L’erede dei Medina

 

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La stanza è ampia, con due grandi finestre che si aprono sul giardino del palazzo. Sull’alto soffitto a volta la luce incerta delle candele illumina la dea Diana che insegue un cinghiale, accompagnata dal suo seguito di ninfe armate di arco e frecce. Su una parete, il letto a baldacchino ha grandi tendaggi di velluto rosso, completamente aperti. Sulle lenzuola di tela di Fiandra, la marchesa di Medina si contorce, geme e farfuglia parole che non riescono a uscire nitide dalle labbra secche.

Rosa, la levatrice, incoraggia la donna, mentre la cameriera Maria le passa il panno umido sulla fronte sudata e le versa qualche goccia d’acqua sulle labbra. La marchesa è sfinita. Ha superato i quarant’anni e il travaglio di questo parto che dura da tutta la notte la sfianca. Rosa sente che la testa del bambino si sta affacciando e pungola la donna, che la guarda inebetita dalla fatica e dal dolore.

Infine la testa esce e la levatrice può accompagnare il corpicino che lascia la madre.

Appena lo vede, la cameriera grida, felice:

- Un maschio, un maschio!

Tutti sanno che il marchese attende l’erede.

La levatrice mette il bambino a testa in giù e gli dà un colpo per farlo piangere, ma non si sente nessun suono. Il bimbo non reagisce. La donna riprova, nervosa. Nulla.

Il corpicino rimane inerte. Ogni sforzo è inutile. La marchesa ha partorito un corpo senza vita.

Maria scoppia in singhiozzi.

La marchesa maledice la levatrice e la cameriera. Non ha più voce per urlare, non ha più forze per colpire, vomita loro addosso improperi impastati di rabbia e frustrazione. La levatrice rimane ad assisterla, la cameriera lascia la stanza: deve annunciare al padrone che il bimbo è nato morto.

Maria trema, conosce le collere del marchese, la sua ferocia. Prima di bussare alla porta si ferma un momento, per calmare l’ansia. Deve farsi forza per battere la mano sulla porta intarsiata.

La voce del marchese che la invita a entrare le ghiaccia il sangue nelle vene. Spinge il battente e si trova di fronte Antonio di Medina, che sta versandosi un bicchiere di vino da una caraffa.

Con voce tremante la donna comunica che la marchesa sta bene, poi si interrompe. Le manca il coraggio di parlare. Lo sguardo del marchese, che ha intuito qualche cosa, le sembra una mano che le stringe la gola.

Non può tenerlo in sospeso. Con la voce rotta, gli comunica che il bimbo è nato morto.

Il marchese la guarda con odio e poi, con un gesto improvviso, le lancia contro il bicchiere da cui stava per bere, bestemmiando e maledicendola. Il bicchiere la colpisce sul seno e cade a terra, frantumandosi. Maria scoppia a piangere ed esce, inseguita dagli insulti di Medina.

 

La cella è minuscola e tanto bassa che un uomo di media statura dovrebbe chinare il capo per non batterlo contro il soffitto. Non ci sono finestre, l’unica apertura è la porta. C’è un odore greve, un tanfo di sudore e piscio.

Stesa sul tavolaccio di legno, la prigioniera stringe i denti. È al suo primo parto e ad assisterla c’è solo la moglie del carceriere, che non è una levatrice, ma ha avuto quattro figli ed ha portato due stracci puliti e una bacinella con l’acqua. Ora cerca di aiutare la prigioniera come può. La giovane è forte, spinge con decisione e infine il bimbo esce. È un bel maschietto, che strilla. La donna lo lava nella bacinella e lo avvolge in un panno, poi lo pone di fianco alla madre, che sorride. Non sa quale sarà il futuro di questo bambino senza padre, nato in una cella, ma forse conoscerà una vita migliore della sua.

 

Il marchese guarda fuori dalla finestra: le colline sono immerse nella foschia del primo mattino. Ma il marchese non le vede. Pensa a sua moglie, che ha quarantaquattro anni ed ha avuto quattro gravidanze, tutte finite male. L’unica che ha portato a conclusione è stata questa, ma il risultato non è cambiato. Le sue possibilità di avere un erede sono nulle. Alla sua morte la sua proprietà sarà divisa tra i cugini, che vivono nella capitale: il vicerè e i conti di Belmonte. Mentre riflette, una delle guardie bussa alla porta e alla risposta del marchese si fa avanti.

L’uomo, di nome Nicola, è al servizio del marchese da diversi anni. Si inchina e comunica:

- Marchese, la prigioniera ha avuto un figlio. È un maschio.

Antonio di Medina guarda l’uomo. C’è odio in quello sguardo e la guardia si spaventa. Non pensava che il padrone avrebbe accolto così la notizia. Non sa quello che è successo. Nessuno ancora lo sa.

Antonio di Medina apre la bocca. Vuole ordinare di sopprimere quel bastardo. Poi si ferma. Un’idea improvvisa gli è balenata in mente. Fissa la guardia. Annuisce a un proprio pensiero e dice:

- Portamelo qui. Subito!

