1.32

 

Tutto1b

 

Mi chiamo Philippe Vigneron. A lungo ho considerato questo nome francese l’ennesima beffa del destino e l’ho odiato perché non lo sentivo mio.

Sono nato e sempre vissuto in Italia, ma il mio nome non dipende da un capriccio dei miei genitori, come i vari Michael che adesso vanno di moda. La mia famiglia ha ondeggiato per due generazioni tra la Francia e l’Italia, prima di stabilirsi definitivamente a Milano. Il cognome è quello del mio nonno paterno, che aveva sposato un’italiana e si era trasferito a Milano al termine della prima guerra mondiale: fu lui a dare origine a quella serie di legami e spostamenti che portarono alla mia nascita. Mi sono spesso chiesto perché non fosse rimasto in Francia, ma è una domanda oziosa ed ormai non me la pongo più.

Alla morte della moglie, nel 1938, mio nonno decise di ritornarsene in Francia, a Lione, con i due figli. E fu così che mio padre si trovò a vent’anni in un paese che non conosceva e di cui parlava poco la lingua.

A Lione mio padre ebbe la bella idea di sposare mia madre proprio nel maggio del 1940, un mese prima che l’Italia entrasse in guerra contro la Francia. La quantità di guai che passarono tutti e due per quel matrimonio sarebbe più che sufficiente per un ciclo di romanzi. Ma non avevano molta scelta: mia madre aveva sedici anni ed era incinta, il mio nonno materno aveva un fucile e sapeva usarlo benissimo e mio padre, che faceva il meccanico, aveva voglia di riportare a casa la pelle. Un mese dopo, con la Francia in ginocchio, mio padre avrebbe avuto molte più possibilità di scamparla, magari facendo arrestare il futuro suocero, ma aveva sbagliato i tempi.

Continuò a sbagliarli a lungo, i tempi: decise di rientrare in Italia e venne subito arruolato e spedito in guerra; durante una breve licenza, prima di partire per la Russia, mise mia madre di nuovo incinta.

In qualche modo mia madre, che era arrivata a Milano senza sapere una parola di italiano, riuscì a cavarsela. Sicuramente non fu semplice per lei, straniera e considerata una nemica, anche se moglie e madre di italiani. Gli ultimi due anni di guerra furono un vero incubo.

In qualche modo mia madre arrivò alla fine della guerra e mio padre riuscì a ritornare dalla prigionia in Russia, ridotto a uno straccio. Con il suo solito tempismo, mise ancora mia madre incinta, in piena crisi post-bellica.

Mio padre continuò a sbagliare i tempi per decenni. A cinquantasei anni investì i risparmi di una vita di lavoro per realizzare finalmente il suo sogno: mettersi in proprio. Rilevò l’officina dove lavorava da vent’anni, ma lo fece proprio alla vigilia della crisi del 1973. E mentre gli affari incominciavano ad andare a rotoli, commise un altro errore, quello che io ho ritenuto a lungo il più grave, quello che non gli perdonai mai, finché visse: mise nuovamente incinta mia madre, che si avvicinava alla cinquantina. Convinta di essere in menopausa, mia madre non si preoccupò fino a quando non capì che l’appesantimento del corpo e la scomparsa delle mestruazioni non erano conseguenze dell’età.

Fu così che a fine 1973, mentre mio padre era senza lavoro e carico di debiti, nacqui io. Anch’io non avevo scelto il momento migliore e non mi stupisco se non fui accolto con grandi feste.

Furono i miei tre fratelli, che fortunatamente avevano tutti un lavoro, ad aiutare i miei genitori. Giacomo, il secondogenito, si occupò molto di me, assai più di mia madre, che comunque mi voleva bene, e di mio padre, che prima mi ignorò e poi, quando i problemi divennero evidenti, mi rifiutò completamente. Con la scusa che la mamma era troppo vecchia per occuparsi di un bambino, si sbarazzò di me e fu Giacomo a prendermi in casa: divenni di fatto il suo terzo figlio. Fu Giacomo a mantenermi agli studi. Fu lui a incoraggiarmi a proseguire fino all’università.

Decisi di iscrivermi a economia e commercio, benché i miei risultati scolastici non fossero stati particolarmente brillanti. Ma al liceo c’erano stati altri problemi, che avevano interferito con lo studio. Avevo vissuto quegli anni in una condizione di dolorosa insoddisfazione, che mi aveva reso difficile sopportare la vita di classe e me stesso. Più volte avevo pensato al suicidio.

Mi iscrissi all’università, spronato da Giacomo, per dimostrare a tutti che valevo anch’io qualche cosa. Ce la feci, con quella tenacia che è sempre stata una delle mie poche virtù. E poi, in fondo lo studio era l’unico aspetto della mia vita che mi dava soddisfazione.

