La palestra di boxe Non sopporto più quest’attesa. Mi chiedo come fa tutta quella gente che si siede su queste panche ad aspettare che qualcun altro decida della vita della persona che ama. Qualcuno che non sa, a cui non interessa sapere. Non riesco più a rimanere
fermo. Vorrei che quel fottuto giudice entrasse e leggesse la sentenza. Nel
momento in cui lo penso mi manca il fiato: e se dovessero condannarlo? Se lo vedessi
portare via, per gettarlo in prigione un’altra volta? Se fosse risucchiato in
quel pozzo nero da cui è uscito a fatica? Chiudo gli occhi. Non
reggo più. Cerco di pensare ad altro,
di tornare indietro a quattro anni fa, no, cinque, quando vidi Salvo per la
prima volta. Era un periodo di grandi
cambiamenti nella mia vita, tanti che mi pareva di
averne abbastanza per i dieci anni successivi. Non sapevo che il più grande
doveva ancora arrivare. A diciannove anni mi ero
diplomato e tra i venti e i ventidue avevo fatto di tutto. Dopo un viaggio
negli Stati Uniti, offertomi dai miei genitori come premio per la maturità,
avevo trovato subito lavoro: un amico di mio padre aveva accettato di
assumermi per sei mesi, per permettermi di fare un’esperienza. L’accordo era
che al termine del periodo il contratto non sarebbe stato rinnovato, ma era
comunque un’occasione importante, potevo incominciare a farmi le ossa. Con
mia grande sorpresa, quando i sei mesi si conclusero il proprietario decise
di assumermi e non, come mi spiegò, per fare un favore a mio padre, ma perché
aveva apprezzato molto il modo come mi ero dato da fare. Io rimasi senza
parole, incredulo all’idea di avere un posto fisso (perché tale divenne dopo
altri sei mesi) a vent’anni. Avendo un lavoro e uno
stipendio, la mia vita subì una svolta radicale. Incominciai a cercare casa,
perché desideravo essere del tutto indipendente: non che i miei genitori mi
rompessero le palle, ma volevo essere libero di non rientrare a casa la notte
o di portare a casa mia chi volevo, per fare quello che mi pareva
(essenzialmente una cosa, con diverse varianti), e dormirci pure insieme
tutta la notte, se mi garbava. Affittai un monolocale: un quarto piano senza
ascensore, in una casa vecchia, in una zona mal frequentata. Per me andava
benissimo e costava poco. Confesso che per due anni portai la biancheria a
lavare dai miei e scroccavo spesso pranzi e cene, dicendomi che per loro
sarebbe stato più facile accettare la separazione (sono sempre stato bravo a
inventarmi delle scuse). Sospetto che in realtà fossero felici di tirare un
po’ il fiato, sbarazzandosi almeno del secondogenito, visto che comunque gli rimanevano tre figli in casa. Come se un lavoro e una
casa non fossero novità sufficienti, decisi pure di iscrivermi ad una palestra di boxe, cosa che mia madre non avrebbe
mai accettato: adesso non dovevo più rendere conto a nessuno. Alla boxe mi
dedicai con impegno. Non partecipavo a gare, ma mi piaceva allenarmi e me la
cavavo abbastanza bene. A tutto pensavo, tranne
che all’amore, su cui ero piuttosto scettico. Avevo capito come funzionavano
le cose nel nostro mondo, non avevo nessuna difficoltà a trovare un compagno
per una serata o per un periodo breve e non mi aspettavo niente di più. La
fase romantica l’avevo superata, in modo un po’ traumatico, due anni prima e
per accasarmi c’era tempo. Prima volevo divertirmi un po’. Vidi Salvo il secondo anno
che frequentavo la palestra. Mi piacque subito, moltissimo. Era il tipo
d’uomo che fisicamente mi attraeva: una faccia da duro, con una cicatrice
alla tempia, il naso schiacciato (rotto) e un lobo dell’orecchio tagliato; un
corpo possente e la giusta quantità di pelo (ho
sempre avuto un debole per gli orsi). Lo vidi combattere contro Piero, uno
dei più forti. Combatteva bene, era determinato, ma molto corretto ed anche
questo mi piacque. Quella sera, a casa mia, Salvo entrò per la prima volta
nei miei sogni ad occhi aperti, contribuendo in modo sostanzioso a una delle
migliori seghe della mia carriera. Due giorni dopo, quando
ritornai in palestra, chiesi come casualmente notizie di lui ad Andrea, uno
degli allenatori. Mi disse che Salvo era appena finito in galera, per uno dei
tanti furti che aveva commesso. Non era la prima volta: era uscito da poco,
dopo aver scontato due anni, ma la conclusione di un altro processo lo aveva
riportato in prigione. Andrea aggiunse che uno come quello avrebbero
dovuto sbatterlo fuori dalla palestra e che non capiva perché il padrone
aveva accettato che ritornasse. Oltre tutto non
pagava neanche o, meglio, pagava prestandosi ad affrontare quelli che avevano
bisogno di allenarsi. Rimasi senza parole. Meno
male che avevo scoperto che era un delinquente, prima di avere avuto modo di
frequentarlo. Un delinquente. Già, per tutti Salvo era un delinquente. Ora conosco la storia di
Salvo. È una storia che a lungo ha provocato in me una reazione violenta di
rabbia e di rifiuto. Con il tempo la rabbia è svanita, ma ora, in quest’aula
di tribunale, riemerge prepotente. E sempre, ogni volta che penso al passato
di Salvo, provo la stessa angoscia dei giorni in cui lo scoprii. Si direbbe
che la vita si sia divertita a prenderlo a pugni con una perseveranza atroce. Salvo aveva dieci anni,
quando suo padre, dopo l’ennesimo violento litigio con la moglie, si tirò un
colpo di pistola davanti a lei e al figlio. Salvo non parlò più per tre mesi.
Sua madre si risposò due
anni dopo e quando Salvo frequentava la terza media, il patrigno lo violentò.
