Nelle tenebre Il carceriere lo spinge
con violenza. Francesco barcolla, le catene ai piedi e alle mani gli
impediscono di recuperare l’equilibrio. Cade malamente. Cerca di mettere le braccia
avanti, di attutire la caduta, ma non può vedere. Urta contro la parete con
la testa e sente una lacerazione alla guancia. Un po’ di sangue cola. - Alzati, pezzo di merda! Francesco obbedisce, a
fatica: ha la febbre, sollevarsi da terra gli costa uno sforzo enorme. Riesce
a rizzarsi in piedi. Ma il carceriere lo spinge una seconda volta e Francesco
finisce di nuovo sul pavimento. L’uomo si sta divertendo, gli piace vederlo
cadere. La sua voce è quasi ossequiosa, ora: - Ma non sapete neanche
stare in piedi, principe? L’uomo ride, una risata
sonora. Poi lo afferra per i capelli e lo solleva di peso. Francesco soffoca
un urlo di dolore. - Cammina, principe del
cazzo! Francesco procede lungo il
corridoio, le mani protese in avanti, per scansare gli ostacoli che non può vedere. Il carceriere gli molla una pedata. Francesco
riesce a mantenere l’equilibrio, ma dopo pochi metri inciampa in un ostacolo
e cade di nuovo. Il carceriere gli molla un’altra pedata, mentre è a terra. - E muoviti,
pezzo di merda. Non ho la mattina da perdere. A fatica Francesco si
rialza e riprende a camminare. A un tratto sente un vuoto sotto il piede. Si
ferma. - È la scala, principe.
Non è bella come quella del vostro palazzo… L’uomo ride e gli molla un
calcio. Francesco si appoggia contro la parete e riesce a non cadere. Abbassa
il piede e trova il gradino. Allora incomincia a scendere, facendo scorrere
le mani sul muro. È una scala a chiocciola. Francesco cerca di muoversi in
fretta, per quanto glielo consentono le catene, per evitare di irritare il
suo carnefice, ma ad un certo punto l’uomo gli molla
uno spintone e Francesco rotola lungo la scala. Mancano pochi gradini al
fondo, la caduta di Francesco si arresta sul pavimento. Francesco sente un
dolore al braccio. Cerca di rialzarsi, ma l’uomo gli molla un altro calcio
che lo rimanda subito a terra. Il carceriere ride, poi lo
afferra di nuovo per i capelli e gli urla nelle orecchie, con rabbia: - Manco
sai stare in piedi, principe del cazzo. Lo trascina in avanti,
poi, quando Francesco riesce a sollevarsi, lo spinge contro la parete. La
testa di Francesco urta la pietra. Un forte dolore alla tempia. La pelle che
si lacera. Altro sangue che cola. Francesco sente il rumore
di una serratura, poi di una porta che si apre. Una zaffata di aria fetida lo
investe. Francesco ha la sensazione che il respiro gli manchi. Il carceriere lo prende di
nuovo per i capelli, lo trascina dentro e gli molla un violento calcio che
manda Francesco al suolo, mentre nella cella si sentono risate. Il pavimento
è lercio, Francesco sente contro la faccia qualche cosa di umido e
appiccicaticcio. - Un nuovo ospite. È un
principe, fategli la riverenza. Ride di nuovo. Poi
Francesco sente che la porta viene chiusa e la chiave gira nella serratura. Francesco cerca di
mettersi a sedere, ma non ci riesce. La testa gli gira. Rialzarsi dopo le
cadute ha esaurito tutte le sue forze. - Di’ un po’, è vero che
sei un principe? Che ci fai qui, con noi che siamo la feccia del Regno? La voce è beffarda,
ostile. Francesco volta la testa nella direzione da cui proviene la voce. - Mi accusano di aver
complottato contro il re. - E allora ben ti sta! Chi
te l’ha fatto fare di metterti contro il Re? Chi ha parlato è un altro.
Francesco sente un mormorio di assenso. Di nuovo la voce di prima: - E perché sei qui? I
politici stanno ai piani alti, non li mettono mica insieme a noi. - Qui ci stanno i
criminali comuni. Gente del popolo, mica gente che
mangia carne a volontà. Francesco sa perché lo
hanno trasferito lì: è un’umiliazione. Il re sta perdendo il trono e lo sa.
Vuole vendicarsi di chi aiuta i garibaldini che stanno avanzando in Sicilia.
Ma Francesco si rende conto che è inutile parlarne. Francesco è stanco.