La guardia si inchina ed esce. Raggiunge un’altra ala del palazzo e scende rapidamente nelle segrete. Entra nella cella, ma quando allunga le mani per prendere il bimbo, la prigioniera cerca di fermarlo. L’uomo le molla un violento ceffone e afferra il piccolo. La donna lo guarda uscire, gli occhi sbarrati, in preda all’angoscia.

Pochi minuti dopo Nicola è di ritorno con il fagotto tra le braccia. Non è abituato a portare neonati e si muove impacciato. 

Il marchese Antonio di Medina guarda il bambino che la guardia gli porge. Un maschio, l’erede di cui ha bisogno. Nessuno ne saprà mai nulla. Così l’erede dei Medina sarà il nipote di un bandito. È una bella beffa.

- Tu, aspettami qui.

Il marchese prende il bimbo ed entra nella camera dove la levatrice sta assistendo la marchesa.

Il bimbo morto giace nella culla che era stata preparata per lui.

La levatrice, la cameriera. Nessun altro. Due persone il cui silenzio si può comprare. O che… sì, meglio così… meglio non correre rischi.

Toglie lo straccio che avvolge il bimbo e porge il piccolo alla levatrice. Poi si rivolge alla moglie:

- Questo è nostro figlio.

La donna lo guarda un attimo, stupefatta, poi annuisce, sorridendo. Un pensiero le fa aggrottare la fronte. Fa cenno alla levatrice di uscire. Il marchese le si avvicina.

- Quella… non deve poter raccontare.

Il marchese annuisce.

- Ci ho già pensato.

- Anche Maria, meglio che nessuno sappia.

Antonio di Medina sorride.

- Certo. Adesso riposa.

Il marchese prende dalla culla il cadavere del piccolino e lo avvolge nello straccio in cui ha portato il figlio della prigioniera.

Intanto, nella stanza adiacente, la levatrice osserva dubbiosa il bimbo che stringe in braccio. Quando Antonio di Medina apre la porta, si guarda bene dal manifestare la benché minima perplessità: sa benissimo che le scelte del marchese non si discutono. I signori di Medina non amano essere contraddetti nemmeno nelle piccole cose, figuriamoci in una faccenda di questo genere.

Il marchese ritorna nella camera dove la guardia lo aspetta. Porge il bimbo all’uomo, dicendogli:

- Il piccolo è morto. Portalo nella cella e mandami Tonio.

La guardia prende il cadaverino, senza mostrare il proprio stupore, si inchina ed esce.

Il marchese si chiede se l’uomo capirà che il bimbo non è lo stesso. Difficile, i neonati sono tutti uguali.

 

Tonio, il capo delle guardie, arriva quasi subito. È un uomo tarchiato, sui quaranta. Un fedele servitore, che esegue ogni ordine del padrone, che si tratti di bastonare un contadino o rapire una donna, tagliare la gola a un uomo o incendiare la casa di chi osa alzare la voce.

- Ammazza la prigioniera. Poi chiama don Paolo e falla seppellire con il figlio.

Tonio non dice nulla: sa che Antonio di Medina non tollererebbe nessuna osservazione.

Il marchese lo guarda uscire. Più ci pensa, più l’idea che ha avuto gli sembra ottima. Si versa altro vino: bisogna festeggiare!

 

Tonio torna qualche minuto dopo e comunica:

- La prigioniera è morta. Ho chiamato il prete.

Il marchese annuisce. Poi gli si avvicina. Parla sottovoce.

- Senti, Tonio, c’è un lavoro da svolgere. Va fatto con attenzione e soprattutto senza che nessuno si accorga che sei tu a farlo.

Un momento di pausa.

- Tra un momento, accompagnerai a casa la levatrice. Quando sarete per strada, in un punto in cui nessuno può vederla, l’ammazzerai. Bada che non parli con nessuno. Hai capito? Nessuno.

Tonio annuisce, il viso impassibile, come sempre. Non è la prima volta che uccide per il suo padrone, non sarà l’ultima. Ammazzare non gli dispiace.

- Sarà fatto, signor marchese.

Il marchese versa un po’ di vino in un bicchiere. Poi apre l’anta di un mobile e ne estrae un astuccio, da cui prende una scatoletta. Ne vuota il contenuto, una polvere grigia, nella caraffa del vino.

Torna nella stanza dove sua moglie riposa.

- Maria, vieni, ti devo parlare.

La cameriera segue il padrone, gli occhi bassi. Intuisce che cosa il padrone vuole dirle e sa che dovrà mostrarsi pronta a ubbidire.

Giunti nella stanza, il padrone si siede e le dice:

- Maria, l’hai capito da te, ma è bene che te lo dica anch’io. Nessuno deve sapere quello che è successo. Mia moglie ha avuto un figlio maschio, l’erede tanto atteso. Chiaro?

La donna annuisce.

- Certo, signor marchese.

