiarità. E infatti nel comportamento di Benkei non c’era traccia di quanto era successo nella notte. Yoshi ne fu soddisfatto. Non fece cenno all’accaduto. Si allenarono in casa, perché fuori pioveva, per cui non si spogliarono per bagnarsi. Al termine della lezione, Benkei ringraziò e si ritirò, come era solito fare.

Yoshi pensava di lasciar passare qualche giorno, prima di chiamare Benkei. Non era sicuro di volere avviare una relazione con un suo servitore, che avrebbe potuto suscitare il malcontento degli altri domestici. Ma il giovane lo attraeva moltissimo.

Quando venne la sera, il desiderio lo prese, con una violenza inaspettata. Era stato abituato a sopportare la sete, la fame, il freddo, la mancanza di sonno ed era in grado di controllarsi, ma il solo pensiero di Benkei accendeva in lui un fuoco. Si rifiutò di cedere a quanto il suo corpo richiedeva e si stese per dormire. Il sonno non veniva e il desiderio lo tormentava. Si disse che l’indomani sarebbe andato alla casa di piacere di Shimabara.

Dopo mezzanotte incominciò a piovere e, cullato dal ticchettio della pioggia, infine Yoshi si addormentò. Si svegliò nel cuore della notte, perché gli parve che qualcuno bussasse alla porta che dava sul giardino. Che fosse Benkei che veniva a cercarlo? No, non era possibile. E non avrebbe avuto motivo per passare dal giardino, sotto la pioggia. Ma qualcuno doveva esserci, perché oltre la porta si intravedeva la luce di una lanterna. E infatti di nuovo si sentì un bussare, molto leggero.

Yoshi si alzò, si infilò la vestaglia e chiese:

- Chi bussa alla mia porta?

Per precauzione afferrò la spada, che teneva sempre vicino al materasso: un ladro o un assassino non avrebbe bussato; avrebbe piuttosto cercato di sorprenderlo nel sonno, ma non si poteva mai sapere.

- Perdonate, illustre Izubuchi, la mia audacia, ma ho bisogno di parlarvi senza che nessuno mi scopra. Per questo mi sono introdotto nottetempo nel giardino.

Yoshi si avvicinò alla porta e la fece scorrere, mentre diceva:

- Chi osa entrare nel mio giardino senza essere stato invitato?

Davanti a Yoshi comparve un uomo sulla quarantina. L’abbigliamento e il portamento erano quelli di un samurai, ma l’uomo non portava armi. La foggia dell’abito era antiquata e Yoshi pensò al sogno della notte precedente. Nuovamente Yoshi chiese:

- Chi siete?

- Mi chiamo Sawada Emon, ma il mio nome non vi è noto. Sono un samurai, come voi, anche se non ho l’onore di servire lo shogun. Sono venuto da voi per avvisarvi di un grave pericolo che minaccia la vostra vita.

- Entrate.

Yoshi si scostò e l’uomo che diceva di chiamarsi Sawada fece un passo avanti, entrando nella stanza. Lasciò fuori l’ombrello con cui si era riparato e portò dentro la lanterna. Con un cenno Yoshi invitò l’uomo a sedersi e prese posto anche lui.

Sawada iniziò a parlare, con un tono di voce appena udibile:

- Voi siete un grande guerriero, il più valoroso di questo tempo. Lo shogun ripone la sua fiducia in voi e vi stima sopra ogni altro samurai. Questo provoca invidie e gelosie, come sempre avviene, e c’è chi trama la vostra perdita.

Yoshi aggrottò la fronte. Sapeva di essere invidiato da molti, ma aveva buoni rapporti con gli altri samurai e non aveva mai avuto l’impressione di essere odiato. Pensò alle parole di Benkei, alla cicatrice sul ventre.

L’uomo proseguì.

- Vogliono farvi cadere in disgrazia e costringervi al seppuku. Riusciranno a farlo, perché contano su un alleato nella vostra casa.

- Nella mia casa? Che dite?

- Voi avete preso al vostro servizio il giovane Saito Benkei. Egli si mostra molto diligente in tutto ciò che fa, per ingannarvi meglio. Ha saputo conquistare la vostra fiducia, ma vuole perdervi.

Yoshi era molto perplesso. Gli sembrava impossibile che Benkei complottasse contro di lui.

- Si è sempre mostrato molto leale.

- Per ingannarvi meglio. È stato attore, per sei anni, ma questo non ve l’ha detto. Sa fingere.

- Attore?

- Se indagherete, scoprirete che è vero. Da ragazzino recitava.

Dopo una pausa, lo sconosciuto aggiunse:

- Per legarvi meglio a lui, si è offerto a voi.

Yoshi guardò Sawada, sorpreso:

- Come lo sapete?

- Se n’è vantato con coloro che lo hanno mandato qui, perché fosse lo strumento della vostra rovina.

- Chi sono costoro?

- Il consigliere Kurokawa e gli uomini della sua cerchia. È lui che ha organizzato il piano. Teme l’ascendente che avete sullo shogun.

Yoshi aveva buoni rapporti con il consigliere e tra loro non ci poteva essere rivalità, perché avevano compiti del tutto diversi. Ma è vero che lo shogun gli dimostrava molto affetto e a volte gli chiedeva il suo parere su questioni che esulavano dai compiti di un samurai. Che questo avesse destato l’invidia di Kurokawa?

- E come intendono fare per costringermi a uccidermi?

- Si serviranno di un amuleto che porterete al collo, uno tsuba d’oro che vi lasciò vostro padre.

Yoshi si chiese come facesse l’uomo a sapere di quel talismano, di cui non aveva mai parlato a nessuno.

- Non l’ho mai portato al collo.

- Compito di Saito Benkei è convincervi a farlo. E quando lo farete, la vostra fine sarà segnata. Non so esattamente come faranno, ma quello tsuba provocherà la vostra morte.

A Yoshi venne in mente che Benkei aveva proprio parlato di un amuleto. Che fosse lo tsuba?

- Come vi ho detto, non l’ho mai portato e non lo porterò ora. Se vogliono forzarmi a darmi la morte, dovranno escogitare un altro piano.

Sawada sorrise.

- Vi avviserò di ciò che tramano.

- Come conoscete i loro piani?

- Non sospettano di me, ma non posso dirvi di più.

Lo sconosciuto si alzò.

- Scusate se vi ho importunato, ma un leale servitore dello shogun non deve morire per qualche intrigo di corte.

E, con un inchino, l’uomo uscì, prese l’ombrello e si dileguò nella notte.

