Castello
in fiamme di Stefano e Ferdinando A qualcuno che
sta per compiere gli anni Ore 6.45. Parcheggio come
tutti i giorni davanti alla palestra e rimango in macchina in attesa che alle
7.00 apra. Negli ultimi due mesi questo quarto d’ora è divenuto
insopportabile. Prima mi rilassavo, sentivo un po’ di radio, le notizie,
l’onda verde e poi di corsa in palestra a macinare chili su chili di pesi. Mi piace la vita routinaria, è come un compagno di vita per me che sono
solo. Solo, non single, solo. Per tanti motivi, forse troppi, ognuno dei
quali mi ha spinto sempre di più verso la mia totale solitudine. Non che sia mai stato un
tipo socievole, ma con la scuola e il conservatorio, e poi l’università ti
costruisci il classico giro di amici (forse sarebbe meglio chiamarli
conoscenti abituali). E le ragazze? Dopo una tremenda cotta andata a buca ai
tempi della scuola, nulla. Ci sarebbe voluto un bel po’ prima che mi rendessi
conto del perché. Poi è arrivata la laurea e subito dopo il lavoro. Che
fortuna iniziare a lavorare a 25 anni, per giunta lontano da casa. Ero
felice, mi sarebbero mancati un casino i miei ma, per il resto, mi rendevo
conto che non lasciavo granché anzi scappavo dalle contorsioni mentali dei
miei conterranei. I primi anni furono
davvero felici: vivere da solo in una casa tutta per te, il lavoro, le nuove
conoscenze. Mancava una ragazza o, meglio, l’amore ma mi dicevo che andava
bene così, più tempo per divertirsi. Poi arrivò una promozione di carriera e,
con questa, lo spostamento di città. Lascia la casa, lascia le conoscenze e
vai a rifarti una vita da un’altra parte. Stavolta, però, c’era meno novità,
il lavoro già l’avevo, erano ormai alcuni anni che vivevo in una casa tutta
mia. E iniziò una lenta discesa, all’inizio appena impercettibile, verso la
mia solitudine. Volevo costruirmi un nuovo giro ma l’età che avanza rende
sempre più difficile allacciare nuovi rapporti. Poi i miei hobbies non aiutano: odio il calcio (e in genere un po’
tutti gli sport), mi piace il teatro, la musica, l’opera e trovare persone
con questi stessi interessi è un’impresa. Alla fine conobbi alcune persone,
non ci vedevamo spesso per cui passavo anche alcune settimane senza uscire di
casa (se non per andare al lavoro). Iniziai ad avere molto tempo per pensarmi
addosso e presi a psicoanalizzarmi. Non ci volle molto a rendermi conto che
mi attizzavano più gli uomini che le donne; avevo fatto poker: introverso di
carattere, interessi non comuni, spostato già due volte per lavoro e ora pure
gay. Cattolico, di famiglia borghese, lavoro distinto… e gay. Con la stessa
velocità con cui arrivai a capire che ero omosessuale, decisi che non l’avrei
mai detto a nessuno, mia madre ne sarebbe morta, il mondo del lavoro
maschilista mi avrebbe estromesso e mi sarei giocato la carriera. In fondo
non avevo mai provato cosa vuol dire amare per cui decisi di rinunciarci. E
così anche il capitolo cacce amorose si chiuse. E non state a chiedervi come
si fa senza un compagno perché lo sapete benissimo. Anzi con la scoperta di
desiderare i cazzi arrivò anche la voglia di capire cosa vuol dire
prenderselo in culo; purtroppo, non avendo a disposizione un cazzo in
carne, mi arrangiai alla bell’e meglio scoprendo quanto fosse bella la
penetrazione anale; perciò un po’ di mano e un po’ di culo riuscivo anche a
scaricare le pulsioni sessuali. Dopo un paio d’anni arriva
una nuova promozione e un nuovo trasferimento; stavolta la voglia di cercare
nuove conoscenze è prossima a zero; qualche uscita con i colleghi di lavoro,
ma poi sempre a casa. Ogni tanto vado a teatro, ai concerti, provo a proporlo
a qualcuno ma, come al solito, nessuno è interessato perciò mi tocca andare