Rimarrebbe volentieri disteso, ma il pavimento è lercio. Con uno sforzo
riesce a mettersi a sedere. Vorrebbe appoggiarsi al muro. - Dove posso mettermi? - Scegli tu il posto… Non siamo mica alla tavola di un principe. Qui
ognuno si prende quello che è capace di prendersi. Tutti ridono. Francesco dice: - Non vedo. Sono diventato
cieco. - Cercati un posto. Le
mani le hai. Francesco si alza a
fatica. Fa due passi, ma inciampa contro una gamba che qualcuno ha teso e
finisce di nuovo a terra. Un boato di risate. Francesco non riesce ad
alzarsi, le forze gli mancano. Rimane fermo. Non dice più nulla. Qualcuno lo
provoca, ma Francesco risponde appena, a monosillabi. Spera solo che finisca
in fretta, che la morte arrivi. La febbre sale e Francesco prova una
sensazione di nausea. Passano a dare da mangiare
un po’ più tardi. Danno una scodella a testa, da lappare come cani. Francesco
riesce a mettersi a sedere. L’uomo che distribuisce le razioni gliela mette
tra le mani. Francesco ringrazia. La porta si è appena chiusa, quando
qualcuno gli strappa la scodella. - Questa la prendo io. Tu
hai già mangiato abbastanza nel tuo palazzo. Nessuno interviene.
Francesco non dice nulla. Le ore scorrono,
interminabili. Nessuno gli rivolge la parola, se non per sfotterlo. Gli altri
prigionieri parlano tra di loro, come se lui non esistesse. A un certo punto
ha bisogno di andare al cesso: nelle celle collettive di solito c’è un buco
in un angolo. Chiede dov’è, ma nessuno gli risponde. Incomincia a cercare.
Qualcuno gli dà indicazioni, ma sono contraddittorie. Francesco si becca
qualche sputo e due calci. Infine trova l’angolo e, tra le risate degli
altri, riesce a fare quello che deve. Poi si stende,
completamente privo di forze. La febbre sale di nuovo. Francesco sprofonda in
un torpore in cui il mondo circostante svanisce completamente. La sera la distribuzione
del cibo avviene allo stesso modo e nuovamente un prigioniero gli prende la
scodella. Francesco ha appena fatto in tempo a bere un sorso. Ha sete e fame.
La febbre non lo molla. Francesco cerca di dormire, ma ha la gola riarsa. Ogni
tanto geme. A un certo punto gli arriva un violento calcio nelle costole. - Piantala di spaccare le
palle. Francesco si sforza di
trattenere i gemiti. L’indomani mattina li portano fuori: un’ora d’aria nel cortile. La febbre è un
po’ calata, come spesso gli succede il mattino. Francesco riesce ad alzarsi.
Durante il cammino gli altri lo spingono, gli fanno lo sgambetto, si
divertono a vederlo cadere e rialzarsi a fatica. Come gli è
successo tante altre volte in questi giorni, Francesco si augura che la morte
venga presto, che le tenebre in cui sprofonda da tempo le inghiottano
definitivamente. Altro non desidera, per altro non c’è spazio. L’aria fresca del cortile
gli restituisce un po’ di energia. Rimane immobile: non osa muoversi. Ci sono
molti prigionieri, sente diverse voci. Nessuno si occupa di lui. Francesco sa
che ci sono alcune vasche a cui i prigionieri attingono acqua per lavarsi, ma
non sa dove sono. Sente vicino a lui delle voci diverse da quelle dei
compagni di cella. Si rivolge a quegli sconosciuti per chiedere acqua. Una voce dice: - Ma chi è ‘sto cieco che
puzza di merda? - E che ne so? I due riprendono il
discorso interrotto. Francesco sente un bisogno violento di piangere. Al ritorno il tanfo della
cella gli toglie il fiato. La distribuzione del
rancio si conclude come il giorno precedente. Francesco cerca di resistere.
Una parte del contenuto della scodella gli si rovescia addosso. Un calcio in
faccia gli ricorda che non può difendersi. Il sangue gli cola dal naso.
Chiede almeno un po’ d’acqua. Nessuno lo ascolta. La febbre lo assale di
nuovo. Non riesce più nemmeno a mettersi a sedere. La sera non prende la
scodella: un altro prigioniero la riceve dal carceriere che distribuisce il
cibo. A Francesco pare di avere la gola in fiamme. A tratti delira. Chiede
ancora acqua. Qualche calcio ben assestato lo mette a tacere. Il mattino dopo il delirio
è continuo. Francesco mormora parole senza senso, chiede acqua, si lamenta.
Ogni tanto qualcuno gli molla un calcio, ma
Francesco non è più in grado di capire, di controllare i gemiti. Brividi gli
percorrono tutto il corpo. Più tardi portano un nuovo
prigioniero. Francesco quasi non se ne accorge. Nuovamente chiede: - Acqua, acqua… Qualcuno gli solleva la
testa e gli versa un po’ d’acqua in bocca. Francesco singhiozza, l’acqua gli
cola sul mento. L’uomo gli dà da bere, poco per volta, con cautela. Francesco
ha un attimo di lucidità e ringrazia lo sconosciuto, poi il delirio riprende.
Quando arriva il momento
di uscire dalla cella, qualcuno lo fa alzare e lo sorregge, ma Francesco non
riesce a camminare. Allora l’uomo lo solleva di peso, prendendolo in braccio.
Nel cortile l’aria fresca desta Francesco dal suo torpore. Si rende conto che
l’uomo lo ha portando a una delle vasche. Lo sconosciuto gli toglie la
camicia lacera e lo lava. Gli dà di nuovo da bere. Poi gli rimette la camicia
e gli cala i pantaloni. Lo pulisce con cura, davanti e dietro. Francesco è
stremato, la febbre gli toglie le forze, ma prova una gratitudine infinita
per questo sconosciuto che gli ha dato da bere e ora gli sta restituendo un
po’ di dignità. Sente la voce di uno dei
compagni di cella, Saro, che dice: - Pulisciglielo con la
lingua, il culo, così viene meglio. L’uomo non dice nulla.
