Il mercenario I due prigionieri sono
appesi per i piedi nel cortile, nudi. Uno è sicuramente già morto, l’altro è
stato meno fortunato ed è ancora vivo. Non so se sia cosciente, perché lo sguardo
è velato, ma vedo il torace sollevarsi e abbassarsi in un respiro affannoso.
Ha diverse ferite e il sangue cola lungo il corpo. Il soldato che è davanti a
lui ride. Ha un grosso coltello in mano. Il soldato vibra una
coltellata al ventre. L’uomo emette un grido strozzato. Il soldato muove il
coltello verso l’alto, aprendo completamente il ventre del prigioniero.
Mentre le viscere escono, io mi volto e me ne vado. Ho ammazzato, più volte:
sono stato un marine e poi guardia del corpo in situazioni e paesi in cui la
morte è sempre in agguato. Non mi è dispiaciuto uccidere. In alcuni casi l’ho
fatto con piacere. Ho visto molte volte trucidare altri uomini, anche con
ferocia, ma questi soldati con cui combatto sono soltanto dei figli di
puttana assetati di sangue. Non che gli altri, le truppe governative, siano
meglio: ho visto i villaggi distrutti dall’esercito, le donne stuprate. Ho
visto quello che fanno ai nostri quando li catturano. Quello che faranno
anche a me, perché so benissimo che la battaglia che combatto è persa. Da
quando è cambiato il comando militare dell’area in cui operiamo, abbiamo
subito una serie di rovesci e siamo rimasti ormai pochissimi, appena una
trentina di soldati locali e quattro mercenari: io, Johannes, Kurt e John. Ci
ammazzeranno presto e non sarà certo una gran perdita per l’umanità. Un po’
di figli di puttana in meno. E un coglione in meno: io. Perché sono qui, a
combattere una guerra del cazzo, di cui non m’importa un cazzo, insieme a
uomini che disprezzo? La risposta l’ho già fornita: sono un coglione, un
emerito coglione. Volevo scappare, scappare il più
in fretta possibile da quello che sarebbe successo se fossi rimasto negli
USA, da quello che era già successo, perché ormai era
troppo tardi anche per fuggire, avrei dovuto capirlo, ma quando uno è
coglione, è coglione. Sono scappato a gambe levate, accettando di combattere
in questo fottuto paese africano, dove lascerò la pelle, squartato e castrato
da qualche nero di merda o da un altro bastardo mercenario come me. Johannes e Kurt ritornano.
Parlano in tedesco tra di loro. Sono allegri, lo spettacolo gli è piaciuto.
Poi si rivolgono a me: - Perché te ne sei andato,
Mark? Era divertente. Yannick ci sa fare con il
coltello. Alzo le spalle. Ma loro
non demordono. Mi stanno sul culo e lo sanno benissimo, per questo insistono. - È il bello di questo
posto. Nessuna regola. Puoi fottere, castrare, ammazzare come vuoi. Nessuno
ti dice niente. - Piantatela di rompermi i
coglioni. Ridono. - Il nostro americano non
ama divertirsi con i prigionieri. - Il nostro americano è
una persona per bene, certe cose non le fa. - Non scopa neanche. E mentre lo dice, Johannes
si toglie gli stivali e si sfila i pantaloni: altro
non indossa, siamo sempre tutti a torso nudo, qui alla base, a sudare come
maiali per il caldo fottuto. Kurt lo imita e i due si stendono sulle brande
di fianco alla mia. Questi porci maledetti
scopano tra di loro quasi tutte le notti, senza nascondersi. Nel buio della
camera sento il loro ansimare, i loro gemiti. Se c’è la luna, posso vedere il
gioco dei loro corpi, sagome scure che si allacciano e si sciolgono, senza
pudore. E allora il corpo mi tormenta. Johannes ha il cazzo duro:
probabilmente lo spettacolo a cui ha appena assistito gli è piaciuto. Dice
qualche cosa in tedesco a Kurt, che mi guarda e scoppia a ridere. Poi Kurt si
sposta sulla branda di Johannes si mette sopra di lui, ma rovesciato, in modo
da avere la faccia sopra il cazzo di Johannes e il cazzo
sul suo viso. Appoggia le braccia di lato, per rimanere sollevato, e prende
in bocca il cazzo del compagno. Johannes inghiotte il cazzo di Kurt ed incomincia a leccarlo e succhiarlo. Il cazzo di Kurt si
riempie di sangue. Un bel 69. Rimango paralizzato a
guardarli. Non hanno mai scopato davanti a me alla luce del giorno. Ma
l’odore del sangue li ha eccitati e la certezza della fine imminente scioglie
le ultime remore. Anch’io cederei senza pudore al desiderio, ma ciò che
voglio si trova dall’altra parte dell’oceano, dove l’ho lasciato scappando
per venire a farmi fottere qui. Perché? Cazzo! Perché? Kurt e Johannes si stanno
divertendo un casino. Guardo il braccio di Kurt, completamente ricoperto da
un tatuaggio colorato, che avvolge il culo di Johannes. Due dita si muovono
lungo il solco. Guardo il cazzo di Kurt, teso verso l’alto, mentre Johannes
lavora instancabile la cappella. Ho anch’io il cazzo duro. Davanti ai miei
occhi, appare l’immagine di un altro corpo, di un altro viso. Cazzo! Quasi mi
sfugge di bocca il nome. Mi giro verso la parete
opposta. Non voglio vedere questi due porci che si divertono, anche se sento
i loro sospiri, i gemiti, l’ansimare. Chiudo gli occhi, mi afferro il cazzo e
penso a Jason. * Il corso di addestramento
era stato un premio. La BlackAngels, per cui
lavoravo ormai da due anni, manda spesso i suoi uomini ad addestrarsi. Ha la
fama di essere la migliore tra le varie compagnie che forniscono guardie del
corpo e combattenti e ci tiene a mantenerla: una fama del genere vale un
sacco di soldi. Ma pochi vengono mandati al centro di Greenback,
solo i migliori: sono corsi che costano un casino. Un mese di addestramento
duro, di altissimo livello. Quando mi dissero che ero stato selezionato, ero
contento come uno scolaretto che ha avuto un bel voto. Il nostro istruttore era
Jason, Jason Shepard, che tutti consideravano il
top. La migliore compagnia, il miglior centro di
addestramento, il miglior istruttore e il migliore allievo: gli ingredienti
del successo c’erano tutti. E il risultato è che mi ritrovo qui, in culo al
diavolo, a migliaia di chilometri da casa mia, dalla BlackAngels,
da Jason e a un passo dalla morte. Con Jason mi trovai subito
in sintonia, fin dal primo giorno. Ci faceva sgobbare come bestie, ma ero a mio
agio con lui. E lui con me. In capo ad una settimana avevamo incominciato a
scherzare, a chiacchierare, a prenderci per il culo, a sfidarci, a
raccontarci i nostri casini. Eravamo già diventati amici. Questo significava
che durante l’addestramento da me richiedeva ancora di più, ma io ci tenevo a
dare il massimo con lui e sarei stato disposto a schiattare piuttosto che
cedere. Prendemmo ad uscire insieme la sera e negli ultimi giorni sembravamo
due vecchi amici. Lo eravamo: mi sembrava di conoscerlo da sempre e l’idea di
separarci mi sgomentava. Incominciammo a fare progetti per lavorare insieme.