da solo. Inizio a pensare che alla fine è meglio così e faccio un altro bel
passo verso la mia piena solitudine. Arrivano due novità: la
prima si chiama internet, cominci a navigare, a vedere siti porno (ovviamente
gay) a scoprire come può essere la tua vita se solo decidessi di dichiarare
la tua omosessualità. Neanche a parlarne. Via da chat e roba simile, il solo
pensiero di essere riconosciuto e scoperto mi terrorizza. La seconda novità è la
palestra: decido di dare una svolta al mio fisico molliccio e mi iscrivo in
palestra, potrebbe anche essere l’occasione per fare qualche conoscenza (ma
ci credo poco). E infatti il fisico inizia a cambiare ma conoscenze
zero. Almeno è un’occasione in più per non fare solo casa e lavoro. Così la
mia vita diventa casa lavoro e palestra. Altra promozione e con
questa divento dirigente, però, ovviamente, altro trasferimento; ormai
perfettamente consapevole della mia solitudine un trasferimento vuol dire
semplicemente trovare una nuova casa e una nuova palestra. Non mi sembra
neanche di cambiare città, la vita routinaria è
sempre la stessa, l’unica mia vera compagna di vita. Lo so, l’ho accettato e
ho deciso di andare avanti così. Ma si può continuare
sempre in questo modo? Ogni tanto questa domanda
viene fuori ma la caccio via immediatamente. Rispondere vorrebbe dire
abbattere il castello fortificato che mi difende e mi tiene in vita. Così mi
ritrovo alla soglia dei quarant’anni solo, senza sapere cosa è l’amore,
vergine (nel senso di non aver mai provato con uno vero con tanto di
dotazione standard di coglioni e resto del corpo). Continuo a girare su
internet, trovo un blog in cui vengono pubblicati racconti gay hard. Li trovo
belli ed eccitanti, continuo a seguire il blog attendendo sempre con più
avidità i nuovi racconti fino a quando mi salta in testa un’idea: e se provassi
a scriverne uno? Butto giù un racconto, viene fuori d’istinto, lo rileggo, mi
piace, mi eccita. Chissà se piacerà all’autore del blog? Ma per mandarglielo
devo rivelarmi. In realtà questo è un problema minore, basta inventarsi una
nuova identità, crearsi un nuovo indirizzo di posta elettronica e il gioco è
fatto. Invio il racconto, viene pubblicato. Pare sia piaciuto così scrivo un
secondo racconto, vedo che mi diverte, è un po’ come fare l’amore, esprimi lì
quello che desidereresti fare con il tuo compagno, o con l’uomo che non
conosci ma ti tira un casino. Ne scrivo parecchi di racconti poi mi monto la
testa e mi chiedo se possano avere un po’ più di spessore narrativo. Provo a
buttare giù un racconto più complesso, ci passo giornate intere a scriverlo e
a rivederlo, non sono totalmente soddisfatto ma mi sembra che non sia venuto
male. E a chi lo faccio giudicare? L’autore del blog mi suggerisce un nome: è
uno scrittore di racconti e romanzi erotici e ha anche pubblicato qualcosa.
Mi dà il link del suo sito. Sono passati due mesi da quando sono entrato in
quel sito, due mesi che mi hanno sconvolto la vita. Lessi il primo racconto e
fu una fulminazione; veniva raccontato anche del sesso ma c'era soprattutto
l'amore, una passione travolgente che giustificava una scelta di vita.
Divoravo le parole, le righe, i periodi. Ne lessi a ruota altri due. Era
molto diverso dai racconti che avevo letto fino a quel momento, racconti che
ti facevano indurire il cazzo ma, finiti di leggere, li dimenticavi. Con
questi, magari, il cazzo non si muoveva, ma ti sentivi dentro un fuoco, una
vibrazione in tutto il corpo che non si spegneva. Ormai ero bravissimo a
psicoanalizzarmi e capii subito che cosa provavo: era l'amore. Non per il
personaggio del racconto o per l'autore ma era come se un frammento di
quell'amore narrato così bene fosse passato nel mio corpo dandogli fuoco.