Yoshi richiuse la porta e si sedette, pensieroso. Gli era difficile dubitare della lealtà di Benkei. L’uomo che lo aveva accusato era uno sconosciuto. Non era il caso di dargli troppo credito. Ma come faceva a sapere che lui aveva scopato con Benkei? E anche il talismano… Benkei aveva parlato di un talismano.

Yoshi pensò a lungo. La cosa migliore era non fare nulla. Se Benkei fosse tornato a parlare del talismano, sarebbe stata una conferma delle parole dello sconosciuto. Altrimenti quella strana visita notturna sarebbe rimasta un enigma.

 

Il giorno seguente Yoshi si recò a palazzo, perché era di servizio. La sera come al solito Benkei lo venne a prendere con la lanterna, perché era ormai buio. Il samurai si accorse subito che il giovane era molto turbato.

- Che è successo, Benkei?

- È ritornato il monaco, quello di cui vi ho parlato, ancora più sporco e maleodorante della volta scorsa. Mi sono allontanato con lui, perché nessun soldato interrompesse il nostro dialogo. Mi ha ripetuto che i morti si vogliono vendicare e che la vostra vita è in pericolo. Dice che per salvarvi dovete portare al collo un talismano che vi ha dato vostro padre, uno tsuba.

Le parole di Benkei suonavano come una conferma delle accuse rivolte dallo sconosciuto. Yoshi avvertì una fitta. Voleva bene a Benkei e il pensiero che potesse essere un traditore, che la sua lealtà fosse finta, gli faceva male.

- Non mi metterò quello tsuba al collo.

- Mio signore, vi prego!

Yoshi si fermò e, guardando fisso Benkei, gli chiese:

- Perché credi alle parole di un vecchio monaco cencioso e puzzolente?

Benkei chinò il capo, poi lo rialzò e disse:

- Perché per convincermi mi ha detto cose che nessun altro al mondo può sapere.

- Che cosa?

- Posso dirvi che sapeva che ero stato vostro. E mi ha detto cose di me di cui non ho mai parlato con nessuno.

Yoshi sorrise beffardo e disse:

- Ad esempio che sei stato un attore?

Gli parve che Benkei impallidisse.

- Questo non è un segreto.

- A me non l’hai detto, quando ti ho chiesto che lavori avevi fatto.

- Avete ragione e vi chiedo perdono. Temevo che non mi avreste preso. Il mio patrigno mi vendette a una compagnia di attori quando avevo tredici anni e rimasi con loro sei anni.

Yoshi annuì. Riprese a camminare, senza dire nulla. Benkei lo seguì in silenzio, ma quando furono vicino a casa, disse:

- Mio signore, vi prego: indossate quello tsuba. Un pericolo vi minaccia.

Nuovamente Yoshi si fermò e fissò Benkei.

- Sì, un pericolo mi minaccia, lo so. Qualcuno di cui mi fidavo mi vuole tradire.

E mentre lo diceva i suoi occhi sembravano voler incenerire il servitore. Yoshi aggiunse, sprezzante:

- Sei un servitore. Te l’ho messo in culo, perché avevo voglia di svuotare i coglioni. Non pensare di essere diventato più importante per questo. Sei solo un servitore.

Yoshi abitualmente non usava termini scurrili con i suoi servitori, ma aveva sentito il bisogno di umiliare Benkei. Senza più badare a lui, raggiunse la porta, entrò e si recò nei suoi appartamenti. Era irritato, con Benkei e con se stesso.

Riflettendo a quanto era accaduto, si disse che aveva maltrattato Benkei, svilendo ciò che era stato tra di loro, perché lo faceva stare male pensare che il giovane lo tradisse. Così facendo aveva svilito anche se stesso.

Quando si fu calmato, fece chiamare i suoi figli, che avevano uno nove e l’altro sette anni, e trascorse un po’ di tempo con loro, come faceva di solito, ma era ancora nervoso. Disse alla domestica di avvisare la cuoca che non intendeva mangiare. Congedò i figli e si ritirò in camera.

Yoshi si sentiva a disagio. Le parole di Benkei avevano confermato le accuse che gli aveva rivolto lo sconosciuto e questo aveva amareggiato profondamente il samurai. L’uomo aveva detto la verità, ma Yoshi avrebbe preferito che mentisse. Era molto attaccato a Benkei.

Nel silenzio della stanza, che ormai il buio della sera stava avvolgendo, si chiese se non si fosse innamorato del giovane. Sì, era così. Scoprire il tradimento gli era pesato moltissimo.

Un domestico bussò per chiedergli se voleva un lume. Yoshi gli disse di lasciarlo fuori dalla porta. Non aveva voglia di vedere nessuno, non aveva fame. Benkei era un traditore. E lui gli aveva insegnato a usare la spada e lo trattava quasi come un amico.

Il consigliere Kurokawa voleva la sua morte. Questo aveva ottenuto per la sua lealtà nei confronti dello shogun? Non aveva mai criticato i consiglieri.

Si stese per dormire, ma il sonno non veniva. Sentiva invece un’angoscia che diventava sempre più forte. Non riuscendo più a reggere, si alzò. Avrebbe voluto uscire in giardino, ma pioveva nuovamente.

Tornò a coricarsi e infine prese sonno, ma fece subito un sogno angoscioso: Benkei stava aprendosi il ventre con la spada, nel seppuku. L’immagine era nitidissima: la lama che, mossa con forza, senza incertezze, squarciava la carne, le viscere che uscivano, la smorfia di dolore sul viso del giovane, le goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte, la saliva che colava da un angolo della bocca.

Yoshi si svegliò di colpo, in preda all’angoscia. Si alzò di scatto. Era stato un sogno, solo un sogno. Ma il tumulto del suo cuore non si placava. Uscì nel corridoio e, senza quasi rendersene conto, si diresse verso la stanza dove dormiva Benkei.

Si accorse che dalla porta appena socchiusa filtrava un po’ di luce: il giovane non dormiva. Guardò attraverso lo spiraglio e ciò che vide lo raggelò.

Benkei era seduto di fronte alla lanterna. Indossava soltanto il fundoshi e in mano stringeva la spada che Yoshi gli aveva donato. La posizione e il modo in cui teneva la spada non lasciavano alcun dubbio: stava per uccidersi, aprendosi il ventre, come Yoshi aveva visto in sogno. Un attimo prima che Benkei si infilasse la spada nella carne, Yoshi fece scorrere la porta e avanzò nella stanza.

- Fermo!

Benkei lo guardò. Non lasciò la spada e Yoshi capì che intendeva uccidersi lo stesso.

- Fermati! È un ordine. Posa la spada.

Benkei lo guardò, poi chinò la testa e obbedì.

- Perché, Benkei?

Benkei rimase a capo chino, senza parlare.