Il marchese prende il bicchiere e se lo porta alle labbra. Beve un sorso.

- Prendi anche tu un po’ di vino, Maria. Dobbiamo festeggiare.

La donna si schermisce, ma il marchese versa il vino della caraffa in un altro bicchiere e glielo porge, dicendole:

- All’erede dei Medina.

La cameriera si inchina, prende il vino e beve di un fiato.

- Ora puoi andare, Maria.

Maria posa il bicchiere, sorride, si inchina nuovamente, ma quando rialza la testa, ha un capogiro e barcolla. Guarda il marchese con gli occhi spalancati, poi ha una smorfia d’orrore e crolla sul pavimento.

Il marchese guarda la donna che si contorce a terra.

Metà del lavoro è fatto. Resta solo l’altra metà. Di Tonio ci si può fidare.

Il marchese prende la caraffa del vino e la vuota dalla finestra. Poi si versa ancora da bere da un’altra caraffa. Sta bevendo troppo, ma deve festeggiare.

Dopo un momento torna nella camera della moglie, che dorme. La levatrice è andata via, c’è un’altra cameriera che veglia.

Il marchese esce e chiama il capo dei suoi servitori. Lo informa che Maria si è sentita male, nella sala. L’uomo accorre, ma per la cameriera non c’è più nulla da fare: la donna è morta.

 

La levatrice non si sente tranquilla. Perché mai il capo delle guardie del marchese l’accompagna a casa? Non ha bisogno di nessuno, i briganti di certo non attaccheranno lei. E poi casa sua non è molto lontana.

Il pensiero che ritorna ossessivo è un altro: dopo quanto è successo, il marchese avrà mica dato ordine a Tonio di metterla a tacere per sempre? Deve trovare una via d’uscita.

C’è una taverna, vicino al castello. La levatrice dice a Tonio che vuole fermarsi un momento. Ha bisogno di mangiare un boccone. Il capo delle guardie cerca di convincerla a lasciar perdere. In venti minuti sarà a casa, perché fermarsi ora? Ma Rosa insiste. Di fronte all’osteria c’è gente, Tonio non può ucciderla ora.

Rosa entra, mangia un po’ di pane e formaggio e beve un bicchiere di vino. Poi dice che deve fare un bisogno, si alza e si dirige verso il cortile posteriore. Appena è fuori dalla sala, si guarda intorno. Il cortile è vuoto: bene. Rosa si avvia subito verso la piccola porta all’altra estremità, quella che dà sui campi. Di lì potrà allontanarsi senza che il capo delle guardie la veda. Arriva alla porticina in legno, la apre e si volta per controllare nuovamente che nessuno la stia osservando, ma una mano le tappa la bocca ed un colpo al cuore le toglie la vita prima che abbia il tempo di capire. Tonio lascia cadere il cadavere e si allontana rapidamente. Non penseranno a lui, ma anche se qualcuno avesse dei sospetti, capendo che ha agito per ordine del marchese non direbbe nulla. Nessuno ha voglia di rischiare la pelle.

 

È notte, ma nell’accampamento di Ditomozzo c’è grande agitazione. Le notizie sono arrivate tutte insieme, poco fa. Le ha portate Dino, che è sceso al villaggio nel pomeriggio. Notizie terribili e incomprensibili: all’alba la sorella di Ditomozzo, da tempo in carcere, ha partorito ed il marchese l’ha fatta uccidere; deve aver fatto uccidere anche il bimbo, che era nato vivo; la marchesa ha avuto un figlio; la levatrice è stata uccisa e poco prima di morire era con il capo delle guardie del marchese; una cameriera del castello è morta anche lei.

Ditomozzo siede in silenzio, mentre gli uomini intorno a lui discutono animatamente. Sono solo sette, ma sembra che siano quaranta: parlano tutti insieme, interrompendosi a vicenda, alzando la voce per sovrastare quelle degli altri. Soltanto Bastiano il Grosso, seduto al suo fianco, non partecipa alla discussione, ma lo fissa, senza dire nulla.

Ditomozzo vorrebbe essere lontano, da solo. L’assassinio di sua sorella e del bambino è un dolore atroce, che gli scava dentro. Erano gli ultimi parenti che gli erano rimasti, dopo che il marchese aveva fatto uccidere i suoi genitori. L’odio che prova per i marchesi è violento, ma in questo momento il dolore è più forte del desiderio di vendetta.

Ditomozzo sente su di sé lo sguardo di Bastiano, ne avverte la solidarietà, ma i rapporti con il suo braccio destro sono un grumo di problemi irrisolti da cui ora la sua testa rifugge.

Ditomozzo cerca di riflettere, di trovare un senso a quanto è successo, ma non riesce a capire. L’assassinio di sua sorella priva il marchese di una valida arma di ricatto nei suoi confronti, l’unica che aveva. E perché ha fatto uccidere la levatrice e la serva che hanno assistito al parto della moglie?

Non è in grado di dare una risposta, ma il marchese è un uomo morto: la vendetta di Ditomozzo scenderà su quel figlio di puttana.