All'inizio considerai tutto ciò una piacevole novità, così continuai a
leggere i racconti. Come un perfetto imbecille non mi rendevo
assolutamente conto che, un po' alla volta, quei racconti stavano aprendo un
pericolosissimo varco nelle fortificazioni del mio castello. Me ne accorsi in quel
quarto d'ora maledetto in macchina davanti alla palestra; il mio cervello non
si rilassava più vagando sulle note della radio ma appresso ai profondi amori
del racconto che avevo letto il giorno prima. E ogni giorno tornavo a leggere
un nuovo racconto che metteva paglia secca sul fuoco che già dalla mattina
ardeva dentro di me. Ore 6.55. Per fortuna la
palestra sta per aprire. Ormai entro in palestra sfinito dal desiderio di
avere un amore, desiderio che non può diventare realtà se non passando
attraverso il fuoco che sta già facendo piazza pulita del mio castello, ma io
non voglio abbandonare le mie certezze. Anzi, non è che non voglio, devo
dirmi la verità: non ho il coraggio. E così mi ritrovo nella stessa
situazione di prima ma ormai senza difese, continuamente esposto alle
dolorosissime frecce di un amore agognato, ideale e impossibile. * In palestra non mi fermo
mai molto a lungo: devo andare al lavoro. Vengo molto presto per questo.
Anche oggi tutto si svolge come sempre. Guardo gli altri uomini, pochi, che
frequentano la palestra a quest’ora. Magari uno di loro… Ma è un pensiero
assurdo. Ed in ogni caso il mio comportamento non dà nessun appiglio, non
invoglia nessuno ad avvicinarsi. Mi sembra di stare sempre peggio. Ci do
dentro con i pesi, come fossi un fanatico del corpo perfetto, qualche cosa di
cui poco m’importa. Dopo la palestra,
l’ufficio. Di nuovo lo sconforto mi assale. Poi mi dicono che c’è una grana,
grossa. Quasi tiro un sospiro di sollievo: preferisco avere qualche cosa che
assorba completamente i miei pensieri e le mie energie, distraendomi da una
sofferenza che ogni giorno mi sembra più forte. Così le ore passano in
fretta. È quasi ora di tornare a
casa. E mentre lo penso mi accorgo che non ho voglia di rientrare, di
ritrovarmi solo. No, questa sera non vado subito a casa. Me ne vado in giro,
per questa città che ho imparato a conoscere, ma non ad amare, questa città
dove non c’è nessuno a cui importi qualche cosa di me, nessuno di cui mi
importi. Esco dall’ufficio, salgo in auto e mi chiedo dove posso andare. Di
nuovo mi assale lo sconforto. Che senso ha? Rimango seduto in auto un buon
momento, poi vedo che uno degli impiegati mi sta guardando: si starà
chiedendo che cazzo faccio. Metto in moto e parto. Mi dirigo verso casa. Ma è
come una sconfitta. Un’altra. Non mangio, non ho fame.
Mi metto al computer. Giro. Digito il nome della città in cui vivo e accanto
“locali gay”. Viene fuori un elenco. Di alcuni c’è solo l’indirizzo, di altri
ci sono anche le foto. Qualcuno di questi locali ha una serata settimanale
rivolta ai gay. Passo da uno all’altro, li studio a fondo, guardo sulla carta
dove si trovano, come se dovessi andarci questa sera stessa. So che non ci
andrò mai, non ne ho il coraggio. Poi una rabbia sorda mi assale. Spengo il
computer. Mi guardo attorno. La casa
mi sembra una prigione, la stanza una cella. Non ne posso più. Decido di
uscire. Mi metto a camminare. Dove vado non lo so. Cammino e basta. Ho
bisogno di muovermi. Non so per quanto tempo
cammino. È notte, ormai. Sono a digiuno e non ho fame. Sono stanco. Entro in
un bar e mi siedo. Ordino da bere. Dopo aver bevuto, mi rendo conto che
adesso ho voglia di mangiare. Non è che il bar offra molto, ma due panini
vanno bene. Poi esco. Guardo le luci e mi dico che potrei anche fare un salto
a quel bar segnalato come locale gay. Potrei almeno passarci davanti. Vedere
com’è. E se qualcuno mi notasse? Se qualcuno mi vede mentre passo davanti ad
un bar gay... Uno dei miei dipendenti. Potrebbe mettere in giro qualche voce…
Mi do del coglione e decido di passarci davanti. Non è la fine del mondo. Mi ricordo l’indirizzo.
Cammino lentamente, guardandomi intorno. Nessuna persona di mia conoscenza.