Yoshi vide che accanto alla lampada c’era una lettera indirizzata a lui. Si chinò, la raccolse e l’aprì.

 

Vi chiedo di perdonarvi, mio signore. Faccio ciò che è necessario. Vi ringrazio per la vostra generosità.

 

Aveva sperato di trovare una spiegazione, ma la lettera non diceva molto. Yoshi guardò Benkei e chiese nuovamente:

- Perché?

Benkei alzò il capo. Aveva le lacrime agli occhi.

- Vi prego, vi supplico. Vi ho servito fedelmente. Lasciate che mi uccida.

Yoshi scosse la testa. Non poteva accettare che Benkei si uccidesse.

- Prendi la lanterna e vieni con me.

Yoshi raggiunse la propria stanza, seguito da Benkei, che portava la lanterna.

Si sedette a terra e fece sedere anche il servitore.

- Voglio sapere la verità. Benkei. Perché vuoi ucciderti?

- Non posso dirvelo, mio signore.

- È perché non ho messo quel maledetto ciondolo?

- Sì, mio signore.

Yoshi scosse la testa. Si sentì invadere dallo scoraggiamento. Non riusciva a capire.

- A che cosa sarebbe servito ucciderti?

Benkei chinò il capo e tacque.

Yoshi ebbe uno scatto di rabbia.

- Non sei riuscito a convincermi a mettere il ciondolo e hai fallito la tua missione. Ti uccidi per questo?

Benkei sollevò la testa e lo guardò. C’era un dolore infinito in quegli occhi.

- No, non è questo.

- E allora?

Benkei non rispose. Yoshi chiuse gli occhi. Poi li riaprì, si alzò di scatto, prese da un cofano la scatoletta in cui teneva alcuni oggetti preziosi, ne estrasse il ciondolo-tsuba e, dopo un momento di esitazione se lo mise al collo. Se Benkei voleva la sua morte, non gli importava di vivere.

Guardò Benkei con un’aria di sfida.

- Soddisfatto ora?

Benkei si prostrò davanti a lui e gli disse:

- Vi ringrazio, mio signore.

Yoshi guardò il corpo ai suoi piedi. Scosse la testa. Disse, rabbioso:

- Spogliati, Benkei, che te lo metto in culo.

Senza esitare Benkei si tolse il fundoshi e si mise a quattro zampe.

- No, stenditi sulla schiena, sul futon.

Benkei obbedì. Yoshi lo guardò a lungo, in silenzio, senza sorridere. Poi si mise sul futon, in ginocchio. Sollevò le gambe di Benkei e se le mise sulle spalle. Inumidì la cappella con la saliva, poi infilò due dita umide tra le cosce del servitore, premendo contro l’apertura e inumidendola. Ritirò le dita e avanzò finché  il cazzo forzò l’anello di carne e allora entrò, con un’unica spinta decisa. Vide una smorfia di dolore apparire sul viso del giovane. Si chinò in avanti e lo baciò sulla bocca.

Yoshi spinse lentamente, mentre le sue mani percorrevano il corpo di Benkei in leggere carezze, che a tratti diventavano strette vigorose, mentre il cazzo affondava.

Poi il samurai prese a spingere vigorosamente, travolto da un desiderio che non lasciava spazio ad altro, fino a che venne. L’orgasmo fu un lampo accecante. A Yoshi sembrava di non riuscire a reggersi. Si ritirò, abbassò le gambe di Benkei e si abbandonò sul suo corpo.

Lentamente i battiti del cuore rallentarono, il respiro ritornò regolare. Allora la sua mano si infilò tra i loro corpi e Yoshi portò Benkei al piacere.

Il giovane si addormentò poco dopo, ma Yoshi non riusciva a dormire. La lanterna era rimasta accesa e alla luce fioca il samurai guardava il corpo steso accanto al suo. Avrebbe voluto abbracciare Benkei. Lo amava, profondamente. Ma forse Benkei era un traditore e voleva farlo morire.

Mentre era avvolto in questi pensieri, sentì bussare alla porta che dava sul giardino. Il rumore destò Benkei, ma Yoshi si mise un dito sulle labbra per indicargli di tacere. Si alzò, indossò la vestaglia, prese la spada e chiese:

- Chi bussa?

- Sono Sawada Emon, ho accompagnato qui qualcuno che può darvi maggiori informazioni sui pericoli che vi minacciano.

Yoshi aprì la porta. Sulla soglia c’era il visitatore della sera prima e dietro di lui un uomo che era chiaramente un samurai e portava al fianco la spada. Entrambi fecero un passo indietro, come spaventati.

Sawada si mise una mano davanti al viso, come per ripararsi da una luce abbagliante e disse, con voce stridula:

- Perché avete indossato l’amuleto? Quel traditore di Saito vi ha convinto… vuole perdervi. Toglietevelo, affinché possiamo parlarvi.

- E perché mai questo talismano vi impedirebbe di parlarmi?

Mentre rispondeva, Yoshi notò che Benkei aveva afferrato un’altra delle spade che Yoshi teneva nella camera e si era avvicinato alla porta, rimanendo celato.

Sawada non rispose alla domanda.

- Vi prego, toglietevelo. La vostra vita è in pericolo.

- Venite avanti ed entrate. Perché un amuleto vi turba così tanto?

- Esso minaccia la vostra vita.

- Se è la mia vita quella che minaccia, non c’è motivo perché voi vi teniate lontano. Entrate.

- No, no, non è possibile. Toglietevelo, vi prego.

Yoshi fece due passi in avanti, incurante della pioggia. Sawada e il samurai dietro di lui indietreggiarono ancora e poi Sawada lanciò un grido acuto ed entrambi scomparvero, come dissolti nell’aria.

Yoshi rimase un momento sotto la pioggia, poi rientrò.

Benkei non parlò dell’accaduto. Disse:

- Siete tutto bagnato, mio signore. Lasciate che vi asciughi.

Gli tolse la vestaglia e poi prese un telo con cui lo asciugò. Yoshi lo lasciò fare. I due samurai erano probabilmente fantasmi e il ciondolo aveva il potere di tenerli lontano. Non c’era altra spiegazione.

- Credo che il monaco ti abbia detto la verità, Benkei. Quei due erano fantasmi. Ma il ciondolo li ha costretti a fuggire.

- Sì, è così. Ma la vostra vita è ancora in pericolo. Lo spirito che vuole la vostra morte non rinuncerà alla vendetta.

- Che cos’altro sai, Benkei?

- Solo quello che vi ho detto. Quello spirito vuole la vostra morte e non si arrenderà facilmente.