Quando ha finito, riveste Francesco, poi lo fa sedere contro il muro.
Francesco ne sente la presenza al suo fianco. Al momento di rientrare,
l’uomo lo aiuta a mettersi in piedi: appoggiandosi a lui, Francesco riesce a
raggiungere la cella. È esausto. L’uomo lo sistema
in un angolo e gli si mette vicino. Al momento di
distribuzione del pasto c’è una discussione tra Saro
e l’uomo che lo ha aiutato. Le voci sono aspre. Poi l’uomo gli porge la
scodella e lo aiuta a mangiare. Quando Francesco ha finito il contenuto,
l’uomo gli dà ancora del cibo. Francesco ha l’impressione che l’uomo gli stia dando anche la sua razione, ma mangia con
avidità. Più tardi l’uomo gli
chiede se ha bisogno di andare al cesso. Francesco annuisce. L’uomo lo
accompagna. Gli altri si scambiano qualche battuta, sfottono il principe e il
suo infermiere personale, chiedono all’uomo se gli farà anche da becchino ed a Francesco che cosa farà quando il suo accompagnatore
sarà impiccato. Saro ride e dice: - Allora, principe, quando
impiccano il tuo amico e gli viene duro, tu che fai? Ti siedi sul suo cazzo,
così riesci a stare in piedi? O gli bevi la piscia quando se la fa addosso?
Così non hai più sete. Tutti ridono. L’uomo non
dice nulla. Anche la sera aiuta Francesco a mangiare. Nei giorni seguenti,
Francesco rimane incosciente buona parte del tempo. Ogni tanto emerge dal
delirio e si rende conto che l’uomo gli sta dando da mangiare, lo fa bere, lo
pulisce, lo aiuta ad andare al cesso, lo solleva, lo lava. Francesco ricorda quando
sua madre gli parlava dell’angelo custode. Quello sconosciuto è davvero il
suo angelo custode. Francesco pensa che almeno non morirà
abbandonato come un cane, che una piccola luce lo accompagnerà nel suo
viaggio verso le tenebre. La febbre cala. Francesco
è debole, ma non delira più. Non riesce ancora ad alzarsi per uscire, ma
l’uomo lo prende tra le braccia, lo solleva e lo
porta in cortile. Tre giorni passano così.
Francesco si sta riprendendo. Lui e l’uomo parlano poco: quando si dicono qualche cosa, gli altri sghignazzano e commentano,
trovando doppi sensi osceni in ogni loro dialogo. Francesco avverte il loro
disprezzo, il loro odio, ma poco gli importa. In realtà sono soprattutto Saro e Tano a prenderlo in giro, a insultarlo. Sono due
siciliani, condannati a morte per aver stuprato e ucciso una ragazza di buona
famiglia, a Portici. Gli altri a volte si uniscono a loro, ma poco gli
importa del principe e dell’uomo che ora lo aiuta e lo protegge. L’uomo si chiama Antonio
D’Alessandro. È abruzzese. Non ha parenti, ma una donna ogni tanto gli porta del
cibo e del vestiario. Gli altri dicono che è la sua amante, che è una giovane
di buona famiglia. Fanno commenti osceni. Antonio divide tutto quel che
riceve con Francesco. Il quarto giorno Francesco
è in grado di camminare. Antonio lo aiuta, ma non deve più portarlo o
sorreggerlo. Pochi giorni dopo il
carceriere annuncia che alcuni prigionieri saranno trasferiti in un’altra
cella. Ci sono Tano e Saro, i due condannati a
morte: per loro il giorno dell’esecuzione si avvicina. Poi viene chiamato
Antonio e Francesco si sente mancare. Una disperazione cupa lo assale:
Antonio va in un’altra cella, forse verrà impiccato. Francesco non può
sopportare l’idea che Antonio muoia, né il pensiero di essere nuovamente
abbandonato a se stesso, tra l’ostilità degli altri. Ma sente ancora
pronunciare il proprio nome e ritorna a vivere. Non è credente, ma gli viene
da ringraziare Dio per non averlo separato da Antonio. Non importa se
significa che forse entrambi moriranno, purché sia insieme. Francesco si appoggia ad
Antonio nello spostamento. Gli tiene il braccio e le sue dita sentono, al
polso, una cicatrice. Li portano in una cella
molto piccola. Sono solo loro quattro. Di lì Tano e Saro
saliranno sul patibolo. Sarà lo stesso anche per Francesco e Antonio?