Adesso sono quasi arrivato alla via in cui si trova il locale. All’angolo mi
fermo un attimo, poi svolto. Procedo con finta indifferenza. Potrebbe essere
quel locale poco più avanti. O no? Guardo il numero. No, mancano ancora
diversi isolati, sicuramente. Proseguo, camminando piano. Eccolo, dev’essere quello. C’è poca gente per strada. Nessuno che
conosco. Passo davanti al bar. Do un’occhiata alla vetrina di fianco alla
porta, l’unica da cui si vede una parte dell’interno. Ci sono alcune persone.
Proseguo. E man mano che mi allontano sento un peso che mi schiaccia, ma non
ce la faccio a tornare indietro. Girovago ancora a lungo
per le strade della città, senza sapere dove sto andando. È tardi, molto
tardi ormai, ma non me la sento di andare a casa. Decido di ripassare davanti
al bar. Per le strade c’è pochissima gente. Il bar invece è più
affollato di prima, c’è parecchia animazione. Mi fermo un attimo. Qualche
cosa mi inchioda davanti alla vetrina. Non potrei entrare, no, questo mai. Ma
faccio fatica ad andarmene. La voce risuona alle mie
spalle, facendomi sussultare. - Non ti va di entrare? Mi volto, temendo di
trovarmi di fronte qualcuno che conosco, che mi ha visto qui davanti ed ha
capito tutto. Ma è uno sconosciuto, un uomo che forse ha la mia età, un viso
dai lineamenti forti, un bel sorriso. Non so che cosa dirgli. Mi
manca il fiato. L’uomo ripete. - Non hai voglia di
entrare? Poi aggiunge: - Se vuoi, possiamo
entrare insieme. Lo guardo, apro la bocca
per parlare. Mi sento idiota, paralizzato dalle mie paure. Infine riesco a scuotere
la testa e a dire: - No, non entro. - Allora facciamo due
passi. Ti va? Esito ancora, ma i due
passi sono una proposta innocua. Annuisco. Sembra quasi che abbia perso la parola.
L’uomo si avvia, poi si
volta ad aspettarmi, perché io sono rimasto fermo. Lo raggiungo. - Io mi chiamo Daniele. Devo dirgli il mio nome,
quello vero? Esito. In testa mi passano mille idee assurde. Se gli dico un
nome falso e poi incrociamo qualcuno che conosco e che mi saluta con il mio
vero nome? Sembra avermi letto in testa, perché dice: - Va bene, non occorre che
tu mi dica il tuo nome vero. Come vuoi che ti chiami? - Andrea. - Bene, Andrea, facciamo
questi due passi? - D’accordo. Preferisco allontanarmi
dal bar, anche se l’idea di andare in giro con questo sconosciuto mi sembra
assurda. Incominciamo a camminare. Lascio che sia Daniele a scegliere la
direzione. Gli cammino accanto, una grande confusione in testa. - Non sei mai stato in un
locale gay, vero? Faccio fatica a
rispondere. - No. - Quando ti ho visto lì
fermo ho pensato a me stesso vent’anni fa. Lo guardo. Deve avere più
o meno la mia età. Vent’anni fa? Avrà avuto vent’anni…
E di colpo un dolore che emerge e che non riesco a contenere. L’idea degli
anni persi, buttati via. Daniele deve avermi letto
in testa. - Ho quarantadue anni.
Sono andato in una sauna gay quando avevo ventitre anni. Quando mi sono
avvicinato alla porta, c’era un campanello da suonare… mi sembrava che non ce
l’avrei mai fatta. Era inverno, era pomeriggio sul tardi. Avevo scelto
quell’ora perché era buio. Avevo una paura dannata che qualcuno mi vedesse.
Tutto mi faceva paura. Anche quello che sarebbe successo dentro. Come cazzo
muoversi, che cosa dire. Tutto mi sembrava difficilissimo. Daniele scuote la testa,
sorride e fa una pausa. Io non dico niente, sono totalmente concentrato su
quello che mi sta dicendo. - Non è stato facile. Ma
sono contento di essere riuscito ad entrare, quella volta. Anche se non frequento
più le saune. Non mi interessa la scopata rapida. Io non rispondo. Non mi
perdo una parola, ma non parlo. So che sto facendo la figura dell’idiota, ma
non riesco a formulare una frase. - Quando ti ho visto là
fuori… Non eri uno che studiava il locale per capire se valeva la pena di
entrarci… Mi è sembrato di vedermi davanti a quella sauna. Daniele mi guarda, poi
sorride e dice: - Io però non ero muto. Sorrido anch’io. E poi di
colpo ho voglia di scappare via. Mi guardo intorno. Mi do dell’idiota. Mi
controllo. Cerco di replicare in modo sensato, con una battuta. Ha detto che
gli ricordo se stesso vent’anni fa. Allora dico: - Te stesso vent’anni fa?
