La galleria assira

 

Primop2b

 

I

 

Stracciò il foglio e lo gettò nel cestino. Erano ormai le tre e quella doveva essere la decima lettera che cercava di scrivere a William, o l’undicesima. Era inutile. Aveva cercato approcci diversi. Nella prima versione, cestinata alla quinta riga, aveva urlato il suo amore assoluto. Nella seconda si era lanciato in una rabbiosa richiesta di spiegazioni per il comportamento tenuto da William in quei giorni. In seguito, sull’onda dell’irritazione, aveva dato la stura a una lunga serie di rimproveri. Poi era passato al ricordo delle ore felici trascorse insieme. Il turno della disperazione era venuto subito dopo, o no, forse prima c'era stata un'altra dichiarazione appassionata, la seconda della serie. Una terza dichiarazione gli era venuta dopo le due, nell'ultima lettera, quando, ormai conscio dell'assoluta inutilità dei suoi sforzi, aveva perso ogni ritegno. Tra le ultime due lettere d'amore c'erano stati altri rimproveri, un'analisi della loro storia e un non ben precisato numero di stupidaggini e banalità. E ora… avrebbe potuto mettersi ad ululare alla luna o a sbattere la testa contro il muro.

Cercava di ironizzare, ma non riusciva a vincere l’angoscia in cui affogava. Tutti dormivano e lui guardava attraverso i vetri la falce di luna ed il cielo stellato, mentre il cestino era pieno della carta straccia su cui aveva messo a nudo la sua anima.

Tutto perfettamente inutile. Lo sapeva fin dall’inizio. Una sua lettera sarebbe stata cestinata o, peggio: usata per deriderlo. Meglio che cestinasse tutto lui.

Anche la sua anima era stata cestinata, da William. Prima appallottolata con cura, poi gettata via. Che cosa gli restava?

Nulla. Assolutamente nulla. Era vissuto per William negli ultimi due anni. Lo aveva amato con tutto se stesso, per la prima volta nella sua vita aveva davvero amato ed era stato amato. Erano stati felici insieme. Di una felicità che non riteneva potesse esistere.

E ora William lo stava ricacciando con determinazione, senza lasciargli un attimo di tregua. Ogni volta che apriva bocca, era una battuta crudele, un colpo basso. Se taceva, altre battute sul suo silenzio. Se chiedeva spiegazioni, risposte sferzanti. Una volontà cieca di ferirlo, di umiliarlo. Era un ospite non desiderato, questo era chiarissimo.

No, non valeva la pena di scrivere nulla, non c'era nulla che avrebbe potuto cambiare la situazione. E non aveva senso che rimanesse lì. Non gli restava che prendere atto della fine.

Avrebbe dovuto imparare a convivere con la sofferenza. Sofferenza e solitudine sarebbero state le sue fedeli compagne.

Meglio andarsene. Prima era, meglio era. L'indomani mattina. Sul presto, prestissimo, per non rivedere William. Meglio per tutti e due.

Avrebbe dormito poche ore. Tanto, in quei giorni, in quella casa, aveva sempre dormito poco.

Preparò i bagagli. Voleva essere pronto, senza dover perdere tempo il mattino dopo e magari rischiare di trovarsi faccia a faccia con William: non voleva leggergli in viso la soddisfazione nel vederlo andare via umiliato e sofferente. O, peggio, non riuscire più a trovare la forza necessaria per andarsene. Perché se avesse rivisto William, non ce l’avrebbe fatta ad allontanarsi.

Era prestissimo quando scese. Sapeva che avrebbe trovato il padre di William, non la madre, che si alzava un po' dopo, non certamente William, che aveva sempre accusato di essere un dormiglione: quante volte lo aveva guardato dormire accanto a sé, per intere ore, felice di stare a guardarlo? C’era nell’abbandono al sonno di William qualche cosa che risvegliava tutta la sua tenerezza e in quei momenti doveva controllarsi, perché provava l’impulso di abbracciarlo, di baciarlo, con il rischio di destarlo.

