Fantasmi Non
riesco più a vivere a Parigi. Non sopporto le conversazioni mondane, di cui
invece un tempo apprezzavo la finezza. La sola idea di assistere a uno di
quegli spettacoli teatrali che ho sempre amato mi ripugna. Anche incontrare
conoscenti per strada mi disturba, per cui trascorro intere giornate in casa
per non dover vedere nessuno. Ci sono momenti in cui perfino la vista dei
miei domestici mi infastidisce. Mi rendo conto che la mia irritabilità è
dovuta a condizioni mentali alterate, ma spesso evitare uno scatto d’ira
immotivato mi richiede un grande sforzo. Ormai
rimanere a Parigi non ha senso. Partirò domani per Biesard,
in Normandia, la regione dove ho trascorso gran parte della mia vita di
ragazzo. So che il ritorno a Biesard non mi distrarrà
certo dal mio dolore: tutta la regione è per me indissolubilmente legata al
ricordo di Loup. Ma non voglio dimenticare, non
voglio pensare ad altro, voglio soltanto vivere nel suo ricordo. Loup di Pordenfer
era mio compagno in collegio: la nostra amicizia nacque nei grandi stanzoni
del dormitorio di Yvetot, il grigio convento in cui
regnano i preti, la noia e l’ipocrisia. Lì ci conoscemmo e nacque un’amicizia
destinata a durare tutta la vita, la breve vita di Loup.
Il
nostro è sempre stato uno di quei legami che non accettano di essere spezzati
nemmeno per un breve periodo: durante le vacanze ero spesso ospite al suo
castello. I genitori di Loup erano contenti che io
trascorressi il periodo estivo con lui e mio padre era altrettanto contento
di non doversi occupare del suo ultimogenito, a cui peraltro prestava
pochissima attenzione: dopo la morte di mia madre nessuno si è davvero
occupato di me. Insieme
Loup ed io esploravamo la campagna, in avventure
interminabili. Più
tardi, divenuti adulti, percorremmo insieme diverse regioni della Francia,
dormendo in locande e fienili, a volte all'aria aperta. Ricordo ancora la
gioia di quelle nostre notti sotto il cielo stellato, i risvegli sotto una
pioggia improvvisa, le risate, i lunghi dialoghi sul senso della vita.
Ricordo la felicità sconfinata che mi dava averlo al mio fianco. Tra
noi esisteva un'intimità assoluta. Anche il piacere era condiviso. Da
ragazzini, ci masturbavamo insieme, a volte uno dei due portava l’altro al
piacere e poi riceveva lo stesso servizio. Più tardi, frequentavamo gli
stessi bordelli e più volte prendemmo la stessa puttana, uno dopo l’altro o
anche insieme. E più volte facemmo l’amore con qualche servetta in due. Mi
piaceva vederlo nudo e forte, il suo uccello in tiro: Loup
era una divinità dei boschi, potente e selvaggio, come l’antico Cernunnos, che un tempo veniva adorato in queste terre. Certamente
se uno di noi si fosse innamorato, non avrebbe accettato di condividere la
sua donna, ma l’amore non sembrava interessarci, anche se ormai avevamo
raggiungo l’età in cui si ama: l’ultima volta che ci vedemmo, un anno fa,
avevamo venticinque anni. Loup non è andato oltre. A me sembra invece
di aver superato di un balzo la giovinezza e l’età adulta, per diventare un
vecchio, capace solo di guardare al passato e di perdermi in rimpianti su ciò
che non è stato e non sarà. Non
è stato l’amore a separarci, come spesso succede nelle coppie di amici,
quando scoprono di non essere più disposti a spartire tutto. È stata la
morte. Non
ho mai capito perché Loup sia partito per l’Africa,
risalendo il Nilo e addentrandosi in terre inesplorate, dove ha trovato una fine
orribile. Come tutti i ragazzi, anche noi attraversammo un periodo in cui sognavamo
avventure, esplorazioni, grandi imprese, ma erano fantasie che con il tempo
persero fascino. La
sua decisione fu improvvisa. Loup si era recato a Marsiglia
per un affare che riguardava la sua famiglia. La lettera che mi giunse da
quella città mi annunciava il suo imbarco su una nave diretta in Egitto.