Francesco non ha subito un processo, una condanna. E Antonio? Francesco chiede. Scopre
che Antonio è un patriota, in carcere per aver cercato di raggiungere i
garibaldini con alcuni compagni. Anche per lui non c’è stato un processo, ma
questo significa poco. Gli dei hanno sete di sangue, in questi giorni in cui
la fine di un regno si avvicina. Nel pomeriggio Antonio
viene chiamato dal comandante. Francesco ha paura che lo trasferiscano,
che lo giustizino. Ora sta meglio, conosce la piccola cella in cui si
trovano, ma l’idea di perdere Antonio lo sgomenta. Mezz’ora dopo che Antonio
è uscito, Francesco sente la voce di Saro. - Come sarà il culo di un
principe? Tano scoppia in una
risata: - Secondo me è caldo come
una fessa. - Ce lo
gustiamo, Tano? - Direi proprio di sì. Francesco si sente
rabbrividire. Ha desiderato che un uomo lo prendesse, in passato, quando
ancora aveva desideri, ma certo non vuole subire una violenza. Due mani robuste lo
afferrano. Altre mani gli calano i pantaloni. Francesco lotta disperatamente,
ma i due uomini hanno facilmente la meglio: Francesco è cieco e indebolito
dalla lunga malattia. Lo gettano a terra. Francesco sente due dita premere
contro l’apertura, su cui Saro ha sputato. Urla: - No! No! In quel momento la porta
si apre. - Che succede? Saro e Tano lasciano Francesco, che cerca di
risistemarsi, tremando. Tano risponde al
carceriere: - Niente. Scherzavamo. L’uomo esce e richiude la
porta. Non gli importa niente di quello che fanno i prigionieri nella cella.
Ma la domanda viene ripetuta, da un’altra voce: - Che è successo,
Francesco? È stato Antonio a parlare:
il carceriere lo ha riaccompagnato in cella. Le sue parole restituiscono a
Francesco la speranza. Ma è Saro a rispondere. - Succede che adesso
glielo mettiamo in culo. E tu puoi scegliere se unirti a noi o farti fottere
anche tu. La voce di Saro è forte, spavalda. Antonio risponde, senza esitare. - Se ci provi, ti ammazzo. Tano dà man forte a Saro: - Ce lo
pigliamo e non ti conviene metterti di mezzo. Antonio accompagna
Francesco, che ancora trema, in un angolo della cella. Poi c’è un colpo. Una
bestemmia. Rumore di altri colpi. Un urlo. Altre bestemmie. Francesco è
paralizzato dal terrore. Vorrebbe gridare ad Antonio di non difenderlo:
preferisce che lo violentino, che lo ammazzino, ma non vuole che Antonio
rischi la vita per proteggerlo. Un urlo più violento di Saro, un rumore secco, come quando un osso si rompe. Poi
un silenzio, interrotto solo dalle bestemmie e dai lamenti di Tano, dai
gemiti di Saro. Antonio si siede vicino a
Francesco. Lo abbraccia. - Tranquillo, Francesco.
Non ci provano più. Tano lancia un insulto, ma
si tiene a distanza. Il mattino dopo il
carceriere arriva con il prete. Francesco rabbrividisce. Chi di loro salirà
sul patibolo oggi? Non Antonio, purché non sia Antonio. Francesco
preferirebbe che fosse il proprio turno, piuttosto che quello di Antonio. Il prete si rivolge a Saro e Tano. Tocca a loro. Uscendo Tano dice: - Spero che v’impicchino presto, voi e quelle zoccole delle vostre madri. Ora che sono da soli nella
cella, Francesco e Antonio possono parlare liberamente. Antonio scopre che
Francesco è davvero un principe: credeva che gli altri lo chiamassero così
per prenderlo in giro. Parlano del futuro. Tutti
e due sperano che l’impresa di Garibaldi riesca. Antonio è entusiasta, sogna
un futuro di libertà e un mondo più giusto. Francesco non si fa molte
illusioni su ciò che succederà dopo: cambiare un re è facile, ma cambiare il paese e la gente gli sembra molto più
difficile. Parlano del passato, della
loro infanzia, dei loro giochi. Francesco racconta dei suoi studi, della sua
famiglia. Antonio evita l’argomento: spiega che in carcere preferisce non
dire nulla dei suoi parenti, anche i muri hanno orecchie. A una domanda di
Francesco, gli spiega come si è procurato la
cicatrice al polso, da ragazzo, quando una pentola messa sul fuoco si è
rovesciata ed uno schizzo lo ha raggiunto, ustionandolo. Poi chiede: - Quand’è che sei diventato
cieco? - Qui in carcere, qualche
settimana fa. In pochi giorni ho perso del tutto la vista. - Ti sei fatto visitare?
Che ha detto il dottore? Francesco ride. - Quale dottore? Hai visto
come mi trattano. Non posso nemmeno ricevere niente dalla mia famiglia.
Quando ho detto che non vedevo più, mi hanno riso in faccia. Antonio sembra furente. - Merda! Non è possibile.
Non ti curano neanche… Bisogna parlarne al
carceriere. - Quello? Il carceriere non è lo
stesso che ha infierito su Francesco durante il trasferimento, ma di certo
non mostra nessun segno di compassione. - Stanno cambiando
atteggiamento, Francesco. Stanno cambiando tutti. Garibaldi è in Calabria. Il
re scapperà, ma loro rimangono e sanno che dovranno rendere conto. Nei giorni seguenti
Antonio chiede che Francesco venga curato. Ricorda al carceriere i rischi che
corre. Francesco capisce che l’uomo è preoccupato.