Il padre di William rimase stupito di vederlo a quell’ora. Era davvero inusuale che un ospite fosse in giro poco dopo l’alba.

- Lord Becker, come mai così presto?

- Mi spiace, mister Bronson, ma devo partire.

L’espressione sul viso del signor Bronson rivelava un dispiacere sincero. Gerald pensò che sul viso di William, i cui tratti ricordavano molto quelli del padre, non avrebbe letto di certo la stessa emozione. William si sarebbe mostrato contento della sua partenza. Il pensiero fu una fitta, ma dissimulò la sofferenza.

- Di già? Pensavamo rimanesse fino a domenica!

Gerald annuì.

- Sì, lo credevo anch'io, ma sono costretto ad anticipare la partenza. La prego di scusarmi con sua moglie.

- Certamente. Mi spiace che debba partire, ma spero che tornerà presto a trovarci.

- Non credo che mi sarà possibile. Parto giovedì prossimo, il mattino, per le Havre, da dove proseguirò per l'Algeria, ed avrò a malapena il tempo per preparare tutto il necessario. 

Sarebbe dovuto partire con William, ma lui si era tirato indietro. Sarebbe partito da solo, in Inghilterra non poteva restare, sarebbe impazzito. Non sarebbe tornato nei luoghi in cui era stato con William, ma dall’Algeria avrebbe potuto raggiungere il Marocco, che non aveva mai visitato. O addentrarsi nel deserto.

Per un attimo pensò a una di quelle carovane che affrontavano le grandi dune di sabbia, attraversando l’immensa distesa del Sahara. E poi, approfittando di un momento di sosta, lasciare gli altri, allontanarsi da solo, perdersi nei silenzi assoluti, andare incontro alla morte… Si scosse. A questo era giunto? Ad accarezzare l’idea di morire, lui che aveva sempre amato la vita? Eppure sì, in quel momento la fine non lo spaventava, ma lo attraeva. La pace della morte era preferibile all’inferno in cui era sprofondato.

Si riscosse. Il signor Bronson gli stava rispondendo con la cortesia di cui lui e la moglie davano sempre prova. Gerald si era affezionato alla coppia, ne aveva apprezzato il calore e l’attenzione, ma anche la discrezione.

- Le abbiamo rubato tempo prezioso, ma per noi è stato un vero piacere averla qui.

Gerald aveva evitato di mentire fino a quel momento, ma una scusa credibile doveva fornirla, per una questione di correttezza, anche se in fondo era superflua: il signor Bronson non poteva non intuire i motivi di quella partenza anticipata.

- Lei e sua moglie sono stati davvero gentili con me. La prego ancora di scusarmi. Ho letto solo ieri sera una lettera arrivatami in mattinata e mi sono reso conto che non posso più rimanere. La ringrazio moltissimo per l'ospitalità.

Una scusa insulsa, ma più che sufficiente. Alcuni convenevoli e poi la partenza. Non aveva detto una parola di William, ma non era necessario. I coniugi Bronson erano stati troppo stupiti e scandalizzati dal modo in cui William lo aveva trattato in quei tre giorni, anche se in loro presenza William si moderava. Se avessero sentito come gli parlava William quando loro due erano soli, sarebbero inorriditi.

Giovedì pomeriggio sarebbe partito, dicendo addio all’Inghilterra, al suo amore, forse alla vita. Il pensiero lo sgomentava, eppure lo attraeva. Chi lo avrebbe pianto? Non suo padre, che non si era mai occupato di lui, né i suoi fratelli, troppo presi dalle loro vite. Non William, che lo scacciava. Nessuno. Ed allora, che senso aveva restare? Perché tutte le cose che avevano dato significato alla sua vita, i viaggi, gli incontri, le scoperte, tutto aveva perso colore e sapore ed il cielo plumbeo sotto cui si muoveva lo schiacciava.

 

II

 

Giovedì pomeriggio. Gerald era partito. Ora non doveva più lottare.