Rimasi sconvolto nell’apprendere che stava partendo. Non
ebbi altre notizie fino a quando, pochi mesi dopo, i suoi genitori mi comunicarono
la sua morte. Ne seppi alcuni dettagli da altri. Ho cercato di dimenticarli. Perché
se ne andò? Perché non mi scrisse dall’Egitto, erigendo tra di noi un muro di
silenzio che ancora non riesco a spiegare? Ci eravamo lasciati a malincuore,
come sempre, pensando che la nostra separazione sarebbe durata pochi giorni.
Ci eravamo abbracciati fraternamente, certi di rivederci presto. La sua
lettera non spiegava nulla, mi chiedeva solo di perdonargli quell’improvvisa
decisione. Sono
a Biesard da una settimana. Dalla mia villa vedo la
Senna, su cui passano diversi battelli. Ogni tanto mi siedo sulla terrazza a
guardare il fiume, benché sia ancora piuttosto freddo: l’inverno non si
decide a lasciare la sua preda, anche se ormai siamo alla fine di marzo. Da
quando sono tornato qui, passo molto tempo inattivo. Mi rendo conto che mi
mancano le energie. Non ho voglia di cacciare, a mala pena vado a passeggiare
nella foresta. Rimango ore a guardare il fiume che scorre, i battelli che
risalgono la Senna verso Rouen. Adesso sta passando una nave egiziana. E il
pensiero va a Loup. - Loup! Mi
accorgo di aver pronunciato il suo nome ad alta voce, di averlo chiamato,
come se potesse sentirmi, tornare accanto a me. La nave avanza placida. La
seguo finché scompare oltre la curva del fiume. Poi chiudo gli occhi. Sento
che scendono le lacrime. Mi capita a volte di piangere, quando il pensiero di
Loup ritorna improvviso. Per
tutto il giorno sono più irrequieto del solito. Loup
si ripresenta ossessivamente nei miei pensieri. A pranzo non mangio quasi
nulla, attirandomi i rimproveri di Adèle, la cuoca.
La mia inappetenza la preoccupa e non me lo nasconde. Era la cuoca della mia
famiglia e mi conosce da quand’ero bambino: ha perciò con me una familiarità
che gli altri domestici non si permettono. Nel pomeriggio cammino per qualche
ora nella foresta, che è spoglia. Le querce hanno ancora le foglie
dell’autunno e sembrano morte. Sui rami degli altri alberi si vedono le gemme.
Ma la primavera non verrà mai. A
cena mi sforzo di mangiare qualche cosa, ma non riesco a inghiottire. Mi
sembra di stare peggio che mai. Di
solito dopo cena leggo, ma oggi sono troppo nervoso e mi è impossibile
concentrarmi: mi rendo conto di aver letto un’intera pagina, senza conservare
il minimo ricordo del contenuto. Chiudo il libro e guardo la copertina: è il Voyage en Orient,
di Nerval. L’ho ripreso perché io e Loup l’amavamo molto: ci appassionavano le storie della
regina di Saba e di re Salomone e del califfo Hakem.