Jason avrebbe potuto farsi assumere dalla BlackAngels:
uno come lui lo avrebbero preso subito. Oppure sarei
potuto passare io al centro di addestramento: ero il migliore allievo
dell’anno e loro cercavano nuovo personale. Jason, che naturalmente avrebbe
tenuto il corso per gli aspiranti istruttori, mi assicurava che mi avrebbe
fatto crepare e che al confronto quest’ultimo mese mi sarebbe sembrato una passeggiata. Ma gli ridevano gli occhi mentre
lo diceva. Jason era l’amico che
avevo sempre desiderato. L’amico? Ero davvero cieco. Tenevo a lui come non
avevo mai tenuto a nessun uomo o donna e stavo bene con lui come non mi era
mai capitato. Tra di noi c’era un cameratismo molto forte, tipico di ambienti
militari, anche se non avevamo mai combattuto insieme. C’era anche contatto
fisico, parecchio, come sempre in questi casi: ci mettevamo le mani addosso,
facevamo la lotta (e lui aveva regolarmente la meglio), scherzavamo, come
fanno due vecchi commilitoni. Jason dovette assentarsi quarantott’ore poco prima della fine del corso. Sarebbe
tornato per l’ultimo giorno, ma all’idea che se ne andasse mi sentii perduto.
Dovevamo dare concretezza ai nostri progetti, non potevo perderlo così.
Quella sera, prima che lui andasse a prendere l’aereo, ero un cane bastonato.
Lo guardavo smarrito preparare la sua borsa da viaggio. - Non fare quella faccia,
Mark. Dopodomani sera sono già di ritorno. - Sì, ma poi… abbiamo bisogno di tempo per parlare…
per decidere… Jason aveva finito di
preparare la borsa. Si avvicinò, mi sorrise, mi abbracciò e disse: - Io ho già deciso. E
credo che abbia deciso anche tu. Il resto sono solo dettagli. E mi baciò sulla bocca,
mentre la sua mano scendeva a stringermi il culo. Lasciai che facesse,
troppo sconvolto per riuscire a dire una parola. Dopo un lungo bacio, si
staccò, mi sussurrò: - Cazzo! Come vorrei avere
il tempo per prenderti ora… Poi uscì di corsa: aveva i minuti contati. Io rimasi in piedi nella
sua stanza, lo sguardo perso nel vuoto. So che mi ripetevo: “Non
sono frocio.” Me lo ripetevo perché avevo bisogno di convincermi. Il sesso
non mi era mai interessato molto. Qualche scopata ogni tanto ci vuole.
Qualche puttana. Qualche gioco con i commilitoni, mi piacevano
un casino quei giochi. Qualche sega collettiva o reciproca, perché quando si è in guerra le occasioni di scopare non sono tante. Nessun
coinvolgimento. Jason dava per scontato
che io e lui avremmo scopato. L’idea mi sconvolgeva, perché non ci avevo mai
pensato. Mi piaceva vederlo nudo sotto la doccia, due volte in cui avevamo
lottato mi era venuto duro, ma mi sembrava una
reazione normale. Eppure sapevo che non era quello il problema. Magari potevo
pure dare via il culo, anche se non l’avevo mai fatto prima. A spaventarmi
era il bacio e ciò che avevo provato quando Jason mi aveva baciato. Scopare
con un uomo, farmelo mettere in culo, quello poteva anche andare. Ma i
sentimenti no, avevo paura. Non mi presi il tempo di
riflettere. Scappai. Scappai a gambe levate, là dove sapevo che Jason non mi
avrebbe mai raggiunto: in questo buco di culo di posto, dove tra poco
creperò. Intorno ai centri di addestramento ci sono sempre gli sciacalli che
cercano soldati da reclutare per qualche sporca guerra in Africa. Jason non
li poteva sopportare, una volta ne aveva preso a botte uno che si era
avvicinato a noi. Sapevo che Jason non mi
avrebbe mai cercato in un posto del genere. Non sospettavo che me lo sarei
portato dentro e che quando è così, scappare è inutile. * Siamo una dozzina: io,
John, l’inglese, e dieci neri. Avanziamo a fatica in questo terreno fangoso,
in cui spesso si sprofonda. In alcuni punti per procedere dobbiamo tagliare
le canne che crescono tutt’intorno e metterle sul fango, in modo che reggano
il nostro peso. Il caldo è intollerabile e siamo tutti sudati. Guardo la
schiena di John e vedo la camicia completamente inzuppata di sudore. Infine raggiungiamo
un’area in cui il terreno non è più paludoso e possiamo muoverci più
speditamente. La foresta non è molto fitta, qui, e non dobbiamo usare il
machete in continuazione. Siamo in ritardo: avremmo già dovuto raggiungere il
campo dove arrivano i rifornimenti, ma per fortuna non manca molto.