Benkei aveva finito di asciugare Yoshi. Questi si voltò e lo guardò. D’impulso gli prese  il viso tra le mani e lo baciò. Quando si staccò, si accorse che Benkei aveva di nuovo le lacrime agli occhi.

- Perdonami se ti ho trattato brutalmente. Lo spirito mi aveva ingannato.

- Non devo perdonarvi niente. Capisco che ciò che raccontavo sembrava assurdo.

- Perché volevi ucciderti?

- Era necessario, mio signore.

- Ma non vuoi dirmelo.

Benkei scosse la testa.

- Adesso bisogna capire come impedire a questo spirito di ottenere la sua vendetta. Forse… credo che la cosa migliore sia recarsi al tempio Shinbazui’in. Là troveremo qualcuno in grado di aiutarci.

- Avete ragione, mio signore.

- Forse l’abate superiore potrà dirci come fare. Chiederò il permesso allo shogun e raggiungeremo il tempio.

 

Il giorno seguente Yoshi si recò dalla shogun e gli chiese tre giorni di congedo. Nel primo pomeriggio partirono. Mentre percorrevano la strada, riprese a piovere. Il paesaggio sembrava scomparire in una nuvola d’acqua e anche le persone che camminavano lungo la strada avevano contorni indefiniti.

Verso sera si fermarono in una locanda, dove presero una camera.

Al momento di coricarsi, invece di stendersi sul futon, Benkei si sedette di fronte alla porta.

- Pensi che qualcuno possa cercare di entrare?

- Mio signore, quegli spiriti non lasceranno nulla di intentato.

- Il medaglione dovrebbe tenerli lontano.

- Ma potrebbero spingere qualche bandito ad assalirvi, per uccidervi o per rubarvi il medaglione.

- Credo che tu abbia ragione. Veglierai la prima parte della notte e io la seconda.

I timori di Benkei non erano infondati. Nel cuore della notte, quando Yoshi aveva appena dato il cambio al servitore, la porta venne forzata. Benkei non si era ancora addormentato e affiancò il suo padrone, con la spada sguainata.

I quattro uomini che entrarono portavano una lanterna che proiettava una luce fioca. Appena furono dentro, sentirono una voce chiedere:

- Che cosa volete?

Due banditi avevano spade e gli altri coltellacci. Si lanciarono contro l’uomo che aveva parlato, ma nessuno dei quattro era in grado di affrontare due guerrieri come Benkei e Yoshi. Tre trovarono la morte subito. Il quarto venne bloccato da Benkei.

Mentre il padrone della locanda accorreva, con alcuni servitori, Benkei interrogò il bandito che aveva catturato:

- Perché ci avete attaccato?

L’uomo guardò il samurai, poi i compagni uccisi. Nei suoi occhi si leggeva il terrore.

- Due fantasmi… sono venuti questa notte, ci hanno minacciato… se non vi avessimo uccisi, ci avrebbero tormentato fino a farci morire.

Il bandito tacque un momento, poi aggiunse:

- Se vi avessimo uccisi, ci avrebbero ricompensato, rivelandoci il nascondiglio di un tesoro.

Il padrone della locanda aveva mandato ad avvisare le guardie, che arrivarono poco dopo. Il loro comandante si rivolse a Yoshi:

- Vi ringraziamo, samurai: avete ucciso tre banditi che da tempo assalivano i viandanti, rendendo poco sicura la strada per il tempio. A questo, che era il capo, penseremo noi.

L’uomo rise guardando il bandito, che cercava di nascondere il suo terrore. Quando le guardie lo afferrarono, si dibatté, ma venne trascinato via.

Yoshi e Benkei passarono in un’altra stanza: in quella che era stata assegnata loro pavimento e pareti erano imbrattate di sangue.

Il mattino dopo, di buon ora, si rimisero in marcia. Non pioveva più e nel primo pomeriggio arrivarono all’ingresso del tempio Shinbazui’in. Superato il grande portale, si diressero nella parte più interna. Yoshi si presentò e chiese di poter parlare con l’abate superiore. Furono prima accompagnati da uno degli abati, a cui esposero brevemente la situazione, e solo dopo questo colloquio vennero introdotti alla presenza del superiore.

L’abate superiore era un uomo anziano, che li invitò a sedersi con un cenno.

Yoshi e Benkei obbedirono. Rimasero in silenzio, ritenendo poco rispettose parlare senza essere stati autorizzati.

L’uomo li scrutava con attenzione. Prima guardò a lungo Yoshi, poi Benkei. Quando ebbe concluso l’esame, chinò il capo, senza dire nulla.  Dopo un lungo silenzio, sollevò la testa e disse:

- Izubuchi, sei venuto qui perché la tua vita è minacciata da uno spirito che vuole vendetta. È uno spirito potente e per tre volte tu hai provocato la morte del suo corpo terreno.

L’abate tacque. Sentendosi autorizzato a parlare, Yoshi rispose:

- È così. Ma davvero non so chi possa essere questo spirito che mi perseguita.

- No, tu non sai chi è e non sai chi eri.

Dopo un momento di silenzio, l’abate proseguì.

- Concentrati, Izubuchi. E anche tu, Saito, perché anche tu sei parte di questa storia. Hai salvato il tuo padrone e anche per questo lo spirito ti odia, ma il suo odio ha origini più lontane.

L’abate accese un bastoncino d’incenso. Poi avvicinò alla fiamma un secondo bastoncino, che aveva un odore molto intenso. E infine ne prese un terzo. L’aria era satura di un vapore dai colori cangianti: inizialmente sembrava un verde-giallognolo, ma poi virò al blu e prese a fluttuare come onde marine. E in queste onde comparvero navi, impegnate in una grande battaglia e poi un uomo, un comandante, legato, che veniva trascinato al supplizio. Il sangue che schizzava dal suo capo reciso si trasformava in un vapore rosso, quasi nero e Yoshi vide Benkei in piedi su un ponte, trafitto da frecce e lance, ormai morto, ma ancora in piedi. Al termine del ponte vi era un castello e Yoshi si vide mentre si squarciava il ventre nel seppuku. Le due scene gli ricordarono un episodio delle guerre che si erano combattute diversi secoli prima, per il predominio sul Giappone, tra le famiglie dei Taira e dei Minamoto: erano vicende raccontate nei libri di storia, in romanzi e leggende, rappresentate a teatro. Yoshi sapeva che in quelle guerre aveva combattuto il grande guerriero di cui portava il nome e che aveva come amico e servitore un monaco che si chiamava Benkei.