Nonostante la cecità, anche Francesco percepisce il nuovo clima che si sta
creando nella prigione, si rende conto che sono
trattati in modo diverso. Infine arriva la notizia.
Domani Francesco sarà trasferito in infermeria, per essere curato. Francesco non accoglie la
notizia con la stessa gioia di Antonio. Ha paura. E, soprattutto, non
vorrebbe separarsi da Antonio. È l’ultima notte che trascorrono
insieme. Francesco è angosciato.
Non riesce a dormire. Antonio cerca di tranquillizzarlo. - Vedrai,
l’infermeria è un’altra cosa. Sapendo chi sei, ti tratteranno in tutt’altro
modo. Sono stesi uno accanto
all’altro. - Non voglio che ci
separino. Come farò… Francesco non riesce a
continuare. Vorrebbe piangere. Antonio lo abbraccia. - Calmati, Francesco.
Pensa che guarirai, recuperai la vista, non dovrai più dipendere dagli altri. Francesco si stringe
contro il corpo di Antonio, alla ricerca di consolazione. Antonio è tutto ciò
che ha, non vuole perderlo. Antonio lo abbraccia più forte. Ora che i loro corpi sono
stretti l’uno all’altro, Francesco sente il desiderio prorompere, prepotente.
È troppo tardi per cercare di nasconderlo, per staccarsi: la carne lo
tradisce, il corpo che preme contro quello di
Antonio è quello di un maschio in calore. Francesco prova vergogna, ma quel
corpo che lo stringe lo inebria e le sue mani cercano la bocca di Antonio, in
una carezza che è una richiesta. Antonio capisce e lo bacia. Quando le loro
labbra si incontrano, Francesco sussulta di gioia. Ora Antonio è su di lui e
i loro baci diventano frenetici. Le loro lingue si sfiorano, si accarezzano,
i denti mordono leggermente. Le mani di Antonio scendono ad accarezzare il
corpo di Francesco. Francesco esita, poi le sue dita scorrono lungo la
schiena di Antonio e il contatto con la stoffa gli trasmette i brividi.
Antonio si stacca un attimo, poi Francesco sente le sue mani che gli
sollevano la camicia. Sono tizzoni ardenti sulla pelle, quelle dita che
sfilano l’indumento, che accarezzano la pelle, che
stringono i capezzoli. Antonio si stende di nuovo
su di lui. Si è tolto anche lui la camicia e le mani di Francesco possono
accarezzare la schiena, scivolare fino ai fianchi. Si baciano
ancora, a lungo, poi Francesco sussurra: - Prendimi,
Antonio. Antonio lo bacia con
passione, poi si stacca da lui, mormora: - Sei bellissimo,
Francesco. Con lentezza finisce di
spogliarlo e le sue dita percorrono il corpo di Francesco, dai piedi
risalgono lungo le gambe, scivolano sui fianchi, accarezzano il torace,
premono sui capezzoli, dal collo giungono alla bocca e si fermano sul viso.
Poi scendono, fino al ventre. Le mani di Antonio che gli accarezzano il sesso
ed i testicoli fanno gemere Francesco. Poi è la
bocca di Antonio a muoversi, a baciare, leccare, mordere, succhiare, senza
ritegno. Francesco afferra la testa di Antonio, ne accarezza i capelli, li
tira, geme. Infine Antonio lo volta e
di nuovo le sue mani e la sua bocca preparano il terreno. Francesco trema
quando sente le dita scorrere sul solco, quando, con delicatezza estrema,
premono sull’apertura, quando, inumidite, entrano. Ora Antonio è su di lui.
Lo bacia sulla nuca, gli accarezza la testa, gli pizzica il culo. E poi l’arma
preme contro l’apertura e, dolcemente, entra. Francesco geme. Antonio è
dentro di lui. Una sensazione dolorosa, ma è un dolore a cui non vorrebbe
rinunciare. Antonio si muove con cautela e lentamente Francesco avverte una
sensazione di benessere irradiarsi in tutto il suo corpo. Il movimento di Antonio
diventa più deciso e Francesco geme più forte. Il piacere lo stordisce. Francesco non è più nella
cella. Fluttua nel cielo o sprofonda negli abissi del mare, non sa, non
importa. Rimane solo la coscienza del corpo di Antonio che lo schiaccia sul
pavimento, del vigoroso sperone di Antonio che gli affonda nel culo, della
forte stretta delle mani di Antonio, del piacere che sale, che lo riempie,
che lo sommerge ed infine esplode. Francesco urla,
mentre Antonio gli tappa la mano con la bocca e, con una rapida successione
di spinte più decise, viene dentro di lui. Rimangono così, stretti
l’uno all’altro. Poi Antonio esce da Francesco e si mettono a dormire,
abbracciati. Francesco sente un benessere infinito avvolgerlo, tra quelle
braccia forti. L’indomani la separazione
è una sofferenza lancinante. Francesco vorrebbe rinunciare alle cure, ma Antonio non ne vuole sentire parlare. L’infermeria è un luogo
tranquillo. Le suore trattano Francesco con grande gentilezza, il cibo è
migliore di quello che Francesco ha ricevuto in prigione. Il dottore
incomincia le cure. Francesco non nutre grandi speranze, ma due giorni dopo
si rende conto che il buio non è più così completo, distingue delle ombre. In
una settimana recupera completamente la vista. Intanto la situazione è
rapidamente cambiata. C’è molta agitazione nell’infermeria e Francesco si
rende conto che nei suoi confronti il personale tende a diventare servile.