E progettavamo di viaggiare, di ripercorrere insieme l’itinerario di Nerval, spingendoci fino ai grandi templi lungo il Nilo e
poi in Terrasanta. Mi chiedo se non sia stato questo libro a ispirare il
viaggio di Loup. Ma Loup
intraprese una spedizione in terre sconosciute, tra tribù note per la loro
ferocia. Nulla a che vedere con quanto sognavamo. Esco
sulla terrazza: un po’ di aria fredda mi scuoterà. La notte è fredda e il
cielo è coperto. Non posso osservare le stelle. Io e Loup
guardavamo spesso il cielo la notte e avevamo imparato i nomi delle
costellazioni. Adesso non riesco neppure più ad alzare il capo verso il cielo
stellato: mi fa troppo male. Rientro e vado a dormire. Nella
notte sogno Loup. Siamo seduti uno a fianco
dell’altro, in una radura. Abbiamo appena finito di mangiare e Loup mi accarezza la testa, con molta dolcezza. È un
momento di perfetta felicità. Mi sveglio e mi pare di sentire ancora la sua
mano tra i miei capelli. Poi la carezza svanisce e sento la sofferenza
dilaniarmi. Mi metto a piangere. Di nuovo sento la mano accarezzarmi i
capelli e, lentamente, mi calmo. Sono sveglio, non sto sognando, eppure avverto
il tocco leggero di quella mano, la sua mano. Mormoro: - Loup! E mi
pare che nel buio delle labbra si poggino sulla mia fronte. Solo un attimo,
ma la sensazione è tanto intensa che mi manca il fiato. Non sto dormendo. Accendo
la lampada a olio. Non c’è nessuno nella camera. Non
spengo il lume. Rimango confuso a fissare la parete. È stato tutto un sogno a
occhi aperti, di certo dovuto al mio stato di irrequietezza, ma mi sembra
quasi di sentire ancora il tocco di quelle labbra. La
giornata è grigia: scende una pioggia continua, sotto un cielo gonfio di
nuvole nere. Mi attrezzo e vado a camminare, nonostante il fango e l’umidità.
In casa mi sembra di impazzire. Ho bisogno di muovermi e almeno il brutto tempo
mi eviterà di incontrare qualcuno: sono diventato un solitario, che rifugge
la compagnia degli altri uomini. Prendo
la stradina che sale nel bosco, verso la vecchia abbazia. Quando arrivo in
cima alla collina, dove si possono vedere le rovine, mi fermo a contemplarle.
Io e Loup ci fermavamo spesso qui, a guardare le
arcate senza più tetto della chiesa, inventando storie di fantasmi e
vendette. Mentre ripenso a quel tempo, sento una mano stringere la mia. Mi
volto, ma non c’è nessuno. Eppure sono sicuro che una mano avvolge la mia,
anche se non posso vederla. Poi la mano si stacca. - Loup. Ma
non succede più nulla. Dirigendomi
verso casa mi dico che dovrei consultare un medico. Sto impazzendo. Ma forse
è meglio così. Forse è meglio perdere il contatto con la realtà. Una
volta rientrato, mi siedo a leggere in poltrona, come faccio spesso in queste
giornate di fine inverno. Sento di nuovo una mano posarsi sulla mia. Sussulto.
Nella stanza non c’è nessun altro. No, non è vero: nella stanza non si vede
nessuno, ma lui è qui, con me. È
solo un attimo. La sensazione svanisce. Io ripeto ancora il suo nome. Sto davvero
perdendo la ragione? Sono allucinazioni, non può esserci altra spiegazione. Nel
pomeriggio smette di piovere e il vento spazza via le nubi. Allora la sera, prima
di andare a dormire, esco sulla terrazza. Con uno sforzo alzo gli occhi a
guardare il cielo stellato. E questa volta è un braccio a cingermi le spalle,
qualcuno che è accanto a me, che non posso vedere, ma c’è. Mi abbandono
a questa stretta. Chiudo gli occhi. Sento che il dolore infinito che porto
dentro si sta placando. Solo dopo, quando il braccio non mi stringe più, mi chiedo
nuovamente se sto delirando. La
notte Loup ritorna nei miei sogni. E io sento le
sue mani accarezzarmi, le sue braccia stringermi in un abbraccio fraterno, la
sua bocca posarsi sulla mia fronte. Nei