Dopo l’università, venne il lavoro, che sostituì lo studio come fonte di gratificazioni: fui assunto al Comune di Milano e mi trovai bene, perché il lavoro mi piaceva. L’ambiente degli uffici era abbastanza cordiale ed io comunque avevo ormai sviluppato una spessa scorza, che mi difendeva nei miei rapporti con gli altri.

Lavoravo, leggevo molto, andavo al cinema o a teatro o ai concerti, spesso da solo, talvolta con Giacomo e sua moglie. A venticinque anni misi su casa per conto mio.

E probabilmente la mia vita sarebbe continuata a scorrere come un fiume tranquillo, in un paesaggio piatto, se quella sera del 1998 non avessi accettato l’invito a casa di Emanuele.

Emanuele era un collega di lavoro, l’unico con cui avessi un rapporto di amicizia. Apprezzavo la sua disponibilità, la sua simpatia espansiva, ma non invadente. Mi forzava talvolta ad uscire dalla mia ursinità, come la chiamava lui.

È vero, sono sempre stato un orso. Ho sempre avuto difficoltà a stabilire un rapporto spontaneo con gli altri. E gli altri con me. Non avevo avuto nessun vero amico al liceo, né all’università. E mi ero sempre più rinchiuso in me stesso.

Emanuele mi aveva scosso, mi aveva invitato al cinema, a teatro, a cena a casa sua. Io prima avevo rifiutato, poi mi ero lasciato trascinare e infine avevo incominciato a prendere l’iniziativa anch’io. Mi rendevo conto che nei miei confronti Emanuele non provava pietà, ma un affetto reale.

I suoi amici mi piacevano e avevo stabilito buoni rapporti con loro: grazie all’esempio di Emanuele, riuscivano ad evitare gli infiniti errori a cui ero divenuto insofferente.

Emanuele era l’unica persona al mondo che avrebbe potuto portarmi a una festa. Al liceo non avevo mai partecipato feste. Mi era bastata l’unica festa della terza media, i sorrisi di compatimento e le risatine di scherno.

Ma a casa di Emanuele le serate erano un’altra cosa. Musica non sparata, ma di sottofondo, un numero di ospiti limitato, non il solito viavai di gente portata da amici degli amici. Poche persone che si incontravano e chiacchieravano. Qualcuno si faceva una canna, ma con molta discrezione. Qualcuno ballava, se ne aveva voglia, anche questo con molta discrezione.

Io rimanevo a chiacchierare con Emanuele e con alcuni dei suoi amici, curiosavo nella libreria e stavo bene. Anche quella sera stavo bene.

Fino a che entrò Mauro. Ero vicino alla porta in quel momento, perché parlavo con Emanuele. La prima cosa che mi colpì fu il calore con cui l’accolse Emanuele. Emanuele era sempre sorridente e cordiale, ma nel suo abbraccio c’era un affetto fortissimo. Lo strinse e lo tenne stretto a sé, un bel momento. Poi gli prese la testa tra le mani e lo fissò, sorridendo, ma commosso. Gli occhi gli luccicavano.

La seconda cosa che mi colpì fu Mauro.

Mauro aveva la mia età ed era alto e massiccio. Non che fosse grasso, no. Certamente aveva qualche chilo di troppo (era appena tornato dagli Stati Uniti), ma anche una massa di muscoli di tutto rispetto. Aveva un sorriso dolcissimo, una barba corta, rossiccia, e capelli di un castano piuttosto scuro. Era estate e potevo vedergli le braccia coperte di un pelame rossiccio.

Alto, forte, un po’ abbondante, peloso, un bel viso, uno sguardo dolce come il sorriso. Fisicamente Mauro era esattamente l’uomo dei miei sogni.

Mi sentii improvvisamente infelice, di una tristezza sconfinata.

- Adesso ci sediamo in biblioteca e mi racconti tutto. Tutto.

Emanuele continuava a tenere le mani sulle guance di Mauro, come se non riuscisse a staccarsi.

- Tutto? Qui, questa sera? E i tuoi ospiti?

- I miei ospiti possono fare a meno di me. E comunque anche Erica e Giovanni di sicuro vogliono sapere. Vieni.        Voltandosi mi vide e si fermò.

- Mauro, questo è Philippe. Un vero orso, ma non morde. Philippe, questo è Mauro, il mio migliore amico.

Ci stringemmo la mano. C’era molta cordialità nella stretta di Mauro.

- Vieni, andiamo in biblioteca. Vieni anche tu, Philippe. Sono sicuro che Mauro ti piacerà.