Acceleriamo il passo e infine avvistiamo la piccola pista. L’elicottero è lì,
ma non c’è nessuno in vista. Usciamo allo scoperto, rimanendo ai bordi
dell’area dove la vegetazione è stata abbattuta. Mi guardo intorno, alla
ricerca dei piloti. In quel momento l’inferno incomincia. Le raffiche di
mitra ci prendono in pieno. Vedo i miei compagni scagliati indietro dai
proiettili, sento le urla, l’odore della battaglia. John si porta le mani al
ventre, barcolla e cade. Io sono l’unico che non è stato colpito. Un gruppo
di uomini si stacca dalla foresta, alla mia sinistra. Punto il mitra, ma una
mano lo afferra e mi trovo a sparare in aria. Mentre mi volto per vedere chi
è quel figlio di puttana che mi ha bloccato, un pugno mi prende in pieno al
mento. Cado a terra, ma faccio in tempo a vedere la faccia di Jason, che mi
guarda, mentre la sua mano stringe la canna del mio mitra. Due neri mi sono addosso e
in un attimo mi trovo le mani legate dietro la schiena. Non oppongo nessuna
resistenza: la sorpresa mi ha paralizzato. - Alzati. Il calcio violento mi scuote.
Mi sollevo. Guardo Jason, senza parole, ma lui non si rivolge a me. Parla
agli altri: - Finite i feriti. Guardo i miei compagni.
Sono tutti morti, direi, a parte John, che si trascina sull’erba secca della
pista di atterraggio, lasciando dietro di sé una scia di sangue. Noi due
eravamo all’inizio della fila e le raffiche hanno colpito soprattutto dietro
di noi. Un nero gli si avvicina, un ghigno stampato in faccia. Lo volta con
un calcio poderoso. Gli preme il mitra contro il rigonfio dei pantaloni. John
scuote la testa, gli leggo negli occhi il terrore. Il nero preme il
grilletto. John emette un urlo atroce e sussulta, mentre i proiettili lo
trapassano. Jason scuote la testa. Prende la pistola, la punta e con un unico colpo tra gli
occhi mette fine all’agonia di John. Ci dirigiamo verso
l’elicottero. È Jason a occuparsene: versa la benzina e poi lancia un ramo
acceso. La fiammata divampa. Quando ci muoviamo, vedo i cadaveri dei due
piloti, dietro ad alcuni arbusti. So che è la fine del nostro gruppo: solo i
rifornimenti aerei garantivano la nostra sopravvivenza. Ma ormai la faccenda
non mi riguarda più. La marcia è lunghissima ed
estenuante. Con le mani legate dietro la schiena, spesso faccio fatica a
mantenere l’equilibrio. Cado e mi rialzo, senza pensarci. Un unico pensiero,
ossessivo, mi riempie la testa: Jason, qui. Jason. Tutti gli obbediscono. E
di colpo capisco: è lui il nuovo comandante militare della provincia di Mbomou, quello che ha inferto tanti colpi mortali al
nostro gruppo e lo sta distruggendo, lo ha già distrutto.
Ma perché è qui? So benissimo che la risposta sono io, non è un caso se ci
troviamo su due fronti opposti. Jason non è il tipo da arruolarsi in una
guerra come questa. Vuole vendicarsi perché sono scappato via senza nemmeno
dirgli addio? Non capisco. Camminiamo fino a sera,
quando raggiungiamo una strada. Ci sono quattro jeep, con alcuni soldati.
Saliamo e gli autisti mettono in moto le auto. Io sono sulla seconda, Jason
pure. È seduto davanti a me, ma non volta mai il capo indietro, come se non
esistessi neppure. Guardo la sua nuca e mi chiedo che cosa c’è nella sua
testa, perché è qui. La domanda ritorna in modo ossessivo, ma non ho una
risposta. È buio pesto, ormai, ma la
strada è in condizioni decenti e la jeep procede abbastanza velocemente. Dopo
un’oretta arriviamo a una località che non conosco, ma che certamente è il
forte di Kembe, la base del comando militare
dell’area. Si tratta di un vecchio forte che in passato è stato usato come
caserma e stazione di polizia e non ha più nulla della funzione difensiva che
aveva in origine. Scendiamo tutti dalla jeep. Jason non si volta nemmeno un
attimo a guardarmi. Mi accompagnano in una stanzetta, con un pagliericcio, un
tavolo e una grata alla finestra. In un angolo un buco puzzolente che serve
come cesso. L’uomo esce e chiude la
porta. Ritorna poco dopo, portando una bottiglia e una latta con dell’acqua.
La bottiglia per bere, la latta per lavarsi, suppongo.
Mi slega le mani ed esce. La stanza piomba nel buio, ma un po’ di luce lunare
filtra dalla finestra e man mano che i miei occhi si abituano, posso scorgere
gli oggetti. Rimango fermo, a lungo,
nonostante la sete e il bisogno di pisciare. Ho paura di muovermi, come se un
gesto potesse mettere in moto la mia testa, che non vuole pensare, che ha
paura dei propri pensieri. Infine mi riscuoto dal mio
torpore. Piscio. Bevo: svuoto metà della bottiglia in un attimo. Mi lavo la
faccia e poi mi rovescio la latta addosso, sciacquandomi. In pochi minuti
sono di nuovo asciutto. Mi stendo. Mi dico che non
dormirò di certo. In effetti, per un po’ rimango a pormi mille domande su
Jason, ma poi i pensieri si confondono e sprofondo nel sonno. Mi sveglio, più
volte, ma torno sempre ad addormentarmi. La luce del giorno mi
desta. Ho dormito, a lungo. Mi metto a sedere di scatto. E adesso? Una risposta arriva un’ora
dopo. Due uomini entrano nella cella. Uno mi fa segno con la testa di andare
con loro. Lo seguo. L’altro si mette dietro di me. Mi portano a una doccia.