Ditomozzo si alza di scatto. L’angoscia gli stringe il cuore in una morsa. Non dice nulla e si allontana. Gli uomini tacciono un attimo, ma uno sguardo di Bastiano blocca le loro domande. Bastiano segue Ditomozzo, a distanza. La discussione tra gli uomini riprende, prima più pacata, poi nuovamente animata.

Ditomozzo cammina a lungo, seguendo un sentiero che conosce. Poi, giunto su un costone roccioso, si siede su un tronco. Guarda il cielo stellato. Lacrime di luce nel buio che sente dentro.

Qualcuno si avvicina. È buio, ma questa forma imponente non può essere altro che Bastiano. Il Grosso si siede al suo fianco, in silenzio. Non dice nulla. Bastiano sa tacere. E d’improvviso per Ditomozzo è troppo. Gli sembra che il dolore lo stia stritolando. Gli manca il fiato. Si alza di scatto. Bastiano si solleva più lentamente. Ditomozzo incomincia a piangere: nessuno lo ha mai visto piangere, ma di fronte a Bastiano può farlo. Bastiano lo stringe tra le braccia. Ditomozzo appoggia la testa sul suo petto e si abbandona alle lacrime.

Lentamente il dolore si calma. Nella stretta vigorosa di Bastiano, Ditomozzo ritrova un po’ di serenità. Sta bene così. Bastiano gli sfiora i capelli con le dita, in un gesto di tenerezza che sorprende il bandito. La carezza, leggerissima, scatena in lui una tempesta di sensazioni. Ditomozzo solleva la testa e si stacca da Bastiano: non vuole tradire quello che prova. Gli sembra che se rimanesse tra le sue braccia non saprebbe conservare il controllo di sé.

- Torniamo al campo, Bastiano. Grazie. 

Si rende conto che la propria voce è alterata. Il pianto, senza dubbio.

 

Tonio è nervoso. Sa che la furia del marchese si scatenerà su di lui, anche se non ha nessuna responsabilità. Quando è furente, Antonio di Medina colpisce chi si trova di fronte. Messaggero non porta pena, ma essere latore di cattive notizie per il marchese può costare caro. Eppure Tonio non può tacere quanto ha da dire, sarebbe peggio.

Ha detto al marchese che doveva parlargli, ma ora ha difficoltà a trovare le parole.

- Allora, che c’è, Tonio? Muoviti a parlare.

Tonio annuisce.

- Nicola di Donato. Ieri sera all’osteria ha alzato il gomito. Ha incominciato a raccontare cose. Era ubriaco, signor marchese.

Il marchese ha cambiato faccia. Nicola è la guardia che ha ucciso la prigioniera e portato il bambino.

- Che cosa, cazzo, che cosa? Parla, stronzo!

È davanti a Tonio, lo afferra per il bavero della casacca, urla. Tonio risponde:

- Dice che il bambino morto non era quello della sorella di Ditomozzo. Che era un altro. Questo dice, signor marchese. La voce circola in paese. Qui la gente non si fa gli affari propri.

La faccia del marchese è una maschera di furia. Lo colpisce con la mano.

- Merda! Tu e quell’altro pezzo di merda. Due cazzoni, ecco cosa siete, due fottuti cazzoni.

Il marchese respira a fatica.

- Ascoltami bene, testa di cazzo. Nicola deve crepare subito. Chiaro? Subito!

Tonio non si stupisce. Il marchese è abituato a risolvere i problemi in questo modo. In questo feudo lontano dalla capitale non c’è altra giustizia e la volontà di Antonio di Medina è legge. Nicola non può rimanere in vita, anche se ormai è tardi e la sua morte renderà solo più credibili le sue parole. Ma questo è inutile dirlo. Al marchese è impossibile far intendere ragione.

- Sì, signor marchese.

 

Nicola scompare. Nessuno ne sa nulla, a palazzo dicono che il marchese lo ha mandato in missione lontano. Ma alla moglie Nicola non ha detto niente prima di questa misteriosa partenza e tutti pensano la stessa cosa: Nicola ha raggiunto la levatrice e la cameriera, perché sapeva.

Ora tutti sanno: quello che ha detto Nicola è la verità. Nessuno oserebbe dirlo ad alta voce, ma non si parla d’altro e le mezze parole sono accompagnate da occhiate, ammiccamenti, gesti. Solo nell’accampamento di Ditomozzo si parla liberamente di quanto è avvenuto: tutto è chiaro, non occorrono più parole. È giunto il tempo di agire.

Tre giorni dopo il cadavere di Tonio viene rinvenuto nella piazza del paese, il cuore squarciato da una coltellata. Dalla tasca della giacca sporge un grosso foglio, su cui qualcuno ha vergato poche parole:

“Il prossimo è il marchese.”

Non c’è una firma, non occorre.

 

Quando la carrozza supera la porta delle mura, entrando in città, Antonio di Medina sente infine allentarsi la tensione che lo ha accompagnato negli ultimi giorni. Nella capitale non corre rischi, i briganti non oserebbero mai avvicinarsi alle mura.