In quei giorni mille volte aveva dovuto soffocare l'impulso di correre da lui, di chiedergli perdono, di gettarsi tra le sue braccia. Quante volte aveva immaginato di prendere il cavallo, raggiungere la stazione, prendere un treno per Londra e precipitarsi a casa di Gerald? Sapeva che Gerald lo avrebbe accolto a braccia aperte, che non avrebbe nemmeno dovuto spiegargli.

Quel mattino non salire a cavallo per correre a Londra aveva richiesto uno sforzo immane. Tre volte era entrato nella scuderia, per poi uscirne immediatamente, sotto lo sguardo stupito dello stalliere. Si diceva che per correttezza doveva a Gerald una spiegazione, che non poteva lasciarlo partire in quel modo, che al porto, tra la gente che partiva, avrebbe potuto spiegargli senza temere un cedimento. Sapeva benissimo che non era così, che con ogni probabilità non sarebbe riuscito a reggere la maschera dell’indifferenza, che non sarebbe riuscito a ricacciare indietro i sentimenti.

Ora Gerald era partito. Non l'avrebbe mai più rivisto.

Ora poteva riposare in pace. Sedersi ad aspettare la morte. Sperando che non tardasse, perché ogni giorno sarebbe stato un dolore che avrebbe faticato ad arginare, un rimpianto atroce. Ma la morte non avrebbe tardato. Rimanendo in Inghilterra in inverno, i suoi polmoni non avrebbero retto a lungo, il dottore era stato categorico: un anno o due, alcuni di più, se avesse preso tutte le precauzioni necessarie. Non avrebbe preso nessuna precauzione. L’idea di morire presto sarebbe stata il suo unico conforto.

Sapeva che il pensiero di Gerald, della felicità assoluta, bruciante, che gli aveva dato il suo amore, lo avrebbe tormentato ora dopo ora, senza tregua. Non sarebbe stato un dolce ricordo a cui aggrapparsi per lenire la sofferenza. Perché a quell'amore era stato lui a dare un calcio. Ma non poteva fare altro, non voleva pesare su Gerald. Aveva cercato di spiegarglielo, ma Gerald si era rifiutato di accettare le sue ragioni. Quando lui si era rifugiato dai suoi, Gerald era venuto a trovarlo e si era fatto invitare dai genitori, che lo apprezzavano moltissimo. Come non apprezzare Gerald? Come non amarlo, disperatamente? Nei due anni trascorsi insieme William non si era mai stupito nel vedere come tantissime persone, uomini e donne, fossero affascinate da Gerald al loro primo incontro. E non era solo la bellezza fisica ad attrarre gli altri, era la personalità di Gerald, la sua disponibilità, il suo calore umano. Impossibile resistere a Gerald. William non era geloso di natura e la limpidezza di Gerald escludeva ogni tradimento, ma di certo per lui le occasioni non sarebbero mancate.

Gerald aveva accettato l’invito dei suoi genitori e si era stabilito da loro. William aveva accusato il colpo. Era con le spalle al muro. Doveva riuscire a difendersi, ma come? Avere Gerald in casa, costantemente, metteva a dura prova la sua risoluzione.

E allora William aveva deciso di colpire, di allontanarlo da sé. Aveva cominciato a ferire, senza dargli tregua. Fino a farlo fuggire. Quel giorno, quando era sceso e suo padre gli aveva detto che era partito, si era detto che era meglio così. Ma avrebbe voluto piangere. Era ritornato in camera. Si era accovacciato in un angolo, contro il muro, come un bambino piccolo, e aveva lasciato che l’angoscia lo sommergesse.

Ora doveva sforzarsi di imparare a sopportare il dolore. Aspettare che quella sofferenza si attenuasse. Cercare di cancellare il ricordo di quei giorni atroci in cui aveva lottato con se stesso per allontanare Gerald, per ferirlo. Quei giorni in cui la sera, in camera, piangeva disperatamente e si malediceva per quanto, freddamente, aveva fatto durante il giorno. Sarebbe riuscito a dimenticare? A pensare solo ai due anni di felicità assoluta che gli aveva regalato Gerald? Così sarebbe riuscito ad andare incontro alla morte serenamente.