Mi osservano mentre mi lavo. Non mi permettono di rivestirmi. Mi legano le
mani dietro la schiena e mi accompagnano in un ufficio. Prima che aprano la
porta, so già chi vedrò e il fiato si fa corto. Jason sta consultando
alcune carte, seduto a un tavolo. I due uomini mi spingono avanti. Mi fermo
di fronte a Jason. Tra di noi c’è solo la scrivania. Con un cenno del capo
congeda i due soldati: tutto si è svolto in silenzio, da quando sono venuti a
prendermi fino ad ora. Jason si alza e passa
dietro di me. Mi appoggia una mano sulla schiena e mi forza a chinarmi in
avanti. So che cosa significa e non cerco di resistere. Mi passa un piede tra
le caviglie ed io le allargo. Ora sono appoggiato sul ripiano di legno, il
culo bene aperto. Sta per incularmi. Mi prenderà con violenza, mi spaccherà
il culo. Quello che avrebbe potuto essere… basta!
Sono tutte cazzate. Seghe mentali. Conta solo il fatto che io per lui sono un
culo da prendere, prima di uccidermi. Aspetto un buon momento.
Non so che cosa stia facendo. Non volto la testa, non mi muovo. Poi sento le sue mani
sulle natiche. Mi apre bene il culo. Penso che succederà ora e cerco di non
irrigidirmi. C’è una strana tensione dentro di me. Ma ciò che sento non è
quello che mi aspettavo. È una carezza, umida. È la sua lingua che scorre sul
solco, dall’alto in basso, e poi risale. Mi coglie di sorpresa, mi
disorienta. Non riesco a capire. Il movimento si ripete, due volte, e la
lingua indugia sul buco, si spinge leggermente
dentro. Mi sfugge un gemito. Le mani di Jason sono
sul mio culo, lo stringono, con forza, poi passano di lato, in una carezza,
mentre le sue labbra scorrono su una natica, poi sull’altra, e i denti
affondano nella carne. Gemo ancora, senza nascondere il mio piacere. Sento
che il sangue sta riempiendomi l’uccello. Jason continua a mordere.
Alterna piccoli morsi leggeri e morsi violenti, che
mi fanno male, ma tutti accendono il mio desiderio. Le dita di Jason scorrono
sul mio culo, pizzicano, forte, accarezzano, strizzano, poi uno raggiunge
l’apertura e, con un lento movimento circolare, avanza pian piano fino a
entrare tutto dentro. Chiudo gli occhi. Questo dito nel mio culo è una
sensazione bellissima. Il cazzo mi si tende ancora di più. L’altra mano sta
accarezzandomi i coglioni, li stringe un po’, con delicatezza. Poi il dito
esce e la lingua ritorna. Io gemo ancora, senza vergogna. Chiudo gli occhi. Il mondo
non esiste più. Non penso, non voglio pensare.
Lascio che il piacere mi avvolga. Mi pare che il cazzo stia per esplodere,
tanta è la tensione. Le dita, le labbra, i denti,
la lingua… Anche a occhi chiusi, ho
l’impressione di vacillare, di essere sul punto di cadere. E ora lo sento,
forte, contro il buco ormai umido. Sta per succedere e lo desidero. Penso, in
un impeto di felicità, che non morirò senza che Jason mi abbia preso. Avanza
piano, lentissimo, mentre le mani mi stringono il culo, lo accarezzano, lo
pizzicano. Procede, sicuro, prendendo possesso di un territorio che desidera
solo una sottomissione completa. Vorrei urlargli di spingere più a fondo, di
spaccarmi il culo, ma non dico nulla. Continuo a gemere, senza freno. Che
pensi di me ciò che vuole, io voglio solo questo
cazzo che scivola dentro di me, che avanza, pianissimo, che dilata le mie
viscere, che mi dà piacere e dolore. Il dolore cresce, faccio fatica a reggere
quest’arnese che mi riempie il culo. Ma va bene così, voglio che sia così. Va
bene anche la sofferenza, anche quella è piacere, e il mio cazzo è la canna
di una pistola, calda e rigida. Infine l’avanzata si
arresta. Lentamente, molto lentamente, il poderoso sperone si ritrae e quando
lo sento uscire da me, il mio gemito è di sofferenza. Lo voglio, lo voglio dentro di me. Lo sento di nuovo affacciarsi e
procedere, sempre al suo ritmo lentissimo. Mugolo,
di puro piacere. Nuovamente vorrei gridargli di darci dentro, ma le parole
rimangono nella mia gola. Tra noi vi è un muro di silenzio, che solo i miei
gemiti osano superare. Questa volta sembra
procedere ancora oltre, mi pare che il suo spiedo mi trapassi il culo e il dolore
diventa più forte, ma anche il piacere. Sento che sto per esplodere, ma Jason
nuovamente si ritira ed io avverto il vuoto che lascia dentro di me quel
cazzo splendido. Jason procede, avanzando
ogni volta più a fondo e poi arretrando fino a uscire. Quando mi infilza, lo
fa in modo più deciso, ma ormai il culo si è abituato e attendo con ansia il
suo ingresso, come aspetto il dolore, forte, che mi investe nel momento in
cui spinge a fondo. Sono sull’orlo di venire e la tensione è intollerabile, ma Jason procede lento. Mi fa impazzire.
Vorrei urlare, di desiderio, di dolore, di piacere. Vorrei gridargli che lo
amo, ma questo non potrò dirglielo più. Scaccio dalla mia testa questi
pensieri. Ancora una volta il cazzo di Jason mi affonda nelle viscere e sento
che il piacere esplode. Gemo più forte, urlo, mentre
il mondo si annulla in un piacere violento, che mi annichilisce. Mi sembra di
svenire, in un pozzo di godimento puro. Avverto le sue spinte
diventare più forti, il dolore cresce, ma attutito dal piacere che ancora mi
avvolge, poi Jason si affloscia su di me. Rimaniamo a lungo così e
mi sembra che sia la perfezione. Non ho mai goduto tanto come
ora. Vorrei morire ora, che mi ammazzasse adesso. Ma Jason si rialza, ritrae
il suo spiedo. Ogni contatto tra noi svanisce. Jason è silenzioso. Poi
sento la sua mano che mi tira indietro la testa. Mi metto in piedi. Sul bordo
della scrivania c’è il mio sborro. Sento il suo dentro di me. Jason ha aperto la porta.