Nel suo palazzo di Castronegro il marchese non si sentiva tranquillo, nonostante tutte le sue guardie. Ditomozzo ha giurato di ucciderlo e quello è un uomo capace di mantenere la sua parola, a dispetto degli uomini e di Domineddio. Un diavolo sputato fuori dall’inferno, ecco cos’è quel bastardo. Per i tre giorni di viaggio a tappe forzate, nonostante le venti guardie che lo accompagnano, il marchese è vissuto con l’angoscia di veder spuntare i briganti, con le armi puntate. Ogni bosco, ogni gola, ogni guado sembrava minacciare un’imboscata.

Ora sono finalmente in città. Giorno di mercato nel quartiere di Santa Teresa, oggi: le strade sono ingombre di gente e la carrozza procede lentamente. Ma le continue soste che in altre occasioni esaspererebbero il marchese, adesso non lo turbano. È fuori pericolo, finalmente, e questo solo conta.

Tornerà a Castronegro quando Ditomozzo sarà stato preso, castrato ed impiccato sulla pubblica piazza. A costo di radere al suolo tutti i villaggi della contrada devono prenderlo, quel tagliagole. Chiederà al re di mandare i soldati. Possono fare tutto quello che è necessario: distruggere le case, impiccare gli uomini, incendiare i boschi, purché lo prendano e lo ammazzino. Radano pure al suolo mezzo feudo, ci penserà lui a far lavorare i contadini per ricostruire tutto, sangue gli farà sputare, a quei bastardi che appoggiano Ditomozzo. Anche loro devono pagare, quei pezzenti di merda!

Il bimbo è in braccio alla balia. La marchesa è stanca, il medico aveva sconsigliato di mettersi in viaggio tre settimane dopo il parto, ma il marchese non riusciva a resistere: ormai non dormiva neppure più la notte. Rimanere a Castronegro era troppo pericoloso.

La carrozza si ferma davanti al palazzo e subito gli uomini del marchese aprono il grande portone. Arrivati, infine!

Un po’ di riposo, il tempo di rifocillarsi, e poi dal viceré a chiedere aiuto contro quel brigante. L’esercito deve mandare, l’esercito. I soldati del re sapranno bene aver ragione di una masnada di banditi. Il viceré non può dirgli di no, in fondo è suo cugino.

 

Il marchese cena da solo: sua moglie è troppo stanca, la sua cameriera personale le porterà qualche cosa da mangiare in camera.

Antonio di Medina è furente. La visita dal viceré non ha dato i frutti sperati. Il feudo del marchese è lontano dalla capitale, non è pensabile inviare l’esercito per affrontare quel bandito, che può nascondersi o spostarsi in un’altra regione, in attesa che l’esercito si ritiri. Quel coglione del viceré non vuole occuparsi di Castronegro, ma senza il suo appoggio, il marchese di Medina non potrà rimettere piede nel suo feudo e in sua assenza quei figli di puttana dei contadini si rifiuteranno di spaccarsi la schiena, ogni scusa è buona per quelli e l’amministratore un accordo lo trova sempre, a spese del padrone.

E quel cazzone del viceré non solo si è rifiutato di aiutarlo, ma ha anche insinuato che se a Castronegro si è formata quella banda di briganti, la colpa è anche sua! Sua, sì, di Antonio di Medina! Che ha la colpa di cercare di difendere i propri interessi da quei pezzenti dei contadini.

Antonio di Medina sale in camera. Il cameriere personale lo aiuta a svestirsi, poi il marchese si stende, stanco e irritato. Il sonno tarda a giungere e, quando infine arriva, è accompagnato da sogni inquietanti, in cui ritorna ossessiva la figura di Ditomozzo. Il marchese lo vede entrare nella sua camera, con un coltello in mano, pronto a ucciderlo. Non riesce a trattenere un urlo di terrore e si sveglia, ansante e sudato.

La stanza è immersa nel buio. Non deve aver urlato, perché non sente nessuno muoversi: se avesse davvero gridato, sarebbe accorso un servo. È stato soltanto un incubo.

Il marchese si alza. Si asciuga la faccia con il camicione che indossa per la notte. È fradicio di sudore. La calura è insopportabile. Si toglie l’indumento umido e si avvicina alla finestra. Spalanca le imposte e guarda il giardino, immerso nell’oscurità. La scarsa luce che filtra dalle nuvole sparse illumina appena le cime degli alberi. Una leggera brezza sul corpo nudo gli regala un minimo di frescura. Oltre l’alto muro di cinta, i tetti della città e, lontano, la distesa cupa del mare.

C’è un silenzio assoluto. La città dorme ed anche lui potrebbe dormire tranquillo, qui non corre rischi, ma il pensiero di Ditomozzo lo perseguita. Si passa la mano sulla nuca, che gli duole. È meglio che ritorni a letto e cerchi di assopirsi. Sono troppe notti che non riposa a sufficienza.