Il vapore divenne più denso e coprì tutto, ma poi sembrò dissolversi e apparve una seconda scena. Yoshi riconobbe il sogno che aveva provocato il suo risveglio pochi giorni prima: combatteva in un castello, ma un uomo, lo stesso che aveva visto giustiziare poco prima, gli infilava la spada nella schiena. Yoshi si vide voltarsi e uccidere l’uomo che lo aveva trafitto. E poco dopo vide la scena a cui aveva assistito nell’altro sogno, con Benkei che si uccideva con il seppuku.

Di nuovo il vapore rossastro divenne più denso e le immagini svanirono, ma quando si riformarono, Yoshi si vide combattere a fianco di Benkei contro due uomini e trafiggerli. Poi si vide inginocchiato a fianco del servitore, con il capo chino, mentre il boia calava la spada prima sul suo collo, poi su quello di Benkei.

Le immagini svanirono e il fumo si dissolse completamente. Nella stanza l’aria era limpida e si sentiva solo l’odore di incenso. Dalla porta la luce del pomeriggio entrava e illuminava il viso dell’abate.

Ci fu un lungo silenzio, che né Yoshi, né Benkei osarono interrompere.

- Tre volte vi siete incontrati e legati di una profonda amicizia. Per tre volte avete combattuto contro i nemici e per tre volte avete provocato la loro morte, ma avete pagato con le vostre vite.

- Sono questi i fantasmi che ora vogliono la mia morte?

- Il fantasma che vuole la tua morte è quello di Taira no Munemori, che tu sconfiggesti nella battaglia di Dan-no-ura e che venne giustiziato per ordine di tuo fratello. La sua anima cerca vendetta.

La grande battaglia di Dan-no-ura era quella a cui aveva pensato Yoshi vedendo le prime immagini. Conosceva bene le vicende che l’avevano preceduta e seguita. Sapeva che il vincitore aveva trovato la morte poco dopo, insieme al fedelissimo amico.

- Allora io sarei la reincarnazione del grande Minamoto no Yoshitsune?

- È così, Izubuchi Yoshi. Per questo Taira no Munemori cerca la vendetta.

Benkei non aveva detto nulla e l’abate gli si rivolse:

- E tu, Saito Benkei, sei la reincarnazione del fedele Benkei, di cui porti il nome. Non gli assomigli nel corpo, ma nella purezza della tua anima fedele, sì.

Ci fu un nuovo silenzio. Poi Yoshi disse:

- È possibile sventare la minaccia che grava su di noi? L’amuleto che porto al colle ha tenuto lontano gli spiriti, ma sobillati da loro dei banditi hanno cercato di ucciderci.

- Se tu non avessi indossato l’amuleto, quella notte il fantasma che non ha parlato ti avrebbe abbracciato, uccidendoti. A meno che Benkei non avesse versato il suo sangue, che avrebbe tenuto lontano il fantasma per tre notti.

Yoshi si voltò verso Benkei.

- Per questo volevi ucciderti, quando rifiutai di indossare l’amuleto, vero?

Benkei annuì.

Yoshi pensò alle parole sprezzanti che gli aveva detto, ai dubbi che aveva avuto su di lui. Provava vergogna.

Fu Benkei a parlare:

- Che cosa possiamo fare per sfuggire a questi fantasmi?

- Taira no Munemori ha solo una mezza luna per ottenere il suo scopo. Il suo spirito si è destato nell’ultimo plenilunio e tu ne hai avvertito la presenza, perché hai sognato un episodio di una delle tue vite precedenti. Munemori deve portare a compimento la sua vendetta prima che la luna scompaia.

- Una decina di giorni.

- Esatto. Izubuchi Yoshi, tu sei protetto dal talismano, per cui lo spirito non può ucciderti direttamente. Tu invece, Saito Benkei, verrai certamente attaccato, perché hai intralciato i piani di Munemori e intendi difendere il tuo padrone.

Yoshi intervenne:

- Se gli do il talismano…

Non completò la frase perché l’abate scosse la testa.

- Il talismano protegge solo te e tiene lontano i fantasmi solo se lo indossi tu, ma per quello basterà che la notte dormiate insieme.

L’abate sorrise e disse:

- Di certo questo non vi spiacerà.

Yoshi chinò il capo.

- No, avete ragione.

- Il problema sono le persone che il fantasma di Munemori, aiutato dal suo servitore, può aizzare contro di voi. I rischi possono venire nel palazzo dello shogun. Tutti ti stimano, ma questo suscita l’invidia di alcuni, che gli spiriti potrebbero facilmente sobillare. Non so che cosa farà lo spirito: probabilmente agirà già questa notte, perché non può perdere tempo. Non so leggere nel futuro, posso solo leggere nel passato. Questa notte dormirai nel tempio e nessuno spirito potrà avvicinarsi. Ti darò strisce sacre con preghiere e formule che terranno lontano gli spiriti: le metterai alle porta della tua casa e della tua stanza. Quanto a te Benkei, avrai un amuleto che non è potente come quello che il tuo padrone indossa, ma ti offrirà protezione. Se dormirai separato dal tuo padrone, metti anche tu sulle porte queste strisce.

 

Dopo una cena frugale, Yoshi e  Benkei si ritirarono in una camera che l’abate aveva loro assegnato.

- Benkei, devo chiederti scusa per aver dubitato di te e per averti parlato con durezza.

- Non lo dite, mio signore. È naturale che foste diffidente. Il fantasma vi aveva ingannato.

- Non avrei dovuto dubitare.

Yoshi pensò a quando Benkei era stato sul punto di uccidersi.

- Benkei, devi promettermi che, qualunque cosa succeda, non cercherai di ucciderti per salvare me.

- Non posso promettere nulla del genere, mio signore.

Yoshi sorrise e scosse la testa.

- Non sei obbediente. Un servitore deve obbedire agli ordini, anche quando ne va della sua vita.

- Potete ordinarmi di uccidermi, ma non obbedirò a un ordine che mi impedisce di salvare la vostra vita.

- Sei ostinato.

- Perdonatemi, mio signore.

Si stesero per dormire, ma il desiderio tormentava Yoshi. Avrebbe dovuto pensare a tutt’altro, ma sentiva la presenza del servitore steso accanto a lui, ne avvertiva l’odore. Due volte fu sul punto di tendere la mano e toccare Benkei, ma si trovava in un luogo sacro e non voleva cedere.

 

Il mattino seguente, molto presto, l’abate consegnò la carta e diede a Benkei un talismano, un’immagine in giada di Buddha, su cui erano incisi alcuni caratteri.

Subito dopo il samurai e il suo servitore partirono, per raggiungere la casa in serata. Il cielo era ancora coperto da nuvoloni scuri e per ben tre volte dovettero fermarsi per ripararsi da un violento temporale. Arrivarono comunque a casa prima di sera.