Li porti bene i tuoi sessanta... Daniele ghigna. Poi
ritorna serio. - A vent’anni è più
facile. A quaranta diventa tutto più difficile. C’è un momento di
silenzio. Camminiamo. Lentamente il movimento mi calma. Dopo un po’ Daniele
parla di nuovo. - Come va, ora? - Un po’ meglio. Scusami,
mi rendo conto che non sono… Non so come completare la
frase. Ci pensa Daniele: - Non sei di grande
compagnia? È questo che vuoi dire? - Sì. Daniele sorride. Mi piace
il suo sorriso. È dolce. - Camminiamo, Andrea, se
ti va. Si sta bene fuori e non occorre parlare. O preferisci che parli io? - Sì, mi fa piacere se
parli. Daniele parla un po’ di
sé. Lavora per la Telecom, si occupa di manutenzione degli impianti. Sembra
sereno, soddisfatto del suo lavoro, anche se di certo non guadagna molto. Ad
un certo punto, durante un momento di silenzio, gli chiedo: - Sei solo? È una domanda indiscreta,
me ne rendo subito conto. Daniele sorride, ma mi
sembra che ci sia un velo di tristezza. China un po’ il capo, sembra guardare
il marciapiede. - Sì, sono solo. Sono
diversi anni che sono solo. Poi mi guarda ed aggiunge: - Mi piacerebbe stare con
qualcuno e non solo scopare quando ne ho bisogno, ma… non sempre si può avere
quello che si vuole. Annuisco. So bene che non
sempre si può avere ciò che si vuole, lo so per esperienza. Procediamo. Non so dove
stiamo andando. Conosco poco i quartieri che attraversiamo. Arriviamo di fianco ad un
piccolo giardino. - Ti va se ci sediamo un
momento, Andrea? - Sì, per me va bene. Quando ci sediamo su una
panchina, sotto un lampione, Daniele mi dice: - Guarda quella casa
d’angolo. È un palazzo di cinque piani,
una vecchia casa. - Io sto al quarto piano.
Avrei voluto proporti di entrare, ma ho pensato che forse entrare in casa mia
per te poteva essere peggio che entrare in un locale… Guardo Daniele. Mi sento
più tranquillo, ora. Sono contento che Daniele me lo abbia chiesto qui,
mentre siamo seduti, e non davanti al portone. So che posso dirgli di no e
che in questo caso rimarremo qui. Ma non voglio dirgli di no. Parlo, prima
che i dubbi e le paure riaffiorino. - Se vuoi, possiamo
salire. Daniele mi guarda. Adesso
è lui a tacere. Lo vedo aprire bocca, ma poi richiuderla. Si alza. Sorride. - Allora andiamo. Apre il portone e
prendiamo l’ascensore. La casa non doveva averlo, lo hanno sistemato
tagliando le scale. Adesso che siamo chiusi in questa scatola, io e lui,
Daniele mi sorride di nuovo. Sa che ho bisogno che lui mi sorrida. - Come ti senti? Come
Cappuccetto Rosso che sta per entrare nella tana del lupo? Scuoto la testa e abbozzo
un sorriso anch’io. E di colpo mi rendo conto che è la prima volta che sorrido
da diversi giorni. - Non credo che il lupo
sia pericoloso. Daniele annuisce.
L’ascensore si ferma. Daniele esce. Mi tiene aperta la porta. Appena sono
passato, la richiude. Apre la porta di casa, entra ed accende la luce. È un appartamento piccolo,
quattro porte che si affacciano su un ingresso. Bagno, cucina, salotto e
camera da letto, direi. Sulla parete un manifesto incorniciato: un uomo a
torso nudo che stringe un bambino. È una bella immagine, trasmette tenerezza
e serenità. Daniele ha chiuso la porta.
Poi si avvicina a me e mi guarda negli occhi. Ho paura, ma annuisco. Daniele
fa un passo avanti, fino a che i nostri corpi si sfiorano, poi mi passa due
dita sulla fronte, sul naso, sulle labbra. I nostri visi sono vicinissimi.