Quanto a quello, Emanuele aveva perfettamente ragione. Mi piaceva già. L’unico problema è che certamente io non sarei mai piaciuto a Mauro.

Emanuele ci spinse in biblioteca, chiamò i due amici che aveva nominato prima e ci sedemmo chi sul divano, chi su una sedia, mentre Mauro si metteva sulla poltrona. Sorrise, fingendosi imbarazzato.

- Mi sento sotto processo. Voglio un avvocato.

Emanuele e gli altri cominciarono a domandare e, anche se nessuno mi raccontò che cosa era successo prima della partenza, non mi fu difficile ricostruire la storia di Mauro. Era partito due anni prima per gli USA, andando a lavorare come informatico nella Silicon Valley. Ma la motivazione di quella partenza non era di tipo lavorativo: c’era stata una storia d’amore, che aveva provocato molta sofferenza ed aveva spinto Mauro ad andarsene, per tagliare definitivamente.

Giovanni lo provocò, chiedendogli delle sue conquiste:

- Spero che tu ti sia anche divertito. Le occasioni per incontri piacevoli non ti sono certo mancate. Non mi dirai che a San Francisco non ti sei dato da fare: non c’è la più importante comunità gay del mondo?

Mi chiesi se avevo capito bene e mi sembrò che il cuore impazzisse. Mauro era gay? Gli altri lo sapevano e ne parlavano con quella tranquillità?

In risposta a Giovanni, Mauro sorrise. C’era una sfumatura di tristezza in quel sorriso.

- No, ero troppo occupato a leccarmi le ferite.

Emanuele lo guardò, una ruga verticale sulla fronte che tradiva la sua empatia con la sofferenza di Mauro. Giovanni riprese, senza più sorridere:

- Ancora?

- Ho tempi lunghi, molto lunghi. Comunque le ferite si sono rimarginate, perfettamente. Ed alla fine del soggiorno ho fatto qualche giro per i locali di San Francisco.

- E invece delle ferite hai leccato qualche cos’altro.

Alla battuta di Giovanni, Mauro sorrise e scosse la testa.

- Non è il mio mondo, anche se ho apprezzato alcuni spettacoli e confesso di essermi divertito.

Guardavo l’uomo dei miei sogni, che non si vergognava di essere gay e che era pienamente accettato dai suoi amici. E mi sentivo sempre più infelice. Mi sembrava di non essere mai stato tanto infelice. E dire che di infelicità nei primi venticinque anni della mia vita avevo avuto una dose più che sufficiente.

La nostra conversazione in biblioteca andava avanti da quasi un’ora. In realtà io non avevo aperto bocca. Ma quando Mauro cominciò a informarsi di ciò che era accaduto a Milano durante la sua lunga assenza, Emanuele mi tirò in ballo:

- E poi c’è Philippe, di cui ti ho parlato. Come avrai capito, dal fatto che non ha aperto bocca, è un vero orso. Ma in fondo non è cattivo. In fondo.

Rise, ammiccando. Io non sapevo che cosa dire. Mi sentivo del tutto inadeguato. Mauro mi sorrise.

- Bene, Philippe, se frequenti Emanuele avremo modo di fare conoscenza. Ora che sono ritornato, non lo mollo di sicuro. Ma adesso, signori, io vado a letto: devo recuperare il fuso orario. E sono completamente fuso.

Lo accompagnammo alla porta. Emanuele lo abbracciò ancora, stretto.

- Che bello che sei tornato. Mi sei mancato moltissimo.

Mauro lo fissò sorridendo.

- Anche tu mi sei mancato, lo sai.

Mauro uscì e mentre cominciava a scendere le scale io mi dissi che era alto un metro e ottantadue.

Fin da bambino, ero in grado di indicare l’altezza di una persona al centimetro. Non ho mai sbagliato di più di un centimetro. Realmente.

Non ero mai stato tanto infelice come quella sera, mentre lo guardavo scomparire.

Mauro era 1.82.

Io sono 1.32.

 

Non sono un nano.

Per anni e anni ho pensato di scrivere, cominciando la mia opera con questa frase. Non so che cosa volessi scrivere: in alcuni periodi pensavo a un’autobiografia, in altri ad un pamphlet sui pregiudizi nei confronti dei bassi, talvolta accarezzavo l’idea del suicidio e pensavo alla lettera di addio, il mio testamento spirituale, un feroce atto di accusa nei confronti di coloro che mi stavano intorno. Altre volte a un romanzo, che ovviamente aveva per protagonista un uomo di statura molto bassa, ma non un nano. Avevo dodici anni quando cominciai seriamente a pensare di scrivere e l’idea continuò a frullarmi in testa almeno fino ai vent’anni, quando l’abbandonai definitivamente, quando rinunciai a gridare la mia rabbia nei confronti dei compagni di scuola, della gente intorno a me. Cominciai a ignorarli. Cominciai a contare solo su me stesso. 