Misero sulle porte esterne e su quelle delle camere di Yoshi e di Benkei le strisce sacre per tenere lontano i fantasmi, ma Yoshi ordinò a Benkei di dormire con lui. Lo abbracciò stretto e immediatamente il desiderio si accese in entrambi. Si amarono con passione, consci che le loro vite potevano essere prossime alla fine.

 

Il mattino dopo Yoshi si recò al palazzo dello shogun, accompagnato da Benkei. Di solito Benkei rientrava a casa e ritornava in serata per scortare Yoshi, ma quando arrivarono al portone d’ingresso, l’ufficiale di guardia disse:

- Izubuchi Yoshi, lo shogun ha dato ordine di condurvi subito da lui. Quanto a voi, Saito Benkei, aspettate qui: lo shogun ha disposto anche per voi.

Yoshi e Benkei si guardarono un attimo. Entrambi avevano avuto lo stesso pensiero: i fantasmi dovevano aver agito nella notte e, direttamente o indirettamente, avevano raggiunto lo shogun.

Yoshi fu accompagnato dalla shogun. Di solito si recava nella sala dove si trovavano i samurai di servizio e lo shogun li chiamava quando aveva bisogno di loro, ma quel giorno fu portato direttamente alla presenza del suo signore. Questi era seduto sul seggio che gli serviva da trono. Yoshi si inginocchiò davanti a lui e lo salutò.

Lo shogun lo fissò un momento in silenzio, poi disse:

- Apri il tuo abito e mostrami l’amuleto che porti al collo.

Yoshi rabbrividì: oltre al fantasma nessuno sapeva dell’amuleto, se non Benkei e l’abate.

Obbedì.

- Toglitelo e dammelo.

Senza esitare, Yoshi eseguì l’ordine. Lo shogun osservò a lungo l’oggetto.

- Tu ne conosci l’origine?

- No, mio signore. Mio padre l’ebbe da un monaco.

- Questo tsuba fu donato dall’imperatore  Go-Shirakawa a Minamoto no Yoshitsune, come premio per la sua lealtà.

- Non lo sapevo, mio signore.

Lo shogun posò accanto a sé il ciondolo.

Poi chiese:

- Dove sei stato, Izubuchi?

- Al tempio Shinbazui’in, mio signore.

- Vi sei andato da solo?

- No, mio signore, mi ha accompagnato il mio servitore, Saito Benkei.

- Perché hai voluto andare al tempio?

Yoshi riteneva che dire la verità fosse la scelta più ragionevole.

- Per chiedere come difendermi da un fantasma che minaccia la mia vita.

Lo shogun aggrottò la fronte.

- Che dici?

- Se volete, vi racconterò la vicenda.

- Ti ascolto.

- Cinque notti fa, ricevetti una visita notturna. Un uomo mi disse che io ero minacciato, che qualcuno voleva provocare la mia morte. Mi disse di non indossare quello tsuba, perché sarebbe stata la mia rovina. E mi mise in guardia contro il mio servitore.

- Saito Benkei?

- Sì, mio signore.

Yoshi continuò la sua narrazione. Non nascose nulla di ciò che era avvenuto: non raccontò però di essere la reincarnazione di Minamoto no Yoshitsune, perché non voleva vantarsi.

Lo shogun lo ascoltò con molta attenzione e, quando Yoshi ebbe concluso, disse:

- Non ho mai dubitato di te e ti considero il migliore dei miei samurai. Molte volte mi hai dimostrato il tuo valore e la tua lealtà. Ma ora non so se devo crederti.

Dopo un momento di pausa, lo shogun disse:

- Trascorrerai la notte in una cella. Domani mattina saprai quale sarà la tua sorte.

Yoshi si inchinò senza dire nulla. Sapeva che senza il ciondolo e senza le strisce sacre, i fantasmi avrebbero potuto raggiungerlo e ucciderlo, ma non intendeva certo opporsi a una decisione dello shogun. Aveva narrato tutto, per cui lo shogun sapeva che i fantasmi minacciavano la sua vita. Se quella era la sua volontà, Yoshi non intendeva certo ribellarsi. Mentre si alzava, il pensiero andò a Benkei. Si inginocchiò nuovamente e disse:

- Mio signore, mi permettete di chiedervi una grazia?

- Dimmi.

- Sapendomi senza lo tsuba, il mio servitore, Saito Benkei, potrebbe uccidersi perché secondo il monaco che lo avvisò, il suo sangue terrebbe lontano il fantasma per tre notti. Se voleste essere così generoso da proibirglielo, ve ne sarei grato.

Lo shogun fissò Yoshi, poi, senza dire nulla, lo congedò con un gesto della mano.

Quattro samurai accompagnarono Yoshi in cella e si fecero consegnare la spada.

Quando la porta venne chiusa, Yoshi si mise a riflettere sulla sua situazione. I fantasmi avevano agito, in una delle due notti precedenti. Si erano presentati allo shogun o a un cortigiano e avevano inventato qualche storia sul suo conto e su quello di Benkei. Avevano abilmente intrecciato diversi elementi, tanto da riuscire a far dubitare lo shogun della lealtà del suo samurai e a convincerlo che era necessario togliergli il talismano. Il loro obiettivo era quello di perdere sia Yoshi, sia Benkei e probabilmente ci sarebbero riusciti. Senza la protezione dell’amuleto, per i fantasmi sarebbe stato un gioco ucciderlo.

Yoshi era angosciato all’idea che Benkei sarebbe morto: di certo i fantasmi avevano inventato qualche storia anche su di lui. E se lo shogun non glielo avesse impedito, si sarebbe ucciso per proteggerlo. Questo non doveva avvenire! Ma come impedirlo?

 

Lo shogun convocò Benkei, che per la prima volta si trovò alla sua presenza.

- Il tuo nome.

Lo shogun sapeva certamente il suo nome, ma Benkei rispose:

- Saito Benkei.

- Chi è tuo padre?

- Mio padre era Saito Akihiro, samurai di Osaka.

Su richiesta dello shogun, Benkei raccontò brevemente la sua storia. Poi venne interrogato sugli avvenimenti degli ultimi giorni e narrò fedelmente quanto era successo. La sua versione coincideva in ogni dettaglio con quella di Yoshi, ma lo shogun rimase dubbioso.

- Il tuo padrone è in arresto e io mi sono fatto consegnare da lui lo tsuba che portava al collo.

La notizia turbò profondamente Benkei.

- Eccellenza, quel ciondolo è l’unica protezione dagli spiriti che minacciano la vita del mio padrone. Questa notte stessa i fantasmi lo uccideranno.

- Non intendo certo renderglielo. Conosco la minaccia dei suoi poteri.