Dopo che Gerald se n’era andato, non si era mosso da casa. Sapeva che se fosse andato a Londra, non avrebbe resistito e sarebbe corso da Gerald. Ora poteva muoversi liberamente. Non correva più il rischio di incontrare Gerald. Non avrebbe mai più rivisto Gerald. Gerald era lontano, in viaggio verso l’Algeria, dove erano stati insieme. Alla ricerca di ricordi? O soltanto in fuga dall’Inghilterra? Conoscendo Gerald, la seconda ipotesi gli sembrava più probabile. Quanto a fondo lo aveva colpito, quanto lo aveva fatto soffrire?

Gerald avrebbe dimenticato. I viaggi lo avrebbero aiutato. Gli incontri. E avrebbe trovato altri uomini, migliori di William. Sani, che non sarebbero stati un peso per lui. Il pensiero era lancinante. Non voleva che Gerald soffrisse, ma l’idea che potesse trovare consolazione tra le braccia di un altro uomo lo faceva impazzire. Non era mai stato geloso di tutti gli uomini che avevano incontrato, neppure di quelli che capivano e cercavano di prendere il posto di William, magari solo per una notte. C’era, nell’amore di Gerald, una forza adamantina, che nulla poteva piegare. Finché William era stato al suo fianco, Gerald non aveva mai guardato un altro. Ma ora, ora che lui aveva rotto? Ora che Gerald aveva tutti i diritti di volgersi altrove? Ora che aveva bisogno di affetto e consolazione e avrebbe trovato infiniti uomini ben felici di offrirgli quello che cercava?

Aveva allontanato Gerald ed ora era geloso. Ci sarebbe stato da ridere, ma William stava piangendo.

Il giorno dopo sarebbe andato a Londra. Voleva ritornare al British Museum, nella galleria assira, dove lui e Gerald si erano incontrati.

     

Nella sala non c'era nessuno. William si mise di fronte alla grande statua dell'uomo-toro. Quel giorno, due anni prima, Gerald era entrato nella sala mentre lui tracciava uno schizzo della testa. Lo aveva colpito molto quando la statua era arrivata a Londra dagli scavi in Mesopotamia e aveva deciso di disegnarla da angolature differenti. William si stava appassionando agli scavi archeologici in Oriente e meditava di partire per visitare quelle terre. Quattro anni prima era stato in Italia e in Grecia, ma non si era mai spinto oltre.

Gerald si era fermato vicino a lui, ammirando la statua. William non aveva badato allo sconosciuto, fino a che non si era accorto che l’uomo stava osservando il suo disegno. Allora aveva alzato gli occhi per guardarlo e la bellezza di quell’uomo lo aveva abbagliato: un bel viso abbronzato, in cui spiccavano due grandi occhi grigi, i capelli biondi, la barba anch’essa bionda, ma di una sfumatura un po' più scura, il corpo atletico. Avrebbe potuto essere una statua greca. O un dio greco, materializzatosi di fianco a lui. Avrebbe voluto poter ritrarre quell'uomo, non la statua che aveva di fronte.

Gerald era rimasto colpito dal suo disegno e quando William lo aveva guardato gli aveva rivolto la parola, benché non si conoscessero. Ma Gerald, come William aveva scoperto subito, era appena tornato da uno dei suoi viaggi in Oriente, in cui, come diceva, smarriva un po' della riservatezza britannica. Avevano cominciato a parlare dell'Oriente, dei viaggi di Gerald, dell'arte assira. Era un piacere parlare con Gerald. Era un piacere stare vicino a Gerald. La sua conversazione era affascinante, ma Gerald non esibiva mai la sua cultura, come non ostentava la sua bellezza.

Quando si erano lasciati, dopo un pomeriggio trascorso insieme, Gerald aveva invitato William a passare a trovarlo, per mostrargli alcuni reperti egizi e mesopotamici, che aveva riportato dai suoi viaggi. William aveva accettato l’invito, lieto di poter rivedere quell’uomo affascinante e cordiale.

