L’autista

 

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Edward Silverstein non è un cliente abituale del Guns and Men, ma entra nel locale con la tranquilla sicurezza che gli danno l’aspetto, piuttosto attraente, e il portafogli, alquanto pieno. In questi posti Edward si trova sempre un po’ di mosconi che gli ronzano intorno: alcuni lo conoscono, altri no, ma, come dice Edward, riprendendo il titolo di un film, il colore dei soldi è inconfondibile. L’abito che indossa, la camicia, le scarpe, tutto rivela che Edward non è un impiegato, ma un uomo d’affari di alto livello. E questo attira molti maschi. A Edward non dispiace, così può scegliere.

 

Edward è nel locale da un’ora. Non ha ancora concluso, perché non ama arrivare subito al dunque. Gli piace parlare un po’ con gli uomini che si avvicinano, farsi un’idea del loro carattere: non ha molto senso, visto che l’obiettivo è il sesso e ben difficilmente si andrà oltre una scopata, ma Edward preferisce scambiare qualche parola, prima di passare all’azione, gli piace avere a che fare con persone, non solo con bei corpi. È uno dei motivi per cui non va mai nelle saune, ma preferisce i locali. Quelli che vorrebbero concludere in fretta, dopo un po’ si stufano e se ne vanno. A Edward va bene così, tanto non rimane mai a bocca asciutta. Adesso è un po’ che chiacchiera con un ragazzone biondo, qualche anno in meno di lui, ed è chiaro a tutti e due come finirà la serata.

È in quel momento che la porta si apre; Edward, dando un’occhiata a chi entra, vede Jonathan Ross, il suo autista. È la terza volta che Edward viene qui e non ha mai incontrato nessuno che conoscesse al di fuori del giro dei frequentatori abituali di locali gay. L’arrivo di Jonathan gli dà un po’ fastidio: non è un dipendente qualunque, è uno di quelli con cui passa più tempo, viaggia spessissimo per lavoro, su distanze per cui di solito non vale la pena di prendere l’aereo. E parlano spesso insieme, perché Jonathan è un uomo intelligente, con cui è piacevole discutere.

Edward non si preoccupa di quello che Jonathan potrebbe dire in giro: con chi scopa sono affari suoi e non deve renderne conto a nessuno. Non sa nemmeno lui che cosa gli dà fastidio, ma preferirebbe che l’incontro, ormai inevitabile, non avvenisse. Non c’è spazio per allontanarsi, senza una manovra brusca che peggiorerebbe solo le cose.

In quel momento Jonathan lo vede e lo saluta, cortesemente ma non in modo ossequioso, senza mostrare nessuno stupore, senza avvicinarsi. Perfetto. Edward si dice che Jonathan si comporta sempre in modo ineccepibile: con naturalezza, ma con grande attenzione. Jonathan gli piace, molto. Non come maschio. A pensarci bene, anche come maschio, perché è giovane, un viso simpatico, un corpo vigoroso e snello. Ma non l’ha mai considerato sotto l’aspetto di una possibile preda. Una storia con un dipendente è l’ultima cosa al mondo a cui pensare: casini e nient’altro.

Jonathan gli piace come persona, un sacco. Gli piace la sua riservatezza, la sua disponibilità, la sua cortesia che non è servilismo, la sua intelligenza.

- Ti piace, eh?

A parlare è stato il ragazzone biondo, di cui Edward si è completamente dimenticato: non ha proprio fatto una bella figura, ma non è il caso di spiegare.

Edward annuisce. Il tizio prosegue:

- Te lo sei fatto?

 La domanda dà un po’ fastidio a Edward. Risponde, senza pensarci:

- Io no. E tu?

Perché ha chiesto? Che gliene frega? Mica sono affari suoi. Ma ormai è fatta.

- No, è un tipo che sta sulle sue, viene più per chiacchierare con gli amici che per trovare compagnia.

Edward è soddisfatto della risposta, anche se non saprebbe spiegare il perché, e ritiene che sia ora di passare ad altro.

- Che ne diresti di uscire e andare a concludere la serata? 

Il biondo non abita lontano. Ognuno prende la propria auto e raggiungono rapidamente l’appartamento del tizio, che si chiama Roger.