Benkei non sapeva a quali poteri si riferisse lo shogun. Forse il talismano aveva altri poteri oppure erano stati i fantasmi a raccontare che lo tsuba poteva minacciare la vita dello shogun. 

- Eccellenza, permettetemi almeno di andare a prendere le strisce sacre che ci ha dato l’abate del tempio Shinbazui’in, per farle mettere sulla porta della stanza dove il mio signore trascorrerà la notte. O fatevene portare altre da uno dei templi della città. Il mio padrone è un samurai leale, che darebbe la vita per voi. Non lasciate che muoia.

Lo shogun non intendeva servirsi delle strisce in possesso di Yoshi, perché era diffidente e temeva che potessero dare al samurai qualche potere. Si disse che avrebbe potuto far portare altre strisce sacre per tenere lontano gli spiriti, da uno dei templi della città: in questo modo non avrebbe corso rischi. Decise però di non dire nulla, perché voleva vedere come si sarebbe comportato Benkei.

- No. La faccenda è chiusa. Anche tu sei in arresto. Dammi il talismano che porti al collo.

Benkei obbedì, poi si inchinò e chiese:

- Vi chiedo una grazia, eccellenza. Permettetemi di uccidermi.

- Perché vuoi ucciderti?

- Per proteggere il mio padrone.

- Va bene.

Lo shogun si rivolse alle guardie:

- Portatelo nel cortile del seppuku e assistete alla cerimonia.

Poi si rivolse al dignitario di grado più alto:

- Che nessuno mi disturbi. Voglio riposare.

Lo shogun si allontanò.

Benkei venne accompagnato nel cortile dove si svolgevano i suicidi rituali e le esecuzioni che non avvenivano in forma pubblica. Un samurai prese la sua spada, per tagliargli la testa. Benkei si aprì la veste e si sistemò l’abito in modo da potersi aprire il ventre. Poi prese la spada corta, avvolse la lama con un tessuto e si dispose a trafiggersi.

Mentre stava per farlo, sentì la voce di Watanabe Toshiro, il capo delle guardie del samurai, che era apparso sulla soglia.

- Fermo!

Benkei lo guardò, senza capire.

- Dammi la spada.

Benkei obbedì.

Watanabe si rivolse al samurai che aveva il compito di decapitare Benkei.

- Ordine dello shogun.

 

Benkei fu accompagnato in una cella non lontano da quella di Yoshi, e lasciato lì. Ognuno dei due ignorava la sorte dell’altro e si tormentava. Benkei era angosciato all’idea che il suo padrone, privo di ogni protezione, sarebbe stato ucciso dai fantasmi. Non capiva perché lo shogun avesse fatto interrompere il seppuku che aveva autorizzato e non conosceva altro modo per salvare Yoshi.

A sua volta Yoshi temeva che Benkei si uccidesse per salvarlo: lo shogun non aveva promesso di fermarlo. E in ogni caso, anche se Benkei non avesse fatto ricorso al seppuku, i fantasmi avrebbero provocato la sua morte. A Yoshi non importava di morire: l’educazione ricevuta lo aveva preparato ad affrontare ogni difficoltà e a non temere la morte. L’idea che Benkei morisse per lui gli era invece insopportabile. Pensò alle poche notti in cui si erano amati: la comparsa dei fantasmi aveva provocato l’incontro dei loro corpi. Aveva colto il desiderio di Benkei e lo aveva preso. E aveva capito di amarlo.

Le ore passavano. Entrambi ricevettero cibo e bevande; bevvero, ma non mangiarono quasi nulla.

Scese infine la notte. Il cielo era ancora molto nuvoloso, ma non pioveva più e dopo mezzanotte la nuvolaglia si diradò e comparvero alcune stelle.

 

Il capo delle guardie Watanabe dormiva nella stanza a lui riservata. Era un sonno inquieto, perché il samurai era sicuro che avrebbe ricevuto una visita. Lo shogun però gli aveva detto di mettersi a dormire come se non aspettasse nulla.

Nel cuore della notte qualcuno bussò alla porta. Watanabe accese una lanterna, mentre chiedeva:

- Chi bussa?

- Sono Sawada Emon. Ho portato il samurai di cui vi ho parlato le scorse notti.

Watanabe fece scorrere la porta.

- Entrate.

Sawada entrò, seguito da un uomo che per portamento e abbigliamento era di certo un samurai, ma che Watanabe non conosceva. Lo sconosciuto rimase indietro, lontano dalla luce della lanterna, che illuminava invece il volto affilato del suo accompagnatore.

Sawada si inchinò, mentre il samurai rimaneva in piedi, e chiese:

- Lo shogun ha preso le precauzioni necessarie contro la congiura del traditore?

Watanabe annuì.

- Sì, gli ha tolto lo tsuba magico e lo ha rinchiuso in una cella. Non ha ancora deciso se ordinargli il seppuku.

- Lo shogun è stato saggio. E il servitore? È un infame, esperto in arti magiche.

- È anche lui in una cella. Anche a lui è stato tolto il talismano.

- Capitano, possiamo costringere i due traditori a confessare, così lo shogun non avrà più dubbi. Potete accompagnarci da loro?

Watanabe finse di riflettere.

- Dovrei parlarne con lo shogun…

- Disturbarlo a quest’ora della notte! Non è il caso. Voi assisterete al colloquio e potrete riferire.

- È una grossa responsabilità…

- È per la sicurezza dello shogun.

Watanabe annuì, come se le parole di Sawada lo avessero convinto.

Passarono nel corridoio e il samurai fece chiamare due soldati, che servissero come scorta con le lanterne. Quando furono di fronte alla porta del corridoio che portava alle celle, Sawada si bloccò di colpo, poi fece un passo indietro.

Watanabe chiese, come se non capisse:

- Perché vi siete fermato?

- Sopra la porta… c’è una striscia con dei segni.

- Sono formule benaugurali. Perché vi turbano?

Mentre poneva la domanda Watanabe sorrise: il comportamento di Sawada confermavano i sospetti dello shogun e sembrava dare ragione a Yoshi. Watanabe ne fu contento, perché era affezionato al samurai, di cui aveva grande stima.

- In qualche modo il traditore ha convinto qualcuno a metterlo, per ostacolarci.

- Perché mai dovrebbe ostacolarvi?

- Toglietelo, vi prego. Poi vi spiegheremo.

Alla luce delle lanterne Watanabe alzò un braccio. Era il segnale concordato. Intorno a loro comparvero otto soldati che brandivano lance. In cima a ogni lancia c’era una striscia con segni in grado di tenere lontano i fantasmi. Quattro soldati si misero intorno ai due visitatori, avvicinando le punte delle lance con le strisce sacre ai loro corpi, due alzarono le lance, in modo che le strisce si trovassero sopra le teste dei fantasmi e gli altri due soldati misero le lance con la punta a terra, ai piedi dei due.