I due neri di prima mi vengono a prendere e mi riportano nella cella. Mi
slegano le mani e se ne vanno. Io mi stendo sul
pagliericcio. Le sensazioni sono ancora troppo forti: il piacere che mi
avvolge, il dolore al culo. Solo molto più tardi, man
mano che emergo in superficie, incomincio a pormi domande. Verrò ucciso? Sì,
so che è così. In questa guerra non si fanno prigionieri. Sarà Jason a
uccidermi? Se lui è il comandante, può anche salvarmi, se lo vuole. Lo vuole?
E ci sono altre domande che premono. Perché Jason è qui? Che cosa prova per
me? Perché mi ha preso così, regalandomi il piacere più intenso che abbia mai
provato? Perché non mi ha parlato? La giornata passa in una
specie di delirio. Non ho niente da fare, posso solo pensare e il pensiero
torna, ossessivamente, sulle stesse domande. La sera mi vengono a prendere di nuovo. Per fucilarmi? Per parlare
con Jason? Per scopare con lui? Ancora la doccia. Penso
che scoperò con Jason, che lui mi scoperà. E al
pensiero il cazzo si irrigidisce. I neri lo vedono e ridono. Si scambiano una battuta nella loro lingua. Ridono di nuovo.
C’è una luce cattiva nei loro occhi. Sono contento di non capire che cosa si
dicono. Questa volta non mi legano
le mani dietro la schiena. Jason è seduto, ma quando
entro si alza e passa davanti alla scrivania. La luce è accesa nella stanza.
I due neri escono. Jason inizia a spogliarsi, davanti a me. Lo fa con
lentezza ed io lo guardo. Guardo le braccia forti, il torace muscoloso, il
grosso cazzo. Jason mi mette le mani sulle spalle e mi fa inginocchiare
davanti a lui. So che cosa vuole e lo farò, sono felice di farlo.
Gli appoggio le mani sul culo, sento la sua pelle, l’intrico dei peli.
Avvicino il viso al suo cazzo e ne assaporo l’odore, forte: odore di piscio,
di sudore, di sborro. Jason non si è lavato e questo
effluvio mi ubriaca. Prendo in bocca la cappella, con delicatezza, ne sento
il sapore, il calore. È la prima volta che lo succhio a un uomo, come
stamattina è stata la prima volta che un uomo me l’ha messo in culo, e posso
solo chiedermi perché ho aspettato tanto. Conosco la risposta: perché non
avevo ancora conosciuto Jason. Dovrei chiedermi perché sono scappato da
questo, ma la risposta è nel desiderio violento che provo, nella tensione del
mio cazzo, rigido come una lama, nel senso di totale smarrimento davanti a
Jason. Era troppo per me, non mi sentivo pronto. Sono stato pazzo, lo so, ma
ora questo non ha importanza. Lavoro con la lingua e con
le labbra. Non sono esperto, ma voglio farlo impazzire di piacere, come lui
ha fatto con me questa mattina. Sento il cazzo acquistare consistenza nella
mia bocca e presto devo sollevarmi un po’ per continuare la mia opera. La sua
mano sui miei capelli mi trasmette un brivido. Perché sono scappato? Perché?
Avrebbe potuto essere così, ogni giorno, lontano da questa guerra infame. Lavoro a lungo,
accarezzando, leccando, succhiando. A tratti mordicchio anche leggermente.
Avverto che la tensione sale in lui. Anch’io sono teso allo spasimo. E infine
sento il gusto del suo seme, che mi riempie la bocca. Inghiotto,
assaporandolo, mentre le mie mani stringono il suo culo. Jason mi fa alzare e poi
si inginocchia davanti a me. Mi sembra incredibile, ma la sua bocca avvolge
la mia cappella e incomincia a lavorare. Ci sa fare, ci sa
fare! Io chiudo gli occhi e gemo di nuovo. Le mie mani gli carezzano la
testa, i capelli tagliati cortissimi. Mugolo di piacere, finché gli vengo in
bocca. Anche lui beve. Si rialza. Ci guardiamo negli occhi. Vorrei baciarlo.