Garibaldi si avvicina, il re si prepara a fuggire, Francesco sarà presto un
uomo libero, è un principe, è stato in carcere per le sue idee, potrebbe
diventare un uomo influente. In ogni caso la sua famiglia è potente. A Francesco poco importa
di tutto questo, anche se apprezza la pulizia, la cura con cui è trattato. È
felice di vedere nuovamente. Ma gli manca Antonio. Che viso ha Antonio?
Alcuni tratti di lui glieli hanno rivelati le dita:
è più alto di lui, forte, spalle larghe, un naso pronunciato. L’annuncio della sua
liberazione lo coglie di sorpresa. Fuori ci sono sua madre e suo fratello.
Francesco è preso in un vortice di domande e novità, ritrova la casa e gli
affetti. Ma la sera stessa manda un servitore a informarsi di Antonio. Antonio D’Alessandro è
stato scarcerato, come gli altri prigionieri politici. Francesco è felice che
Antonio sia libero. Lo fa cercare. Vorrebbe ospitarlo. A sua madre e a suo
fratello ha raccontato che Antonio gli ha salvato la vita, che ha un debito
di riconoscenza enorme nei suoi confronti. Nessuno sa dove sia
Antonio. Nessuno degli altri prigionieri ne ha notizie: non è strano,
probabilmente non era con loro. Ma Antonio verrà al palazzo, di sicuro. Sa
dove abita Francesco e poi basta chiedere: chiunque a Napoli è in grado di
dirgli dove stanno i Roccamarina. Antonio non si presenta. I
servitori che Francesco sguinzaglia alla sua ricerca non trovano traccia di
lui. Francesco non si scoraggia. Combatte l’angoscia che preme. Sa qual è il
paese di Antonio. Manda un uomo fidato a chiedere notizie. Antonio è di certo
tornato in paese. O comunque sapranno che ne è di lui. Non può essere
scomparso nel nulla. Francesco è preoccupato, ma si dice che ritroverà
Antonio, certamente. Il servitore ritorna. Ha
notizie. Un uomo di nome Antonio D’Alessandro è morto sei mesi fa, mentre
cercava di sfuggire alle truppe borboniche. Francesco non capisce. Sei
mesi fa non aveva ancora conosciuto Antonio. Chi è l’uomo che in carcere si
faceva chiamare Antonio D’Alessandro? Sei mesi sono passati. Il
principe Francesco di Roccamarina ha accettato di
collaborare con il nuovo governo nella pacificazione del Sud: il malcontento
serpeggia, si temono rivolte. Francesco cerca di dare il suo piccolo
contributo alla costruzione di un mondo migliore, evitando nuovi spargimenti
di sangue. Francesco si sposta
spesso, per parlare con i notabili, per raccogliere le loro esigenze, per
capire la situazione. L’attività a cui si
dedica, spesso frenetica, è l’unica distrazione dal pensiero assillante che lo perseguita. Un pensiero che riemerge ogni volta che si
ferma, ogni volta che la sua mente è libera di
vagare. La sua ossessione è un uomo che non ha mai visto e di cui non conosce
neppure il nome. Un uomo che ha amato, che ama, con
tutto se stesso. Un uomo che gli ha salvato la vita, si è preso cura di lui,
lo ha pulito, lo ha difeso, lo ha posseduto, regalandogli il piacere più
intenso della sua vita. Un uomo che è scomparso nel nulla. E un’idea angosciosa
riemerge ogni volta: Antonio – l’uomo che per lui è Antonio – non lo ha mai
amato. Non lo ha cercato, non si è fatto vivo, neppure per salutarlo. E
perché avrebbe dovuto amarlo? Che cosa ha fatto Francesco per lui? Nulla. A Francesco pare di
sprofondare nuovamente nelle tenebre, come quando era in carcere ed aveva perso la vista. Nessuna luce appare
all’orizzonte, a indicargli un cammino. Francesco è a Lagonegro, per una delle sue missioni. È notte,
ma Francesco non ha voglia di mettersi a dormire. È irrequieto. Il
pensiero di Antonio gli martella in testa. Francesco esce dalla villa
in cui gli è stato assegnato un appartamento. Intorno all’edificio si estende
un grande giardino. Francesco passeggia tra le aiuole e gli alberi maestosi:
nel silenzio della notte, la luce lunare e le grandi ombre trasformano il
parco in un mondo irreale. Francesco percorre i viali, poi si ferma in un
angolo dove il buio è quasi completo. Ripensa ai giorni terribili in cui era
cieco e si dice che rinuncerebbe alla vista pur di avere ancora vicino
Antonio. Il pensiero è tanto angoscioso, che a Francesco sfugge un singhiozzo. Riprende a camminare e
raggiunge il cancello. Qui si ferma: sa che uscire e allontanarsi sarebbe
pericoloso, la zona è infestata da briganti. Gli è stata persino assegnata
una scorta per garantire la sua sicurezza. Può sentire la voce di un