Sawada e il samurai lanciarono un grido acutissimo. La parte inferiore dei loro corpi svanì: rimase solo la parte superiore, che fluttuava nell’aria.

Sawada urlò, con una voce stridula:

- Toglietele, vi prego, toglietele.

Lo shogun era apparso, accompagnato da otto samurai e quattro servitori, che portavano dei recipienti. A un suo cenno i servitori si avvicinarono ai fantasmi e gettarono loro addosso il liquido contenuto nei recipienti. I due lanciarono nuovamente un grido, poi si dissolsero nell’aria: l’acqua del tempio, su cui l’abate aveva recitato formule magiche, aveva dissolto gli spettri.

Lo shogun annuì. Mandò Watanabe a liberare Yoshi e Benkei. Ognuno dei due fu felice di scoprire che l’altro era vivo.

Lo shogun spiegò:

- Mi sono rivolto al tempio. Hanno portato strisce sacre con cui scacciare i fantasmi. Le ho fatte mettere sulle porte delle vostre celle, per sicurezza e poi ho predisposto la trappola. L’abate del tempio mi ha assicurato che i fantasmi sarebbero svaniti per sempre. In ogni caso vi rendo i talismani.

A un cenno dello shogun, Watanabe si fece avanti e restituì a Yoshi lo tsuba e a Benkei l’amuleto.

Lo shogun si rivolse a Benkei:

- Saito, ho voluto metterti alla prova. Ti sei dimostrato leale al tuo signore e disposto a sacrificare la tua vita per lui. Onore a te.

Poi disse:

- Sarebbe assurdo che voi tornaste a casa a quest’ora. Vi ho fatto preparare una stanza.

Yoshi e Benkei raggiunsero la camera. Si raccontarono brevemente quanto era successo a ciascuno di loro. Benkei avrebbe voluto tacere sul seppuku, ma le parole dello shogun non lasciavano a Yoshi nessun dubbio.

- Sei ostinato, Benkei. E non mi hai obbedito.

- Perdonatemi, mio signore.

Yoshi scosse la testa, poi abbracciò e baciò Benkei. Gli disse:

- Benkei, quando ti chiesi di guardare se avevo una cicatrice nella schiena, tu lo facesti e io notai la tua eccitazione.

Benkei chinò il capo. Yoshi continuò:

- Mi desiderasti? Desiderasti prendermi? Possedermi come io ti presi quel giorno?

Benkei rimase in silenzio.

Yoshi gli mise una mano sotto il mento e gli sollevò il capo.

- Mi desideri, Benkei? Perché io vorrei essere tuo.

Benkei lo guardò, senza dire nulla, poi, lentamente, annuì. Esitò ancora un momento, poi le sue mani si poggiarono sull’abito del samurai. Yoshi lasciò che le mani di Benkei lo spogliassero. Si era offerto e stava per essere posseduto, lui a cui diversi giovani si erano offerti, ma che mai era stato posseduto. Per un momento si chiese che cosa stava facendo. Benkei intuì e si fermò.

- Mio signore…

Yoshi scosse la testa.

- Yoshi, il mio nome è Yoshi. Va’ avanti, non ti fermare.

Cancellò ogni pensiero e si abbandonò alle mani che lo spogliavano, fino a lasciarlo nudo e inerme.

A un cenno di Benkei si stese sul futon, sulla schiena, mentre il servitore incominciava a spogliarsi. Sollevò il capo e alla debole luce della lanterna guardò l’uomo che stava per possederlo. Tutto gli appariva irreale. Si disse che Benkei lo avrebbe inculato, che il cazzo che ora emergeva dagli abiti, gli sarebbe entrato in culo. Ma nemmeno i termini brutali riuscivano a ridare consistenza a quello che pareva un sogno.

Ammirò il corpo che ora si mostrava in tutta la sua bellezza e la sua forza: le spalle larghe, le braccia vigorose, il petto muscoloso, il ventre, dal fitto pelame, contro cui batteva il grande cazzo, ormai rigido.

Benkei ricambiò lo sguardo, in silenzio, senza sorridere. Sembrava smarrito.

- Yoshi

- Dillo, Benkei. Ho bisogno che tu lo dica.

- Ti amo.

Yoshi chiuse gli occhi. Si sentiva felice.

- Anch’io ti amo, Benkei.

Il giovane si mise in ginocchio sul futon. Sollevò le gambe di Yoshi e se le mise sulle spalle, come il padrone aveva fatto con lui la seconda volta che si erano amati. Inumidì la cappella con la saliva. Due dita umide si infilarono tra le cosce di Yoshi, premendo contro l’apertura. E poi fu il cazzo a premere ed entrare, mentre Benkei si chinava e baciava sulla bocca Yoshi. Il samurai si abbandonò completamente al maschio che per la prima volta prendeva possesso di lui. Gli sembrava di non avere più forze e rimase immobile, travolto da sensazioni troppo forti.

Le mani di Benkei percorrevano il corpo di Yoshi in leggere carezze, che a tratti diventavano strette vigorose, mentre il cazzo affondava, fino a che i coglioni batterono contro il culo del samurai. Il dolore era forte: Yoshi non era mai stato posseduto e Benkei era un maschio molto vigoroso. Ma Yoshi voleva appartenere a Benkei.

Il servitore prese a spingere vigorosamente, travolto da un desiderio che non lasciava spazio ad altro, rendendolo brutale. Yoshi ansimava. Il contatto con il corpo di Benkei accendeva il suo desiderio, ma la sensazione del cazzo che gli scavava nel culo era molto dolorosa. Yoshi non avrebbe voluto nulla di diverso: desiderava che Benkei lo prendesse e tutto il resto non aveva importanza. Voleva il dolore e il piacere, che dal suo culo si diffondevano in tutto il corpo.

Infine Benkei venne. Si staccò e poi si stese a fianco di Yoshi. Ansimava e goccioline di sudore gli imperlavano il viso. Guardò il samurai, sul cui viso era ancora visibile la sofferenza.

- Perdonatemi.

Yoshi rise.

- Non ho nulla da perdonarti. Lo desideravo.

Poi aggiunse:

- Ti amo, Benkei.

Benkei sorrise, poi scivolò sul futon, finché il suo viso fu all’altezza del cazzo di Yoshi, gonfio di sangue. Lo prese in bocca e portò il suo padrone al piacere.

Poi Yoshi abbracciò Benkei.

 

L’alba li trovò abbracciati.

 

2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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