Salvo scappò di casa, fu ritrovato e riportato in
famiglia, dove subì nuove violenze. Nessuno ascoltò le sue richieste di
aiuto, che non seppe mai rivolgere alle persone giuste e neppure formulare in
modo chiaro. A scuola le cose andarono sempre peggio e ci furono altre fughe,
botte, furti e frequenti soggiorni in riformatorio e successivamente in
carcere. A trent’anni, quando lo
incontrai per la prima volta in palestra, Salvo aveva trascorso due anni in
riformatorio e sei in prigione. Quando lo rividi, un
anno dopo, gli anni di carcere erano diventati sette. Quasi un terzo della
sua vita tra riformatorio e galera e un marchio di delinquente appiccicato
addosso. Questo è il grosso, ma c’erano infinite altre cose, che venni a
sapere poco per volta, spesso in modo casuale, perché Salvo non è uno che si
compatisce e che si lamenta. Tutte insieme le cose che mi raccontò,
a spizzichi e mozzichi, formavano un carico spaventoso, che lo schiacciava. A volte, ora che lo
conosco come nessuno lo ha mai conosciuto, quando
penso a tutto quello che ha passato, mi viene da urlare. Non riesco ad
accettare che abbia sofferto tanto. Non riesco a pensare che tra poco dovrà
pagare di nuovo per ciò che un altro Salvo ha fatto. Ha già pagato per tutto
quello che può avere fatto, ha pagato prima di fare
del male, il capitale e gli interessi. Credo che Salvo si
dedicasse alla boxe per restituire un po’ dei pugni che la vita gli aveva
dato. Era una delle poche cose positive della sua esistenza. Tornò in palestra un anno
dopo, scontata la condanna, e il padrone lo prese di
nuovo. Gli voleva bene e questo mi parve strano, ma più tardi vidi diverse
altre persone volergli davvero bene. Salvo era scostante e rispondeva sempre
a muso duro, non era facile entrare in contatto con lui. Ma quando qualcuno
gli dimostrava veramente affetto e fiducia, lo ricambiava con una dedizione
senza limiti. Lo osservai combattere più
volte e lo apprezzai, ma credo che mi sarei accontentato di guardarlo da
lontano, perché, per quanto mi piacesse e mi eccitasse, mi faceva davvero
paura: non avevo mai avuto a che fare con un delinquente e ogni volta che lo
guardavo, mi tornava in testa quella parola. E poi una sera, quando
stavo per uscire dalla palestra, seppi che Salvo avrebbe affrontato Omar. Mi
fermai e segui lo scontro, che fu alquanto lungo. Omar vinse e questo era
normale: stava diventando un pugile professionista ed era uno dei migliori
che io conoscessi. Quando l’incontro finì,
era molto tardi, tutti erano già andati via. L’allenatore che aveva diretto
il match aveva fretta e mi chiese se potevo chiudere io la palestra: abitava
vicino allo studio in cui lavoravo e l’indomani sarebbe passato lui a
ritirare le chiavi. Acconsentii. Omar se ne andò senza cambiarsi: preferiva
lavarsi a casa. Salvo scese a farsi una doccia. Scesi anch’io, per dirgli che
lo avrei aspettato e che avrei chiuso io. So benissimo che ero curioso e
speravo di vederlo nudo. Lo avevo intravisto in altre occasioni e lo
spettacolo mi era piaciuto alquanto. Entrando nello
spogliatoio, lo vidi seduto su una panca, lo sguardo fisso nel vuoto. Non
c’era nessun altro e Salvo aveva deposto la sua maschera di duro. Io gli lessi in faccia tanta di quella sofferenza che mi
sentii male, fisicamente male. Salvo si accorse di me, mi
guardò e mi disse, con un tono molto duro: - Che cazzo hai da
fissarmi? Qualche cosa scattò in me
in quel momento. Sentii il bisogno di alleviare quella sofferenza che ora lui
nascondeva. Emerse il mio spirito da “buon samaritano”, come lo chiamavano
alcuni miei compagni di scuola. Ignorai la sua
aggressività e gli sorrisi, dicendo: - Ti ho visto prima contro
Omar, sei bravissimo. Salvo ghignò,
una smorfia cattiva. Si difendeva da ogni carezza, perché aveva imparato che
dopo arrivava uno schiaffo. E lui non ce la faceva più a prendere schiaffi.
Mi confessò, due anni dopo quel nostro primo incontro, che in quel periodo
pensava spesso di ammazzarsi, come suo padre. Sapeva come procurarsi una
pistola, anche se non aveva mai voluto averne una. - Bravissimo? A prenderle,
forse. Risi. - E no, a prenderle io sono molto più bravo di te. Salvo sorrise, questa
volta senza cattiveria, e vederlo sorridere mi fece piacere. Disse: - Sei
ancora giovane, ti farai. Quanti anni hai? - Ventuno. Salvo scosse la testa.
Credo che pensasse a quello che lui era dieci anni prima, già con un passato che
pesava come un macigno e un futuro senza speranza. Poi mi disse: - Non conti di farlo come
mestiere, vero? Non ha senso. - No, lavoro come grafico.
Ma mi piace la boxe. Ci fu un momento di
silenzio. Allora dissi: - Dario mi ha lasciato le
chiavi della palestra. Chiudo io, quando hai finito. - Ti spiace se mi faccio
la doccia? In quel momento non pensai
che potesse vivere in un posto in cui non aveva neanche l’acqua calda. Quello
che mi passò per la testa fu ben altro, ovviamente: l’idea che di lì a poco
l’avrei visto nudo. - No, figurati. Se non ti
dà fastidio, ti tengo compagnia. Un po’ mi vergognai di
quella frase. Salvo mi lanciò un’occhiata, ghignando. C’era di nuovo una luce
cattiva in quegli occhi. Probabilmente pensava che la mia gentilezza fosse
interessata e che io volessi qualche cosa da lui. - Ma no, va benissimo,
così mi insaponi la schiena. C’era scherno nelle sue
parole. Ci rimasi male. Cercai di metterla sul ridere. - No, non pensavo di fare
la doccia con te. Pensavo solo di aspettarti qui. Se preferisci salgo… Ma ormai in Salvo era
scattata la diffidenza. Mi rispose, quasi sarcastico: - Ma no, rimani, che è un
bello spettacolo. E dicendo così si slacciò gli stivaletti, poi si sfilò le calze, i
pantaloncini ed il sospensorio, rimanendo nudo. Era davvero un bello
spettacolo, Salvo è alquanto dotato, ma io mi sentivo molto a disagio. Non
potevo recitare la parte dell’innocente, ma davvero non ero sceso con l’idea
di fargli delle proposte. Mi sembrava che nel guardarlo non ci fosse niente
di male. Salvo mi provocò di nuovo: - Allora, che ne dici? - Salvo, per favore… Si avvicinò a me: - Scommetto che a questa
bella troietta piace prenderselo... Non aspettai che finisse.
Mi voltai e mi allontanai, dicendo: - Ti aspetto sopra. Uscii e salii al piano
superiore. Salvo arrivò dieci minuti
dopo. Pensavo che magari mi avrebbe chiesto scusa. Ma lui mi fissò e disse: - Se ci ripensi,
io sono sempre disponibile. L’arnese l’hai visto e ti assicuro che funziona
bene. Non mi aspettavo
quell’aggressività, non mi sembrava di aver fatto niente di così offensivo. Lasciai che uscisse, senza
dire niente, poi spensi la luce e uscii anch’io, umiliato ed
un po’ triste. Mi dissi che era solo un delinquente, lo mandai mentalmente a
cagare e pensai ad altro. Non sapevo quello che c’era dietro, non potevo
capire il suo comportamento, allora. Nei tre mesi successivi ci
ignorammo. Se non potevamo farne a meno, ci salutavamo,
io in modo molto neutro, lui con un sorriso di scherno. Devo dire che mi dava
molto fastidio e cercavo di evitarlo, ma mi piaceva guardarlo mentre
combatteva. E quando lo vedevo con Nino, il proprietario della palestra, mi
sembrava di vedere un’altra persona. E poi c’era un’altra
faccenda. Nonostante si dimostrasse così ostile nei miei confronti - o forse
proprio per questo - Salvo ritornava spesso nei miei sogni ad occhi aperti.