Il giorno seguente William era andato a casa di Gerald ed era stato accolto con grande calore. Si erano rivisti più volte e presto avevano cominciato a parlare di organizzare un viaggio in Egitto. Gerald conosceva bene il paese, vi aveva soggiornato a lungo e avrebbe fatto volentieri da guida a William.

Erano partiti un mese dopo e durante la navigazione attraverso il Mediterraneo era accaduto quanto entrambi, da tempo, desideravano. Prima era stato solo uno sfiorarsi delle loro mani, poi un guardarsi negli occhi che non lasciava dubbi. E infine i loro corpi si erano incontrati.

Sulla nave e poi in Egitto William aveva scoperto che la felicità esisteva.

Il viaggio in Egitto era stato un’esperienza indimenticabile. Le piramidi di Giza, svettanti nel deserto. La Sfinge, semisommersa dalla sabbia. I grandi templi, come quello di Karnak, la cui immensità lo aveva abbagliato. Le feluche che scivolavano sul placido Nilo. Le carovane che emergevano dal deserto. Il simoun, il terribile vento che sollevava la sabbia e in un attimo cancellava il cielo. E sempre, accanto a lui, Gerald, la cui presenza rendeva tollerabile ogni disagio, dissolveva ogni malessere, accendeva i sensi. Gerald, che ormai era l’aria che respirava, l’acqua che beveva, il cibo che lo nutriva. Gerald, senza il quale gli sembrava impossibile poter vivere.

Ma non si sarebbero separati: c’era in Gerald una fedeltà assoluta, che a tratti quasi spaventava William. Gli pareva incredibile che un uomo così affascinante potesse essere tanto attaccato a lui, che non aveva nessuna virtù particolare.

Al ritorno in Inghilterra avevano deciso di mettersi a vivere insieme. Avevano incominciato a discutere su come organizzarsi, per evitare chiacchiere e maldicenze che entrambi volevano evitare, soprattutto per riguardo alle loro famiglie. Ma all'arrivo dell'inverno la malattia di William si era manifestata.

Il dottore era stato categorico. William rischiava di morire. Doveva rinchiudersi in casa, ma senza nessuna certezza di riuscire a superare l'inverno, o partire subito per un paese con un clima caldo e secco.

Gerald aveva organizzato tutto rapidamente e pochi giorni dopo erano partiti per l’Algeria. Il viaggio era stato un incubo, di cui William conservava ricordi frammentari, ma indelebili: il tempo era umido, il mare mosso, la salute continuava a peggiorare e la debolezza rendeva William preda di violenti attacchi di mal di mare. La febbre era salita e William aveva incominciato a delirare. Gerald lo aveva vegliato, giorno dopo giorno. William aveva temuto di non arrivare, ma c’erano momenti in cui desiderava morire, per porre fine alla sofferenza, perché Gerald non lo vedesse in quelle condizioni.

In Algeria si era ripreso, lentamente. Tre mesi dopo si sentiva pienamente in forze. Ma qualche cosa dentro di lui si era rotto. Aveva preso una decisione.

In estate erano ritornati in Inghilterra, per rivedere le loro famiglie. Gerald avrebbe preferito che rimanessero in Algeria. Per sempre, l'aveva detto. Non gli importava della casa, della famiglia, dell'Inghilterra. Voleva solo William. William gli aveva detto che sarebbero tornati in Algeria in autunno. Ma aveva già deciso di non tornare.

 

III

 

Rumore di passi, qualcuno entrava nella sala. William non si voltò. I passi si arrestarono di colpo. William intuì e si sentì gelare. Girò appena la testa, sperando di sbagliarsi. Non si sbagliava: Gerald era a pochi passi da lui, che lo fissava, immobile, un viso privo di espressione.

William distolse lo sguardo da Gerald e guardò la statua, senza vederla. Quando si sentì abbastanza sicuro di riuscire a dare alla sua voce la freddezza necessaria, parlò

- Ti credevo partito.

- Hanno dovuto rinviare la partenza.

William non disse niente. Sentiva lo sguardo di Gerald, fisso su di lui, ma continuava a guardare la statua. Perché gli era venuto in mente di tornare lì, dove si erano incontrati? Perché la nave non era partita? Perché Gerald non se ne andava? Perché, Cristo, perché?