giorni e nelle notti seguenti più volte sento una mano che stringe la mia o
si posa sul mio braccio, mi accarezza il capo, poggia sulla mia spalla. E
labbra che mi baciano in fronte. Non ne parlo a nessuno. Sono allucinazioni,
ma questi contatti leniscono il mio dolore, mi aiutano ad affrontare la
fatica di un nuovo mattino, l’abisso di un’altra notte. Sono
passati sei giorni da quando sono iniziati questi fenomeni. Albert, il
maggiordomo che sovrintende alla servitù, viene da me inquieto. -
Signor Poittevin, mi scusi se la disturbo. -
Nessun disturbo, Albert. Mi dica. -
C’è un problema in cucina. Sono sei giorni che il latte scompare. Adèle dice che scompare anche quando lei è in cucina,
senza che veda entrare nessuno. Sospetta di Madeleine,
che nega ogni addebito. Il
problema mi sembra irrilevante, anche se mi dà fastidio che qualcuno dei miei
servitori rubi del latte. E mentre lo penso mi viene un sospetto, un’idea
assurda. -
Vedete se riuscite a capire che cosa accade. Non è così grave, comunque. A
proposito di latte, da oggi vorrei avere ogni notte una caraffa di latte sul
comodino. -
Certamente, signor Poittevin. È
una sciocchezza, ma provare non costa nulla. La
sera sul mio comodino c’è una caraffa piena di latte. Prima di addormentarmi la
guardo. Nella notte sogno Loup, che mi accarezza il
viso. Mi sveglio e accendo la lampada. Controllo la caraffa: è metà vuota. Il
cuore ha accelerato i suoi battiti. Sorrido e dico: -
Hai bevuto, Loup? Mi
sembra di sentire un leggero buffetto sulla guancia. Mi
riaddormento, sereno. Il mattino dopo la caraffa è completamente vuota. Non
ho bevuto io il latte, di questo sono sicuro. Ogni
sera faccio mettere una caraffa di latte e il mattino è sempre vuota. Albert
mi dice che il latte non scompare più dalla cucina. E ogni giorno, sempre più
spesso, sento il contatto di una mano o di un braccio, una carezza leggera o
un bacio fraterno. Non
sono allucinazioni. La faccenda del latte è una prova. Albert
ritorna da me, visibilmente in imbarazzo. -
Che succede, Albert? Fuori il rospo. - Mi
spiace, signor Poittevin, ma dobbiamo proprio avere
un ladruncolo in casa. -
Perché dice questo? -
Adesso scompaiono anche altri cibi. I biscotti, soprattutto quelli al
cioccolato. La frutta. Sorrido.
Loup amava molto il cioccolato e la frutta. -
Farà mettere un po’ di biscotti al cioccolato e qualche frutto nella mia
camera ogni sera, insieme al latte. Magari il problema scomparirà, com’è
avvenuto per il latte. Albert
è perplesso. Ma due giorni dopo deve riconoscere che non ci sono più stati
altri furti nella dispensa. Non riesce a capire. Ciò che mette in camera mia
la sera, scompare nella notte, senza che io abbia toccato niente, ma lui
crede che sia io a nutrirmene. Forse si chiede se il ladruncolo non fosse il
suo stesso padrone, che voleva divertirsi alle spalle della cuoca. O magari
si chiede se il suo padrone non stia dando segni di squilibrio mentale. Può
darsi che abbia ragione, ma a me va bene così. Se questa è follia, voglio
rimanere folle. Conosco
i gusti di Loup e aggiungo altri cibi. Adèle è felice e si congratula con me per l’ottimo
appetito: nei mesi successivi alla morte di Loup
era sempre preoccupata perché io quasi non toccavo cibo; adesso mi vede
mangiare volentieri e per di più la notte consumo ancora altri alimenti, in
quantità considerevoli. Se davvero mangiassi, oltre ai pasti, tutto quello
che metto in camera la sera, ingrasserei. La
primavera è arrivata. La sera esco a osservare le stelle, se il tempo è
bello. Dovrei dire che usciamo, perché Loup è
sempre di fianco a me. Questa sera mi abbraccia, da dietro e sento la sua
testa poggiare sulla mia spalla. Io poso le mie mani sulle sue. Sento la
peluria che le ricopre (gli dicevo spesso che era un gorilla), le accarezzo.