A Edward basta un’occhiata per rendersi conto che Roger, per quanto sicuramente benestante, non brilla certo per buon gusto, ma per quello che devono fare insieme, non è un problema.

Passano subito in camera da letto, dove ci sono due grandi specchi: l’idea di scopare vedendosi in uno specchio non dispiace ad Edward, anche se non metterebbe mai due specchi così alle pareti. Roger si avvicina e lo bacia sulla bocca e questo a Edward piace. Detesta quelli che vogliono concludere subito, che sembrano voler stabilire il record di durata (minima) del rapporto. Edward preferisce procedere con calma, gli piacciono baci e carezze. Non lo coinvolgono più di tanto, ma sono gradevoli.

È bravo Roger, ci sa fare, lo stringe con foga e dopo averlo baciato, la sua lingua gli scorre sul collo e dietro l’orecchio, mentre una mano gli accarezza la guancia. E intanto le mani di Edward stringono il culo del compagno. Sono muscolose e forti, quelle natiche, come piacciono a Edward. Ed è bello vedere l’immagine di loro due abbracciati ripetersi tante volte nel gioco di specchi.

Il gioco dei loro corpi procede, in un crescendo di intensità. Roger si offre e Edward lo possiede, in una lunga cavalcata che li porta entrambi a raggiungere il piacere.

Quando il loro abbraccio si scioglie, Edward pensa che è stato bello e che non gli dispiacerebbe farlo ancora con Roger.

Dopo un po’ Roger si alza. Passa in bagno, poi gli chiede se prima di andarsene vuole un caffè o un bicchiere. Il messaggio è chiarissimo. Edward ringrazia, si riveste e scende. È sempre così e in fondo anche a lui va bene in questo modo: una relazione fissa non gli spiacerebbe, ma anche la libertà di questa vita senza vincoli è gradevole.

 

Il giorno dopo Jonathan passa a prenderlo alle otto, puntualissimo. Jonathan è sempre puntuale, perché mai dovrebbe tardare oggi? Di sicuro non riterrà di potersi prendere delle libertà perché ha scoperto qualche cosa sul suo capo, non è proprio il tipo. Edward si chiede se farà riferimento al loro incontro di ieri sera e si dice che Jonathan non toccherà l’argomento: non è da lui, è riservato e sa stare perfettamente al suo posto.

Ed infatti Jonathan non fa nessuna allusione, né a parole, né con ammiccamenti, che ad Edward darebbero ancora più fastidio. È quello di sempre. Bene, bene così.

Mentre vanno, parlano, come spesso avviene quando Edward non è occupato al cellulare o al palmare. Discutono del viaggio che li aspetta, del tempo che farà, del campionato di baseball.

Edward è contento e mentre parla con Jonathan lo guarda. Non è particolarmente bello di viso, ma ha una faccia che ispira simpatia. E fisicamente, è davvero un bel ragazzo, di certo va in palestra.

- Lei va in palestra, Ross?

La domanda è una svolta di 180° nella conversazione, ma Jonathan non fa una piega.

- Sì, signor Silverstein, di solito due-tre volte la settimana.

- Quando il lavoro le lascia il tempo.

Jonathan sorride. Che bel sorriso!

- In effetti non riesco ad andarci sempre come vorrei, ma non è un problema.

- Due-tre volte sono già un bell’impegno.

- Ma ci passo un’oretta, non sono un fanatico. Tanto per tenermi in forma.

 

Una settimana è passata. Nulla è cambiato nei loro rapporti, come è logico che sia. Ma qualche cosa è scattato nella testa di Edward: si rende conto che pensa spesso a Jonathan. Con lui ha parlato un mare di volte, gli è sempre piaciuto sul piano umano, da tempo ne apprezza le tante qualità, ma adesso, di colpo, gli sembra che abbia acquistato una dimensione nuova, come se un bel dipinto fosse diventato una scultura tridimensionale. E il pensiero ritorna spesso al suo autista. Troppo spesso.

La faccenda gli dà un po’ fastidio, perché Edward non è stupido e sa benissimo che dietro questo suo improvviso interessamento per Jonathan c’è puzza di bruciato, ma tant’è: c’è poco da fare, l’immagine del suo autista gli viene in mente nei momenti più impensati.