È appena rientrato nella stanza quando una mano gli copre la bocca e una lama preme contro la sua gola. Un corpo lo stringe.

Il marchese sente le forze abbandonarlo. Non è possibile. Non è possibile. Non può essere. Non qui, nella capitale, nel suo palazzo.

L’uomo lo spinge fino al balcone. Continuando a tappargli la bocca con la sinistra, allontana la lama e gli mostra la destra, a cui manca l’anulare.

- Tanto perché tu sappia chi ti ammazza, porco.

Il marchese cerca di divincolarsi, un terrore cieco lo stringe, non vuole morire, non vuole.

L’uomo vibra un colpo, squarciandogli il ventre. L’urlo è soffocato dalla mano, diventa appena un grugnito sordo. Antonio di Medina cerca ancora di liberarsi, di sfuggire a quella stretta mortale. L’uomo colpisce una seconda volta, poco sopra. Il dolore si moltiplica e il marchese lotta, una bestia ferita che ancora non si rassegna al martirio. Un terzo colpo, sotto, all’inguine gli toglie ogni forza.

Non si agita più, attende solo il colpo che infine gli recide la gola.

Ditomozzo lascia cadere il cadavere a terra. Lo fissa. Poi apre i pantaloni e piscia sul corpo. Ditomozzo richiude i pantaloni e fruga nei cassetti del marchese. Ha bisogno di denaro per la fuga e ne trova in abbondanza. Poi esce dalla stanza. Rapido raggiunge la camera della marchesa. Sa dove si trova: il denaro apre le bocche ed il coltello convince anche gli smemorati a parlare.

Il bandito entra silenziosamente. La marchesa dorme. Passa dal sonno alla morte quasi senza accorgersene, solo un dolore alla gola e poi lo sprofondare nel vuoto. Anche nella camera della marchesa una rapida ricerca permette a Ditomozzo di impadronirsi di gioielli e denaro.

La camera della balia è a fianco. La donna non ha responsabilità, Ditomozzo non vuole ucciderla, se può farne a meno. La sveglia, tenendole il coltello puntato alla gola.

Vede il terrore negli occhi della donna.

- Una parola, mezza, e sei morta, come i tuoi padroni.

Gli occhi della balia si dilatano ancora.

- Quando hai dato da mangiare al bimbo?

- Non so… credo poco fa… non deve essere passato molto tempo.

- Adesso ascoltami bene. Non voglio ucciderti. Ti legherò e imbavaglierò. Non cercare di liberarti. Rimani tranquilla per un po’.

La donna annuisce. Ditomozzo le lega le mani e di piedi, le mette in bocca un cencio e la imbavaglia.

Poi prende il bimbo. Ora viene la parte più difficile, perché il bimbo potrebbe svegliarsi, urlare, richiamare l’attenzione dei servitori. Ma è un rischio da correre. Non può lasciarlo lì, in quella casa.

Ditomozzo infila il bimbo nella casacca, a contatto con la sua pelle. Poi scivola rapido nel corridoio e raggiunge la finestra da cui è entrato. Passare nel giardino, arrampicarsi sul muro e poi scendere in strada è un gioco, per un uomo abituato a muoversi come un gatto. Il fardello che stringe contro il petto non lo intralcia nei movimenti.

Appena scende, una grande ombra si stacca da un angolo oscuro.

La voce è appena un sussurro:

- Tutto bene?

- Sì, i due maiali sono morti. Ho il bimbo.

- Bene. Andiamo.

Bastiano lo precede. Se qualcuno tirerà una stoccata di sorpresa, la prenderà lui. Così ha proposto Bastiano, ben sapendo che le vie della città non sono sicure la notte. Ditomozzo ha accettato, perché porta il bambino e deve proteggerlo, ma l’idea che Bastiano corra dei rischi è angosciosa.

Il Grosso si muove sicuro per le strade deserte, la destra sull’elsa della spada, la sinistra che stringe il pugnale. A ogni angolo controlla che non ci sia la ronda, che per loro due è il pericolo maggiore. Quanto ai banditi di strada, Bastiano non li teme di certo.

Ditomozzo tiene nella destra il pugnale, con la sinistra sostiene il piccolo che dorme contro il suo petto.

Arrivano senza intoppi all’intrico di vicoli intorno al porto. Qui di notte la ronda si tiene alla larga, percorrendo solo le strade principali. Troppi tagliagole in quelle stradine, dove un agguato è facile. Bastiano procede con prudenza, ma nessuno li intralcia. Qualcuno li vede, ma la stazza di Bastiano ed il luccichio del suo pugnale non invitano a rischiare: non è un bersaglio facile.

Dopo un arco, una porta che nel buio neppure si vede.

Tre colpi, una pausa, poi altri due.

Nessuna voce dall’altra parte, ma la porta si apre silenziosamente. Bastiano e Ditomozzo entrano nella stanza. La porta viene richiusa. Solo allora una candela viene accesa.