Non è che io non scopassi mai: avevo ventidue anni e non mi mancavano le
occasioni. Ma lavoravo, andavo in palestra, dove preferivo non scoprirmi,
avevo degli amici, mi piaceva andare al cinema e a teatro: insomma non avevo
moltissimo tempo per mettermi alla ricerca. In compenso però gli ormoni
andavano a palla, per cui accanto a quelle due volte la settimana in cui
rimorchiavo qualcuno, c’erano diverse occasioni in cui la mia mano destra era
la mia migliore amica. E Salvo, senza saperlo, contribuiva. E poi arrivò quella sera
di gennaio. Io ero stato sul punto di non andare nemmeno in palestra: la neve
che scendeva, il freddo cane e il buio non invogliavano certo ad uscire. Se non lo avessi fatto…
Lo feci, fortunatamente lo feci. Feci tutte le
scelte giuste quella sera, senza pensarci, come se qualcuno me le suggerisse. In palestra non c’era
quasi nessuno. Andrea ci annunciò che avrebbe chiuso prima. Io mi allenai un po’ con
Marco, mentre Omar si esercitava con Salvo. Poi io e Marco ci facemmo la
doccia e salimmo. Chiacchierammo un momento ed
intanto anche Omar e Salvo finirono. Salvo scese negli spogliatoi e quando
tornò vidi che aveva una borsa più grande del solito. Vedendola mi venne in
mente che avevo lasciato nello spogliatoio un sacchetto con due CD che volevo dare a un amico, tornando a casa. Salutai
Marco e scesi a prenderlo. Quando tornai sentii Andrea che diceva a Salvo,
irritato: - Ma neanche per idea. Non
puoi dormire qui. Non me ne frega niente se Nino ti lascia, Nino non c’è ed oggi il responsabile sono io. Va’
alla Caritas o dove cazzo ti pare. Uscii in fretta,
vergognandomi di aver ascoltato quelle parole. Fuori aveva smesso di
nevicare, ma soffiava un vento gelido. Avevo parcheggiato l’auto a pochi
passi: non era una zona frequentata ed era facile trovare un posto. Salii in
auto e accesi il motore. Pensai che Salvo non aveva
un posto per dormire e che in quel borsone doveva avere l’occorrente per la
notte. Non era così: in quella sacca Salvo teneva tutte le sue cose. Ma io
non avevo mai vissuto come Salvo e non sospettavo che da noi, in Italia,
qualcuno potesse avere come proprietà personale più o meno quello che io mi
ero portato negli USA per starci un mese. Anche in auto si gelava.
Aspettavo che la ventilazione liberasse i vetri dalla patina umida, quando
vidi Salvo uscire e svoltare in direzione opposta a quella in cui io mi
trovavo, senza guardare dalla mia parte. Mi chiesi dove stesse andando: la
strada portava alla Dora e non proseguiva. E poi mi sembrò di capirlo. Fu un pugno nello stomaco.
Misi in moto, anche se non vedevo quasi niente, lo raggiunsi e accostai.
Tirai giù il finestrino e gli dissi: - Salvo, ti do un
passaggio, sali. Salvo mi guardò. Per un
momento non disse nulla. Mi sembrava che il suo viso fosse del tutto
inespressivo, ma non lo vedevo bene, la via era poco illuminata. Poi rispose,
con un tono neutro: - Non ti preoccupare, non devo fare tanta strada. - Dai,
Salvo, sali. Sentii la sua solita voce
ostile e vidi - o immaginai - il sorriso strafottente - Che cosa c’è? Vuoi
prendertelo in culo, questa sera? Non ne ho voglia. Non riuscì a colpirmi.
Decisi che a quel punto era inutile girarci intorno e gli dissi: - No, Salvo, non voglio
questo. Ma se non hai un posto per dormire, posso offrirti un materasso e una
coperta. Poi, se domani hai proprio voglia di
gettarti nella Dora, puoi pure farlo. Aspettare un giorno che cosa ti costa? Mi guardò, senza
rispondere. Aprii la portiera. Lui non
si mosse. - Cazzo, Salvo, si gela,
mi vuoi far stare mezz’ora con la porta aperta? Salvo scosse la testa e
salì in auto, gettando la sacca sul sedile posteriore. Io feci inversione e mi
diressi verso casa. Stavo cercando qualche cosa da dire, ma Salvo mi
prevenne: - Come devo pagare? Te lo
metto in culo, te lo do da succhiare o tutti e due? Sei esoso o ti
accontenti? Mi inventai un ghigno,
anche se non ero abile come lui, e risposi: - Ma sai che sei proprio
stronzo? Salvo emise una specie di
grugnito e non disse niente. Rimanemmo in silenzio fino a che fummo sotto
casa mia. - Eccoci arrivati. - Qui? Pensavo che
abitassi alla Crocetta. La Crocetta è il quartiere
bene di Torino, dove, devo confessare, abitano i miei (non nella zona delle
ville però: in un bell’appartamento di corso Re Umberto). Mi guardai bene dal
dirlo a Salvo, mi guardai bene dal dirgli alcunché. Avrei solo potuto
ripetergli quello che avevo detto prima, ma avevo l’impressione che fosse
meglio tacere e portarlo a casa. Poteva rifiutarsi di salire e decidere di
andarsene. Aprii il portone. In quel
momento Salvo disse: - Mi aspettavo un bel palazzo
e invece... Il tono era ironico,
ancora ostile, ma meno aggressivo. Mi sembrò un passo avanti. Sorrisi e
dissi: - Risparmia il fiato per i
quattro piani di scale che dobbiamo farci. Salvo scosse la testa. - Neppure l’ascensore? - No e non ti aiuto a
portare la borsa. Non dicemmo più niente
fino a che entrammo in casa. Salvo diede un’occhiata
all’appartamento e in quel momento pensai che stavo
accogliendo un ladro. Salvo mi guardò negli occhi e mi parve che mi
leggesse nel pensiero, per cui dissi, in fretta: - Non so tu, io ho fame. Faccio
gli spaghetti. - Anche da mangiare? Come
devo pagare questo supplemento? Avevi parlato solo di materasso e coperta. Il tono era di nuovo
quello di prima, di quando gli avevo dato dello stronzo. - Ti dico subito quello
che devi pagare, così ci chiariamo. Mi guardò
interrogativamente, senza dire nulla, il solito ghigno strafottente stampato
in faccia. Gli dissi: - Devi stare zitto almeno
fino a che ci mettiamo a tavola. Prenditi un libro, se sai leggere; metti su
un CD; guarda la televisione. Fa’ quel che cazzo ti
pare, ma taci. Va bene? La mia reazione lo
divertì. Fece un cenno di assenso, ghignando. Si diresse verso la libreria e
prese un libro. Non me l’aspettavo. Avevo parlato di libri, perché sarebbe
stata la mia prima scelta, ma uno come Salvo non poteva essere molto
istruito. Non sospettavo la sua fame di cultura, la sua sofferenza per essere
stato tagliato fuori dal sapere molto presto. Nella borsa, tra le pochissime
sue proprietà, vi erano tre libri. Praticamente tutto ciò che possedeva al di
fuori del vestiario. Salvo si mise a sedere sul
divano, si immerse nella lettura dei racconti di Tabucchi e non disse più una
parola. Io preparai la cena, mentre mi chiedevo se non avevo fatto una
cazzata. Stavo accogliendo a casa mia un ladro, uno che mi detestava e mi
trattava a pesci in faccia. Che cosa avrebbe fatto durante la notte? Poteva
aggredirmi, derubarmi, uccidermi. Poteva violentarmi, visto che pensava che
io lo avessi invitato solo per scopare. L’idea di finire a letto con Salvo
non mi dispiaceva per niente, ma sapevo benissimo che subire una violenza è
terribile e non ci tenevo a provare. Misi la pentola sul fuoco
e incominciai a preparare gli spaghetti aglio ed
olio (una ricetta che dai miei non si faceva mai, mio padre detesta l’aglio).