Non so perché la mia crescita sia stata così lenta e si sia fermata così presto. Forse i miei genitori erano troppo anziani per poter generare un figlio sano.

Quando ero bambino mi rendevo conto che ero più basso dei miei compagni dell’asilo o della scuola elementare, ma la differenza non era così forte, non nei primi anni almeno. A un certo punto però, verso la terza elementare, mi accorsi che la forbice si stava divaricando: gli altri presero a crescere rapidamente, mentre io restavo al palo.

Fu allora che la statura divenne la mia ossessione. A quindici anni lessi sulla Treccani che erano considerati nani coloro che non raggiungevano i 100 centimetri: ora so che questi criteri sono superati, ma allora mi aggrappai a quelli. Io, con i miei 128 cm. (gli altri 4 centimetri li avrei conquistati negli anni seguenti) ero nettamente al di sopra. Io non ero un nano. Io ero solo basso.

Al liceo, a cui mi iscrissi, spalleggiato da Giacomo, contro la volontà dei miei genitori, non venivo più preso in giro. Venivo guardato con compatimento. La pietà mi dava un fastidio terribile.

Quando realizzai di essere gay, quel poco di mondo che ancora sembrava reggere, mi crollò addosso. Non ne parlai a nessuno, nemmeno a Giacomo. Sapevo che avere una vita affettiva sarebbe stato difficile per me, anche se mi fossero piaciute le donne, ma così non avevo speranze.

L’idea di frequentare la comunità gay mi atterriva, per un doppio motivo. In primo luogo evitavo il più possibile di incontrare nuove persone, perché il sentirmi esposto alla derisione o al compatimento degli altri mi infastidiva terribilmente. Figuriamoci in un locale gay, dove ognuno viene squadrato e valutato appena entra. Mi avrebbero riso in faccia.

E poi avevo una paura folle di essere scoperto. Per una persona normale è facile passare inosservata, ma con un metro e trentadue sei molto più riconoscibile. E se qualcuno mi avesse visto entrare in un locale? Se avesse parlato di me in giro, raccontando che ero gay? La mia vita era già abbastanza difficile così, senza aggiungere altri problemi. 

Ci provai a Berlino. Volevo vedere la città dopo la caduta del muro. Ma soprattutto volevo, lontano da Milano, conoscere la realtà di un locale gay. Fu un’esperienza del tutto negativa. Qualcuno si interessò a me, ma erano i classici collezionisti di trofei, quelli che volevano poter dire: “L’ho fatto anche con un nano!”

Mi rinchiusi ancora di più in me stesso.

In questa situazione avevo incontrato Mauro.

 

Quella sera alla festa, dopo la partenza di Mauro mi chiusi in un mutismo completo. Avrei voluto andarmene, ma mi sentivo troppo angosciato per affrontare la strada, la metropolitana, casa mia.

Emanuele si accorse del mio malessere e mi riportò in biblioteca. Gli dissi che non avevo niente e tenni la testa bassa, per non incontrare il suo sguardo. Allora lui mi sollevò di peso (è forte come un toro) e mi mise seduto sul tavolo. Poi mi fissò negli occhi.

- Di qui non scendi se non mi spieghi che cos’hai. Che cosa è successo, piccolo?

Credo che se chiunque altro mi avesse chiamato piccolo, lo avrei odiato. Ma nella voce di Emanuele c’era una tale tenerezza, che lessi l’espressione per quello che era: una dichiarazione di affetto.

Alzai lo sguardo su di lui e gli dissi la verità, almeno una parte della verità:

- Non è successo niente, ma mi sento infelice. Passerà.

- Che cos’è che ti ha fatto male? Qualche cosa che ho detto io, che ha detto qualcuno?

Alzai le spalle.

Emanuele esitò un attimo, poi proseguì:

- C’entra Mauro?

Rimasi spiazzato. Negai, senza convinzione. Emanuele intuì che il problema era lì, ma non comprese il motivo della mia sofferenza.

- Philippe, non so se è questo. Voglio bene a Mauro come un fratello. Mi è mancato moltissimo. In questi due anni mi sono sentito come se mi avessero tolto una parte di me, per quanto ci sentissimo regolarmente. Ma voglio bene anche a te. Molto. E se tu andassi via, mi mancheresti molto anche tu. Tengo alla tua amicizia. E credo che troverai in Mauro un altro amico, migliore di me.

Non ero geloso dell’affetto che Emanuele provava per Mauro. Ma le parole di Emanuele mi fecero comunque bene.