Daniele inclina leggermente il suo e le nostre labbra si sfiorano. È la prima volta che bacio
un uomo. La sensazione è piacevole, ma certo non mi sconvolge. D’altronde che
cosa posso aspettarmi da questo sconosciuto? Che cosa si aspetta Daniele da
me? Daniele si stacca, mi guarda
e poi mi bacia di nuovo, ma questa volta è un bacio più intenso, più lungo.
Le sue mani sono leggere mentre si posano sulla mia schiena, ma il loro tocco
mi trasmette un brivido, più del bacio, che pure ora mi turba. Rimango immobile ancora un
attimo, poi sollevo le braccia ed abbraccio Daniele. Sono impacciato,
spaventato, incerto. Ma sto bene così. Potrei fermarmi qui, rimanere così.
Perché è bello stare abbracciati con lui. Perché ho paura di andare oltre,
anche se lo voglio. Daniele mi stringe forte
ed il suo bacio è irruente. La sua lingua mi accarezza i denti, quasi mi
forza ad aprire la bocca e ad accoglierla. I nostri corpi aderiscono ed il
desiderio sale. Le sue mani mi stringono il culo, le mie sono più incerte,
gli accarezzano la nuca e i capelli. Daniele si stacca e mi
guarda. - Allora, Andrea, ci
spostiamo in camera da letto? Io scuoto la testa. Daniele allora mi dice: - Ci sediamo sul divano… Poi sorride e prosegue: - Si può fare anche sul
divano, se ci viene voglia. Se ti viene voglia. Io ce l’ho già. Io scuoto di nuovo la
testa. E finalmente riesco a dire quello che mi preme dentro: - Anch’io ho già voglia.
Il letto va bene. Andrea no, non va bene: Stefano. Daniele mi prende di nuovo
la testa tra le mani, mi accarezza le guance, con una dolcezza che mi
stordisce. - È un bel nome, Stefano.
Mi piace. Anche tu mi piaci. Ho paura. Di colpo ho
paura. Di che cosa, non lo so. Daniele china la sua testa
in avanti, la sua fronte tocca la mia, le nostre mani si stringono e di nuovo
provo il desiderio di rimanere così, fermo, perché sto bene. Daniele mi guida nella
camera. C’è un letto matrimoniale,
ampio, le lenzuola devono essere state cambiate oggi stesso. Strani pensieri
mi passano per la testa. Chissà se Daniele va spesso a caccia. Penso di no.
Ed allora sono stato fortunato ad averlo incontrato. Ma forse è presto per
dirlo. Daniele incomincia a
spogliarmi. Un bottone, un bacio sulla bocca. Un altro bottone, una carezza
sulla guancia. Un terzo, un bacio sul collo. Un quarto, la sua mano scorre sul
mio torace, preme su un capezzolo, poi sull’altro, mentre l’altra mano
finisce di sbottonare ed apre completamente la camicia. Ora sono io a muovere le
mani, incerto, ma incoraggiato dal suo sorriso, che mi sostiene in questo
percorso. Ho la sensazione di camminare sulle funi di un ponte tibetano, ma
il sorriso di Daniele è il cavo che mi impedirà di precipitare nell’abisso,
anche se metterò un piede in fallo. Ora siamo entrambi a torso nudo ed è
bello guardarlo. Esito un attimo e poi le mie mani scivolano sul suo petto,
poi sulla sua schiena, scendendo, sfacciate, fino ai pantaloni. E mentre i suoi denti mi
mordicchiano un capezzolo, armeggio con la sua cintura. Daniele mi lascia
fare ed io apro la fibbia ed abbasso la cerniera. Poi faccio scivolare i suoi
pantaloni fino a terra. Daniele ride e, con un movimento rapido che mi coglie
di sorpresa, mi afferra e si butta sul letto insieme a me. Ora è sopra di me
e mi bacia la fronte, gli occhi, la bocca, il collo, il petto, scendendo fino
al ventre, mentre le sue mani mi abbassano i pantaloni. Mi bacia ancora e poi
dice: - Forse è meglio che ci
togliamo le scarpe, che ne dici, Stefano? Annuisco. Daniele scivola di lato,
si mette a sedere, si slaccia le scarpe e se le sfila. Poi si toglie i
pantaloni e le calze, rimanendo in slip. Io lo guardo, d’improvviso
spaventato. Lui mi sfila i mocassini e finisce di spogliarmi. Mi lascia solo
gli slip. Mi bacia e poi si stende di nuovo su di me. È la prima volta che sono