Più di tutto gli rompe che ogni tanto gli passino per la testa le questioni più assurde, del tipo: Jonathan ha un compagno? Ha tanti compagni occasionali? Che cosa gli piace fare, a letto? Non deve porsi queste domande, non sono cazzi suoi.

Ma le domande se le pone ed allora una sera, mentre tornano dal viaggio a Tucson, la conversazione prende una piega imprevista.

- Questa sera mi sa che non andrà in palestra, Ross.

- In effetti è tardi, signor Silverstein. Ma non è un problema.

Tardi è davvero tardi, sono quasi le undici e sono tutti e due stanchi.

- Magari può andare al Guns and Men. È l’ora giusta.

Edward non ha ancora finito la frase che già si pente delle proprie parole: si era ripromesso di non fare mai cenno al loro incontro.

Jonathan risponde, senza mostrarsi stupito o imbarazzato:

- No, sono stanco, non ho voglia di uscire. Rimarrò a casa.

La risposta dovrebbe chiudere l’argomento, ma Edward prosegue:

- Ci va spesso? È un locale che non conosco.

Edward si rende conto di essere invadente. Non era proprio il caso di porre questa domanda.

- Abbastanza, ho diversi amici che lo frequentano e mi trovo bene. C’è gente simpatica. Direi che è l’unico locale gay in cui vado spesso. Lei invece non ci va quasi mai, direi.

Ancora una volta, Jonathan è stato perfetto. Non ha fatto finta di niente, non si è messo nella posizione dell’interrogato, ma ha posto la sua domanda in un modo per cui Edward potrebbe anche non rispondere.

- No, è lontano, non conosco nessuno dei frequentatori abituali. A parte lei, naturalmente.

Poi Edward cambia argomento, dicendosi che in futuro vedrà di non toccare più questo tasto: non ci sono stati problemi, ma non è proprio il caso che lui parli della sua vita sessuale con l’autista.

Eppure… eppure. Una storia con uno come Jonathan non creerebbe tutti i casini inevitabili in un rapporto con un dipendente. E poi Jonathan sarebbe capace di dirgli di no fin dall’inizio, se non fosse interessato. Non si riterrebbe in obbligo: di sicuro non scoperebbe per ingraziarsi il capo.

Edward si dice che deve pensarci bene. Eviterà di parlarne, finché non si è chiarito le idee. Ma Jonathan gli piace. Davvero tanto.

 

Tre giorni dopo Edward Silverstein scende in cortile. Deve prendere l’auto per due appuntamenti che ha in mattinata, entrambi in città. Si sta dicendo che uno di questi giorni farà qualche battuta a Jonathan, tanto per sondare il terreno.

Eccolo lì, il suo autista: sta parlando al telefono. Gli dà la schiena e non si è accorto del suo arrivo. Jonathan è agitato, si muove in modo scomposto, e questo è strano: di solito è molto tranquillo, anche quando si verifica qualche imprevisto durante un viaggio sa mantenere la calma, quando rimasero coinvolti in quel grosso incidente dimostrò un sangue freddo notevole.

Edward si ferma a due passi e non può fare a meno di sentire la conversazione:

- Vendere la casa? Ma come farete?

C’è un silenzio, mentre Jonathan ascolta la risposta e si passa una mano sul viso. Edward non sa bene che cosa fare, l’autista non si è accorto di lui, sembra sconvolto, Edward ha l’impressione che adesso si stia mordendo la mano, ma forse non è così.

- No, senti, chiederò un prestito alla banca, in qualche modo ce la faremo.

Un altro silenzio. Jonathan è piegato su se stesso, appoggiato all’auto, come se faticasse a stare in piedi.

- Sì, ho capito che è urgente. Vedo se riesco a fare un salto in banca, se il capo mi dà due ore, altrimenti gliele chiedo per domani.

Ancora una pausa.

- Sì, sì, ti richiamo appena posso.

Jonathan si rimette il telefono in tasca e si volta. Ha le lacrime agli occhi e per Edward è un pugno nello stomaco.

- Che succede, Ross?

Jonathan cerca di ricomporsi.

- Mi scusi, signor Silverstein, problemi con mio padre. Scusi, sono pronto, andiamo pure.

Edward ignora le ultime parole del suo autista.

- Che problemi?

Jonathan respira a fondo.

- Gli hanno diagnosticato un cancro, devono operarlo.