- Non credo che Mauro sia migliore di te. Grazie, Emanuele. Grazie di tutto. Stasera non va bene. Si sono risvegliate cose che… Domani andrà meglio.

- Domani è un altro giorno, si vedrà. Come dice Ornella Vanoni.

La citazione dotta mi strappò un mezzo sorriso, anche perché mi ricordavo che lo diceva sempre Rossella O’ Hara, e la nostra conversazione finì lì.

 

Emanuele aveva ragione. Nei mesi successivi ebbi modo di frequentare moltissimo Mauro, perché ogni volta che Emanuele combinava qualche cosa in gruppo, anche solo tre o quattro persone, Mauro c’era. Spesso uscivamo solo noi tre.

Più conoscevo Mauro, più mi piaceva. Era meno espansivo di Emanuele, ma altrettanto sensibile, se non di più. Era cordiale ed attento agli altri e non cercava mai di porsi al centro dell’attenzione.

Avevamo molto in comune: eravamo grandi lettori, amavamo gli stessi autori, andavamo volentieri a teatro ed a vedere film che non erano di cassetta. Fu proprio il cinema ad avvicinarci, un’improbabile rassegna di Bergman che diedero in una sala, una specie di cineforum anni ’70 spuntato fuori stagione e destinato a spegnersi quasi subito. Andammo a tutti e dieci i film, dieci martedì di seguito. Talvolta c’era anche Emanuele, qualche volta qualcun altro, ma in quattro occasioni c’eravamo solo noi.

Mauro abitava a cinquecento metri da casa mia e tornavamo a casa a piedi dal cinema: un lungo tragitto, ma una bella occasione per parlare e conoscerci meglio. Era stato Mauro a proporlo e naturalmente io non avevo rifiutato. Tornavamo da soli a piedi anche quando c’erano altri amici. Magari ci sedevamo un po’ con loro in un bar, poi ci si divideva e noi rifiutavamo un passaggio.

Sapevo che mi stavo ficcando nei guai da solo. E che avrei sofferto moltissimo. Perché quella che per Mauro era un’amicizia che nasceva, per me era un amore. Un amore senza speranza.

Tornando a casa, in una Milano autunnale sempre più fredda, parlavamo di cinema e dell’America, di lavoro e di amicizia, di libri e delle famiglie d’origine.

Non di rado ci fermavamo in un caffè o anche solo in un giardino pubblico, perché entrambi avevamo voglia di parlare ancora un po’.

Più volte, giunti sotto casa mia, al momento di separarci, mi venne voglia di dire a Mauro di salire, ma mi bloccavo, assalito dalla paura. Paura di perdere il controllo, di sussurrargli il mio amore. Paura della sua reazione, che non sarebbe stata di scherno, ma mi avrebbe fatto ugualmente soffrire. Paura che quell’amicizia perfetta entrasse in crisi. 

Parlammo anche di omosessualità. Mauro fece due volte riferimento alla sua storia d’amore ed io mi scoprii pieno di una rabbia feroce contro quel Franco che lo aveva fatto soffrire in modo atroce, prendendolo e respingendolo, come se Mauro non fosse stato… Mauro.

La seconda volta gli chiesi se a volte non fosse difficile manifestare così apertamente la sua omosessualità. Mi tremò un poco la voce mentre glielo chiedevo.

- Non vado in giro con un cartello. Ne parlo con quelli a cui ho voglia di parlarne. Non si vede da fuori. Questo è il mio vantaggio su di te. Lo svantaggio è che nessuno ti fa una colpa se sei basso, mentre il mio modo di essere per qualcuno è una perversione. La pietà degli altri fa male, ma ti assicuro che anche il disprezzo, il disgusto non sono piacevoli.

Come sempre, il suo modo di porsi, tranquillo e diretto, mi colpì. Faceva riferimento alla mia statura per quello che era: un problema che per me era molto grave. Capiva esattamente come io mi sentivo e gli pareva del tutto naturale. Non cercava di dirmi che non aveva importanza e che c’erano altre cose molto più significative. E quando si parlava di altre cose, la mia statura era del tutto irrilevante.

- No, io… avrei una paura dannata, al tuo posto. Se ne parli, lo vengono a sapere anche quelli a cui magari non lo diresti.

- Ed allora? Non è un reato. Sono così. Non me ne vergogno. Neanche un po’.

- No, capisco. È… credo che sia difficile dirlo a quelli che conosci, a cui vuoi bene. Se loro ti rifiutano, ne soffri…

- Chi davvero ti vuole bene, può faticare ad accettarlo, ma poi capisce. E cresce anche lui.

Credo che a quel punto Mauro avesse già capito, ma non mi forzò la mano. Toccava a me decidere se volevo dirlo o meno.