Il vecchio li guida al piano di sopra. Due camerette. In una dorme una donna, che si sveglia al loro arrivo.

Ditomozzo apre la casacca e ne tira fuori il piccolo, che dorme ancora tranquillo. Lo bacia sulle guance e lo porge alla donna, che lo mette sul giaciglio. Poco di lei sa Ditomozzo: è una persona fidata, è una balia; ha bisogno di andarsene al più presto dalla città, per qualunque destinazione. Altro non gli serve sapere.

Bastiano e Ditomozzo passano nell’altra cameretta. Il vecchio ha dato loro una candela. Il locale è quasi vuoto: ci sono solo due pagliericci a terra. Lo spazio è angusto, il caldo soffocante. Tutti e due si tolgono rapidamente gli abiti.

Bastiano guarda il corpo di Ditomozzo. Un corpo forte, robusto, agile. Un corpo che da tempo lo fa impazzire di desiderio. Gli basta guardare quel culo perché gli si rizzi. Si china per riprendere la camicia e coprirsi, ma non fa in tempo: Ditomozzo si volta e lo vede. Rimane senza parole. Si fissano, alla luce fioca della candela, muti. Si guardano negli occhi. Nessuno dei due osa aprire bocca, spezzare il silenzio che si è creato nella stanza, ma i loro corpi parlano: Ditomozzo sente il sangue affluire al basso ventre. Bastiano è un Ercole e Ditomozzo prova un violento desiderio di sentirsi stringere da quelle braccia forti, che hanno consolato il suo dolore una notte, un mese fa. Ma sa che non è consolazione, quello che ora cerca. Guarda l’arma di Bastiano, che gli sembra splendida e terribile. Solleva gli occhi sul Grosso che lo fissa, ugualmente smarrito. Rimangono zitti. Non sanno che parole dire, hanno paura del suono delle loro voci. Ma Ditomozzo fa un passo avanti ed ora è vicinissimo a Bastiano, che lo prende tra le braccia e lo stringe contro il proprio corpo, mentre i suoi occhi fissano quelli di Ditomozzo. Nessuno dei due ha mai stretto un altro uomo, i loro movimenti sono goffi, ma il desiderio che li guida trasforma ogni gesto in una vibrazione di piacere puro. È bello accarezzare la schiena, scendere con le mani fino al culo, sentire il calore e la consistenza della carne tra le proprie dita. È bello sentire sulla pelle la carezza, la stretta vigorosa delle mani. Ditomozzo sfiora il viso di Bastiano con le dita, avvicina la sua bocca e si baciano.

Ditomozzo chiude gli occhi. Poi li riapre e fissa l’uomo che lo sta abbracciando. Sente il calore della carne di Bastiano, l’odore del suo corpo, il sapore della sua bocca, la pressione delle dita che gli stringono il culo, la potenza del sesso teso contro il suo ventre, il respiro affannoso che risuona nelle sue orecchie. Di colpo Ditomozzo avverte che le forze gli mancano, gli sembra che le gambe non lo reggano più e si abbandona completamente tra le braccia di Bastiano.

Il Grosso si rende conto che solo le sue mani sostengono Ditomozzo e, con dolcezza, lo stende sul pagliericcio. Lo guarda, guarda quel corpo che desidera. Lo accarezza con le punte delle dita, dal viso al sesso. Ditomozzo lo fissa negli occhi, poi il suo sguardo scende lungo il corpo di Bastiano fino al grande sesso turgido, fuori misura come tutto il resto in lui. Allora, senza parlare, si volta sul ventre e allarga le gambe.

Ha paura, una paura violenta e selvaggia, non del dolore, che sa attenderlo, ma di questa disfatta completa che accetta e desidera. Non offre solo i suoi fianchi a Bastiano, all’arma vigorosa che lo penetrerà. È se stesso che offre, che perde. Ma questo ora vuole e ogni altro pensiero è bandito dalla sua mente.

Le dita di Bastiano percorrono il solco, premono contro l’apertura, si allontanano, ritornano, umide, per preparare il terreno. Bastiano si china su Ditomozzo, fa colare un po’ di saliva sul buco che tra poco forzerà, passa l’indice tutt’intorno all’apertura e sente il corpo di Ditomozzo vibrare. Si stende su di lui, gli morde una spalla, gli accarezza il collo, poi avvicina l’arma all’apertura e lentamente preme. La carne si dilata e Ditomozzo geme. Non hanno detto una parola, non ci sono parole che possano dire, ora. Il gemito è l’unico suono, a cui risponde una carezza di Bastiano. Le sue dita scorrono lungo la pelle di Ditomozzo, dal collo alla spalla, fino al culo e intanto l’arma avanza, formidabile. Il capo brigante si abbandona completamente al dolore che sale dal suo culo, al piacere che lo incendia, sempre più forte. Geme di nuovo e le mani di Bastiano scorrono tra i suoi capelli. L’arma affonda, inesorabile, il dolore cresce e il piacere dilaga, incontenibile. Ma l’avanzata continua e Ditomozzo geme di nuovo, più forte. Bastiano gli mette una mano davanti alla bocca e Ditomozzo gli morde il medio.