Non aggiunge altro. Edward, rendendosi perfettamente conto di essere indiscreto, chiede:

- Perché ha parlato di vendere la casa? Suo padre non ha un’assicurazione?

Jonathan scuote la testa.

- No, ha perso il lavoro sei mesi fa, non se ne può permettere una privata, io non sono mai riuscito a convincerlo a farsene pagare una da me. Mio padre è…

Jonathan non prosegue la frase. Dopo un attimo di pausa riprende:

- Mi scusi, andiamo pure. È stato solo un momento. In qualche modo ce la caveremo.

- Lei vive con i suoi, Ross?

- No, sto per conto mio.

- La casa è di sua proprietà?

Edward sta sconfinando, non ha nessun diritto di porre domande di questo tipo, se non quello che gli dà il desiderio di aiutare il suo autista.

- No, affitto.

- Nessuna banca le farà un prestito come quello che le serve, se non ha garanzie da offrire. E l’unica mi sembra la casa dei suoi genitori.

- Se occorre faremo così. Grazie per l’interessamento. Possiamo partire, se…

Edward interrompe.

- Suo padre deve essere operato subito, mi sembra di capire.

- Il più presto possibile, ha detto il medico. Possono salvarlo.

Edward prende il telefonino. Seleziona nella rubrica il numero della clinica di Saint Mary, una delle migliori della città, quella a cui si rivolge abitualmente. Chiede del primario di chirurgia e glielo passano subito: Edward Silverstein non è un cliente qualunque.

Gli bastano poche parole. L’appuntamento per il padre di Jonathan è per le tre del pomeriggio. Tempo di fare quel che devono il mattino, poi Jonathan può fare da autista a suo padre, tanto Edward non deve andare da nessuna parte.

- Signor Silverstein, non è possibile. Noi non possiamo…

Edward interrompe.

- Non si preoccupi, Ross. Penso a tutto io. Mi fa piacere farlo. Davvero.

- Ma non riuscirò mai a ripagarla.

- Adesso quello che conta è salvare suo padre, no? E non si preoccupi, troveremo un modo per saldare i conti.

Silverstein è un uomo d’affari di notevole esperienza, pur essendo giovane, ed è noto per la sua dialettica. Si rende immediatamente conto di aver detto una frase sbagliata. Il suo obiettivo era quello di tagliar corto alla discussione. Ma che cosa avrà capito Jonathan? Dopo che si sono incontrati al Guns and Men, non penserà che gli dia quel denaro per scopare con lui?

La risposta di Jonathan conferma i suoi sospetti:

- Tutto quello che posso fare, signore. Tutto.

Potrebbe leggersi come una frase generica anche questa, ma Jonathan non parla a vanvera e gli sta dicendo che accetterà di fare quello che Edward gli chiederà.

Edward è irritato con se stesso, ma ormai è tardi.

Dopo il secondo incontro della mattinata, prima di scendere e raggiungere l’auto, Edward riparla con la clinica. Chiarisce bene che pagherà lui tutte le spese e che non devono chiedere nulla ai Ross. Poi raggiunge Jonathan, che lo sta aspettando. Mentre tornano alla sede della ditta, Edward ripensa a quanto ha detto prima al suo autista e si dice che ormai l’errore non può essere rimediato. Dovrà far capire a Jonathan che non intende chiedergli niente.

 

Alla clinica il signor Ross viene trattato con i guanti: se paga il signor Silverstein non può essere altrimenti. L’operazione avverrà una settimana dopo il ricovero, completati gli esami preliminari.

In attesa dell’intervento, Jonathan svolge il suo lavoro con la serietà di sempre e appare sereno, anche se Edward si rende conto che è più teso.

Silverstein dà a Jonathan due giorni di permesso, in modo che possa assistere il padre quando lo operano. L’intervento ha pieno successo, il tumore era circoscritto e la prognosi è favorevole. Jonathan ringrazia ancora Edward e gli ribadisce che sarà ben felice di sdebitarsi in qualunque modo.

Edward lo invita a lasciar perdere e la storia finisce lì.