Più di tutto vorrei baciarlo. Ma gli leggo in viso che non intende baciarmi. Si volta. Guardo il suo
culo, largo, forte, la sua schiena poderosa. Si riveste, lentamente,
ignorandomi completamente. Poi chiama i due neri e mi fa riportare nella
cella. Quattro giorni sono
trascorsi. Ho visto Jason tutte le mattine e tutte le sere. Abbiamo scopato
ogni volta, con variazioni di ogni tipo. Una sola cosa non abbiamo
mai fatto: non gliel’ho messo in culo. Adesso sono disteso con la
schiena sulla scrivania e le gambe sollevate, appoggiate contro il petto di
Jason, che mi fotte guardandomi negli occhi. Mi fissa, ma non dice una
parola. Non mi ha mai parlato, non ho mai cercato di parlargli:
il suo silenzio mi blocca, mi ricaccia indietro. Lascio solo che gemiti,
mugolii e grugniti urlino il mio piacere. La mia vita è una lunga
attesa nella cella e poi, due volte il giorno, un’esplosione di piacere quale
non credevo di poter provare. Vedo la tensione sul viso
di Jason. Vorrei che si chinasse su di me e mi baciasse, ma non l’ha più
fatto, da quella volta in cui ero ancora un uomo libero e non un fottuto
mercenario in attesa di morire. Vorrei sentire le sue labbra sulle mie, la
sua lingua nella mia bocca. Ma questo Jason non me lo offre e io so che non lo posso chiedere: è lui a condurre il
gioco. Jason mi afferra il cazzo,
che è duro. Guardo le goccioline di sudore sulla sua fronte. Mi sta scopando
da mezz’ora almeno, ho le fiamme in culo, ma il piacere che provo è senza
limiti. Non conosco più il confine tra piacere e dolore e a volte penso che
anche farmi uccidere da Jason sarebbe un piacere. Jason spinge con forza ora
e la sua mano, ruvida, mi avvolge il cazzo e si muove, scendendo e poi
risalendo. Urlo, senza ritegno, mentre il seme mi si sparge sul ventre e lui
viene dentro di me. Chiudo gli occhi, stordito
dal piacere. Poi li riapro. Jason mi sta fissando. Avvicina la sua destra
alla mia bocca. Un po’ del mio sborro è colato sulle
sue dita. Le pulisco con cura. Ha ancora il suo cazzo dentro il mio culo, ma ora che ha perso consistenza e volume, è meno
doloroso. Vorrei che ci rimanesse per sempre, ma Jason si stacca. Lascia che
le mie gambe ricadano sulla scrivania. Si china su di me e mi pulisce con la
lingua il ventre, leccando le gocce di sborro. Mi
guarda negli occhi, a lungo, e avverto la sua sofferenza, anche se non la so
spiegare. Jason si riveste. Io mi
alzo. Non ho vestiti da mettermi: in questi giorni
sono sempre stato nudo. Jason apre la porta e un
soldato mi riconduce alla mia cella. Sono esausto, come sempre
dopo che abbiamo scopato, ma sento una nuova angoscia dentro di me. Mi sembra
che lo sguardo di Jason fosse un addio e ho paura. Paura di morire. Paura di
perderlo, soprattutto, perché preferirei morire piuttosto che perderlo. La notte cala. È l’ora in
cui mi vengono a prendere, ma la porta rimane chiusa. C’è
un via vai nei corridoi, voci imperiose, poi il rumore dei motori. Sembra che
il forte si stia svuotando. Qualche azione importante? Se è così, di certo è
la fine del nostro gruppo, anche se non so che senso abbia per me parlare di
“nostro gruppo”: non me ne fotte un cazzo di quelli con cui combattevo. Nel forte sembra non sia
rimasto nessuno, ma più tardi un uomo mi porta la cena. Non mangio quasi
nulla. Penso allo sguardo di Jason. Era davvero un addio? Rischia di morire?
Se n’è andato e mi lascia alla morte? Voglio vederlo ancora, non voglio perderlo. Ma è assurdo, l’ho perduto in America,
quando sono scappato via, come un coglione. Dormo pochissimo e in
sogno rivedo Jason. Ho scopato questa mattina, ma mi sveglio con il cazzo
duro. La luce del mattino non
porta voci, passi, i soliti rumori di ogni giorno: sembra davvero che il
forte sia deserto. Mi danno colazione, poi pranzo. Mi hanno sempre dato
abbastanza da mangiare. Cibo da soldati, certo, ma ho mangiato meglio in
questi giorni che quand’ero con gli altri al campo. Dov’è Jason? Che cosa
stanno facendo? Perché non tornano? Il corpo mi tormenta. È ormai sera quando sento
di nuovo rumore di motori, voci, risate. Sono tornati. L’impresa dev’essere riuscita. Il soldato che mi viene a
prendere non mi porta alle docce o all’ufficio di Jason. Non so che cosa
voglia dire, ma non è di certo un buon segno. Usciamo nel cortile. Alla luce
dei fari dei camion vedo diversi cadaveri appesi a testa in giù, nudi. So
benissimo chi sono: potrei dire i loro nomi. Ci sono anche Kurt e Johannes.
Johannes si è beccato una raffica di mitra al torace. A Kurt devono aver
sparato alla tempia. Tutti e due non hanno più niente tra le gambe, come i
diversi neri. Alla fine della fila c’è
una corda che pende dal palo. L’uomo che mi accompagna si ferma lì davanti.
So che cosa significa: quello è il posto per me, l’ultimo di quei fottuti
mercenari che hanno cercato di creare un focolaio di guerriglia in questa
zona, per i luridi interessi di una multinazionale. È quello che mi merito,
ma l’idea di finire appeso lì mi sgomenta. Dopo essersi assicurato
che io abbia visto bene e capito ciò che mi aspetta,
il carceriere mi accompagna nell’ufficio di Jason. Quindi Jason è ancora
vivo. Lo rivedrò un’ultima volta e questo mi solleva dall’angoscia che provo.
Nell’ufficio c’è una
lampada accesa, che lascia gran parte della stanza in ombra e illumina solo
la scrivania. Jason è in piedi, voltato verso la finestra, ma quando entro va
a sedersi. Appena il soldato che mi ha accompagnato esce, Jason incomincia a
parlare. È la prima volta che mi parla, da quando ci siamo ritrovati. - Domani mattina ti
porteranno ai pali. Non so che cosa ti faranno: gli
ho dato carta bianca. Mi spiace, Mark, ma te la sei voluta. Rabbrividisco. Una disperazione cupa mi assale. Come è
possibile che Jason mi lasci ammazzare da quelli, in qualche modo orrendo?
Che mi uccida lui, se vuole vedermi morire.
Che cazzo significa: “Mi spiace, Mark”? Se gli spiace, che mi spari. Di morire non me ne fotte
un cazzo, no, in realtà voglio morire. Se Jason vuole davvero farmi torturare
da quei bastardi per ore e ore, è meglio che muoia.