soldato che parla, oltre il cancello, nascosto dal muro. Di certo è uno dei
soldati di guardia che chiacchiera con un compagno. L’uomo racconta di quando
prestava servizio in Calabria. Poi il soldato chiede all’altro dove era prima
dell’Unità d’Italia. L’uomo risponde e per
Francesco è un barile di polvere che esplode: Francesco ha l’impressione che
il mondo intero si stia dissolvendo in frammenti, cancellato dalla voce che
racconta. Perché quella voce
Francesco la conosce, non potrebbe mai dimenticarla. È la voce che ha
accompagnato il suo ritorno alla vita in carcere, la voce che lo ha
consolato, lo ha incoraggiato, lo ha sostenuto, ha minacciato chi lo
attaccava, gli ha sussurrato parole sconce mentre il suo corpo godeva. Francesco si appoggia al
muro: non riesce a stare in piedi. Poi si muove di scatto, preso dal terrore
che la voce possa fermarsi, sfuggirgli nuovamente. È fuori. Vede i due
uomini, due sagome che la luce della luna permette di scorgere abbastanza
bene. La voce che parlava tace di colpo, ma
Francesco sa benissimo che appartiene a quell’uomo alto e robusto che è a due
passi da lui. L’altro uomo lo riconosce: - Principe… Ma Francesco ha afferrato
il polso destro dell’uomo ammutolito. Le sue dita distinguono il profilo
della cicatrice e il cuore si dilata e si restringe, in una vertigine di
dolore e speranza, gioia e disperazione. Francesco sibila: - Tu… L’uomo non dice nulla.
L’altro soldato è rimasto senza parole, sbalordito dall’apparizione
improvvisa del principe, da quel riconoscimento che sembra un atto di accusa. - Vieni con me. Antonio – si chiama
davvero Antonio? – china la testa, rassegnato all’ineluttabile, e segue il
principe di Roccamarina, che gli stringe il polso
in una morsa, quasi temendo che possa ancora sfuggirgli di mano e svanire nel
nulla. In silenzio, in assoluto silenzio, ritornano nella villa. Salgono le scale.
Raggiungono il salottino di fianco alla camera del principe. Ora, alla luce
delle candele, Francesco guarda l’uomo che ama. Se l’è immaginato in mille modi, ma ora che lo vede, sente che non poteva essere che
così. I capelli scuri, gli occhi grigi, il viso dai tratti decisi, il corpo
forte. Antonio tiene gli occhi
bassi. - Antonio…
Francesco si interrompe. - Come ti chiami? Antonio alza lo sguardo. - Mi chiamo Nicola, Nicola
Sabato. Francesco non dice nulla.
Antonio prosegue e spiega. - Antonio D’Alessandro era
il mio migliore amico, potrei dire mio fratello. Lo avevano allevato i miei
genitori, quando era rimasto orfano. Quando abbiamo cercato di raggiungere i
garibaldini, è stato ucciso. Io ho preso il suo nome perché sapevo che se mi
avessero condannato, avrebbero sequestrato tutte le proprietà della mia
famiglia. Non siamo ricchi e non volevo che i miei si riducessero in miseria
per colpa mia. Quando sono uscito dal carcere, ho fatto sistemare le cose. Francesco annuisce. Ha
ascoltato e capito a metà, la voce di Nicola è un balsamo sulle sue ferite,
un vino che inebria, che impedisce di concentrarsi. Ma ora che Nicola tace,
la domanda preme. - Perché? Nicola non capisce. O
forse non vuole capire. - Perché che cosa? Non volevo… Francesco lo interrompe,
impaziente: - Perché non ti sei fatto
vivo? Perché non mi hai cercato? Perché mi hai abbandonato? E di colpo il dolore
esplode, incontenibile, e Francesco vorrebbe fuggire, non vedere più Nicola,
piangere, lasciarsi morire. - Vi ho cercato. Il voi è uno schiaffo.
Francesco barcolla, come se davvero Nicola l’avesse colpito. Nicola ha di
nuovo abbassato gli occhi. - Mi hai cercato? - Quando uscii dal
carcere, mi dissero che anche voi eravate stato liberato. Chiesi dove
abitavate e mi diressi verso il vostro palazzo. Ma mentre attraversavo
Napoli, avevo dei dubbi, mi chiedevo se davvero avevate voglia di vedermi
ancora. Io… Quando arrivai davanti al vostro palazzo… Nicola scuote la testa, in
viso un ghigno amaro che Francesco può appena scorgere, perché Nicola ha
chinato il capo e sembra fissare il tappeto. - La casetta dove
abitavamo io, mia madre e mia sorella ha quattro stanze. I terreni bastano
appena per vivere. A me già pareva di essere ricco e fortunato, avevo anche studiato… Poi vidi il vostro palazzo. Che ci facevo io lì
davanti? Me lo chiese anche il portiere. Io risposi che passavo e volevo
vedere il palazzo dei Roccamarina. C’è un momento di pausa.