 

Quello che non finisce, per niente, è il continuo turbinio di pensieri nella testa di Edward Silverstein. Turbinio che al centro ha una figura ben precisa: il suo autista. Jonathan gli piace, gli piace da impazzire. Come abbia fatto a scoprirlo solo ora, non riesce a capirlo. Probabilmente l’incontro al Guns and Men ha solo scoperchiato la pentola, non può essersi preso una sbandata per Jonathan in un tempo così breve. Ma lo conosce da tre anni e in questo tempo hanno costruito un rapporto solido. Solo che Edward non l’aveva mai considerato come un possibile compagno. Era il suo autista. Un uomo intelligente, istruito, sereno, con un bel carattere e un sacco di belle qualità (a Edward pare di aggiungerne una al giorno ed incomincia a chiedersi se sta davvero vedendo il suo autista com’è o se lo sta mettendo su un piedestallo).

E ogni giorno che passa (e non passa giorno che Edward non sia in auto, a volte per un’ora o due, a volte per gran parte del tempo), ogni volta che parlano insieme, ogni volta che si mette a letto in una camera d’albergo e pensa che nella camera di fianco c’è Jonathan, Edward si rende conto di essersi innamorato come non gli era mai capitato, senza nemmeno rendersi conto.

Edward non sa che cosa fare. Non può fare nulla, assolutamente nulla, nemmeno un approccio molto vago, come farebbe con qualunque uomo che gli piacesse un quarto di quanto gli piace Jonathan. Perché comunque se Jonathan gli dicesse di sì, sarebbe probabilmente solo perché si sente in debito nei suoi confronti. E se invece a Jonathan lui piacesse? Può darsi, Jonathan sembra stare volentieri con lui, ma anche se fosse così, non potrebbe funzionare: Jonathan penserebbe che Edward gli sta chiedendo di saldare il conto e questo sarebbe ancora peggio.

Edward si fa i complimenti per il casino in cui è riuscito a cacciarsi.

Passano le settimane. Il padre di Jonathan si è ripreso completamente. Jonathan è quello di sempre. Due o tre volte gli ha ribadito quanto gli è grato. Edward lo avrebbe preso a calci volentieri. In realtà quello che Edward vorrebbe prendere a calci è il signor Silverstein. Perché Edward è furente. Non scopa più, non ha più voglia di guardarsi intorno. In testa ha un chiodo fisso: Jonathan. E se lo vede davanti ogni giorno che passa.

 

Edward ha smesso di cercare, non mette più piede in un locale da tre mesi. Ma questa sera ci va, ha deciso che ci va e niente gli farà cambiare idea. In un modo o nell’altro deve uscire da questo vicolo cieco. Passa in rassegna mentalmente i locali in cui gli capita di andare e a metà della lista la voglia gli è già passata. Ma questa sera no, questa sera lui va, carica qualcuno e scopa, è un punto d’onore. Riprende la lista, ma per ogni locale ci sono almeno tre buoni motivi per non andarci: da una parte c’è quel tizio che gli si attacca come una sanguisuga (il buon vecchio Fred sei mesi fa era uno molto simpatico e pure bravo a letto, ma il tempo passa); nell’altro l’ultima volta si è trovato malissimo, la musica è sparata al massimo, non si riesce a parlare (sei mesi fa era un locale molto vivace, con una buona musica che dava ritmo alla serata); il terzo rigurgita di sado-maso (un bel posto, in cui provare qualche cosa di diverso, sempre sei mesi fa), i bicchieri sono pure sporchi (Edward è diventato alquanto schifiltoso); il quarto è un ambiente deprimente, quasi soffocante, tanto è piccolo (sei mesi fa era un delizioso posticino molto intimo).

Insomma, di tutti i locali che Edward amava frequentare, non ce n’è più uno che vada bene: come cambiano i gusti! Finché, in un lampo, non gli viene in mente il Guns and Men. Non analizza l’idea, non la valuta, non si chiede quali motivi lo spingano verso quel locale che conosce poco ed è dall’altra parte di una metropoli come Los Angeles. Lo sa benissimo, non occorre dirseli, meglio di no.

Solo mentre scende dall’auto si dice che forse il locale per sado-maso era quello adatto, perché lui è decisamente masochista.