Lui stringe più forte. E dal benessere infinito che mi avvolge, sento nascere
il desiderio: sono mesi che non provavo più nulla, ma adesso che sono tra le
sue braccia, avverto una nuova tensione. Gli prendo la destra e la guido al
mio uccello, che già alza il capo. Lui afferra, attraverso la stoffa,
l’uccello e le palle, con vigore, facendomi sussultare. Io rido, felice, ma
il desiderio si tende e la mia risata si smorza in un ansimare. Qui può
venire qualcuno dei domestici e, anche se non potrebbe vedere Loup, mi troverei in una situazione imbarazzante, non so
che cosa penserebbero. Sussurro: -
Andiamo in camera. Gli
prendo la mano con la sinistra e, tenendola ben stretta, quasi temendo che
lui mi sfugga, lo porto con me in camera mia. Chiudo la porta e mi spoglio. Poi
spengo la lampada e mi stendo sulla schiena, sopra il lenzuolo. - Loup! Sento
le sue labbra posarsi sulle mie, le sue mani posarsi sul mio viso, sui miei
occhi, poi percorrere il mio corpo, accarezzarmi il collo, poggiare sul
torace, stringere i capezzoli, giocare con la peluria, scivolare fino
all’ombelico, stuzzicarlo, poi scendere ancora. E intanto il sangue affluisce
al mio uccello. Una
mano vigorosa mi stringe le palle, un’altra afferra l’uccello, poi sono due
labbra che percorrono il mio corpo. È una sensazione del tutto nuova, che mi stordisce.
La bocca di Loup mordicchia i miei capezzoli, poi
la sua lingua scorre sul torace, si ferma sull’ombelico, scende ancora, fino
a che la bocca inghiotte la cappella. Loup
incomincia a leccare e succhiare il mio uccello, ormai teso allo spasimo. Questo
non è mai avvenuto, fino ad ora. In passato ci siamo masturbati spesso l’un
l’altro, ma non abbiamo mai usato la bocca. Ma ora, ora che le labbra di Loup, perché sono le sue, lo so, avvolgono la cappella,
che i suoi denti mordicchiano lievemente, ora so che l’ho sempre desiderato.
Sì, ho sempre desiderato fare l’amore con lui, ma me ne rendo conto soltanto
adesso. La
bocca di Loup mi fa impazzire, il desiderio preme
impetuoso, brucia dentro di me. Le mie mani cercano la testa di Loup, gli accarezzano i capelli, li stringono, li tirano,
mentre il piacere esplode violento: troppo a lungo ho rifiutato di soddisfare
le esigenze del mio corpo. Vengo
e grido: - Loup! È
un’estasi di piacere, quale mi sembra di non avere mai provato. Mi sembra che
il seme scorra all’infinito, che tutto il mio corpo vibri. Sono
venuto, l’uccello è ancora turgido. Eppure non c’è neppure una goccia di seme
sul mio ventre. Sorrido. Può darsi che stia impazzendo, ma va bene così. Sento
che Loup si solleva. Lo chiamo: - Loup. Ma
lui non si avvicina. Chiudo
gli occhi. Vorrei averlo tra le braccia, stringerlo. Vorrei che fosse ancora
qui. - Loup. Ma
lui si è allontanato. Sento che non è qui. Perché? Perché se n’è andato? Oggi
non ho avvertito la presenza di Loup in nessun
momento. Eppure deve essere qui, questa notte ha bevuto il latte e mangiato
ciò che gli avevo lasciato. Perché non mi accarezza? Sono
nervoso, mi muovo in continuazione, a tratti torno in camera da letto, poi scendo
in salotto, esco sulla terrazza. Non trovo pace da nessuna parte. Non trovo
lui da nessuna parte. Perché se n’è andato? A
pranzo mangio poco. Dopo un ennesimo giro tra le diverse stanze, decido di
andare a passeggiare. A un certo punto mi sembra di avvertire dei passi
dietro di me. Forse Loup mi sta seguendo, ma non si
manifesta in nessun modo. Mi volto. Il rumore cessa. Lo
chiamo: - Loup. Nessuna
risposta. Ripeto
il suo nome, più forte. Poi lo grido. Tutto
è immobile intorno a me. A
cena non riesco a toccare cibo. Mi
addormento tardissimo. Nella notte mi sveglio, accendo la lampada e guardo la
caraffa con il latte e il piatto con il cibo che ho fatto preparare: non
manca nulla. L’angoscia
che mi prende è tanto forte che mi rannicchio su me stesso, singhiozzando.