- Come sei riuscito a dirlo a Emanuele?

- Non avrei potuto nascondere una cosa del genere al mio migliore amico. Quando cominciai a capire, ne parlai subito con lui. Ci dicevamo tutto.

Mi guardò, aspettando che io dicessi qualche cosa. Poi aggiunse:

- Fa bene dirlo. Non hai più la sensazione che sia un angolo sporco da tenere nascosto. È troppo importante per rinunciare a confrontarsi con gli altri, per viverlo come una colpa, un segreto di cui vergognarsi. E se per quello qualcuno ti volta la schiena, meglio così. Certi amici è meglio perderli che trovarli.

Allora fissai Mauro negli occhi e gli dissi:

- Lo sono anch’io. L’avevi capito vero?

Mauro annuì, ma non disse nulla. Aspettava che io proseguissi.

- Non l’avevo mai detto a nessuno, nemmeno a Emanuele. Mi vergognavo troppo.

Mauro sorrise:

- Emanuele dirà che non è possibile che i suoi amici migliori siano tutti e due gay.

Poi aggiunse:

- Vedrai che dirlo è più facile che esserlo.

Tirando fuori il coraggio da non so dove, aggiunsi:

- Comunque credo di esserlo… so di esserlo, ma … non ho mai combinato nulla.

Mauro annuì:

- La statura non semplifica neanche questo, vero?

Scossi la testa. Mentalmente lo ringraziai per aver capito subito, per aver trovato le parole giuste, senza ferire e senza nascondere. E lo maledissi per essere così perfetto. Perché ai miei occhi Mauro era perfetto.

Ero contento di aver parlato a Mauro. Ero contento di poterlo dire ad Emanuele senza problemi. Mi liberavo da un peso. Ma un altro pensiero continuava a disturbarmi. C’era ancora un segreto.

Quando Mauro, per allentare la tensione, disse: - Adesso possiamo parlare anche di uomini. Che tipo di uomini ti piace? - Io avrei voluto rispondere: - Quelli come te.

Ma non lo dissi. Ero sicuro che non l’avrei detto mai.

Il nostro rapporto divenne ancora più forte e più volte parlammo di sessualità. Mi piaceva il modo sereno con cui Mauro affrontava questi argomenti, senza falsi pudori, ma senza esibizionismo. Volevo capire certi aspetti del mondo e dei rapporti gay, avevo molte curiosità da soddisfare e Mauro mi dava qualche lezione teorica. Scherzavamo sull’argomento: diceva che mi stava facendo un corso di scuola guida e che presto avrei saputo tutto di teoria. Per la pratica Mauro mi avrebbe procurato un escort, magari Parker Williams o Steve Cruz: così avrei avuto il massimo. Io avrei voluto dirgli che per me il massimo era lui.

Ridevo alle sue battute, ma avevo le idee chiare: io volevo sapere soprattutto di lui. Gli ponevo domande personali e più di una volta fui invadente, anche se Mauro non mi fece mai pesare la mia mancanza di discrezione. Si limitava a rispondere in modo più evasivo e allora io capivo che avevo esagerato e facevo un passo indietro. Una volta, quando parlavamo delle lezioni di pratica che avrei preso, gli chiesi se lui era mai andato con un escort. Era una domanda molto diretta ed estremamente invadente, ma Mauro mi rispose. Sì, in America c’era stato, un’unica volta, proprio con uno di quei grossi nomi che nel mondo gay tutti conoscevano (negli USA Mauro aveva uno stipendio incredibile). Mi spiegò che in quei giorni non se la sentiva di avviare una relazione e che non era mai stato interessato al sesso facile, per cui, in un momento in cui la sofferenza era ancora forte, aveva contattato attraverso Internet Parker Williams ed era andato a letto con lui. Non si vergognava di quello che aveva fatto, era stata una serata favolosa, ma non l’aveva ripetuta: non era quello che gli interessava. Sul momento mi stupii che fosse così disponibile a parlare di sé. Solo più tardi, ripensandoci, capii che l’aveva fatto per aiutarmi, per dirmi che se volevo provare con un escort, lui non ci vedeva niente di male. 

Scoprii che Mauro non aveva un compagno, ma questo non gli pesava e non andava per locali a cercare compagnia per una notte. Ed io mi dicevo che allora non avevo davvero nessuna possibilità: se Mauro fosse stato uno sempre in calore e a caccia, magari avremmo potuto provare qualche cosa, gli avrei chiesto di iniziarmi, fingendo di volerlo fare solo per soddisfare la mia curiosità, senza che ci fossero sentimenti di mezzo.

Non credo che avrei mai osato proporglielo davvero e comunque con Mauro non sarebbe stata la via giusta.