Edward entra e mentre ancora sta facendo un giro di perlustrazione con lo sguardo, il suo cuore sussulta. Ha visto prima che i suoi occhi mettessero a fuoco. Sì, Jonathan è là, accidenti a lui. E ora? Edward non guarda dalla sua parte, si avvicina al banco e ordina da bere, poi si siede e si sforza di dare la schiena al suo autista. Qualcuno gli si avvicina e Edward cerca di rispondere a tono. Il tipo non rimane molto: è abbastanza chiaro che Edward ha tutt’altro per la testa. E in effetti è così. Edward si gira un po’, quanto basta per poter, ogni tanto, sbirciare con la coda dell’occhio quello che per lui è l’unico maschio rimasto al mondo. Jonathan si è accorto di lui, ma, dato che Edward sembra guardare da un’altra parte, non fa neppure un cenno. Edward pensa che così non va bene e dopo un momento, quando ha già liquidato un altro tipo che si è avvicinato (ma che rottura, uno non può bere un bicchiere al banco che subito si trova i mosconi a ronzargli intorno! Ma non hanno un cazzo da fare, quelli?), si volta leggermente, così il suo sguardo incrocia quello di Jonathan e Edward fa un cenno di saluto, molto leggero.

Jonathan ricambia il saluto, poi dice qualche cosa all’uomo con cui sta parlando (chi è quello stronzo? Che cosa vuole? Perché sta dietro a Jonathan? E Jonathan perché gli dà retta?), si alza e gli si avvicina. Edward ha l’impressione che il cuore gli batta più in fretta. Jonathan sorride e dice:

- Ciao, posso offrirti un bicchiere?

A Edward manca il fiato. Sorride e risponde, cercando di non lasciar trapelare la sua agitazione:

- Volentieri.

Jonathan prosegue:

- Non vieni spesso qui. Credo di averti visto una volta sola.

- No, è vero. È un po’ lontano da dove abito.

- Già. E allora ho pensato che era meglio approfittare dell’occasione per… fare due chiacchiere. Non so quando ripassi da queste parti e non saprei come trovarti.

Ora è chiaro, ora è tutto chiaro e il cuore di Edward va a mille.

- Hai fatto bene. Io non osavo avvicinarmi. Mi sembri uno che sta sulle sue.

Jonathan annuisce.

- Sì, è vero. Mi piace questo ambiente, ma non amo molto la caccia. A meno che la preda non valga davvero la pena.

Edward sorride, si sforza di essere ironico:

- Mi devo ritenere onorato?

Johanatan alza le spalle.

- Vedi un po’ tu.

- Direi che lo sono.

Jonathan sorride:

- Allora potremmo anche andarcene. Domani mattina mi devo alzare presto. Il mio capo non tollera ritardi.

A questo punto un altro tocco d’ironia ci vuole:

- Dev’essere un bel figlio di buona donna.

Jonathan scuote la testa:

- No, non lo è. È una gran bella persona. Davvero.

- Ti piace?

Edward non è riuscito a nascondere l’urgenza che preme nella domanda, non si rende nemmeno conto che sta ripetendo le parole che gli ha detto Roger, il tizio incontrato in questo stesso locale, tre mesi fa, un’eternità fa:

- Un casino.

Se avesse la lucidità per pensarlo, Edward si direbbe che se non gli viene l’infarto ora, non gli verrà mai. Ma ha altre priorità e nessuna lucidità.

- Ci hai mai provato con lui?

- No, non oserei mai. Queste cose non possono funzionare. Con il capo, che figura ci fai. E poi…

- E poi?

- Poi ci sono altre cose, personali.

- Si direbbe quasi che tu…

Edward non finisce la frase. Non sa neanche bene quello che voleva dire. Jonathan lo fissa e risponde, molto serio:

- Lascia stare. Parliamo di noi, invece. Allora, ti va di andartene?

Edward annuisce e si alza. L’uomo d’affari è al palo, la dialettica è andata a farsi benedire e ormai non rimane che una resa completa. Che cosa chiedere di più? Nulla, in questo momento Edward non potrebbe chiedere altro alla vita.

Jonathan è venuto con un amico, per cui è a piedi. Edward farà da autista al suo autista. Decidono di andare a casa di Edward.

- Dove abiti?

Jonathan è passato a prenderlo a casa diverse volte, quando sono dovuti partire presto. Ma se il gioco è questo, va bene così. È più semplice per tutti e due.

Edward dice il nome del quartiere.

- Anche il mio capo abita lì. A volte mi capita di passarlo a prendere.