Ma non in quel modo orrendo, no, non voglio. Tutto il mio corpo si ribella. E
dentro di me sento l’angoscia che mi toglie il respiro, al pensiero che Jason
mi abbandoni nelle mani di quelli con un “Mi spiace, Mark” del cazzo. Jason prosegue: - Io partirò prima
dell’alba. Ho svolto il mio compito qui. Raggiungo la capitale e rientro
negli USA. Lo guardo. Jason, l’uomo
che amo, mi molla a quei bastardi, sapendo che si divertiranno a torturarmi
per ore ed ore. Perché? Cazzo! Perché? La domanda mi sfugge, ma
non è quella che avevo in mente: - Perché sei venuto qui, Jason? Nella penombra posso
vedere il suo ghigno. Gli spaccherei la faccia. - Perché mi pagavano molto
bene: la compagnia per cui lavoravi tu non è l’unica interessata all’uranio
di quest’area… Non rispondo. So che non è
la verità. Non tutta la verità, almeno. - …e
poi perché prima che tu morissi volevo gustarmi il tuo culo. E questo era un
buon modo per farlo. Chino la testa. Non ho più
niente da dire. Vorrei soltanto morire. Ma non in quel modo orrendo. - Jason, non puoi
ammazzarmi tu? Jason tira fuori la
pistola dalla fondina. Il cuore ha un tuffo. Ora. Ora. Ma Jason scuote la
testa. - Non lo farò, Mark. Posa la pistola. Guardo
l’arma sulla scrivania, perfettamente illuminata dalla lampada. Se riuscissi
a prenderla, potrei spararmi. Jason mi guarda e poi
dice: - Perché te ne sei andato
così, Mark? La domanda mi coglie di
sorpresa. Che cosa posso rispondere? Posso dirgli la
verità? Quest’uomo mi abbandona a morire in un modo orrendo: posso dirgli che
avevo paura dell’amore che provavo per lui? Che senso avrebbe? Scuoto il capo. Non ce la
faccio a parlare. Jason attende una
risposta, ma non l’avrà da me. - C’è
una via d’uscita, Mark. Sollevo la testa e lo
guardo. Jason mi mostra tre
chiavi. - La mia jeep è nel
cortiletto sul retro, che si raggiunge da quella porta. Indica un uscio alle sue
spalle. - Queste sono le chiavi
della jeep. Qui c’è anche la chiave del portone: lì non c’è nessuna
sentinella. Comunque gli uomini si stanno ubriacando e tra qualche ora
dormiranno tutti, anche le sentinelle: ho fatto distribuire liquore in
abbondanza, tanto non c’è più nessun pericolo. Che si sbronzino pure. Una speranza si sta facendo strada dentro di me, ma mi sembra ancora
incredibile. - Qui ci sono tutti i
lasciapassare per arrivare alla capitale. Ci vogliono dieci ore di pista e
poi di strada. Devi partire un po’ prima dell’alba. In
serata sei alla meta. Lo guardo,
muto. L’angoscia è svanita. Jason ha preso un’altra
chiave. Me la mostra, insieme a quelle che mi ha già fatto vedere: - Portone, jeep, porta di
questa stanza: va chiusa a chiave. Come uscire dall’inferno. Con il
lasciapassare superi tutti i posti di blocco. Sorride. Non capisco perché la
stanza va chiusa a chiave, perché non può farlo lui, se rimane qui. O partirà
prima con un altro mezzo? Ha detto che contava di partire prima dell’alba. Ma
non ha importanza. In realtà ne ha, perché io vorrei ritrovarlo, ma per
questo c’è tempo, se torna in America so come ritrovarlo e lo farò, perché
non voglio perderlo. Ma quello che conta davvero è che Jason non mi vuole
morto. Mi sta spiegando come fare a scappare. Mi darà le chiavi ed io
fuggirò. Non so che cosa farò arrivato alla capitale, ma in qualche modo me
la caverò, sono in grado di cavarmela. Posso andare
all’ambasciata degli USA e raccontare qualche storia. Sono
cittadino americano, mi aiuteranno a rimpatriare. Nessuno sa che ho
combattuto con i mercenari, il mio nome non risulta. Non giriamo con
documenti di identità, in queste guerre. Solo Jason potrebbe rivelarlo, ma
non lo farà. - Grazie, Jason. Lui mi guarda. Non sorride
più. - C’è un prezzo da pagare,
Mark. Non capisco quale possa
essere il prezzo. Il mio culo? Ben volentieri, ma se l’è già preso più volte.
I soldi che mi hanno pagato? Escludo che gli interessino. Jason prende dal cassetto
un silenziatore. Lo infila sulla canna della pistola e lo fissa. Si alza e si
mette davanti alla scrivania. A un passo da me. La lampada è alle sue spalle
e lo vedo appena nella semioscurità che ci avvolge. - Devi guadagnartela,
la libertà. C’è qualche cosa nella sua
voce che mi spaventa. Mi porge la pistola. Non
capisco. - Prendila. Obbedisco. Ho paura. Ora
che ho la pistola in mano, ho paura. - Non faccio
scappare un prigioniero, Mark. Ma se un prigioniero mi ammazza, non ci posso
fare niente. Un attimo di pausa. Io lo fisso senza capire. - Sparami,
Mark. Pensa davvero che io possa
sparargli per scappare? Lo guardo, senza parole. Lui mi prende il braccio e
lo guida fino a che la canna della pistola non preme contro il suo torace,
all’altezza del cuore. Scuoto la testa. - O mi uccidi o finisci al
palo. Non capisco, ancora una
volta mi sfugge il senso di quello che Jason sta
facendo. Ma so con certezza che non lo ucciderò mai. - No. - Mark, quelli non si
accontenteranno di violentarti, come ho fatto io. Ti castreranno e poi ti
tortureranno per ore e ore. - Jason, tu sei pazzo. Jason annuisce. - Sì, Mark. Sono pazzo.
Tutto quello che ho fatto è una pazzia. Innamorarmi. Credere che il mio amore
fosse ricambiato. Inseguire l’uomo che amavo all’altro capo del mondo.
Prenderlo a forza. Tutto è stato una pazzia. È ora di mettere fine a questa
pazzia. Tu ritorni libero e io rimango qui. Spara, Mark. Libero il braccio dalla
stretta di Jason. Poso la pistola sulla scrivania. Avvicino il viso a quello
di Jason e lo bacio sulla bocca, poi infilo la lingua, quasi a forza, tra le
sue labbra. Per un momento Jason non risponde al mio bacio, poi apre la bocca
e le nostre lingue si incontrano. Le sue braccia mi stringono, le mie mani lo
accarezzano. Ma Jason si stacca da me.