così, stretto ad un uomo, petto contro petto, ventre contro ventre. E, anche
se la mia testa assurdamente ci gira intorno, cazzo contro cazzo. Daniele si solleva,
mettendosi in ginocchio di fianco a me, e mi guarda. Sorride e le sue mani si
infilano nei miei slip, mi accarezzano il cazzo e i coglioni, poi afferrano
l’elastico e mi tolgono l’ultima difesa, lasciandomi nudo davanti a lui. Io esito, poi mi metto a
sedere accanto a lui. Le mie mani lo accarezzano, scendendo dal viso fino al
tessuto che ancora gli copre il ventre. Con delicatezza lo sfioro, avvicino
la bocca e bacio la stoffa, sentendo il calore del cazzo teso. Gli accarezzo il culo, poi
le mie mani gli fanno scivolare gli slip fino a metà coscia. Daniele si alza
e si toglie l’indumento. Io mi inginocchio davanti a lui. Guardo il cazzo
teso, davanti a me. Apro la bocca e lo accolgo. È la prima volta che sento il
sapore, il calore, la consistenza di un bel cazzo. Daniele mi accarezza la
testa ed io lecco e succhio, conscio di essere maldestro, ma eccitato come
non lo sono mai stato. Le sensazioni diventano sempre più forti, mi
stordiscono. - Alzati, Stefano. Obbedisco, a malincuore: è
così bello assaporare un cazzo caldo e teso, accarezzarlo con la lingua,
mentre le mani scivolano dal culo ai coglioni e poi ritornano indietro. Daniele mi bacia, poi mi
volta e mi stende sul letto, prono. Lo lascio fare, mentre il cuore accelera
il ritmo. Daniele si muove con delicatezza, mi bacia e mi accarezza. Io mi
abbandono. Per la prima volta mi lascio andare completamente. Daniele mi allarga le gambe.
Prende una bustina dal cassetto. La apre. Io chiudo gli occhi. Sento le sue dita che
scivolano sulla mia pelle, sfiorano il solco, indugiano sull’apertura,
entrano, muovendosi caute. Le accolgo senza nessuna fatica. Mi dico che forse
penserà che ce ne sono stati altri, prima di lui. Non è così, ma non ha
importanza. Poi Daniele mi morde con
forza il culo e si stende su di me. Mi bacia la nuca e sento che il suo cazzo
preme contro l’apertura, scivola dentro ed avanza, molto lentamente: Daniele
ha paura di farmi male, ma io non provo dolore, solo gioia e piacere. Sta
succedendo, ciò che a lungo ho desiderato ed ho sempre temuto. È vero. Non è
un sogno. Daniele lavora a lungo,
con dolcezza, ma le sue labbra che mi baciano la nuca, la guancia, i capelli,
mormorano parole oscene ed io rispondo, felice, lo incito, lo sfido, lo
provoco. Ho sognato a lungo questo momento che sto vivendo e mi sembra che
tutto sia perfetto. Le mani di Daniele passano
davanti, raggiungono il mio cazzo, teso, lo accarezzano. E poi le sue spinte
diventano più vigorose. Ora mi fa male, ma è bello, voglio che sia così. E quando infine viene,
grida il mio nome ed io rispondo chiamandolo. Resta un momento disteso e
sento il suo respiro affannoso calmarsi. Poi mi morde l’orecchio e si gira,
rimanendo dentro di me, in modo che adesso sono sopra di lui. Le sue mani mi
accarezzano il cazzo, con movimenti decisi: non sono più delicate, ma
brusche. La sua bocca invece sussurra il mio nome, con una dolcezza che mi
entra dentro. Ma la tensione crescente che avverto nel cazzo non lascia più
spazio ad altro ed infine il piacere esplode, con un getto tanto forte che mi
raggiunge il mento. Vengo, emettendo un suono inarticolato, che solo quando
l’ondata che mi travolge si attenua, solo allora diventa il nome di Daniele. Daniele mi stringe forte
tra le sue braccia. Siamo stesi sul letto ora,
uno di fianco all’altro. Daniele mi ha preso la mano e la stringe, le sue
dita accarezzano le mie. Io guardo il soffitto, poi volto il viso verso
Daniele, steso accanto a me. Daniele ora mi sorride. Non so dove mi porterà la
strada che ho preso, ma spero di poter proseguire il mio cammino con lui. |