Poi Nicola conclude: - Mi sono unito ai
garibaldini, poi mi sono arruolato nell’esercito italiano e ora sono qui.
Quando mi hanno assegnato a voi come scorta, ho chiesto al comandante di
esonerarmi, ma lui non ha voluto sentire ragione. Francesco chiude gli
occhi. Il dolore è troppo forte. La voce gli trema, quando parla: - E…
non ti sei chiesto che cosa avrei provato io, non vedendoti più. Non ti sei chiesto… Francesco si volta, fa due
passi. Le gambe non reggono. Si siede su una sedia, rivolto verso la
finestra. Non può guardare Antonio, no, non è Antonio, è Nicola. - Nicola! Fa fatica a pronunciare
quel nome sconosciuto. - Principe… Francesco si alza di
scatto e parla con violenza, controllando a fatica la voce: - Basta! Ero Francesco
quando mi lavavi, quando mi abbracciavi, quando mi imboccavi. Mi davi del tu,
mi volevi bene, allora… Le lacrime sgorgano,
Francesco prova ancora a fermarle. - Ora… non… - Principe…
Francesco… Io… sono un soldato… non ho niente. Francesco non cerca più di
controllare le lacrime, lascia che scorrano, troppo profondo è il gorgo che
lo inghiotte. Crolla sulla sedia. - Sei tutto quello che
volevo, Nicola. Sei tutto quello che voglio. Che cosa m’importa…
Ma a te non importa nulla di me… Non è più in grado di
parlare. I singhiozzi lo scuotono. Nicola è vicino a lui. - Francesco. Francesco alza il viso e
lo guarda. - Ti amo Francesco. Ho
pensato a te ogni giorno, da quando ci siamo lasciati. Ma non potevo… Francesco si alza,
abbraccia Nicola, appoggia la testa sul suo petto, lascia che le mani di
Nicola gli accarezzino il capo. - Anch’io ti amo, Nicola. È avvinghiato a Nicola,
teme quasi che possa ancora sfuggirgli. - Rimarrai con me, Nicola.
Rimarrai con me, vero? Nicola lo bacia sulla
bocca. - Se è questo che desideri… - Tu non lo desideri? Francesco ha bisogno di
sentirselo dire. - Lo desidero, l’ho sempre
desiderato, ma mi sembrava troppo bello. Si baciano ancora. Le carezze asciugano le
lacrime. Francesco riemerge dagli abissi e lentamente la disperazione
svanisce. Una sensazione di
benessere invade Francesco. Ha finalmente trovato quello che cercava. Altro
non desidera. Man mano che entrambi
recuperano la serenità, i loro baci diventano ardenti, le carezze più audaci.
Ora i loro corpi sono avvinghiati l’uno all’altro e quel contatto li accende
di uno stesso fuoco. Allora, ridendo, Nicola solleva Francesco tra le braccia
e gli dice: - Ti faccio vedere che ti
desidero. Da che parte è la camera da letto? Francesco ride, felice di
essere tra le braccia di Nicola. Indica la camera. Nicola entra, getta
Francesco sul letto e poi gli salta addosso. Ridono, poi smettono di ridere e si baciano, un bacio ardente. Rotolano sul grande
letto, abbracciati. Poi Nicola incomincia a spogliare Francesco. Francesco lo
lascia fare e lo guarda. Finalmente può vedere l’uomo che ama. Nicola gli
toglie gli abiti e man mano che scopre un braccio, una gamba, il petto, il
ventre, il sesso, le sue dita accarezzano e stuzzicano, i denti mordicchiano,
le labbra baciano. E infine Francesco è nudo
davanti ad Nicola, che si alza e lo guarda, come
paralizzato. Francesco parla, la voce roca dal desiderio: - Spogliati, Nicola.
Voglio guardarti mentre ti spogli. Nicola sorride e annuisce. Si toglie
la giacca e poi la camicia, mettendo in mostra il torace, muscoloso, la
peluria scura più fitta intorno ai capezzoli. Poi si toglie
gli stivali ed infine si cala i pantaloni e le mutande, rimanendo nudo
davanti al letto, il sesso teso. Nicola ride, imbarazzato,
e si piega su Francesco. Lo bacia sulla bocca e poi si stende su di lui. Il
desiderio preme e Nicola passa una mano dietro la schiena di Francesco e la
fa scorrere, fino al solco tra le natiche, fino all’apertura. Francesco geme
e dice: - Sì! Nicola volta Francesco ed incomincia a mordicchiargli il culo, prima con
dolcezza, poi più forte, mentre le sue mani percorrono la schiena di
Francesco. Poi la lingua scorre sul solco, più volte. Indugia sull’apertura. E infine Nicola si stende
su Francesco, gli mormora: - Ora te lo metto in culo,
principe. Ride e avanza il suo
sperone. Francesco si abbandona completamente a quella sensazione, ritrova il
dolore e il piacere di quella notte in carcere e si sente felice. È tra le
braccia di Nicola. Nicola lo sta prendendo. Nicola è suo, non lo perderà più. 2011 |