Ripeto il suo nome, ma lui non è qui. Piove,
una pioggia continua, implacabile, che sembra voler cancellare questa
primavera appena sbocciata. Esco ugualmente. Nel bosco chiamo ancora Loup, ma non ricevo nessuna risposta. Mi metto a correre,
gridando, pazzo di dolore. Poi mi accascio ai piedi di un albero. Steso a
terra, lascio che la pioggia mi bagni. Voglio morire, qui, ora. Singhiozzo,
chiamando: - Loup! Sento
la sua mano che prende la mia, che mi tira, forzandomi ad alzarmi. La mano
non mi lascia e mi guida verso casa. Quando siamo vicino al cancello, gli
dico: -
Non mi lasciare, Loup. Non lasciarmi. Entriamo
insieme. Albert
si preoccupa a vedermi fradicio e sporco. -
Sono scivolato nel bosco, Albert. Non è niente di grave. Preparami un bagno
caldo. - Si
è fatto male al braccio, signore? Tengo
il braccio sinistro un po’ scostato dal corpo, perché Loup
stringe la mia mano. -
Niente, non è niente. Saliamo
insieme. Quando
Albert ha preparato il bagno caldo, mi spoglio e ci entro. Ma non lascio la
mano di Loup. -
Entra anche tu. La
vasca è abbastanza grande, ma in due si sta stretti. È quello che desidero. Loup mi lava la testa, poi mi strofina con energia.
Quando ha finito, usciamo dalla vasca e lui mi asciuga. È bellissimo sentire le
sue mani che mi passano l’asciugamano sul corpo, frizionando energicamente. Cerco
di asciugarlo anch’io, ma lui si sottrae. Mi sfugge facilmente. Allora tendo
una mano. Lui la prende e io lo guido fino al letto. Mi stendo e lo guido a
salire su di me. Ora i nostri corpi aderiscono. Sento il suo peso su di me. E
avverto, leggero, il suo odore. Conosco bene l’odore di Loup.
Profumo di maschio pulito e di selvatico, di creatura dei boschi e dei
torrenti. E
questa volta le mie mani si muovono, scorrono lungo la sua schiena, fino al
culo, che stringo con forza. Lo guido
a voltarsi, in modo che ora sono io a essere sopra di lui. Gli accarezzo il
petto villoso. Poi le mie labbra cercano le sue e per la prima volta ci
baciamo sulla bocca. Lui accoglie la mia lingua. L’ho sempre desiderato, anche
se solo ora me ne rendo conto. Il
desiderio si accende nuovamente. Le mie mani scendono ad afferrare i nostri
due uccelli, entrambi tesi, uno contro l’altro. Le mie dita stringono le
prede e le dita di Loup premono sulle mie. Poi,
sempre tenendo il suo uccello tra le mani, scivolo di lato, per avere più
libertà di movimento, ma lo bacio ancora. E mentre ci baciamo, la mia mano
stringe il suo uccello e le sue dita lavorano il mio, ma io mi stacco e mi
giro, in modo da poter prendere in bocca il suo uccello e, come lui ha fatto
con me l’altro giorno, sentirne il calore, la consistenza, l’odore e infine
gustarne il seme. Lui
sta facendo lo stesso con me ed io sento il piacere avvolgermi tutto. Lo
stringo, forte. Poi, quando entrambi siamo sazi, abbraccio ancora Loup. Lo bacio. Lascio che la sua lingua si faccia di
nuovo strada nella mia bocca. E infine, tenendo la sua mano stretta nella
mia, mi abbandono al sonno. Quando
mi sveglio, Loup mi bacia sulla bocca. Sono
felice, felice come non sono mai stato in vita mia. Mi sembra di essere
ebbro, mentre cammino per il bosco, tenendo la mano di Loup.