Ma io non potevo tornare indietro rispetto ai miei sentimenti: ormai ero innamorato, come non mi era mai successo.

 

Il padre del nostro amico Giovanni morì improvvisamente e noi decidemmo di andare al funerale, a San Benedetto del Tronto. Prendemmo un giorno di ferie dai nostri lavori e partimmo con tre auto: Mauro, Emanuele, Denis ed io viaggiammo insieme, sulla Bravo di Emanuele. Raggiungemmo San Benedetto un’ora prima del funerale. Poco dopo la cerimonia gli altri ripartirono, mentre noi decidemmo di rimanere un po’ con Giovanni. Due amici comuni, che erano arrivati uno la sera prima in treno e l’altro nell’auto di Francesco, si fermarono con noi. Non ci rendemmo conto del problema fino a quando non fu ora di partire: al momento di salire in auto, scoprimmo che tutti e due contavano di venire con noi. Uno aveva chiesto a Denis, l’altro ad Emanuele ed ognuno aveva ricevuto una risposta positiva, perché Emanuele e Denis non si erano parlati. L’equivoco non era risolvibile facilmente: uno di loro (o di noi) avrebbe dovuto viaggiare in treno di notte. Mauro propose di salire tutti in auto, anche se eravamo in sei. Io mi sarei seduto sulle ginocchia di Emanuele e poi sulle sue, quando loro due si sarebbero scambiati al posto di guida. 

Accettammo la proposta e incominciò il lungo viaggio.

Mauro guidava e per un po’ chiacchierammo e scherzammo sulla situazione, poi la stanchezza ebbe il sopravvento: ci eravamo alzati tutti prestissimo per arrivare in tempo al funerale ed avevamo passato in auto gran parte della giornata. Alle undici dormivano tutti, compreso Emanuele, che avrebbe dovuto dare il cambio a Mauro. Io sonnecchiavo, appoggiato contro di lui.

Mauro non svegliò Emanuele, ma quando questi si riscosse dal sonno e si rese conto che Mauro guidava da cinque ore - e che ormai mancava meno di un’ora a Milano, gli lanciò una serie di improperi per non averlo chiamato e si mise alla guida. Mauro prese il suo posto ed io mi sedetti sulle sue gambe. Gli altri continuavano a dormire e Denis, che era in mezzo, ronfava.

La mia posizione non era delle più comode ed il culo mi faceva male. Mauro mi girò, in modo che mi trovassi seduto su una delle sue gambe, rivolto verso la portiera, dando la schiena a Denis, che continuava il suo concerto per trombone solo.

Mi appoggiai su Mauro. Non dormivo. Volevo sentire il calore del suo corpo. Ma quel calore era un liquore bevuto a digiuno. Mi resi conto di non riuscire a reggere. Appoggiai con dolcezza la mia mano sul petto di Mauro, in una carezza leggera. Lui mi teneva un braccio intorno alle spalle e con l’altra mano mi sfiorò i capelli e poi scese lungo la guancia. Era un gesto delicato, ma era più di quanto avessi mai ricevuto in tutta la mia vita adulta. Premetti la faccia contro il suo petto, per nascondermi. Mi sembrava che il cuore mi scoppiasse. Il desiderio esplose, violento e mi sentii sprofondare dalla vergogna, all’idea che Mauro potesse accorgersi della mia erezione, ma volevo godere quell’unico momento di intimità e tenerezza che la vita mi stava regalando.

Mauro mi accarezzò il collo, poi la sua mano scese lungo la mia schiena. Io pensai che non avrei mai più avuto una possibilità come questa e, mentre il cuore mi batteva all’impazzata, la mia mano scese fino ai pantaloni di Mauro. Sentii, attraverso la stoffa, la durezza ed il calore del suo sesso e mi parve di svenire.

Allora Mauro ricambiò la carezza e la sua mano mi accompagnò a raggiungere il piacere. Vorrei trovare le parole adatte per descrivere ciò che successe in quell’auto che nella notte entrava a Milano, ma non mi riesce. La dolcezza e la delicatezza di Mauro furono più di quello che ero in grado di sopportare: appena Mauro ebbe concluso la sua opera, gli allontanai la mano e scoppiai a piangere. Un pianto continuo, che non riuscivo ad arrestare. Io, che non piangevo da quando ero bambino, stavo piangendo a dirotto. Un poco di tenerezza stava tirando fuori tutti la sofferenza che avevo ingoiato.

Mauro mi pulì, poi mi premette la testa sulla sua spalla e mi lasciò piangere.

Scendemmo insieme a casa mia. Mauro disse a Emanuele che preferiva fare due passi, perché non voleva andare a letto intontito dalle ore in auto.