Tirai fuori dal frigorifero i piselli al sugo che aveva preparato mia madre.
Devo confessare anche questa: mia madre ogni tanto preparava qualche piatto
che mi piaceva e me lo passava. L’invenzione del congelatore mi è sempre
apparsa una delle più importanti della storia, insieme a quella del
preservativo. Al momento di mettere gli
spaghetti nella pentola mi chiesi quanta fame avesse Salvo e decisi che mezzo
chilo era la dose giusta: se fossero avanzati, li avrei riciclati un altro
giorno. Lanciai qualche occhiata a
Salvo. Vidi che ogni tanto smetteva di leggere e guardava nel vuoto, poi
riprendeva. Quando tutto fu pronto
lanciai un sonoro: - Tutti a tavola! Salvo si sedette, con
un’aria da bravo scolaretto che mi fece sorridere. - Serviti, Salvo. Dopo ci
sono solo piselli rossi. Annuì, senza dire una
parola. - Ora puoi parlare, ma
solo per fare apprezzamenti sulla cucina, sulla casa e sul padrone di casa. Appena finii di dirlo mi
chiesi se non avevo fatto un errore colossale. Voleva essere una battuta, ma
come l’avrebbe intesa Salvo, se davvero era convinto che l’avevo
portato a casa mia solo per una scopata? Salvo disse, ironico, ma
non cattivo: - La cucina mi sembra
promettente, almeno se devo giudicare dal profumo. La casa è accogliente. Chiuse la frase in modo
brusco, a sottolineare che sul padrone di casa preferiva non dire niente.
Intanto aveva finito di servirsi. - Buon appetito, Salvo. Mi guardò, sorrise e
ricambiò l’augurio. Incominciammo a mangiare. La pasta mi era venuta
bene: Salvo si complimentò per la mia abilità di cuoco (c’era una certa
ironia) e fece il bis (senza ironia), per poi
svuotare il recipiente. Anche i piselli rossi furono divorati rapidamente.
Infine fu il turno della frutta. Tirai fuori i pasticcini che avevo comprato
il giorno prima (ebbene sì, sono goloso) e con quelli concludemmo la cena. L’atmosfera era più
rilassata ora, ma io sapevo che dovevo muovermi con cautela. Salvo non aveva
un posto per dormire. Per quella notte? Per tutte le notti successive? Dovevo
fare molta attenzione a chiedere. Era giovedì sera. Il
giorno seguente sarei andato a lavorare. E Salvo? L’avrei lasciato in casa
(con il rischio di ritrovarla svaligiata)? Gli avrei dato le chiavi (peggio
che andar di notte)? Lo avrei invitato ad andarsene quando uscivo io, promettendogli
di ospitarlo nuovamente la sera successiva, con il rischio che durante il
giorno si buttasse nel fiume? Che cazzo dovevo fare?
Sentivo la necessità di guadagnare tempo, così dissi che mi sarei lavato i denti.
In bagno, muovendo vigorosamente lo spazzolino, pensai al
da farsi ed elaborai una strategia ad alto rischio. Ma ormai mi ero
buttato, avevo voluto la bicicletta e ora mi toccava pedalare. Quando ritornai nella
stanza, Salvo mi accolse con uno strafottente: - Mi devo lavare i denti
anch’io? Capii benissimo il senso
della domanda, che era una provocazione: visto che gli avrei chiesto di
scopare con me, ci tenevo a che avesse un alito fresco? Dribblai la questione con un: - Vedi tu, il conto del
dentista non te lo pago di certo. Il dentifricio te lo regalo volentieri,
basta solo che usi il tuo spazzolino. Salvo si alzò e prese
dalla borsa il suo spazzolino. Mi fece vedere, senza dire una parola, che
aveva anche il dentifricio. Poi si chiuse in bagno. Mi dissi che forse anche
lui non sapeva tanto come muoversi. Mentre lui si lavava i
denti, tirai fuori un asciugamano pulito e presi da sotto il letto il secondo materasso. Lo trascinai dall’altra parte
della stanza (considerando le dimensioni, non era molto lontano dal mio
letto, ma doveva essere chiaro che avremmo dormito il più distante
possibile), lo coprii con un lenzuolo, ne misi un secondo sopra e infine ci
aggiunsi la coperta. Quando Salvo uscì, ero
seduto sul divano, con un libro in mano. Gli dissi: - Ti ho preparato il posto
letto. Quando vuoi puoi coricarti. Io leggo un po’, poi mi metto a dormire.
Se ti dà fastidio la luce, accendo quella vicino al letto. Il messaggio era
abbastanza chiaro e Salvo capì perfettamente. Non disse nulla, si riprese il
libro di prima e si mise a leggere al tavolo. Cercai davvero di leggere
un po’, ma sapevo che c’era ancora un problema da risolvere. Lasciai passare
almeno un quarto d’ora, poi mi lanciai: - Domani puoi rimanere qui, se ti va. Io tornerò verso le tre. Il
venerdì finiamo sempre presto. Salvo mi guardò. Non c’era
traccia di ostilità, ora. Mi illusi di aver vinto la guerra, mentre avevo
soltanto vinto la prima battaglia. - Esco anch’io quando esci tu. A che ora? Ero contento all’idea che
uscisse, non mi piaceva tanto il saperlo in casa da solo. - Verso le otto. - Per me va benissimo. - Puoi lasciare qui la
borsa. Qui incominciava il campo
minato: perché io non avevo parlato delle sere successive. Con quella frase
lasciavo socchiusa la porta, gli davo la possibilità di ritornare, anche se
non lo dicevo esplicitamente. - Non pesa molto. Anche la sua risposta era alquanto vaga, lasciava aperte tutte le opzioni. - Se non ti serve
portartela dietro, lasciala qui. Se decidi di andare a dormire da un’altra
parte, puoi passare a ritirarla. In ogni caso è inutile che tu te la trascini
tutto il tempo. Neanche ora l’avevo detto
esplicitamente, ma ormai era chiaro che lui avrebbe potuto dormire da me
anche la notte seguente: avevo aperto del tutto la porta ed ero soddisfatto
di come l’avevo fatto. - Quindi pago domani sera? La replica immediata, il
tono nuovamente ostile, l’espressione strafottente, tutto concordava nel non
lasciare nessun dubbio: eravamo al punto di partenza. Io l’avrei mandato
volentieri a farsi fottere, ma ero sicuro che se se
ne fosse andato in quel momento, si sarebbe ammazzato. Allora dissi: - Sì, anche domani sera ti
tocca stare zitto. Anzi, non mi dispiacerebbe se
pagassi in anticipo, come in tanti alberghi, e tacessi di qui fino a domani
mattina. Credo che nel mio tono
trasparisse una certa irritazione, anche se cercai di contenermi. Salvo annuì, sorridendo in
modo beffardo, ma meno ostile. Qualche minuto dopo, mi
spogliai, dandogli ostentatamente la schiena, e mi stesi, senza guardare
dalla sua parte. - Spegni la luce, quando
ti corichi. Spense dopo pochissimi
minuti. Solo allora parlò: - Buona notte, Ezio. E
grazie. Tirai un sospiro di
sollievo. - Buona notte. Il giorno dopo Salvo
lasciò davvero la borsa da me. Io gli dissi che dalle tre in poi sarei stato
a casa, che al massimo sarei uscito per fare un po’ di spesa nel quartiere,
quindi poteva tornare quando voleva. Mi rispose che se non mi avesse trovato,
sarebbe ripassato più tardi. Non c’era più ironia. Quando lo vidi scomparire,
pensai che era andata bene, anche se era stata una
faticaccia. Ritornò solo verso le sei.