- Che lavoro fai?

- L’autista.

- Però fuori orario ti fai scarrozzare…

- Insomma, guido già tutti i giorni…

Edward sta cercando di concentrarsi sulla guida, perché nelle sue condizioni attuali sarebbe capacissimo di prendere l’autostrada per San Diego invece della strada per casa sua. Ma Jonathan è al suo fianco, Jonathan parla, bisogna rispondergli, stanno andando a casa sua, tra poco scoperanno… Edward ha il fiato corto. Ogni tanto sbircia Jonathan e gli sembra che sia bellissimo, si chiede come ha fatto a non accorgersene prima.

E allora Edward non ce la fa più. Accosta e si blocca in un punto in cui non può assolutamente fermarsi, prende la testa di Jonathan tra le mani e lo bacia. Jonathan ricambia il bacio, con trasporto: è evidente che anche lui lo desiderava. Le mani di Edward incominciano a muoversi freneticamente lungo il corpo del suo autista, ma Jonathan lo blocca.

- Non qui, non è possibile.

Edward si riscuote.

- Sì, hai ragione, scusa. È che…

Edward rimette in moto, senza finire la frase. Ma questa sera le frasi in sospeso sono tante, è altro che bisogna concludere. Concludere? No, incominciare! Su questo Edward ha le idee chiare. Sulla strada da percorrere, no, per fortuna Jonathan gli ha segnalato che stava sbagliando l’uscita. Ma su quello che vuole, Edward ha le idee chiarissime.

Ed infine arrivano a casa di Edward.

- Bella casa. E ben sistemata. Hai buon gusto. Ma si vede anche da come…

Anche Jonathan non finisce la frase, ma non per colpa sua: è che parlare mentre qualcun altro ti sta baciando e ti sta infilando la lingua in bocca, non è precisamente facilissimo.

È Edward a parlare, mentre le sue mani accarezzano Jonathan, lo spogliano lo stringono.

- Jonathan, Jonathan, quanto l’ho desiderato, Dio mio, quanto l’ho desiderato.

Il nome non se l’erano detti, al Guns and Men, ma è ora di passare ad un altro gioco.

- Anch’io, Edward, anch’io. Mi sei sempre piaciuto.

Che bello sentirsi chiamare Edward da Jonathan! E che bello sentire le mani di Jonathan che percorrono il corpo, sfilano la giacca, sbottonano la camicia, passano sotto il tessuto, accarezzando la pelle, scivolano tra i capelli, scompigliandoli, pizzicano il culo. C’è da rimanere senza fiato, con quelle mani che si infilano dappertutto.

Sono in mezzo al salotto, tutti e due mezzo svestiti, con quel che rimane in completo disordine, ed è bello stare così, avvinghiati, a baciarsi e stringersi.

E poi il gioco dei loro corpi diventa incandescente, ma il loro amarsi non ha niente a che fare con gli infiniti rapporti che Edward ha avuto fino ad ora: il desiderio che brucia in entrambi è troppo forte e l’amore che li unisce troppo profondo. Ed il piacere che infine li unisce ha il fragore di un tuono che schianta. A Edward sembra di mormorare qualche cosa, mentre tutto il suo corpo vibra. In realtà ha urlato, ha chiamato Jonathan.

Rimangono a lungo ad accarezzarsi. E ora, abbracciati sul letto, nel buio della stanza, Edward dice:

- Jonathan, verresti a vivere qui da me?

Edward sa che sta correndo troppo. È presto, hanno appena incominciato la loro strada insieme. Ma Jonathan gli si stringe ancora di più.

- Sì.

Edward chiude gli occhi e per un momento gli sembra di non riuscire a reggere. Il mondo è perfetto, assolutamente perfetto. Le sue dita che accarezzano la schiena di Jonathan gli trasmettono una tale sensazione di benessere, che Edward vorrebbe che il tempo si fermasse, che quest’attimo durasse in eterno.

Assapora il momento e quando infine il pensiero del futuro incomincia a farsi strada, sorride e dice:

- Meno male che hai accettato. Mi sarebbe spiaciuto dovermi cercare un altro autista.

Jonathan mugugna, senza staccarsi da lui:

- Lo sapevo che mettersi con il capo era un casino.

 

 

 

 

 

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