Si volta, dandomi la schiena, e di nuovo chiede: - Perché te ne sei andato
così? So che gli devo una
risposta. Guardo la sua schiena, le
spalle larghe. Respiro a fondo e rispondo: - Non volevo accettare di
essere innamorato di te, Jason. Non mi ero mai innamorato di un uomo. Avevo
fatto solo qualche mezza esperienza, non l’avevo mai nemmeno preso in culo.
Mi sono spaventato e sono andato in tilt. Sì, lo so, c’erano modi più
semplici per dirti di no, ma sapevo benissimo che non sarei riuscito a dirti
di no se ci fossimo ritrovati. E sapevo che tu mi avresti ritrovato. Questo
buco del culo del mondo mi sembrava l’unico posto sicuro. Jason annuisce, anche se
definire questa regione un posto sicuro è ridicolo. Anch’io ripeto la mia
domanda. - Perché sei venuti qui, Jason? - Perché non sopportavo di
perderti. Perché volevo salvarti. Penso a quanto siamo
riusciti a complicarci la vita tutti e due. - E perché questa assurda
messinscena, adesso? - Perché se sei disposto
ad ammazzarmi, allora voglio che tu lo faccia. Io ti ho preso con la forza,
Mark. Se non t’importa niente di me, allora voglio davvero che tu mi ammazzi
e te ne vada libero. Continua a rimanere
voltato. Io gli passo le mani davanti e gli slaccio la fibbia dei pantaloni.
Incomincio a sbottonarli, finché non posso farli scivolare a terra. Finire di
spogliarlo è facile: in questo clima nessuno è molto vestito. Ora è nudo. Lo
guido ad appoggiare il torace sulla scrivania, il culo sospeso in aria e i
piedi a terra, ben divaricati. Guardo il suo culo, che ora la lampada
illumina, lasciando nell’ombra solo il solco. Lentamente mi spoglio
anch’io, senza dire una parola. Non abbiamo più parlato. Mi inginocchio e avvicino
il viso al suo culo. Ne sento gli odori. Quello di sudore è intenso: ha
trascorso le ultime due giornate e probabilmente anche una parte della notte
camminando e combattendo in questo clima afoso. Mi piace questo odore forte,
mi piace la sensazione della pelle umida sotto le
mie dita, che accarezzano il suo culo. Mi infilo nello spazio tra la
scrivania e le sue gambe. Prendo con le mani il cazzo, già teso. Lo annuso.
Anche qui l’odore di sudore è forte, quello del piscio ancora di più. Non ha
avuto tempo di lavarsi. Apro la bocca ad accogliere la cappella. Ne sento il
gusto. Mi piace, mi piace da impazzire. Con la
sinistra gli prendo i coglioni, li soppeso. Anche loro sono umidi. La mia bocca lavora il suo cazzo, la destra scivola
dietro, percorre il solco, raggiunge il buco. Un dito si infila dentro, senza
tanti complimenti. Jason bestemmia e mi piace
sentire la sua voce, dopo il silenzio in cui abbiamo scopato, mi piace la
violenza delle parole. Jason mugugna qualche cosa, mentre io gli succhio il
cazzo, gli accarezzo i coglioni, muovo circolarmente il dito che gli tengo in
culo. Voglio farlo impazzire di
piacere, come lui ha fatto con me. Gli stringo i coglioni con
più forza: voglio fargli male. Jason bestemmia di nuovo, ma sento nella
tensione della voce che tutto questo gli piace. Intanto succhio, lecco, mordo
e assaporo il gusto, l’odore, il calore, la sensazione della pelle umida,
della mucosa. Il mio cazzo è duro come
la pietra, ma dovrà aspettare, dovrà meritarsi il
bel culo che lo attende. Per il momento quel culo se lo gusta il dito, come
la bocca si gusta il cazzo e l’altra mano i
coglioni. Andrei avanti all’infinito, ma Jason bestemmia una terza volta e sento che
la bocca mi si riempie del suo sborro. Inghiotto e continuo a succhiare,
delicatamente, perché voglio assaporare ogni goccia del suo seme. - Basta! Gli lascio il cazzo, con
un certo rimpianto. Gli strizzo i coglioni ancora una volta, facendolo sobbalzare,
poi gli tolgo il dito dal culo e passo dietro di lui, rimanendo in ginocchio.
Gli passo la lingua sul solco tra le natiche, scendo fino al buco e premo. Le
mie mani gli hanno afferrato il culo e stringono, con forza. Voglio
lasciargli i lividi. Jason grugnisce. Bestemmie e grugniti. Lavoro a lungo sul solco e
sul buco, poi mi alzo e gli dico: - Pronto? - Porc…,
Mark, dacci dentro. Avvicino la cappella al
suo buco ed entro, deciso, ma non violento. Mi accoglie con un grugnito. È un piacere che mi toglie
il fiato, un piacere che sale dal mio cazzo che gli infilza il culo, dalle
mie mani che lo stringono e lo accarezzano, dalla mia lingua che gli percorre
il collo, l’orecchio, dai miei denti che gli mordono una spalla, il lobo, dal
mio naso che assapora l’odore intenso di sudore, dalle mie orecchie che si
inebriano al rosario di grugniti e bestemmie. È un piacere che mi squassa,
che mi riempie e che infine deborda, riempiendogli il culo di sborro. Mi abbandono su di lui, privo di forze, incapace
di reggermi in piedi e gli grido: - Ti amo,
Jason. La strada fino alla
capitale è lunga. I primi cento chilometri sono una fottuta pista che mette a
dura prova la jeep. Jason guida tranquillo. Io gli tengo una mano sulla patta
dei pantaloni. Domani mattina lasceremo questa guerra di merda e torneremo in
America. E poi decideremo che cosa faremo. Insieme, io e lui. 2012 |