Adesso
ogni sera facciamo l’amore: le nostre mani e le nostre bocche ci guidano al
piacere. Ma io non sono sazio, non ancora. E
allora mi distendo sul lenzuolo, sulla pancia. Allargo le gambe. Sento
la carezza di Loup sulla mia testa, poi sul collo,
sulla schiena. Le sue mani forti mi sfiorano, mi stringono, mi pizzicano. Sento
i suoi denti che mi mordono il culo, più volte. Sento una risata leggera, che
ricordo bene. E poi la sua lingua, che scorre sul solco. E
infine il peso di un corpo sopra il mio, che mi schiaccia. Nessuno
mi ha mai preso, ma oggi Loup mi prenderà. Sento
l’apertura che viene forzata e l’uccello gagliardo di Loup
che mi penetra. Il dolore è forte, ma va bene, va bene anche questo, perché
la sensazione di pienezza e di calore è meravigliosa, perché ora appartengo a
Loup, perché il suo uccello che si apre la strada
dentro di me è il ferro rovente che mi marchia per sempre come suo. Chiudo
gli occhi e stringo i denti, perché ora il male è davvero forte, ma
nonostante questo non vorrei che smettesse. Infine sento la scarica, il seme
che scorre nelle mie viscere. L’uccello di Loup
perde consistenza e volume, la pressione diviene più tollerabile, ora è di
nuovo piacevole. Sto bene, sotto il peso di questo corpo che mi schiaccia sul
letto, mentre sento la sua bocca che mi bacia sul collo. Sento
che Loup si ritrae e dico: -
No, rimani. Rimani dentro di me. Lui
mi stringe tra le braccia. Restiamo così un buon momento. Poi Loup mi bacia sul collo e, tenendomi abbracciato, ruota.
Ora io sono su di lui, il suo uccello ancora in culo. Sento le sue mani forti
che mi stringono le palle, poi la destra sale all’uccello e stringe con
forza. Il suo movimento rapido mi guida al piacere. Rimaniamo
distesi così ed è bellissimo sentire sotto di me il corpo di Loup e ancora dentro di me l’uccello di Loup. Infine
Loup si volta di lato ed esce da me. Io rimango
disteso, sorridente e felice. Questo seme che ho dentro di me non è
un’allucinazione. Loup è qui. Ora
la sera, mentre leggo, spesso sento la mano di Loup
che si posa sulla patta dei miei pantaloni. Allora sorrido e chiudo il libro.
Poi mi alzo ed entro in camera. Di
giorno cammino felice per i boschi. So che Loup è
accanto a me, anche se non posso vederlo. A un
tratto ho bisogno di pisciare e mi fermo. Mi sbottono i pantaloni, ma la mano
di Loup sposta la mia. È lui a tirare fuori
l’uccello. Sento una carezza umida avvolgermi la bocca. Piscio, ma non una
goccia scende sulle foglie secche. Loup sta bevendo.
E
dopo che ha bevuto, mi spinge contro un albero e mi bacia. Quando la sua
lingua si apre la strada tra i miei denti, sento il sapore del mio piscio. Poi Loup si stacca, sento che la sua mano afferra la mia e mi
trascina fuori dal sentiero, dove gli alberi sono più fitti. Le sue mani mi
stanno spogliando e io lo lascio fare, stordito e felice. Tra
gli alberi Loup mi prende. Questa volta sento i
suoi gemiti, il suo ansimare e infine, quando Loup
viene dentro di me, riempiendomi il culo del suo seme, la sua voce. Sì, la
sento chiaramente, questa voce profonda che ben conosco e che ora mi dice: - Guy, amore mio. 2015 |