Mi parve particolarmente abbattuto, più ancora della sera precedente. In
realtà lo nascondeva di meno, semplicemente. Mi chiese se potevo
ospitarlo ancora. - Certo, non c’è problema.
Il tuo lussuoso letto si prepara in fretta. E sei arrivato in tempo per la
cena. Salvo era a disagio. - No, non mangio. - Come, non mangi? Non mi
dire che vuoi metterti a dieta. Salvo mi lanciò un’occhiata,
poi si alzò, prese la borsa e disse: - Me ne vado. È meglio. - Salvo, ma che senso ha? Reagì con rabbia. - Sono cazzi miei, solo
miei. Lasciami in pace. Esitò un attimo, prima di
uscire, ed io mi aggrappai a quel breve momento. Mi misi quasi davanti a lui,
ma un po’ spostato, in modo da non bloccargli il passaggio: temevo che,
vedendomi davanti alla porta, mi spingesse via e se ne andasse. - Salvo, possiamo parlare?
Ti costa… Non proseguii, perché
Salvo mi prese per il bavero e mi spinse contro la porta, sussurrandomi
rabbioso: - Fatti i cazzi tuoi,
stronzo! Non ho voglia di scopare con te. Non te lo metto in culo neanche se
mi ospiti. Salvo era fuori di sé e io pensai che se davvero mi odiava tanto, allora non
potevo fare nulla per lui. Lasciai che la mia rabbia
debordasse: - Io non te l’ho chiesto,
ma tu non riesci a pensare che qualcuno ti possa fare un favore, anche
minimo, senza volere qualche cosa da te. Sei bacato nella testa. A pensarci dopo, fui
davvero incosciente a parlare così a Salvo, che era parecchio più forte di me
e in quel momento era furente: avrebbe potuto spaccarmi la faccia. Ma le mie
parole ebbero un effetto contrario. La rabbia svanì. Salvo mi mollò, chinò la
testa e disse: - Scusami,
Ezio. Sì, hai ragione tu, sono bacato nella testa. Ed è meglio se me ne vado. Per uscire Salvo avrebbe
dovuto spostarmi dalla posizione in cui mi aveva messo lui, per cui esitò un
attimo. Approfittai di questo vantaggio per dirgli: - Possiamo sederci sul
divano e parlare un momento? Puoi smetterla di considerarmi come una troia
alla ricerca di un bel cazzo e vedermi come uno a cui piacerebbe darti una
mano? Salvo rialzò il capo e mi
fissò a muso duro: - E perché vuoi darmi una
mano? Siamo amici, forse? Che cosa sei, il buon
samaritano? Non ci credo. A quel punto ne avevo
abbastanza. Mi spostai, spalancai la porta e dissi: - Se la pensi così, non ti
trattengo. Salvo prese la sacca e
uscì. Sapevo che non l’avrei più rivisto, ero sicuro che si
sarebbe ammazzato. Mi sentii angosciato. Che cosa potevo dire? Mi
sfuggì un: - Salvo! Lui si voltò. Nessuna
rabbia nei suoi occhi, solo un mare di tristezza. - Salvo, torna dentro e
parliamo come se fossimo due persone sensate e non due teste di cazzo. Che ne
dici? Un sorriso amaro, una
smorfia. - Io sono di certo una
testa di cazzo. E tu pure. - Va bene, allora possiamo
intenderci. Gli sorrisi e gli feci
cenno con la testa di rientrare. Salvo esitò ancora un attimo, poi rientrò.
Era stanco, mortalmente stanco, e non reggeva più.
Solo la rabbia gli dava lo stimolo a reagire, ma non durava, ormai aveva
esaurito le energie anche per quella. Posò la borsa e si accasciò sul divano.
Si prese la testa tra le mani e rimase fermo a guardare nel vuoto. Mi sedetti su una sedia, a
una certa distanza. Non volevo mettermi vicino a lui, temevo che reagisse
male. Lo lasciai un buon momento tranquillo: non per un calcolo o una precisa
scelta; molto semplicemente non sapevo che cazzo dire. Poi mi lanciai. - Salvo, hai voglia di
spiegarmi la tua situazione, così vedo se riesco a darti una mano? Scosse la testa. - Lascia
perdere, Ezio. Non c’è niente da fare. Il tono non era
aggressivo, ma era talmente spento, che mi fece rimpiangere la violenza di poco prima. Non riuscivo a reggere la sua infelicità. Non
mi chiesi, in quel momento, perché la sofferenza di Salvo mi colpiva così a
fondo. Senz’altro non avevo mai avuto occasioni di affacciarmi su un abisso
come quello in cui Salvo precipitava, ma c’era anche altro, di cui non avevo
ancora coscienza. - Vediamo un po’, Salvo. Tu sei senza lavoro e senza casa. Ed anche senza famiglia e
senza amici, mi venne da pensare, se sei qui da me,
un perfetto sconosciuto che non ti va a genio. Salvo rispose senza
guardarmi. - Oh, un lavoro lo trovo.
Ho gli amici che me lo offrono. Capii benissimo il genere
di lavoro e di amici a cui faceva riferimento Salvo. - Che cosa sai fare, Salvo? Questa volta alzò la testa
e mi fissò: - Scassinare una
cassaforte, forzare una serratura, disattivare un allarme, rompere un vetro per
aprire una finestra, arrampicarmi su un muro, svuotare cassetti. Ma di tutto
questo ne ho abbastanza. - Ma sei forte, sei un
bravo pugile. Non hai mai pensato di lavorare, che so, come buttafuori in una
discoteca, guardia del corpo? Salvo rise. Una risata
amara, che mi fece male. - Certo, Ezio, una guardia
del corpo che ha passato metà della sua vita in galera. Ottime referenze.
Anche in una discoteca. Se non conosci nessuno non ti pigliano. Appena sanno
che sei stato in galera, un calcio in culo e vai. Non sapevo che cosa dire.
Non avevo soluzioni da proporre. Andavo di rado in discoteca, un ambiente che
non ho mai amato, e di certo non conoscevo gestori a cui potessi raccomandare
Salvo. - Che studi hai fatto? - Riformatorio e galera.