Era immobile come la statua che aveva di fronte. Aveva la sensazione che, se si fosse mosso, sarebbe crollato a terra in mille pezzi.

Fu Gerald a proseguire, dopo un lungo silenzio   

- Scusa se ti disturbo. Non pensavo di trovarti qui. Non mi sarei permesso di importi la mia sgradevole presenza. Me ne vado subito.

Il tono sarcastico lo ferì, se lo ricordava troppo bene. Era lo stesso tono che lui aveva usato con Gerald nei tre giorni in cui l’amico era rimasto a casa sua. E fino a quel momento Gerald non gli si era mai rivolto con quel tono.

Chinò la testa.

- Mi dispiace.

Che senso aveva la frase che aveva detto? Nessuno. Soffriva, questa era la verità, ma non voleva di certo dirlo.

- Davvero?

Nuovamente il sarcasmo. William ebbe improvvisamente voglia di piangere. I suoi occhi fissavano il piedestallo della statua, ma non vedeva nulla.

- Gerald, devi andartene. La nostra storia è finita: io sono malato, Gerald.

- E che cosa vuol dire?

William sapeva di non essere in grado di spiegare. Gerald non avrebbe mai condiviso il suo punto di vista.

- Gerald, non rendere tutto più difficile.

- Scusa se mi permetto di interferire nelle tue scelte, come se mi riguardassero in qualche modo.

- Gerald, basta! Non così! È finita. Io ti amo, ma è finita.

Si morse il labbro. Cercava di trattenere le lacrime. Ci fu un momento di silenzio, poi Gerald replicò. Nella sua voce non c’era più sarcasmo, ora vibrava la rabbia.      

- No, tu non mi ami. Ami soltanto te stesso. Se mi amassi non mi avresti trattato come mi hai trattato.

William cercò di controllare il tremito della voce.

- Volevo che te ne andassi.

- Lo so, avevi deciso che dovevo andarmene. L'avevi deciso tu, perché quello che provavo io non aveva nessuna importanza. Nessuna importanza che tu mi dilaniassi, che mi votassi all'infelicità, che ogni tua parola fosse una coltellata nella carne. Nessuna importanza. Avevi deciso.

- Sono malato.

Perché Gerald non voleva capire? Non voleva trasformarsi in un fardello, essere un peso per lui. Si erano amati, erano stati felici, ora lui sarebbe morto e Gerald avrebbe trovato un altro.

- E allora. Che diritti ti dà questo?

- Gerald!

La sua voce era stata un urlo. Quella di Gerald era nuovamente fredda, sarcastica, mentre gli faceva il verso:

- William!

William si morse nuovamente il labbro per non urlare.

- Sono malato. Posso solo esserti di peso. Gerald, sai che cos’è stato quest’inverno. In viaggio, ad Algeri hai dovuto pulirmi, lavarmi. Gerald!

Ora c'era nuovamente rabbia nelle parole che Gerald gli lanciava addosso, come pietre per lapidarlo.

- No, non ho dovuto niente. Avrei potuto farlo fare a qualche servitore. Ma non volevo che ti toccassero. Vuoi saperlo? Curarti, assisterti, pulirti mi dava una felicità immensa. Se tu sapessi che cosa significa amare, non ti stupiresti, ma tu non lo sai, tu non ami.

Gerald aveva rinunciato a convincerlo, a spiegare. Aveva rinunciato a tutto, ma non a ferirlo. Lo amava troppo per risparmiarlo.

- Tu non ami nessuno, non hai mai amato nessuno. Il tuo orgoglio smisurato ti impedisce di amare. Non accetti di dovere niente a nessuno. Tu non sai che cos'è l'amore.

Si voltò e si mosse per uscire dalla galleria.

Ora aveva le lacrime agli occhi. Sentendo William che gridava il suo nome, si bloccò. Si voltò.

La vista era appannata, ma negli occhi di William vide le sue stesse lacrime.

 

2000

 

 

 

 

 

 

 

 

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