Bastiano risponde con una spinta più decisa. Ora è dentro Ditomozzo, fino in fondo. I coglioni battono contro il culo del capo brigante. Bastiano passa le sue braccia intorno alla vita di Ditomozzo e stringe con forza, quasi volesse stritolarlo.

E poi ritrae l’arma completamente, uscendo, per rientrare subito dopo. Ditomozzo geme di nuovo. Ondate di dolore salgono dal suo culo ed accendono dentro di lui fiamme di piacere. L’incendio dilaga, inarrestabile.

Mormora il nome dell’uomo che pesa su di lui e lo schiaccia contro il pagliericcio, l’uomo che lo possiede e si è fatto signore del suo corpo, prendendo ciò che Ditomozzo non aveva mai offerto a nessuno. Geme ancora, perché la sofferenza si fa sempre più forte, ma non vorrebbe che Bastiano uscisse da lui se non, come sta facendo ora, per rientrare e spingersi nuovamente a fondo, martoriando il suo culo e strappandogli altri gemiti. Implacabile il cazzo avanza, a fondo, togliendo il fiato a Ditomozzo, e poi arretra per slanciarsi nuovamente all’attacco. Il dolore cresce, forse ora più del desiderio, ma Ditomozzo non dice nulla. Vuole, più di ogni altra cosa al mondo, il cazzo di Bastiano dentro il proprio corpo e poco gli importa della sofferenza. Ma quando infine sente la scarica, che gli riempie il culo, e le spinte affannose lo fanno gemere, si rende conto di avere le lacrime agli occhi.

Ora che Bastiano è venuto dentro di lui, il suo cazzo riprende dimensioni più tollerabili e la sensazione diventa meno dolorosa. Sì, ora è bello sentire il cazzo di Bastiano in culo, ancora grande e potente, ma meno ingombrante. Bastiano rimane dentro di lui e, tenendogli le braccia intorno al petto, si gira, in modo da stendersi sulla schiena, sotto Ditomozzo.

Le mani di Bastiano scendono al cazzo di Ditomozzo. La destra lo accarezza, mentre la sinistra strizza un po’ i coglioni. Non si muovono con delicatezza, le mani del Grosso: sono le mani del padrone. La destra afferra con decisione il cazzo, che si drizza, mentre un’ondata di piacere investe il brigante. Lavorano con decisione, quelle mani, e il desiderio sale, riempie il cazzo, preme per uscire ed infine si lancia fuori, in un getto potente, che si sparge sul ventre e sul torace di Ditomozzo; alcune gocce raggiungono la barba. Il capo brigante si abbandona completamente all’abbraccio del suo vice, del suo padrone. 

Bastiano si mette su un fianco, stringendo tra le braccia Ditomozzo, e lo guarda. Non si sono detti nulla. Le loro mani parlano ed anche le loro bocche, ma senza formulare parole. Carezze e strette, baci e morsi dicono il piacere provato, il desiderio appena assopito, che già si risveglia, la nuova intimità che sta nascendo. Molto più tardi Bastiano si abbandona al sonno, sempre tenendo tra le braccia Ditomozzo. Il capobrigante rimane sveglio, sgomento e felice, il capo contro il petto del Grosso.

Quando qualcuno bussa alla porta, le braccia di Bastiano tengono ancora prigioniero Ditomozzo, in una stretta da cui il brigante non vorrebbe, né saprebbe, liberarsi.

Bastiano si sveglia e scioglie l’abbraccio. Si rivestono rapidamente ed aprono la porta. Ditomozzo prende il piccolo ed un bagaglio, Bastiano ha un altro bagaglio. La balia li segue. Il vecchio li conduce per il vicolo fino al porto. È ancora notte, ma una barca di pescatori li attende. Prendono il largo.

Prima che il sole sorga dietro il promontorio, la barca ha raggiunto un battello ancorato non lontano. I quattro passeggeri salgono a bordo e gli uomini che li hanno accompagnati ritornano verso il porto, confondendosi con le altre barche che rientrano dopo la pesca notturna.

 

Quel mattino la città sembra impazzire: i marchesi di Medina assassinati nella notte, il loro figlioletto rapito. Nel cuore della capitale un orribile delitto, da attribuire quasi certamente al brigante Ditomozzo. Mai quel figlio di puttana e la sua banda avevano colpito nella capitale, hanno sempre agito in una lontana provincia. Come è possibile?

Gli sgherri battono la città casa per casa, alla ricerca del bambino e dell’assassino, ma non se ne trova traccia.

Dopo tre giorni di ricerche infruttuose, un pupazzo di Ditomozzo viene trascinato per le strade, una corda al collo. Poi viene impiccato a una trave, tra le invettive del popolo, e gli viene dato fuoco. Il manichino brucia, mentre la folla urla e lo maledice. Il bandito è morto!

 

2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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