Laurea a pieni voti. Salvo aveva davvero
studiato in riformatorio ed era anche stato un buon allievo, ma era uscito prima
di ottenere un diploma. E allora aveva ricominciato la sua solita vita,
scappando dal suo aguzzino. Ma tutto questo lo avrei scoperto dopo. Non sapevo che cosa fare e
cercavo disperatamente una soluzione. Mi chiesi se era il caso di rivolgermi
a mio padre, anche se non mi andava tanto l’idea. Mio padre era dirigente
industriale, aveva parecchi amici ben piazzati, qualcuno in grado di dare una
mano a Salvo l’avrebbe trovato. Non l’avrebbe fatto volentieri, ammesso e non
concesso che accettasse di farlo. E poi mi venne un’altra idea, folle,
assolutamente folle, ma mi sembrava che potesse
funzionare. L’idea era Italo. Italo
era uno dei figli della portinaia della casa in cui abitavano i miei nonni.
Quando il marito della custode era morto improvvisamente, lasciandola carica
di debiti, erano stati i miei nonni a pagare gli studi ai due ragazzi. Italo,
che di studiare aveva poca voglia, non era andato molto lontano. Ma la sua
gratitudine nei confronti della mia famiglia era immensa, più ancora di
quella di sua sorella Rachele, diventata dottoressa, che pure era sempre
disponibile nei nostri confronti. Italo faceva il fabbro.
Aveva un laboratorio, in cui lavoravano due operai. Mi dissi che se Salvo
sapeva forzare le serrature, magari era anche in grado di ripararle o di
sostituirle. Ragionamento idiota, me ne rendo conto.
Ma c’era un altro elemento a spingermi in quella direzione: Italo aveva un
cuore grande come una casa e tra i suoi apprendisti era passato di tutto. Non
riusciva a vedere un ragazzo in difficoltà senza darsi da fare per aiutarlo.
E aveva un debole per me, probabilmente perché, come lui, non avevo una
grande passione per lo studio: tra qualche anno sarò l’unico della famiglia a
non avere una laurea. - Senti, Salvo, se tu vuoi
un lavoro onesto, ho un amico che forse potrebbe
aiutarti. Parlerò con lui. Salvo mi guardò, dubbioso.
Da tempo aveva smesso di sperare. Decisi di forzare i tempi.
Cercai il numero di Italo e gli telefonai sul cellulare. Era appena arrivato
a casa e mi fece piacere sentire il calore nella sua voce quando mi
riconobbe. Pensò che avessi qualche problema con una serratura e mi disse che
sarebbe venuto subito (anche se era venerdì sera e aveva smontato), ma io gli
risposi che avevo bisogno di parlargli per un amico. Combinammo che sarei
passato da lui. Gli andava bene la sera stessa, voleva invitarmi a cena, ma
io dissi che sarei passato verso le nove. Speravo che non vedesse qualche
programma alla televisione, a quell’ora. Io non avevo un’idea di che cosa
dessero: a casa mia la televisione era un soprammobile che di rado entrava in
funzione, avevo di meglio da fare. Salvo sembrava smarrito: - Ezio, non voglio che perdi tempo… - Se trovo qualche cosa,
non è perdere tempo. Se non trovo niente, avrò rivisto un vecchio amico.
Adesso però corro a comprare i gianduiotti prima che chiudano. Italo amava molto i
gianduiotti ed io non volevo presentarmi a mani vuote. Comprai i cioccolatini e
tornai a casa. Preparai la cena. Salvo mi sembrava sempre più in imbarazzo.
Deposta la maschera ostile, non sapeva più come muoversi. Parlammo, poco, di
cose insignificanti, poi presi l’auto e andai a casa di Italo. Italo non mi deluse.
Quando gli dissi che gli proponevo un ladro, con anni di galera alle spalle,
come aiutante, fu alquanto sorpreso, ma non si tirò indietro. Salvo avrebbe
incominciato lunedì. Abbracciai Italo quando me lo disse e corsi a casa,
felice, per dare la buona notizia a Salvo. Gli parlai di Italo e gli
dissi che lo avrebbe preso in prova. Salvo non manifestò la gioia che mi
aspettavo: dei due ero molto più euforico io. Salvo era confuso e a disagio.
Non era più ostile, ma insieme alla strafottenza
aveva perso ogni sicurezza. Non sapeva che cosa dire, come comportarsi. Gli dissi che a questo
punto sarebbe rimasto a pensione da me per qualche giorno. Dopo che avesse
incominciato a lavorare, avrebbe deciso il da farsi. Io non ci sarei stato né
il sabato sera, né la domenica, per cui era bene che prendesse un paio di
chiavi. Il successo mi aveva dato alla testa e devo dire che, guardando lo
smarrimento di Salvo quando gli lanciai il mio secondo paio di chiavi,
avvertii un senso di trionfo. Ero comunque abbastanza lucido per dirmi che correvo il rischio di pentirmene amaramente.
Salvo non usò le chiavi.
Le lasciò sulla libreria. Mi chiese se non mi dava fastidio che lui rimanesse
in casa. Aggiunse che se davvero fosse riuscito a guadagnare qualche cosa, mi
avrebbe pagato l’ospitalità. Contava di non rimanere a lungo, ma in quel
momento non aveva un euro, né la possibilità di procurarselo in modo onesto. Gli dissi di non
preoccuparsi: per una settimana era mio ospite e
basta, poi avremmo visto. Al massimo mi sarei fatto aiutare da lui a portare
le borse della spesa settimanale. Sabato e domenica
passarono senza problemi. Salvo rimase in casa, attento a non occupare troppo
posto: le sue cose rimanevano in valigia e le tirava fuori solo quando
servivano, per poi rimetterle al loro posto. L’unico suo
oggetto che non ripose era l’asciugamano (aveva il suo, per cui non usò mai
quello che avevo tirato fuori per lui), ma questo solo perché era bagnato.
Cercava di non essere d’ingombro, mi ripeté più volte che se dovevo ricevere
gli amici lui poteva uscire. A parte questo, parlò pochissimo ed io mi tenni
a distanza. Il sabato passò gran parte
del tempo a leggere, dopo avermi chiesto se poteva prendere qualcuno dei miei
libri. La domenica io uscii in mattinata e ritornai
solo la sera, ma Salvo non si mosse e lesse molto, perché quando tornai aveva
un nuovo libro tra le mani. Arrivò infine il lunedì.
Lo accompagnai da Italo, feci rapidamente le presentazioni, poi andai al
lavoro, con l’accordo che ci saremmo ritrovati a casa mia. Io lo avevo
forzato a prendere le chiavi, perché a volte mi fermavo più a lungo in
ufficio: quando avevo un lavoro da finire o un problema da risolvere, non
badavo tanto agli orari. Quella sera arrivai dopo
Salvo. Ero impaziente di sentire come si era trovato. Salvo era molto turbato.
Italo lo aveva colpito profondamente. Salvo temeva di non essere all’altezza.