Non parlò di quanto era successo. Mi propose subito di andare a casa sua, per dormire insieme. Chiarì che pensava davvero solo a dormire, nient’altro: l’indomani mattina dovevamo andare a lavorare e avevamo ben poche ore di sonno davanti a noi. In serata avremmo potuto parlarci con calma. 

L’idea di trascorrere la notte al fianco di Mauro era più di quanto avevo mai sognato di poter fare. Mi spaventava, non poco, ma non me la sentivo di dormire da solo, avevo bisogno di avere Mauro vicino.

Cercando di mantenermi lucido, salii a prendere l’occorrente per la notte e per l’indomani, poi andammo a casa sua. Ci lavammo i denti, ci facemmo una rapida doccia, rigorosamente separati, e poi ci stendemmo, come due bravi bambini. Mauro aveva i pantaloni del pigiama (scoprii dopo che abitualmente non usava neanche quelli, ma quella sera aveva deciso di indossarli) ed io cercai di non fissare troppo quel torace robusto ed un po’ villoso, che mi mandava in brodo di giuggiole.

Mauro mi baciò sulla fronte, spense la luce e dopo pochi minuti incominciò a russare. Io ci misi un bel po’ ad addormentarmi. In realtà non volevo sprecare nel sonno i minuti così preziosi di quella notte. Pensavo che non avrei mai avuto un’altra occasione per stare accanto a Mauro.

L’indomani mattina la sveglia ci costrinse a lasciare il letto, tutti e due ancora intontiti dal sonno: avevamo dormito davvero molto poco. A colazione non parlammo di quello che era successo il giorno prima: scambiammo solo qualche parola. Mauro mi sembrava assorto nei suoi pensieri ed io temevo di disturbarlo. Non sapevo che cosa stesse pensando e avevo paura. Prima che uscissimo, mi chiese se mi andava di cenare fuori quella sera. Annuii, confuso.

Quel giorno lavorai piuttosto male, perché non riuscivo a distogliere il pensiero da quello che era successo la sera prima e da quello che sarebbe successo a cena.

Al ritorno a casa trovai un messaggio di Mauro in segreteria. Per un attimo pensai che volesse disdire l’appuntamento, ma mi avvisava solo di vestirmi in modo elegante. La richiesta mi sorprese. Avevo le idee sempre più confuse.

In effetti Mauro mi portò in un ristorante di lusso. Io non ero abituato a frequentare posti di quel tipo (e Mauro neppure, come mi disse poi), anche se mi era capitato di andarci in occasione di matrimoni o battesimi.

 

Ricordo benissimo la saletta in cui ci sedemmo, le tovaglie bianche ricamate, lunghe fino a terra, il tavolo spazioso, l’ambiente ovattato in cui tutti parlavano a voce bassa.

Non conservo invece memoria di quello che mangiai; mi è rimasta solo l’immagine del dolce, che non assaggiai neppure. Non perché temessi che non fosse buono (aveva un aspetto bellissimo ed in un’altra occasione scoprii che il gusto era all’altezza dell’apparenza). Ma Mauro scelse quel momento, per dirmi, con la serenità e la delicatezza che lo contraddistinguono, che si era innamorato di me.

Fu un disastro: incominciai a piangere come un vitello, gettando nel panico Mauro ed attirando sguardi preoccupati o curiosi dai camerieri (per fortuna, essendo un ristorante di lusso, erano un modello di discrezione) e dagli altri tavoli, mentre il gelato si scioglieva nel piatto.

Mauro stava già cercando di recuperare, dicendomi che non dovevo preoccuparmi, che lui capiva benissimo che da parte mia ci potesse essere solo amicizia e che si scusava di aver male interpretato, la sera prima… Lo interruppi in modo un po’ brutale, mentre cercavo (con scarso successo) di bloccare le lacrime e (con un successo maggiore) di frenare il desiderio di saltargli al collo:

- Ti amo, Mauro, da un pezzo, e se non l’hai capito sei proprio scemo.

Mauro sorrise, rinfrancato: era evidente che temeva che io potessi dirgli di no. E a me, innamorato perso, sembrava impossibile che lui potesse avere qualche dubbio. Come si fa a dire di no a Mauro?

Fu così che quella sera a casa di Mauro (io sarei stato disponibile anche nel ristorante, ma non era proprio possibile), passammo dalla teoria alla pratica.

 

Torniamo in quel locale ogni anno a festeggiare il nostro anniversario. Il carpaccio di ananas con gelato e crema di frutti di bosco è la fine del mondo.

 

2010

 

 

 

 

 

 

 

 

Area aperta

Storie

Gallerie

Indice

 

 

Website analytics