Aveva qualche competenza in materia, è vero, ma di certo non quanto era
necessario per un fabbro. Italo gli aveva detto che lo avrebbe fatto lavorare
con lui e aveva incominciato a dargli alcune lezioni. Salvo mi espresse il suo
disagio, il suo senso di inadeguatezza e per la prima volta parlammo come due amici. Fui molto attento a non essere
invadente: mi limitai a incoraggiarlo, a dirgli che sarebbe diventato un buon
fabbro e che avrebbe potuto guadagnarsi da vivere. Salvo mi disse ancora che
gli spiaceva non poter contribuire in nessun modo alle spese di casa. Aggiunse anche che poteva andarsene: Nino era di certo
tornato e lo avrebbe lasciato dormire in palestra. Io risposi solo che non doveva porsi tanti problemi, per me andava benissimo così. Un problema c’era, eccome.
Io non ricevevo spesso gli amici a casa: andavamo fuori o da qualcun altro.
Ma l’appartamento mi serviva per i miei ospiti notturni. Potevo dire a Salvo
di andare a fare un giro, in quell’inverno gelido, perché io volevo scopare?
Di consumare all’aperto con temperature intorno allo 0, non si parlava
neanche, a parte il fatto che l’idea non mi piaceva per niente neanche
d’estate, a meno di non essere in campagna. Certo, potevo sempre trovare
qualcuno che mi ospitasse, ma chi mi conosceva sapeva che io avevo una casa e quindi si aspettava di venire da me. Insomma, la mia vita
sessuale ebbe un brusco crollo ed io mi trovai in crisi di astinenza proprio mentre
condividevo il tetto con un maschio che fisicamente mi piaceva un sacco e
che, adesso che non faceva più lo stronzo, mi attirava ancora di più. Mi
attirava troppo, me ne rendevo perfettamente conto: l’idea di ritrovarlo a
casa la sera mi faceva piacere e, anche se parlavamo poco, leggere vicini sul
divano era bellissimo, più che uscire con gli amici. Mi stavo innamorando, questa era la verità. Visto tutto quello che
c’era stato, di sicuro non avevo nessuna intenzione di lasciar capire a Salvo
che mi piaceva: avrebbe avuto una conferma che la sua idea iniziale era
giusta e che lo avevo ospitato solo per scopare con lui. Mi ero cacciato da solo in
un bel guaio. Perfino le seghe diventavano più difficili: vivevo in un
monolocale e noi due tornavamo più o meno alla
stessa ora. Non mi andava l’idea di essere sorpreso da Salvo mentre facevo
sesso con la persona che conoscevo meglio. Quanto a chiudermi in bagno per
farmi una sega, mi sarebbe sembrato un ritorno all’adolescenza e non potevo
accettarlo. Eppure non desideravo che
Salvo se ne andasse, no, volevo che rimanesse, anche se ero perennemente
infoiato e una notte venni mentre sognavo Salvo nudo in palestra: ero
regredito di qualche anno, a quando la mia vita sessuale era fatta più di
sogni che di esperienze. E, anche se mi costava fatica ammetterlo, avevo
sempre meno voglia di cercare altro, perché quello che davvero volevo era lì,
nella mia camera, dormiva a pochi metri da me. Il rapporto con Salvo
faceva progressi di giorno in giorno. Lui non diffidava più di me e parlavamo
un po’ di tutto. Sul suo passato diceva poco, ma faceva riferimento alla
galera e al riformatorio. Mi parlò anche degli studi interrotti. Della
famiglia invece non mi raccontò nulla, se non che suo padre era morto e che
sua madre si era risposata. Quando gli chiesi se non la vedeva, lui disse di
no, senza aggiungere altro. Evitai di tornare sull’argomento. Una sera mi chiese scusa
per quanto mi aveva detto in passato, ma io tagliai corto. Andammo al cinema, due
volte: riuscii a vincere la sua resistenza e lo convinsi ad accettare che gli
offrissi l’ingresso. Gli prestai anche una piccola somma per le sue necessità
quotidiane. In palestra andavamo
sempre insieme, con la mia auto: era piuttosto lontana da casa mia.
Ovviamente tornavamo anche insieme, ma io facevo
sempre in modo di fare la doccia un po’ prima o un po’ dopo di Salvo. Se lui
era impegnato in un incontro, scendevo a lavarmi e mi cambiavo, poi lo
aspettavo di sopra. Se finivamo insieme, lasciavo che lui scendesse prima e aspettavo
che fosse tornato, chiacchierando con qualcuno. Salvo si rese
perfettamente conto delle mie manovre, ma non disse nulla. La nostra convivenza
proseguì: la settimana era diventata un mese e Salvo, ricevuto il primo
salario, stava cercando una sistemazione, dopo aver invano tentato di pagarmi
l’ospitalità. Io accettai un contributo solo per il vitto, ma rifiutai altro. In quei giorni stavo
andando in panico all’idea che lui partisse, ma mi rendevo conto che non
potevo trattenerlo. Febbraio fu meno freddo di
gennaio, ma a metà mese ci fu di nuovo una nevicata. Io avrei rinunciato all’allenamento, ma Salvo doveva andare in palestra, per un
incontro con Alessio, uno dei giovani migliori. Mi disse che sarebbe andato
in tram, ma io decisi di accompagnarlo. Non ero molto sicuro che fosse una
buona idea: nevicava come a Torino non si vedeva da anni. In palestra non c’era
quasi nessuno. Io mi allenai un po’ con Andrea, che andò via presto. L’allenatore mi chiese se quella
sera ero disponibile a chiudere la palestra, come avevo fatto diverse altre
volte, ed io acconsentii. L’incontro tra Alessio e Salvo sarebbe durato
ancora a lungo, per cui decisi di scendere e fare la doccia, in modo da non
trovarmi negli spogliatoi con Salvo. Proprio mentre stavo avviandomi Alessio
fece un movimento sbagliato e Salvo, senza volerlo, lo prese in pieno.
Alessio crollò a terra. Niente di grave, per fortuna, ma
Alessio perdeva sangue dal naso e l’incontro fu interrotto. Appurato che Alessio
stava bene, l’allenatore scappò via ed io e Salvo accompagnammo Alessio negli
spogliatoi. Non aveva bisogno di aiuto, si era ripreso, e si limitò a lavarsi
la faccia, dicendo che si sarebbe fatto la doccia a
casa. Così io e Salvo ci
trovammo da soli negli spogliatoi della palestra, ormai vuota. Salvo disse: - Non occorre che tu
salga, Ezio. Possiamo fare la doccia tutti e due adesso. Scusami per le
cazzate che ti ho detto quando non ti conoscevo. Pensavo davvero che tu
volessi solo scopare. O magari volevo soltanto ferirti. Ho la testa bacata,
come hai detto una volta. Decisi di essere anch’io
sincero: - Salvo, io sono gay e quella sera mi piaceva l’idea di vederti nudo. Ma
davvero non pensavo ad altro. Salvo mi guardò un
momento, senza parole. Per un attimo pensai che fosse uno dei tanti che
odiano i gay. Nel qual caso era meglio che venisse
fuori subito: ero già fin troppo innamorato. Ma Salvo sorrise e disse: - Va bene, allora posso
ripagarti dell’ospitalità facendomi vedere nudo. Però ti spogli anche tu,
così mi ripaghi per la compagnia che ti tengo da un mese a questa parte. Non c’era nessuna traccia
di ostilità nel tono, c’era invece molta dolcezza ed
un po’ d’ironia. Incominciò a spogliarsi,
sempre sorridente. Io feci altrettanto, ma ero imbarazzato. Quando fummo nudi
entrambi, mentre cercavo di controllarmi e soprattutto di non fissarlo in
basso, perché il mio corpo avrebbe reagito immediatamente, Salvo mi disse: - Anch’io sono gay, Ezio, e mi spiace molto che tu voglia solo vedermi
nudo. A me piacerebbe andare oltre. Perché mi piaci molto. Sotto ogni
aspetto. Rimasi senza parole.
Riuscii solo a spiccicare un penoso: - Salvo! Lui mi guardò e disse: - No? Sorrisi: - Sì, sì, sì. Rimanemmo per un attimo
fermi entrambi. Poi Salvo si avvicinò. Io gli misi le mani sulle guance e ci
baciammo. Avevamo a casa (mia, ma a questo punto potevo
dire nostra) un bel letto, abbastanza ampio per farci l’amore comodamente e
per dormirci in due. Ma il bacio divenne un abbraccio e il contatto con il
corpo di Salvo fu la classica scintilla vicino all’erba secca. Da bruciare ce
n’era, tanto: un mese di astinenza quasi totale aveva preparato il terreno
per un incendio devastante, che mi avvolse in un attimo. Così, lì, in
palestra, su una scomoda panca, ci amammo con tutta la violenza del nostro
desiderio. So che alla fine urlai,
quasi senza rendermene conto, trascinato nel vortice di un piacere immenso. E
su di me sentii che anche Salvo veniva, con un grugnito sordo. Passarono alcuni minuti
prima che Salvo, accarezzandomi, dicesse: - Grazie, Ezio. Non ho mai… Non completò la frase. Io
annuii, ancora esausto. Uscì da me ed entrambi andammo verso le docce. Ci lavammo a vicenda e
finì com’era inevitabile che finisse: tutti e due
nuovamente travolti dal desiderio, prendemmo ad accarezzarci, baciarci,
morderci, leccarci, finché venimmo nuovamente, l’uno contro il ventre
dell’altro. Questo non ci impedì, a
casa, di provare come veniva a letto. Quattro anni passano in
fretta. Se sei felice, volano. Ed io ero felice come non lo ero mai stato,
una felicità che potevo stringere tra le dita, che aveva il volto di Salvo,
le mani di Salvo, il sorriso di Salvo, l’uccello di Salvo, una felicità molto
virile, dotata di un magnifico paio di coglioni. Certo, ci furono anche
momenti di angoscia: quando Salvo mi raccontò di suo padre e poi del patrigno
(sei mesi dopo il nostro primo incontro ravvicinato), quando mi parlò delle sue
esperienze in riformatorio e in carcere, io stetti male, fisicamente male,
per giorni. Ci furono tensioni in famiglia, soprattutto con mio padre, che
già aveva accettato a malincuore la mia
omosessualità e che non riusciva a capire come io avessi potuto scegliere
come compagno Salvo, un fabbro con anni di galera alle spalle. Solo da mio
fratello Giovanni ricevetti un appoggio incondizionato, gli altri due e mia
madre avevano evidentemente molti dubbi, ma li tenevano per sé. Tutto questo
non aveva importanza, non erano problemi, solo le spine di una splendida rosa
che tenevo tra le mani. Il fulmine arrivò del
tutto inatteso. Un nuovo processo per un furto commesso sette anni fa. Il
rischio di passare un altro anno, forse due o tre in galera. Salvo rimase
tranquillo o almeno nascose il suo turbamento. Italo gli disse subito che, se
lo avessero condannato, lo avrebbe ripreso non appena fosse uscito. Salvo
sembrava avere un’unica preoccupazione: il nostro rapporto. Temeva che io mi
potessi allontanarmi da lui, se fosse finito nuovamente in prigione. Quasi lo
insultai quando me lo disse. Io andai del tutto in
tilt. Mi parve di impazzire. Non potevo accettare il pensiero che Salvo
ritornasse nell’inferno del carcere. Non era solo l’idea di perderlo per mesi
o anni: troppe cose mi aveva raccontato del carcere
perché io potessi accettare di saperlo là dentro. Corsi da mio padre, che di
fronte alla mia disperazione non disse una parola contro
Salvo e contattò il responsabile di uno degli studi legali più
importanti di Torino, chiarendo che avrebbe pagato lui il conto. Lo
abbracciai con le lacrime agli occhi. Il grosso nome del foro mi affidò a un
giovane avvocato del suo studio. Pensai che non volesse assumersi un caso da
poco, vista la sua posizione, ma la sua scelta era giusta: Tiziano,
l’avvocato che ha difeso Salvo, ha seguito la causa con passione e non potrei
immaginare una difesa migliore. Ha ricordato che la pena deve contribuire al
riscatto del colpevole e che in questo caso riporterebbe soltanto indietro
Salvo, cancellando tutta la strada che ha fatto e facendolo
ripiombare in quella realtà di colpe e punizioni da cui è riuscito a uscire:
se questo discorso non ha fatto breccia, davvero non so che cosa avrebbe
potuto dire. Di sicuro ha colpito il pubblico ministero, che nella sua
arringa ha trattato Salvo in modo ben diverso dagli altri imputati. Spero che
abbia fatto effetto anche la testimonianza di Italo, che è stato felice di
deporre: Italo parla con il cuore e il suo modo diretto di comunicare deve
aver convinto il giudice ed i giurati. Deve, perché
se non è così… Ho passato questi mesi in
delirio e Salvo ha dovuto in continuazione consolare me, per la pena che
rischia lui. Il momento è arrivato.
Vorrei scappare. Ho paura, una paura terribile. Mio
fratello Giovanni mette una mano sulla mia e la stringe. Gli voglio un bene
dell’anima. Sono tutti qui, i miei, tutti: mio padre che non salta mai un
giorno di lavoro, mia madre che deve avere la febbre a quaranta per non
andare a scuola, Luisa che quest’anno ha la maturità, Giovanni, che ha
chiesto un giorno di permesso, e Francesco, che ha saltato le lezioni
all’università. Tutti qui ed io gli sono grato di
questa presenza. Salvo non ha nessuno della sua famiglia, ma ormai la sua famiglia siamo noi. Il giudice legge infine la
sentenza. Quando sento che Salvo viene condannato, anche se lo sapevo già -
ha confessato tutto, come potrebbe essere diversamente? - mi manca il fiato.
Faccio fatica a seguire il resto, devo chiedere a Giovanni una conferma. No,
non ho capito male, Salvo non tornerà in carcere.
Considerando che ha un lavoro onesto, sconterà la condanna a casa nostra,
potendo uscire per lavorare e in alcuni altri orari, prefissati. Insomma, una
specie di arresti domiciliari. Essenzialmente dovrà rimanere molto di più a
casa. Che cosa cambierà? Andremo poco al cinema; non usciremo molto con gli
amici, dovranno venire a trovarci loro; non andremo in vacanza. Se fossi
lucido, direi: - E chi se ne fotte? Ma non lo sono. Sto piangendo, di
sollievo. Non mi accorgo nemmeno che ci siamo alzati, che siamo fuori
dall’aula, che Salvo è davanti a me e mi abbraccia. Solo la sua stretta mi dà
un po’ di calma. |